IL CAVALLO VIVO, di Leon Battista Alberti - pagina 3
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Pertanto deve essere ammaestrato con la mano e col piede(69) del cavaliere badando, ove si tratti di un soggetto recalcitrante, di stimolarlo col calcagno nudo e con una leggera sferza prima di usare gli sproni.
Ché, se indipendentemente dalla volontà del padrone abbia assunto un'andatura disordinata, bisogna che, scuotendo alquanto le redini con la mano, si faccia urtare il freno contro la bocca ad ogni passo.
Appena abbia obbedito, sùbito conviene astenersi da tale provocazione affinché il ribelle creda in séguito che per il suo andamento errato gli capiti di urtare in quel modo contro il morso(70).
Se poi cominci a mordere il freno, forse per caparbietà, bisogna strappare dalla mascella inferiore i primi quattro denti decidui che volgarmente sono detti "cascaliones"(71).
Giova poi, perché apprenda la disciplina, che gli si pongano accanto alcuni cavalli anziani, con l'esempio dei quali, contribuendovi l'esercizio, di giorno in giorno avverta meno il fastidio e si abitui ad imitare le capacità di quelli già "scafati".
Impari da questi a seguire, a precedere, a penetrare quasi nel mezzo della schiera, a fermarsi, a dirigersi verso luoghi elevati e scoscesi, a fuggire per lungo tratto in breve tempo.
Vi è chi prescrive che debbano esser mostrati al cavallo alcuni tronchi di forma orribile e spaventosa e che questo debba esser garbatamente condotto vicino e attorno ad essi facendolo poi fermare dappresso affinché impari a riconoscerli esattamente qualunque ne sia l'aspetto(72).
Talvolta bisogna anche legarlo sul posto.
Bisogna poi che vi siano cumuli di paglia gettati lungo il cammino affinché senza molto pericolo si abitui a saltare.
Infine, senza arrecargli danno, bisogna cercare di abituarlo a non avere alcun timore infondato, a non temere i rumori o il movimento delle schiere(73).
Ma bisogna usare moderatamente di questi mezzi; e bisogna innanzitutto badare a che, mentre non ne derivi danno alla sua salute, nel contempo non acquisisca qualche abitudine cattiva e quasi sfrontata.
Inoltre bisogna badare a che non perseveri nell'avere continuamente paura, nel fuggire, nel disdegnare le redini e nel voler abusare della sua libertà: affermano infatti che ciò accade se per caso dall'istruttore sia mantenuto lo stesso identico sistema, e sempre nel medesimo luogo, nell'addestrarlo alla corsa, al salto ed alle evoluzioni; o se lo si comandi suo malgrado con eccessiva e inconsueta ostinazione.
A tal riguardo, dicono che bisogna farlo correre ora moderatamente, ora un po' più intensamente, in salita e in discesa; che bisogna farlo andare ora più frequentemente in una direzione, ora in un'altra; e che soprattutto bisogna badare a che per caparbietà non abbia la meglio insolentemente.
Nel far ciò è necessario che l'istruttore moderi la propria impazienza cosicché gradatamente il cavallo non avvezzo e intimorito possa acquistare dimestichezza con le cose che per il momento gli fanno paura.
E bisogna badare a che per causa del rigido governo dell'istruttore una certa sofferenza non venga ad accrescere il terrore già contratto(74).
Così pure bisogna badare accuratamente a che il giovane cavallo non solo riesca addestrato egregiamente in quelle cose per le quali sarà impiegato in futuro, ma innanzi tutto a che quelle medesime, laboriose e difficili, egli possa compiere con la purezza di stile e l'ardimento che son propri della sua età.
Si tenga presente che ciò invero potrà accadere se ne conserveremo integra la salute.
Quali cose per lo più determinano
nei cavalli le malattie
Come contrarie alla buona salute sono citate le seguenti cose: l'ozio, la sazietà, la sporcizia; e così le cose opposte: la stanchezza, la fame e, forse, un eccesso di cure.
È facile in effetti che da tali cose derivino moltissime gravi malattie.
Dalla fame infatti deriva inquietudine interna o mancanza di forze; di qui debolezza fisica, perdita della fierezza, ipocondria, onde poi perfino la cecità: poiché le sue membra, aride e magre, avranno assorbito sostanze non abbastanza digerite, avviene che un bruciore opprime lo stomaco, il sangue ardente affatica le vene e affiora all'epidermide un sudore che lo consuma(75).
Di qui derivano la scabbia, il fuoco persiano e ripugnanti malanni di tal genere.
Dalla stanchezza deriva l'alterazione degli umori, e di qui insensibilità, danni ai nervi, e indurimento delle giunture.
Dall'ozio, e quindi dalla cattiva digestione e dalla pienezza, derivano molti più mali.
L'ostruzione infatti, e quasi ogni genere di ascessi, derivano da un eccesso di sangue racchiuso nelle vene e da un esorbitante riempimento dei vasi, per l'impeto del chimo che bolle e fermenta nei visceri.
Dalla sporcizia, come da un certo contagio, sono guastate l'integrità e la purezza degli umori: in particolare il vapore maleodorante del fimo dentro la scuderia, provocando secrezioni per il suo calore, penetrando per la sua acutezza, macerando per la sua umidità, è fortemente nocivo alla tibie e ai piedi del cavallo.
E ciò massimamente quando, essendo stato il cavallo condotto fuori dal luogo caldo, il vapore maleodorante assorbito diventa più denso e si rapprende per il freddo: ché anzi finanche la pioggia guasta - come dicono - la pelle delle bestie.
Tali dunque(76) sono le cause dalle quali derivano moltissime malattie.
Né, a tal proposito, bisogna trascurare che ogni animale, se sia stato troppo a lungo ozioso in una stalla particolarmente oscura, diventa - com'è ovvio - del tutto indolente, ombroso e timoroso di ogni piccolo rumore e di ogni forma(77) che gli si presenti, diversa da quelle della sua specie.
Infine i naturalisti(78) affermano che, siccome con un moderato e disciplinato esercizio delle membra il vigore si accresce si rafforza e fiorisce in ogni età e si conserva la buona salute, interessa massimamente in quale tempo e luogo, in quale misura e in quale modo i cavalli siano sottoposti all'esercizio stesso.
Dicono che il tempo per iniziare l'esercitazione è adatto e particolarmente salutare allorché essa venga eseguita non nelle ore più calde, non durante il freddo intenso, né nel cuore della notte, ma quando l'aria è mite: di mattina all'alba, e di sera fino al tramonto del sole prima del crepuscolo.
Bisogna che il luogo sia adatto al tipo di esercizio e che l'esercizio sia adatto all'età del soggetto.
Non infatti le stesse cose devono essere apprese da tutti, ma alcune dai puledri e dagli individui più delicati, altre dagli adolescenti e dai puledri più robusti(79).
Dicono poi che conviene indurre all'esercitazione i puledrini fin dalla più tenera età adescandoli con qualche allettamento.
Affinché ciò avvenga nel migliore dei modi consigliano quanto segue.
Deve essere mostrata loro la madre, da un luogo che non sia molto lontano dal puledro, quasi come una meta da raggiungere, in un prato fresco e verdeggiante, e deve essere allontanata un poco con passo moderato, quasi come se sfuggisse al figlio che l'insegue.
E ancora, in un festoso giuoco, devono essere indotti - se necessario con una leggera sferza - a slanciarsi in gara con i coetanei alla conquista di gradevoli fonti.
Dopo di ciò, attraverso gli anni, devono esser gradatamente temprati con l'esercizio affinché sopportino fatiche sempre maggiori, ma non fino alla stanchezza, non fino all'esaurimento completo.
Ma quando emerga un cavallo di indole ambiziosa ed altera, questo bisogna saperlo infiammare, per così dire, in tutte le vene di passione agonistica per il piacere di conseguire la gloria(80); purché sia sempre conservata in tutte le fasi dell'addestramento questa norma: che con piccoli progressi il cavallo sia reso di giorno in giorno più esperto mediante l'esercizio.
Bisogna anche scegliere quei luoghi e quei tempi che siano non pericolosi per gli allievi mentre si esercitano e che, terminata l'esercitazione, non arrechino danno al cavallo stanco e sudato.
Sono di certo nocivi per i cavalli accaldati a causa dell'esercizio il vento, l'ombra della fredda notte e soprattutto i raggi della luna(81).
Perciò dev'esser condotto all'allenamento non lontano dalla casa e dalla scuderia.
Compiuto l'addestramento, il cavallo stanco non rimanga esposto né alla fredda notte, né al pernicioso vento di tramontana, affinché non corra rischi e non si aggiunga alla fatica una nuova causa di disagio(82).
A queste cose bisogna aggiungere che - come dicono - è opportuno castrare quei cavalli i quali si vuole soprattutto che eccellano per lungo tempo nella corsa, affinché - divenuti per questo meno eccitabili - non si esauriscano a causa della sfibrante attività.
Ai cavalli poi che tu voglia che siano più impetuosi e più combattivi nel fiaccare la resistenza di quelli che l'inseguono(83) e di quelli che ad essi si oppongono(84), deve essere concesso nel corso dell'anno l'amore durante e non oltre una sola stagione: l'autunno, quando sono particolarmente saturi di sostanza seminale.
Per gli uni e per gli altri però bisogna tener conto dell'età, delle forze, ed infine della loro attitudine - nell'insieme - a far ciò che tu ti proponi.
A tal proposito bisogna stare attenti anche, come dicono, a non condurli nell'arena o nella pista per l'esercitazione se prima non si siano liberati dell'increscioso peso dell'alvo e a non nutrirli o abbeverarli quando ritornano dall'esercitazione se prima non abbiano urinato.
Dicono anche che quando sono grassi e troppo pieni, specialmente se non sono abituati, un'intempestiva esercitazione risulta nociva.
Per tal motivo, affinché all'inizio della primavera, grazie alle novelle erbe germoglianti, nei cavalli si generi un sangue più puro, prescrivono che, dopo averli nutriti di farragine per dieci giorni, si debba aprire presso il ventre la vena basilica sovraccarica di sangue eccessivamente acquoso.
Così anche d'estate - affinché il sangue bollente per il caldo non si accumuli in brutti ascessi -, e parimente durante l'autunno - affinché, essendosi rimpinzato troppo per il piacere e la gustosità del pascolo e dei semi recenti, il cavallo non corra rischi per il turgore dei vasi sanguigni - bisogna aprire sempre quella medesima vena.
In generale prescrivono di non salassare quelli affaticati o macilenti.
Anche ai castrati, dicono, non bisogna togliere sangue imprudentemente(85).
Inoltre gli esperti dicono che i cavalli per molte ore dopo il salasso non debbono essere né nutriti né abbeverati.
Prescrivono parimenti che non debbono esser tenuti in luoghi o freddi, o ventilati, o umidi.
Fin qui dell'esercitazione.
Avvertono che bisogna provvedere con cura ancora maggiore affinché la sporcizia non li danneggi.
Dunque, prescrivono di accoglierli, quando ritornano dall'arena o dall'ippodromo, nel modo seguente: per prima cosa bisogna coprirli, poi condurli per l'angiporto a lentissimi passi fino a che il sangue non sbollisca; dopo di ciò il cavallo va lasciato libero di sdraiarsi sullo strame e di voltolarvisi un poco, se vuole; quindi bisogna anche togliere con brusca e striglia tutto il sudiciume dal dorso, dal ventre e dai fianchi.
V'è chi dice, attenendosi alla tradizione, che dopo una sudata vada unto con olio.
Dopo di ciò bisogna massaggiare tutto il capo e, prima ancora, gli stinchi con un batuffolo di stoppa.
Bisogna che la frizione non sia né rapida, né pesante, né insistente e molesta dove la pelle è più delicata, e neppure fiacca e inefficace per la sua lentezza, ma tale che sia sufficiente a scuotere e ad eliminare il sudiciume dalla pelle.
A questo infatti giova veramente la frizione: perché, mentre richiama l'umidità dai muscoli alla superficie della cute, nel medesimo tempo - avendo anche rimosso il sudiciume che per la sua aridità avrebbe dannosamente assorbito l'umore fluido traspirante - serve a tirar fuori e ad arrestare il sudore.
Compiute queste operazioni, i piedi vanno lavati con molta acqua, e questa sia quanto meno possibile sabbiosa, altrimenti arrecherebbe danno alle unghie.
Da ultimo, in una scuderia ben pulita, liberata completamente dal fimo e da ogni afrore, debbono esser legati presso la mangiatoia.
Prescrivono anzi di tenere i cavalli separati per mezzo di lunghi pali interposti fra l'uno e l'altro ad evitare contese e baruffe.
Le prime ore del mattino vanno impiegate nelle medesime cure.
Deve esser rimosso il sudiciume, le unghie debbono essere liberate dal letame accumulatosi durante la notte; se il luogo risulti inquinato, bisogna rimuoverne la causa.
Finalmente deve esser condotto al suo lavoro di apprendimento e di esercitazione.
Al ritorno poi deve essere accolto nella scuderia con le cure di cui abbiamo parlato.
Oltre a ciò, che va fatto durante il giorno, [di notte] specialmente d'estate il cavallo deve esser tenuto soltanto sul duro suolo non ricoperto di paglia.
Quando poi i cavalli hanno fame e sete - non certo quando siano accaldati, ma quando si siano rinfrancati - deve esser data loro per prima cosa a profusione e fino a sazietà acqua non fredda, non attinta di fresco, ma quasi intiepidita dal sole; non troppo sporca o putrida e tuttavia densa.
Affinché poi ingeriscano moltissima acqua, bisogna stimolarli a bere somministrando loro del sale.
Dicono che ciò contribuisca moltissimo ad accrescere la grossezza delle membra.
Affermano infatti che non altrove che nel mare, per l'abbondanza dell'acqua salata, crescono animali dal corpo smisurato(86).
Subito dopo bisogna porgere a ciascun cavallo non più di tre libbre di orzo purissimo(87) in una buca molto profonda perché, affaticandosi per soddisfare la sua avidità, rafforzi le tibie anteriori e tutto il petto.
Al contrario prescrivono che le stoppie e lo strame compresso e pulito - avendone scossa la polvere - devono esser porti in modo che pendano dall'alto affinché, a furia di tendere il collo, il cavallo diventi più sottile alla sommità di esso e risulti più agile nei movimenti della testa.
Parimente a sera, dopo che abbia abbondantemente bevuto, devono essergli somministrate tre libbre di orzo e moltissima paglia.
Ma bisogna badar bene che non diventi troppo pieno e satollo.
Ammoniscono che nel somministrare i pasti si faccia in modo che i cavalli prendano il cibo - dal basso o dall'alto che sia - agevolmente e senza un'eccessiva flessione o distensione delle membra.
Per il resto, una è l'opinione nella quale tutti concordano, che - cioè - giovi molto se di giorno in giorno sempre meno vengano blanditi, affinché si abituino a sopportare bene il freddo, le veglie, la fame, il caldo, i venti e la polvere.
A questo proposito dicono anche che bisogna ferrarlo(88) piuttosto tardi affinché, se per caso accada qualcosa per cui il cavallo debba procedere con l'unghia nuda, questa, incallita grazie al precedente esercizio, si consumi di meno.
Conviene anzi ricordare quanto adatta sia ciascuna parte delle nostre membra a quegli usi ai quali è destinata(89); per cui sarebbe turpe certamente che i cavalli, per nostra imperizia o negligenza e per nostra pigrizia, subissero qualche danno.
Ché se qualcuno chiedesse quale debba esser considerata la prima cosa in tutto quanto concerne l'allevamento dei cavalli: la prima cosa - risponderei - è che vengano bene esercitati.
I nostri antenati, infatti, sostennero che al cavallo non deve esser dato alcun riposo.
Quale la seconda? Che sia ben governato: perfino le statue fatte di avorio e di bronzo imputridiscono col sudiciume(90).
Quale la terza? Che lo si nutra.
I nostri maggiori stabilirono che i cavalli dovessero essere come gli schiavi(91), ai quali bisogna dare le cose necessarie e bisogna comandare ciò che onestamente possono fare.
Affermano che tutto ciò si può ottenere bene mediante una sola cosa: e ciò è la diligenza del padre di famiglia(92).
Vi è in Senofonte un antico proverbio: "L'occhio del padrone ingrassa il cavallo.".
Questo basti aver raccomandato ripetutamente: di temere sempre che, come dicono, a causa di un rigido governo e di dure punizioni, i cavalli contraggano, per spirito di ribellione, qualche difetto.
Nessuna cosa infatti suole renderli ostinati, recalcitranti e pigri più che il comando spietato di un padrone intemperante.
Mi ero proposto di scrivere anche qualcosa circa la terapeutica dei cavalli malati, ma, avendo constatato che tanti autori, ed anche ottimi: Absirto, Chirone, Pelagonio, Catone, Columella, Vegezio; poi anche scrittori recentissimi, competenti ed utili da consultare su tale argomento: Palladio, il Calabrese, Alberto, Ruffo(93), Crescenzio, Abate ed altri del genere ne avevano scritto dottamente ed elegantemente(94), giunsi alla conclusione che non fosse compito mio di spendere fatica su tale argomento, poiché mi rendo conto di non poterne scrivere in modo diverso da come ne scrissero gli antichi conservando la mia dignità, e di non poterne scrivere così come ne scrissero gli antichi evitando l'accusa di plagio(95).
Tuttavia è conveniente esporre a questo punto alcuni avvertimenti adatti ed utilissimi alla cura dei cavalli non dati neppure dagli antichi.
Essi sono i seguenti(96).
Poche cose pertinenti alle
malattie dei cavalli
Ci accorgiamo invero che il cavallo non sta bene da alcuni segni.
Ciò sarà allorché si comporti contrariamente al modo che gli era consueto quando usava rettamente delle proprie membra.
Come per esempio: se dorma di più, se sia meno vivace, se mangi più voracemente, se beva più avidamente, se respinga con fastidio il cibo o l'acqua, se urini di più o di meno, se sia affetto da diarrea o da stitichezza, se si abbandoni con il capo riclinato e dimesso, se mandi cattivo odore, se sia diventato più gracile o più lento, se ansimi, se emetta dal ventre rumori e cattivi odori; anche se abbia le orecchie fredde, se sudi molto pur stando in riposo, se diventi più macilento o più gonfio.
Da questi segni, dunque, comprenderemo che l'animale(97) non sta bene.
Vàluta innanzi tutto, più e più volte, secondo le caratteristiche di ciascuna malattia, i segni che siano apparsi; questi poni quanto più diligentemente possibile in relazione con le cause, e con ogni cura ricerca a lungo piuttosto donde la cosa derivi che il danno che ne consegue(98).
Cerca con ogni attenzione di individuare e di eliminare le cause della malattia.
Sràdicane la virulenza sia dalle parti più nobili che da quelle più vili del corpo: bada che non lasci traccia ciò che è passato e che non degeneri ciò che si è localizzato; asporta quelle parti che son degenerate affinché non corrompano quelle sane.
Fa' in modo che quelle parti del corpo che si siano indurite più del normale si ammorbidiscano, che si sfiammino quelle che erano infiammate, che si riscaldino quelle che erano piuttosto fredde; che quelle che erano afflosciate si rassodino, che rientrino nei limiti quelle che si erano eccessivamente ingrossate e che, al contrario, riacquistino la loro misura quelle che erano divenute insufficienti(99).
Tuttavia, non affrettarti a dare medicine, ma, intanto - affinché il cavallo si rafforzi contro la malattia -, somministra tutte quelle cose(100) che servano ad aiutare la natura.
Non sollecitare la natura stessa a compiere precipitosamente la sua opera se, caso mai, avrà iniziato un efficace processo di purificazione(101).
Se per caso poi la natura sembrerà alquanto lenta, non espellere l'umor malefico di colpo con una forte medicina quasi usando violenza, ma blandamente sollecita la natura al suo compiuto di rinnovare la salute.
In tutte queste cose bada a non apportare di continuo variazioni durante la cura inconsultamente per la smania di sperimentare(102).
Adotta, per curare, ogni mezzo che sembri più ragionevole; tuttavia preferisci piuttosto quelli che siano stati legittimati dall'esperienza(103).
Nel curare, attieniti ai tempi, ai modi, e proprio a quelle cose che sei solito usare, finché non abbiano avuto efficacia.
Proseguirai con la cura fino a quando non ti accorga con certezza che ogni causa del male sia stata estirpata dalle radici.
Questo infatti sarebbe male, avere un cavallo continuamente malato.
Devi invece persistere nella cura finché non ti accorga che l'animale si avvalga delle proprie forze quasi del tutto reintegrate(104).
NOTE
(1) Il Mancini a questo punto annota in latino: "Il principe di Ferrara al quale l'Alberti dedicò il libretto è Leonello figlio di Niccolò d'Este, il quale resse il ducato dal 26 febbraio 1441 all'ottobre 1450.
Nessuno potrebbe pensare che le lodi tributategli fossero di convenienza: esse concordano infatti con i giudizi espressi dagli annalisti quando - già defunto Leonello - ne parlavano sinceramente".
(2) Il Mancini fa seguire al titolo la seguente annotazione tecnica in carattere piccolo: "Dal codice Romano della Biblioteca Vaticana n.
70 Ottoboniano, f°.
122, collazionato con l'opuscolo edito a Basilea nell'anno 1556." Ad essa appoggia la seguente nota: "Nonostante che Michele Martino Stella, editore dell'opuscolo relativo al cavallo, nella lettera dedicatoria abbia affermato di ritenere doveroso impedire che l'opera d'uomo insigne, sebbene esigua di mole, perisse per la muffa o malamente corrosa dalle tignuole e dalle tarme, la cosa tuttavia non è andata secondo i suoi propositi: il libretto infatti è rarissimo.
Io stesso, rovistando le più ricche biblioteche d'Italia, l'ho trovato soltanto a Montecassino.
Il monaco benedettino Ambrogio Amelli, poi, cortesemente me ne porse una copia manoscritta.
Quanto a quella contenuta nel codice Ottoboniano, la eseguì rapidamente Giovanni Odone Covato il 7 marzo 1468 come egli annotò in calce all'opuscolo.".
Come egli interpretasse il brano sintatticamente più tortuoso, anomalo e difficile della lettera dedicatoria premessa dallo Stella alla sua edizione del trattato, il Mancini ce lo dichiara implicitamente nella sua Vita di Leon Battista Alberti, ed.
cit., a pag.
180, dove cita se stesso e lo Stella in italiano e donde ho attinto le parole su citate in neretto.
Quanto alla traduzione (ma sarebbe meglio dire all'interpretazione) del titolo, cfr.
quanto discusso nel paragrafo "IL TITOLO E I CONTENUTI".
(3) Questa locuzione, che esprime uno dei concetti più tipici del pensiero albertiano, ricalca puntualmente il titolo del suo trattato "Della tranquillità dell'animo" scritto pressappoco nei medesimi anni (1442) in lingua volgare.
E forse in questa affermazione ("Ho compreso allora...") si può anche cogliere - inconscia, magari - un'allusione alle vicende dello Stato nel quale egli normalmente svolgeva la sua opera: quello della Chiesa, che proprio allora, sotto il papato di Eugenio IV (Gabriele Condulmer), stava vivendo uno dei periodi più problematici e travagliati della sua storia.
(4) Non si riferisce, evidentemente, ad altro luogo di questo trattato, ma addirittura ad altra opera; lo fa tuttavia col tono discorsivo di chi sa bene che l'interlocutore è in grado di capire al volo cosa si voglia intendere.
Allo stesso Leonello d'Este aveva infatti dedicato nel 1442 il dialogo italiano "Teogenio" o "Della repubblica, della vita civile e rustica e della fortuna" secondo il titolo non originario apposto nelle antiche edizioni a stampa, che ne riassume la tematica palesemente attinente agli ideali che qui va vagheggiando l'Alberti.
Egli aveva dedicato, come s'è detto, quel dialogo scritto già da qualche anno (intorno alla metà del terzo decennio del secolo) "A Leonello illustrissimo principe estense"; è dunque plausibile, per la coincidenza degli argomenti e della persona alla quale son dedicate le due trattazioni - nonché per vicinanza di date -, identificare in quell'"altrove" proprio il "Teogenio", come se l'Alberti intendesse dire: "Ma su questi argomenti ti ho già espresso recentemente il mio pensiero in un altro mio scritto."
(5) Si pongono qui vari ordini di questioni che eccedono lo spazio di una nota.
Se ne è però già discusso nel paragrafo "IL MONUMENTO FERRARESE - ecc.".
(6) Cfr.
in proposito le precisazioni fatte nel suddetto paragrafo (pagg.
55-57 ["Niccolò III d'Este...
da Giacomo Zilocchi"] e 71-73 ["Essendo la votazione...
vita del cavallo"]).
(7) Questo plurale può apparire assai strano; pure, tutte le antiche stesure concordano su di esso.
Ciò costituisce quindi un problema interpretativo più complesso di quanto non l'abbiano evidentemente giudicato autori quali Adolfo Venturi e Corrado Ricci, i quali tradussero semplicemente la parola al singolare come se la cosa fosse indifferente (lo si riscontra nelle brevi citazioni operate rispettivamente nella Storia dell'arte italiana, vol.
VIII, parte I, L'Architettura del Quattrocento, Hoepli, Milano 1923, pag.
161; e in Leon Battista Alberti architetto, Celanza, Torino 1917, pag.
29).
La concordanza dei manoscritti e delle edizioni sulla lezione qui data però esclude la possibilità di ignorare la cosa sic et simpliciter.
E dunque se il testo albertiano reca "statuas", ciò non sarà stato per caso e bisogna necessariamente chiedersi cosa volesse intendere l'autore.
In effetti sappiamo che le statue estensi erette nella piazza di Ferrara erano e sono due: quella equestre dedicata a Niccolò III e quella raffigurante il di lui figlio, Borso, assiso.
Una ipotesi possibile è che in un primo momento (al tempo in cui l'Alberti dedicava il trattato a Leonello) fosse stato progettato di dedicare entrambe le statue a Niccolò III, magari raffigurando nella seconda qualcosa di simbolico (ma a tale riguardo nulla risulta dai documenti, anzi il Borsetti - FERRANTIS BORSETTI, Historia almi Ferrariae Gymnasii in duas partes divisa, pars prima, Pomatelli, Ferrariae 1735, pag.
40 - scrive precisamente: "Aenea Equestris Statua"), e che tale progetto sia stato in seguito modificato dallo stesso Borso dopo la sua ascesa al trono di famiglia (I ottobre 1450), o magari in occasione della investitura ducale ottenuta dall'imperatore Federico III d'Absburgo nell'anno 1452.
(8) Come abbiamo visto nella corrispondente nota del testo latino, il MORELLI (op.
cit., vol.
cit., pagg.
255-256) scrive a proposito del codice Canoniciano (traduco): "Veramente già diciannove anni fa, prendendo visione dei codici manoscritti di proprietà del veneziano Matteo Luigi Canonici, un tempo nella Compagnia di Gesù, il quale aveva raccolto nella sua patria una ricchissima collezione di siffatti documenti, mi imbattei in un esemplare particolarmente prezioso, nonostante la scarsa accuratezza con la quale era stato eseguito, redatto a Bologna nel 1487, il quale conteneva varie opere di Leon Battista Alberti.
Lo esaminai accuratamente e annotai, come solevo fare, le cose più notevoli.
E davvero bene feci perché l'anno scorso anche questo codice, col più e col meglio di quella collezione, andò ad arricchire la biblioteca dell'Università di Oxford." Più avanti (pag.
271) parla più in dettaglio dell'opuscolo dedicato al cavallo, dimostrandone un'esatta conoscenza e riportandone il passo che comprende l'inciso "per tuo ordine", ma senza in alcun modo attirare l'attenzione del lettore su queste parole.
Tale constatazione smentisce l'osservazione esplicita fatta dal Mancini a tale riguardo, che ho già riportato nella nota num.
5 di pag.
84 [nota (19) testo latino].
Deve dunque esserci, la controversa precisazione, o no? Io ritengo di sì, ed ho adottato la lezione del manoscritto di Oxford, riportata dal Morelli, rifiutata dal Mancini, per due ordini di motivi (dei quali ho già discusso nell'introduzione, a pag.
68, note num.
1 e 2 [(101) e (102)]): uno di carattere logico, l'altro di carattere cronologico, ma entrambi connessi alle vicende del concorso per il monumento al marchese Niccolò III d'Este, a quelle del concilio presieduto dal papa Eugenio IV, a quelle personali dell'Alberti e della sua amicizia con Leonello d'Este, come abbiamo visto a suo luogo.
(9) Il Mancini - nella sua edizione in latino - annota a questo punto: "Nel mese di novembre del 1444, essendo stata decretata pubblicamente in Ferrara una statua equestre a Niccolò d'Este, vi era una grande contesa fra i reggitori della città circa l'opera da scegliere fra quelle proposte dagli scultori.
Leonello, successore di Niccolò nella signoria, domandò a Battista Alberti quale gli paresse da preporre fra le altre.
Battista, trattenendosi presso Leonello, scrisse del cavallo elegantissimamente.
Egli superava tutti quanti nella perizia e nell'affettuosità con le quali l'animale va governato, addestrato e guidato."
(10) La circostanza che l'autore ha indicata come motivante la sua decisione di occuparsi dell'argomento (ossia la sua attenta considerazione delle sculture presentate al concorso), a differenza del titolo dell'opera, potrebbe veramente indurre il lettore a pensare che l'Alberti intenda trattare, nelle pagine che seguono, almeno in ugual misura sia l'aspetto estetico che quello biologico del cavallo - e forse, anzi, del primo in quanto naturale estrinsecazione del secondo -.
In realtà, come abbiamo già visto in vari luoghi dell'introduzione, cfr.
la n.
num.
1 a pag.
26 [nota (38)], i fatti non corrispondono a questa sia pur legittima aspettativa.
(11) Corrispondenza delle opposizioni fra uso pubblico ed uso privato, e fra guerra e pace, come se gli agi della pace fossero squisitamente privati e i doveri pubblici del cittadino, prevalentemente legati alla violenza della guerra (cfr.
la nota num.
3 a pag.
117 nella prima parte del testo italiano [nota (50)]).
In tal caso sarebbe implicita una orgogliosa affermazione di principio circa la libertà e la privatezza dell'individuo, salvo in casi di forza maggiore (per esempio i suoi doveri nei confronti della patria in pericolo).
(12) Si tratta di pura retorica (nel senso tecnico di tale parola) o di un autentico sentimento di nostalgia per l'antico?
Non sappiamo con quanta vera partecipazione egli si cali in questa finzione umanistica, ma è certo comunque che almeno essa ha documentabili radici nella storia della mitologia: "L'immaginazione dell'uomo ha popolato di cavalli il pantheon dei suoi dei e dei suoi demoni...
Uomini e cavalli si fondevano in esseri soprannaturali, come i centauri...
Gli dei e i geni scelsero i cavalli come troni da dove regnarono sul mondo e sui mortali...
La quadriga di Elio, lo scintillante dio del sole della mitologia greca, è tirata da quattro destrieri che simboleggiano l'orbita solare..." (da H.
H.
ISENBART e E.
M.
BÜHRER, Il regno del cavallo, Mondadori, Milano 1970, pag.
72).
A proposito di una possibile origine del mito dei centauri A.
AZZAROLI (Il cavallo nella storia antica, L.
L.
Edizioni Equestri, Milano 1975, pag.
56) richiama le notizie tramandate da Erodoto riguardanti la cavalleria leggera dei razziatori sciti (i quali trascorrevano il loro tempo quasi permanentemente in groppa ai loro destrieri) e l'impressione che questi dovettero suscitare sui primi Greci che ebbero contatti con essi: di una quasi mostruosa immedesimazione dell'uomo con l'animale.
(13) Pare di cogliere un ricordo classico di trionfatori a cavallo che sovrastano il nemico vinto osservati in qualche figurazione di rilievi onorari o di gruppi alessandrini, ma - pensando ai luoghi nei quali l'Alberti è vissuto - non mi pare di poter cogliere alcun riferimento puntuale.
Questa mistura di epopea eroica antica e di favolosità tardogotica può anche richiamare alla mente la "Battaglia di San Romano" di Paolo Uccello, specie nella tavola degli "Uffizi", ma al tempo di questo trattato essa, con tutta probabilità, non era stata ancora dipinta, almeno a prestar fede alle opinioni della maggior parte di quegli storici dell'arte che si sono cimentati nella datazione delle tre tavole medicee.
Forse si tratta di differenti portati di una comune temperie storica.
Nella quale, del resto, si accamperà il genio di Donatello, quale punto di riferimento di un gusto che si esplicherà per tutto il secolo ed oltre in disparate tonalità di una suggestione di classicità romana che si compiaceva particolarmente di queste compatte commettiture di un "tessuto" di corpi vibranti e contrapposti nella zuffa di uomini e di cavalli, come nel bel bronzetto di Bertoldo di Giovanni al "Bargello" di Firenze.
Ma anche rispetto a tutto questo i vagheggiamenti antiquari dell'Alberti qui si collocano cronologicamente prima: sulla linea di partenza.
(14) È un precetto dell'addestramento arabo: "L'arabo insegna al suo cavallo...
a non sopportare altro peso che quello del padrone." (da L.
GIANOLI, Il cavallo e l'uomo, Longanesi, Milano 1967, pag.
61a); "Rifiutando ogni altro cavaliere, non è facile preda dei ladri." (da N.
LUGLI, Il romanzo del cavallo, Vallecchi, Firenze 1966, pagg.
46-47).
(15) Ritornano qui le osservazioni già fatte nella nota num.
1 di pag.
89 [nota (13)]; ma qui mi pare che l'Alberti stia davvero lavorando di fantasia.
Come che sia, non ho potuto trovare in proposito alcuna testimonianza scritta o figurata.
(16) Questo fatto è veramente narrato da PLUTARCO, nel capitolo 61 della vita di Alessandro Magno (ed.
usata: a cura di F.
BRINDESI, Rizzoli, Milano 1953, pag.
77).
La città in questione si chiamò Alessandria Bucefala e fu fondata dall'imperatore sulla riva destra del fiume Idaspe (oggi Ibelum, nel Panjab) presso l'odierna Dilawar.
Il cavallo era morto, forse di ferite, nell'anno 326 a.
C.
Del resto in tempi anche più antichi era in uso in varie regioni dell'Eurasia la "sepoltura rituale" che consisteva nell'inumazione del cavallo, o di due, talvolta insieme al carro (in epoche e in ambienti in cui il guerriero combatteva ancora dalla biga e non in groppa) in sepolcri poco discosti dalle tombe dei padroni, o talvolta (nel caso contrario, ossia quando già i guerrieri avevano imparato a montare sul cavallo), nei medesimi tumuli, col cavaliere stesso e con le armi di questo.
Ce ne parla, con riferimento a Sciti, Etruschi e Celti A.
AZZAROLI nell'op.
cit., alle pagg.
65-66, 82, 84 e 93.
Da ricordare sono anche "la vittoria di Cimone, nel 536, alla LXI Olimpiade.
Questo nobile ateniese" (che, si badi, è il nonno - detto Coalemo - del famoso figlio di Milziade: si tratta dell'illustre famiglia dei Filaidi) "possedeva quattro prodigiose cavalle, ed era legato ad esse da tale affetto che quando morirono le onorò di sepoltura di fronte al proprio mausoleo e le fece effigiare in bronzo." (da L.
GIANOLI ed U.
BERTI, Quel motore che si chiama cavallo, UNIRE, Milano 1962, pag.
35); e l'episodio di Claudia Erice, moglie dell'auriga Aulo Dionisio, la quale sulla tomba del marito volle incidere i nomi dei suoi cavalli più famosi (GIANOLI, op.
cit., pag.
34b).
(17) Torna un altro motivo espresso nella dedica del "Teogenio", oltre quelli che ho già ricordati nella nota num.
2 di pag.
83 [nota (4)].
In un altro luogo di essa, infatti, l'Alberti aveva scritto: "Poi che io te lo [intendasi il "Teogenio"] mostrai e intesi quanto ei non dispiaceva, parsemi debito mandartelo...".
(18) Già nell'introduzione, alle pagg.
68-73 [cfr.
Il titolo e i contenuti: "Rimane ora...
vita del cavallo"]ho cercato con ogni possibile approfondimento di individuare quali siano potuti essere "questi giorni" abbastanza sballottati in tutta la storiografia precedente.
Anche il tono di questo passo sembra bene accordarsi con le ipotesi ivi formulate.
(19) Ho già fatto cenno, nell'introduzione (passim) al particolare modo di atteggiarsi dell'Alberti nei confronti degli autori antichi del ramo, che è di spregiudicatezza nei riguardi di quelli più vicini al suo tempo e veramente da lui conosciuti, e di ossequio (con la continua preoccupazione di chiamarli a mallevadori e testimoni delle sue affermazioni) verso quelli antichi che spesso - invece -, come dimostrò documentatamente lo Zoubov nel menzionato saggio, conosce solo per la mediazione dei non esaurientemente citati autori medioevali.
(20) Viste le osservazioni contenute nella nota precedente e l'abituale "disinvoltura" dell'Alberti in queste cose, nonché l'assenza, nel testo, di qualsiasi riferimento puntuale, c'è da chiedersi che senso abbia questa affermazione.
(21) In che senso "degno"? Degno di chi e di che cosa? Degno del principe? Questa sarebbe l'interpretazione immediatamente suggerita dal periodo successivo, che conclude il proemio.
E tuttavia lascia alquanto perplessi: in che modo e in che cosa una simile materia, intesa in un senso tanto empiric
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