IL CAVALLO VIVO, di Leon Battista Alberti - pagina 4
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Da ultimo, in una scuderia ben pulita, liberata completamente dal fimo e da ogni afrore, debbono esser legati presso la mangiatoia.
Prescrivono anzi di tenere i cavalli separati per mezzo di lunghi pali interposti fra l'uno e l'altro ad evitare contese e baruffe.
Le prime ore del mattino vanno impiegate nelle medesime cure.
Deve esser rimosso il sudiciume, le unghie debbono essere liberate dal letame accumulatosi durante la notte; se il luogo risulti inquinato, bisogna rimuoverne la causa.
Finalmente deve esser condotto al suo lavoro di apprendimento e di esercitazione.
Al ritorno poi deve essere accolto nella scuderia con le cure di cui abbiamo parlato.
Oltre a ciò, che va fatto durante il giorno, [di notte] specialmente d'estate il cavallo deve esser tenuto soltanto sul duro suolo non ricoperto di paglia.
Quando poi i cavalli hanno fame e sete - non certo quando siano accaldati, ma quando si siano rinfrancati - deve esser data loro per prima cosa a profusione e fino a sazietà acqua non fredda, non attinta di fresco, ma quasi intiepidita dal sole; non troppo sporca o putrida e tuttavia densa.
Affinché poi ingeriscano moltissima acqua, bisogna stimolarli a bere somministrando loro del sale.
Dicono che ciò contribuisca moltissimo ad accrescere la grossezza delle membra.
Affermano infatti che non altrove che nel mare, per l'abbondanza dell'acqua salata, crescono animali dal corpo smisurato(86).
Subito dopo bisogna porgere a ciascun cavallo non più di tre libbre di orzo purissimo(87) in una buca molto profonda perché, affaticandosi per soddisfare la sua avidità, rafforzi le tibie anteriori e tutto il petto.
Al contrario prescrivono che le stoppie e lo strame compresso e pulito - avendone scossa la polvere - devono esser porti in modo che pendano dall'alto affinché, a furia di tendere il collo, il cavallo diventi più sottile alla sommità di esso e risulti più agile nei movimenti della testa.
Parimente a sera, dopo che abbia abbondantemente bevuto, devono essergli somministrate tre libbre di orzo e moltissima paglia.
Ma bisogna badar bene che non diventi troppo pieno e satollo.
Ammoniscono che nel somministrare i pasti si faccia in modo che i cavalli prendano il cibo - dal basso o dall'alto che sia - agevolmente e senza un'eccessiva flessione o distensione delle membra.
Per il resto, una è l'opinione nella quale tutti concordano, che - cioè - giovi molto se di giorno in giorno sempre meno vengano blanditi, affinché si abituino a sopportare bene il freddo, le veglie, la fame, il caldo, i venti e la polvere.
A questo proposito dicono anche che bisogna ferrarlo(88) piuttosto tardi affinché, se per caso accada qualcosa per cui il cavallo debba procedere con l'unghia nuda, questa, incallita grazie al precedente esercizio, si consumi di meno.
Conviene anzi ricordare quanto adatta sia ciascuna parte delle nostre membra a quegli usi ai quali è destinata(89); per cui sarebbe turpe certamente che i cavalli, per nostra imperizia o negligenza e per nostra pigrizia, subissero qualche danno.
Ché se qualcuno chiedesse quale debba esser considerata la prima cosa in tutto quanto concerne l'allevamento dei cavalli: la prima cosa - risponderei - è che vengano bene esercitati.
I nostri antenati, infatti, sostennero che al cavallo non deve esser dato alcun riposo.
Quale la seconda? Che sia ben governato: perfino le statue fatte di avorio e di bronzo imputridiscono col sudiciume(90).
Quale la terza? Che lo si nutra.
I nostri maggiori stabilirono che i cavalli dovessero essere come gli schiavi(91), ai quali bisogna dare le cose necessarie e bisogna comandare ciò che onestamente possono fare.
Affermano che tutto ciò si può ottenere bene mediante una sola cosa: e ciò è la diligenza del padre di famiglia(92).
Vi è in Senofonte un antico proverbio: "L'occhio del padrone ingrassa il cavallo.".
Questo basti aver raccomandato ripetutamente: di temere sempre che, come dicono, a causa di un rigido governo e di dure punizioni, i cavalli contraggano, per spirito di ribellione, qualche difetto.
Nessuna cosa infatti suole renderli ostinati, recalcitranti e pigri più che il comando spietato di un padrone intemperante.
Mi ero proposto di scrivere anche qualcosa circa la terapeutica dei cavalli malati, ma, avendo constatato che tanti autori, ed anche ottimi: Absirto, Chirone, Pelagonio, Catone, Columella, Vegezio; poi anche scrittori recentissimi, competenti ed utili da consultare su tale argomento: Palladio, il Calabrese, Alberto, Ruffo(93), Crescenzio, Abate ed altri del genere ne avevano scritto dottamente ed elegantemente(94), giunsi alla conclusione che non fosse compito mio di spendere fatica su tale argomento, poiché mi rendo conto di non poterne scrivere in modo diverso da come ne scrissero gli antichi conservando la mia dignità, e di non poterne scrivere così come ne scrissero gli antichi evitando l'accusa di plagio(95).
Tuttavia è conveniente esporre a questo punto alcuni avvertimenti adatti ed utilissimi alla cura dei cavalli non dati neppure dagli antichi.
Essi sono i seguenti(96).
Poche cose pertinenti alle
malattie dei cavalli
Ci accorgiamo invero che il cavallo non sta bene da alcuni segni.
Ciò sarà allorché si comporti contrariamente al modo che gli era consueto quando usava rettamente delle proprie membra.
Come per esempio: se dorma di più, se sia meno vivace, se mangi più voracemente, se beva più avidamente, se respinga con fastidio il cibo o l'acqua, se urini di più o di meno, se sia affetto da diarrea o da stitichezza, se si abbandoni con il capo riclinato e dimesso, se mandi cattivo odore, se sia diventato più gracile o più lento, se ansimi, se emetta dal ventre rumori e cattivi odori; anche se abbia le orecchie fredde, se sudi molto pur stando in riposo, se diventi più macilento o più gonfio.
Da questi segni, dunque, comprenderemo che l'animale(97) non sta bene.
Vàluta innanzi tutto, più e più volte, secondo le caratteristiche di ciascuna malattia, i segni che siano apparsi; questi poni quanto più diligentemente possibile in relazione con le cause, e con ogni cura ricerca a lungo piuttosto donde la cosa derivi che il danno che ne consegue(98).
Cerca con ogni attenzione di individuare e di eliminare le cause della malattia.
Sràdicane la virulenza sia dalle parti più nobili che da quelle più vili del corpo: bada che non lasci traccia ciò che è passato e che non degeneri ciò che si è localizzato; asporta quelle parti che son degenerate affinché non corrompano quelle sane.
Fa' in modo che quelle parti del corpo che si siano indurite più del normale si ammorbidiscano, che si sfiammino quelle che erano infiammate, che si riscaldino quelle che erano piuttosto fredde; che quelle che erano afflosciate si rassodino, che rientrino nei limiti quelle che si erano eccessivamente ingrossate e che, al contrario, riacquistino la loro misura quelle che erano divenute insufficienti(99).
Tuttavia, non affrettarti a dare medicine, ma, intanto - affinché il cavallo si rafforzi contro la malattia -, somministra tutte quelle cose(100) che servano ad aiutare la natura.
Non sollecitare la natura stessa a compiere precipitosamente la sua opera se, caso mai, avrà iniziato un efficace processo di purificazione(101).
Se per caso poi la natura sembrerà alquanto lenta, non espellere l'umor malefico di colpo con una forte medicina quasi usando violenza, ma blandamente sollecita la natura al suo compiuto di rinnovare la salute.
In tutte queste cose bada a non apportare di continuo variazioni durante la cura inconsultamente per la smania di sperimentare(102).
Adotta, per curare, ogni mezzo che sembri più ragionevole; tuttavia preferisci piuttosto quelli che siano stati legittimati dall'esperienza(103).
Nel curare, attieniti ai tempi, ai modi, e proprio a quelle cose che sei solito usare, finché non abbiano avuto efficacia.
Proseguirai con la cura fino a quando non ti accorga con certezza che ogni causa del male sia stata estirpata dalle radici.
Questo infatti sarebbe male, avere un cavallo continuamente malato.
Devi invece persistere nella cura finché non ti accorga che l'animale si avvalga delle proprie forze quasi del tutto reintegrate(104).
NOTE
(1) Il Mancini a questo punto annota in latino: "Il principe di Ferrara al quale l'Alberti dedicò il libretto è Leonello figlio di Niccolò d'Este, il quale resse il ducato dal 26 febbraio 1441 all'ottobre 1450.
Nessuno potrebbe pensare che le lodi tributategli fossero di convenienza: esse concordano infatti con i giudizi espressi dagli annalisti quando - già defunto Leonello - ne parlavano sinceramente".
(2) Il Mancini fa seguire al titolo la seguente annotazione tecnica in carattere piccolo: "Dal codice Romano della Biblioteca Vaticana n.
70 Ottoboniano, f°.
122, collazionato con l'opuscolo edito a Basilea nell'anno 1556." Ad essa appoggia la seguente nota: "Nonostante che Michele Martino Stella, editore dell'opuscolo relativo al cavallo, nella lettera dedicatoria abbia affermato di ritenere doveroso impedire che l'opera d'uomo insigne, sebbene esigua di mole, perisse per la muffa o malamente corrosa dalle tignuole e dalle tarme, la cosa tuttavia non è andata secondo i suoi propositi: il libretto infatti è rarissimo.
Io stesso, rovistando le più ricche biblioteche d'Italia, l'ho trovato soltanto a Montecassino.
Il monaco benedettino Ambrogio Amelli, poi, cortesemente me ne porse una copia manoscritta.
Quanto a quella contenuta nel codice Ottoboniano, la eseguì rapidamente Giovanni Odone Covato il 7 marzo 1468 come egli annotò in calce all'opuscolo.".
Come egli interpretasse il brano sintatticamente più tortuoso, anomalo e difficile della lettera dedicatoria premessa dallo Stella alla sua edizione del trattato, il Mancini ce lo dichiara implicitamente nella sua Vita di Leon Battista Alberti, ed.
cit., a pag.
180, dove cita se stesso e lo Stella in italiano e donde ho attinto le parole su citate in neretto.
Quanto alla traduzione (ma sarebbe meglio dire all'interpretazione) del titolo, cfr.
quanto discusso nel paragrafo "IL TITOLO E I CONTENUTI".
(3) Questa locuzione, che esprime uno dei concetti più tipici del pensiero albertiano, ricalca puntualmente il titolo del suo trattato "Della tranquillità dell'animo" scritto pressappoco nei medesimi anni (1442) in lingua volgare.
E forse in questa affermazione ("Ho compreso allora...") si può anche cogliere - inconscia, magari - un'allusione alle vicende dello Stato nel quale egli normalmente svolgeva la sua opera: quello della Chiesa, che proprio allora, sotto il papato di Eugenio IV (Gabriele Condulmer), stava vivendo uno dei periodi più problematici e travagliati della sua storia.
(4) Non si riferisce, evidentemente, ad altro luogo di questo trattato, ma addirittura ad altra opera; lo fa tuttavia col tono discorsivo di chi sa bene che l'interlocutore è in grado di capire al volo cosa si voglia intendere.
Allo stesso Leonello d'Este aveva infatti dedicato nel 1442 il dialogo italiano "Teogenio" o "Della repubblica, della vita civile e rustica e della fortuna" secondo il titolo non originario apposto nelle antiche edizioni a stampa, che ne riassume la tematica palesemente attinente agli ideali che qui va vagheggiando l'Alberti.
Egli aveva dedicato, come s'è detto, quel dialogo scritto già da qualche anno (intorno alla metà del terzo decennio del secolo) "A Leonello illustrissimo principe estense"; è dunque plausibile, per la coincidenza degli argomenti e della persona alla quale son dedicate le due trattazioni - nonché per vicinanza di date -, identificare in quell'"altrove" proprio il "Teogenio", come se l'Alberti intendesse dire: "Ma su questi argomenti ti ho già espresso recentemente il mio pensiero in un altro mio scritto."
(5) Si pongono qui vari ordini di questioni che eccedono lo spazio di una nota.
Se ne è però già discusso nel paragrafo "IL MONUMENTO FERRARESE - ecc.".
(6) Cfr.
in proposito le precisazioni fatte nel suddetto paragrafo (pagg.
55-57 ["Niccolò III d'Este...
da Giacomo Zilocchi"] e 71-73 ["Essendo la votazione...
vita del cavallo"]).
(7) Questo plurale può apparire assai strano; pure, tutte le antiche stesure concordano su di esso.
Ciò costituisce quindi un problema interpretativo più complesso di quanto non l'abbiano evidentemente giudicato autori quali Adolfo Venturi e Corrado Ricci, i quali tradussero semplicemente la parola al singolare come se la cosa fosse indifferente (lo si riscontra nelle brevi citazioni operate rispettivamente nella Storia dell'arte italiana, vol.
VIII, parte I, L'Architettura del Quattrocento, Hoepli, Milano 1923, pag.
161; e in Leon Battista Alberti architetto, Celanza, Torino 1917, pag.
29).
La concordanza dei manoscritti e delle edizioni sulla lezione qui data però esclude la possibilità di ignorare la cosa sic et simpliciter.
E dunque se il testo albertiano reca "statuas", ciò non sarà stato per caso e bisogna necessariamente chiedersi cosa volesse intendere l'autore.
In effetti sappiamo che le statue estensi erette nella piazza di Ferrara erano e sono due: quella equestre dedicata a Niccolò III e quella raffigurante il di lui figlio, Borso, assiso.
Una ipotesi possibile è che in un primo momento (al tempo in cui l'Alberti dedicava il trattato a Leonello) fosse stato progettato di dedicare entrambe le statue a Niccolò III, magari raffigurando nella seconda qualcosa di simbolico (ma a tale riguardo nulla risulta dai documenti, anzi il Borsetti - FERRANTIS BORSETTI, Historia almi Ferrariae Gymnasii in duas partes divisa, pars prima, Pomatelli, Ferrariae 1735, pag.
40 - scrive precisamente: "Aenea Equestris Statua"), e che tale progetto sia stato in seguito modificato dallo stesso Borso dopo la sua ascesa al trono di famiglia (I ottobre 1450), o magari in occasione della investitura ducale ottenuta dall'imperatore Federico III d'Absburgo nell'anno 1452.
(8) Come abbiamo visto nella corrispondente nota del testo latino, il MORELLI (op.
cit., vol.
cit., pagg.
255-256) scrive a proposito del codice Canoniciano (traduco): "Veramente già diciannove anni fa, prendendo visione dei codici manoscritti di proprietà del veneziano Matteo Luigi Canonici, un tempo nella Compagnia di Gesù, il quale aveva raccolto nella sua patria una ricchissima collezione di siffatti documenti, mi imbattei in un esemplare particolarmente prezioso, nonostante la scarsa accuratezza con la quale era stato eseguito, redatto a Bologna nel 1487, il quale conteneva varie opere di Leon Battista Alberti.
Lo esaminai accuratamente e annotai, come solevo fare, le cose più notevoli.
E davvero bene feci perché l'anno scorso anche questo codice, col più e col meglio di quella collezione, andò ad arricchire la biblioteca dell'Università di Oxford." Più avanti (pag.
271) parla più in dettaglio dell'opuscolo dedicato al cavallo, dimostrandone un'esatta conoscenza e riportandone il passo che comprende l'inciso "per tuo ordine", ma senza in alcun modo attirare l'attenzione del lettore su queste parole.
Tale constatazione smentisce l'osservazione esplicita fatta dal Mancini a tale riguardo, che ho già riportato nella nota num.
5 di pag.
84 [nota (19) testo latino].
Deve dunque esserci, la controversa precisazione, o no? Io ritengo di sì, ed ho adottato la lezione del manoscritto di Oxford, riportata dal Morelli, rifiutata dal Mancini, per due ordini di motivi (dei quali ho già discusso nell'introduzione, a pag.
68, note num.
1 e 2 [(101) e (102)]): uno di carattere logico, l'altro di carattere cronologico, ma entrambi connessi alle vicende del concorso per il monumento al marchese Niccolò III d'Este, a quelle del concilio presieduto dal papa Eugenio IV, a quelle personali dell'Alberti e della sua amicizia con Leonello d'Este, come abbiamo visto a suo luogo.
(9) Il Mancini - nella sua edizione in latino - annota a questo punto: "Nel mese di novembre del 1444, essendo stata decretata pubblicamente in Ferrara una statua equestre a Niccolò d'Este, vi era una grande contesa fra i reggitori della città circa l'opera da scegliere fra quelle proposte dagli scultori.
Leonello, successore di Niccolò nella signoria, domandò a Battista Alberti quale gli paresse da preporre fra le altre.
Battista, trattenendosi presso Leonello, scrisse del cavallo elegantissimamente.
Egli superava tutti quanti nella perizia e nell'affettuosità con le quali l'animale va governato, addestrato e guidato."
(10) La circostanza che l'autore ha indicata come motivante la sua decisione di occuparsi dell'argomento (ossia la sua attenta considerazione delle sculture presentate al concorso), a differenza del titolo dell'opera, potrebbe veramente indurre il lettore a pensare che l'Alberti intenda trattare, nelle pagine che seguono, almeno in ugual misura sia l'aspetto estetico che quello biologico del cavallo - e forse, anzi, del primo in quanto naturale estrinsecazione del secondo -.
In realtà, come abbiamo già visto in vari luoghi dell'introduzione, cfr.
la n.
num.
1 a pag.
26 [nota (38)], i fatti non corrispondono a questa sia pur legittima aspettativa.
(11) Corrispondenza delle opposizioni fra uso pubblico ed uso privato, e fra guerra e pace, come se gli agi della pace fossero squisitamente privati e i doveri pubblici del cittadino, prevalentemente legati alla violenza della guerra (cfr.
la nota num.
3 a pag.
117 nella prima parte del testo italiano [nota (50)]).
In tal caso sarebbe implicita una orgogliosa affermazione di principio circa la libertà e la privatezza dell'individuo, salvo in casi di forza maggiore (per esempio i suoi doveri nei confronti della patria in pericolo).
(12) Si tratta di pura retorica (nel senso tecnico di tale parola) o di un autentico sentimento di nostalgia per l'antico?
Non sappiamo con quanta vera partecipazione egli si cali in questa finzione umanistica, ma è certo comunque che almeno essa ha documentabili radici nella storia della mitologia: "L'immaginazione dell'uomo ha popolato di cavalli il pantheon dei suoi dei e dei suoi demoni...
Uomini e cavalli si fondevano in esseri soprannaturali, come i centauri...
Gli dei e i geni scelsero i cavalli come troni da dove regnarono sul mondo e sui mortali...
La quadriga di Elio, lo scintillante dio del sole della mitologia greca, è tirata da quattro destrieri che simboleggiano l'orbita solare..." (da H.
H.
ISENBART e E.
M.
BÜHRER, Il regno del cavallo, Mondadori, Milano 1970, pag.
72).
A proposito di una possibile origine del mito dei centauri A.
AZZAROLI (Il cavallo nella storia antica, L.
L.
Edizioni Equestri, Milano 1975, pag.
56) richiama le notizie tramandate da Erodoto riguardanti la cavalleria leggera dei razziatori sciti (i quali trascorrevano il loro tempo quasi permanentemente in groppa ai loro destrieri) e l'impressione che questi dovettero suscitare sui primi Greci che ebbero contatti con essi: di una quasi mostruosa immedesimazione dell'uomo con l'animale.
(13) Pare di cogliere un ricordo classico di trionfatori a cavallo che sovrastano il nemico vinto osservati in qualche figurazione di rilievi onorari o di gruppi alessandrini, ma - pensando ai luoghi nei quali l'Alberti è vissuto - non mi pare di poter cogliere alcun riferimento puntuale.
Questa mistura di epopea eroica antica e di favolosità tardogotica può anche richiamare alla mente la "Battaglia di San Romano" di Paolo Uccello, specie nella tavola degli "Uffizi", ma al tempo di questo trattato essa, con tutta probabilità, non era stata ancora dipinta, almeno a prestar fede alle opinioni della maggior parte di quegli storici dell'arte che si sono cimentati nella datazione delle tre tavole medicee.
Forse si tratta di differenti portati di una comune temperie storica.
Nella quale, del resto, si accamperà il genio di Donatello, quale punto di riferimento di un gusto che si esplicherà per tutto il secolo ed oltre in disparate tonalità di una suggestione di classicità romana che si compiaceva particolarmente di queste compatte commettiture di un "tessuto" di corpi vibranti e contrapposti nella zuffa di uomini e di cavalli, come nel bel bronzetto di Bertoldo di Giovanni al "Bargello" di Firenze.
Ma anche rispetto a tutto questo i vagheggiamenti antiquari dell'Alberti qui si collocano cronologicamente prima: sulla linea di partenza.
(14) È un precetto dell'addestramento arabo: "L'arabo insegna al suo cavallo...
a non sopportare altro peso che quello del padrone." (da L.
GIANOLI, Il cavallo e l'uomo, Longanesi, Milano 1967, pag.
61a); "Rifiutando ogni altro cavaliere, non è facile preda dei ladri." (da N.
LUGLI, Il romanzo del cavallo, Vallecchi, Firenze 1966, pagg.
46-47).
(15) Ritornano qui le osservazioni già fatte nella nota num.
1 di pag.
89 [nota (13)]; ma qui mi pare che l'Alberti stia davvero lavorando di fantasia.
Come che sia, non ho potuto trovare in proposito alcuna testimonianza scritta o figurata.
(16) Questo fatto è veramente narrato da PLUTARCO, nel capitolo 61 della vita di Alessandro Magno (ed.
usata: a cura di F.
BRINDESI, Rizzoli, Milano 1953, pag.
77).
La città in questione si chiamò Alessandria Bucefala e fu fondata dall'imperatore sulla riva destra del fiume Idaspe (oggi Ibelum, nel Panjab) presso l'odierna Dilawar.
Il cavallo era morto, forse di ferite, nell'anno 326 a.
C.
Del resto in tempi anche più antichi era in uso in varie regioni dell'Eurasia la "sepoltura rituale" che consisteva nell'inumazione del cavallo, o di due, talvolta insieme al carro (in epoche e in ambienti in cui il guerriero combatteva ancora dalla biga e non in groppa) in sepolcri poco discosti dalle tombe dei padroni, o talvolta (nel caso contrario, ossia quando già i guerrieri avevano imparato a montare sul cavallo), nei medesimi tumuli, col cavaliere stesso e con le armi di questo.
Ce ne parla, con riferimento a Sciti, Etruschi e Celti A.
AZZAROLI nell'op.
cit., alle pagg.
65-66, 82, 84 e 93.
Da ricordare sono anche "la vittoria di Cimone, nel 536, alla LXI Olimpiade.
Questo nobile ateniese" (che, si badi, è il nonno - detto Coalemo - del famoso figlio di Milziade: si tratta dell'illustre famiglia dei Filaidi) "possedeva quattro prodigiose cavalle, ed era legato ad esse da tale affetto che quando morirono le onorò di sepoltura di fronte al proprio mausoleo e le fece effigiare in bronzo." (da L.
GIANOLI ed U.
BERTI, Quel motore che si chiama cavallo, UNIRE, Milano 1962, pag.
35); e l'episodio di Claudia Erice, moglie dell'auriga Aulo Dionisio, la quale sulla tomba del marito volle incidere i nomi dei suoi cavalli più famosi (GIANOLI, op.
cit., pag.
34b).
(17) Torna un altro motivo espresso nella dedica del "Teogenio", oltre quelli che ho già ricordati nella nota num.
2 di pag.
83 [nota (4)].
In un altro luogo di essa, infatti, l'Alberti aveva scritto: "Poi che io te lo [intendasi il "Teogenio"] mostrai e intesi quanto ei non dispiaceva, parsemi debito mandartelo...".
(18) Già nell'introduzione, alle pagg.
68-73 [cfr.
Il titolo e i contenuti: "Rimane ora...
vita del cavallo"]ho cercato con ogni possibile approfondimento di individuare quali siano potuti essere "questi giorni" abbastanza sballottati in tutta la storiografia precedente.
Anche il tono di questo passo sembra bene accordarsi con le ipotesi ivi formulate.
(19) Ho già fatto cenno, nell'introduzione (passim) al particolare modo di atteggiarsi dell'Alberti nei confronti degli autori antichi del ramo, che è di spregiudicatezza nei riguardi di quelli più vicini al suo tempo e veramente da lui conosciuti, e di ossequio (con la continua preoccupazione di chiamarli a mallevadori e testimoni delle sue affermazioni) verso quelli antichi che spesso - invece -, come dimostrò documentatamente lo Zoubov nel menzionato saggio, conosce solo per la mediazione dei non esaurientemente citati autori medioevali.
(20) Viste le osservazioni contenute nella nota precedente e l'abituale "disinvoltura" dell'Alberti in queste cose, nonché l'assenza, nel testo, di qualsiasi riferimento puntuale, c'è da chiedersi che senso abbia questa affermazione.
(21) In che senso "degno"? Degno di chi e di che cosa? Degno del principe? Questa sarebbe l'interpretazione immediatamente suggerita dal periodo successivo, che conclude il proemio.
E tuttavia lascia alquanto perplessi: in che modo e in che cosa una simile materia, intesa in un senso tanto empirico e tecnico (operativo, diremmo oggi) poteva esser degna di un principe per suo conto anche umanista e poeta (cfr.
G.
PRAMPOLINI, Storia Universale della Letteratura, 7 volumi, vol.
III, UTET, Torino 1949, pag.
612)?
Degno dell'Alberti stesso? Si cade quasi nel medesimo discorso.
Degno degli specialisti? Ma egli stesso esclude - subito dopo - tale destinazione; e, d'altra parte, sembrerebbe davvero eccessivo un siffatto impegno di "scrematura" quando fosse assunto ad utilità di persone impossibilitate ad usufruirne, come è facile immaginare, perché incapaci di leggere il latino (se non di leggere in assoluto - cfr.
a tal proposito quanto ho riportato da Vegezio, a pag.
32 [cfr.
Il titolo e i contenuti: "di aver usato uno stile pedestre..."] -) e ad uso delle quali, comunque, esisteva già un vasto e fondato bagaglio tecnico al quale non si vede cosa avrebbe potuto aggiungere o togliere l'Alberti in un frettoloso e "accademico" excursus.
Rimane ancora la possibilità di intendere genericamente "degno di applicarvi l'ingegno", "interessante".
Ma, francamente, rimane l'impressione di una mera clausola retorica, di un discorso alquanto campato in aria.
Salvo a mettere nel conto quella "sublime inutilità" che in qualche caso improntò le applicazioni dei protagonisti di questa singolarissima temperie storica, assetati solamente di dar libero sfogo a qualsivoglia disincantata e curiosa divagazione della mente su tutte le cose del mondo e dell'uomo nella sua vita terrena, in questa felice, miracolosa quanto breve parentesi di autonomia delle coscienze.
Proprio come per quei complicati e gratuiti "scherzi" di prospettiva che avvincevano fino a togliergli il sonno (e i guadagni) Paolo Uccello e che - secondo l'arguto racconto del Vasari - gli venivano rimproverati da Donatello nella pratica dell'arte, e in casa sua...
dalla moglie.
Sennonché in questa fattispecie, che non è, per esempio, l'intelligente divertimento della "camera ottica" sul quale con tanto entusiasmo si sofferma il MANCINI sulla scorta dell'anonimo biografo magliabechiano (cfr.
Vita ecc., ed.
cit., pagg.
100-102; ed anche J.
SCHLOSSER MAGNINO, La letteratura artistica, I ed.
italiana: 1935; ed.
usata: "La nuova Italia", Firenze 1964, pagg.
114 e 118-119), non si intravedono innovazioni alle quali votarsi con avventuroso slancio: fonti e norme sono quelle di sempre, ed ancora per un buon secolo non si avrà alcun apporto di rilievo.
E dunque una simile divagazione non può che richiamare cognizioni scontate.
(22) Nell'introduzione, alle pagg.
45-55 [cfr.
Le fonti], ho cercato di fornire alcuni chiarimenti di "pronto soccorso "riguardo agli autori qui citati dall'Alberti; e ciò solo per agevolare il lettore e facilitare la godibilità del testo, ma senza alcuna pretesa che esse risultassero esaustive dei molteplici interrogativi e spunti di ricerca che nascono da queste citazioni.
La materia infatti non è di mia competenza ed - oltre tutto - non rientra nei miei precipui interessi.
È evidente che quanti siano meglio attrezzati nell'ambito specifico - e meno, invece, in tutto quanto ha reso possibile la riesumazione di questo testo - potranno giovarsi di questa mia fatica per contribuire dal loro punto di vista alla soluzione della, a volte, tutt'altro che limpida problematica che esso adduce.
(23) Ritorna l'impressione, in rapporto all'effettiva consistenza dello scritto albertiano, di una certa compiaciuta amplificazione: quante cose ha potuto vedere l'Alberti nel fugace periodo della sua seconda permanenza ferrarese? E tutte erano disponibili sul posto?
(24) Intendasi in contrapposizione a "un principe", ossia: "tolto te, vorrei che tutti gli altri...".
Ma potrebbe avere - specie tenendo conto della posizione di queste parole ad apertura di periodo - un altro senso (cfr.
la nota num.
1 a pag.
97 [nota (26)]).
(25) Intende dire che la materia non è stata trattata in modo tale da costituire un prontuario utile alle persone del mestiere (come quelli che furono compilati in luoghi ed in epoche diversi, dall'inizio dell'età bizantina fino al secolo XIII)? O semplicemente intende escludere che il trattatello potrà comunque esser conosciuto da maniscalchi e stallieri per il fatto stesso che è scritto in latino? C'è da chiedersi infatti come mai proprio per un testo simile, proprio l'Alberti - che in quegli stessi anni si batteva per l'elevazione di rango della lingua volgare, come si rivela anche dalla lettera a Leonello dedicatoria del "Teogenio", nella quale scriveva: "...E fummi caro sì 'l far cosa fusse a te grata, sì ed anche avere te, uomo eruditissimo, non inculpatore di quello che molti m'ascrivono a biasimo, e dicono che io offesi la maestà letteraria non scrivendo materia sì eloquente in lingua piuttosto latina.
A questi fia altrove da rispondere..." (cfr.
G.
MANCINI, Vita ecc., ed.
cit., pag.
171) - abbia scelto di esprimersi in latino.
Forse per evitare a priori ogni possibile equivoco circa la sua destinazione? O forse per il suo intimo gusto per le contrapposizioni dialettiche (come dire: materia aulica/lingua volgare; materia empirica/lingua curiale)?
(26) Tutto il corrispondente periodo latino, in apparenza abbastanza piano, è in realtà di problematica interpretazione; e la traduzione di "parcum" con "sintetico", sebbene alquanto libera ed anzi quasi contraddittoria rispetto alla lettera (che dovrebbe essere invece limitato, modesto - o, magari, avaro -), è l'unica con la quale sia possibile dare un senso logico a tutta la frase (cfr.
in proposito quanto già discusso nell'introduzione, alle pagg.
30-34 [cfr.
Il titolo e i contenuti: "In realtà...
la mia traduzione"]).
(27) Tutta questa espressione (la quale letteralmente suonerebbe "in tutte le mie veglie") appare in verità spropositata a fronte dell'effettiva mole del trattato.
Anche questo passo, quindi, come altri luoghi che saranno a suo tempo indicati, sembra avvalorare la mia ipotesi che l'opera ci sia pervenuta incompleta.
Può darsi anche - d'altra parte - che l'Alberti abbia stilato questa lettera dedicatoria prima e non dopo l'effettiva stesura del trattato, e che sul momento pensasse di svolgere un programma di più articolato sviluppo e di dar luogo perciò ad un'opera di maggiore respiro.
(28) Oltre alla descrizione qui di seguito esposta, l'autore tornerà sull'argomento con altre notazioni alle pagg.
105-119 [cfr.
Prima parte: "Affermano che nei cavalli..."].
Tutte insieme esse rivelano che egli non si discosta dalle concezioni tradizionali già canonizzate (dopo Senofonte e Simone d'Atene) dagli Arabi.
(29) Cfr.
Virgilio nella nota al corrispondente passo del testo latino.
(30) Come nella nota num.
20 a pag.
100 [nota (131) testo latino].
(31) Nel linguaggio moderno internodio è termine precipuamente botanico, non zoologico; ed indica la porzione di un ramo che è fra due nodi.
Nella latinità, invece, la parola era usata soprattutto nell'àmbito dell'anatomia umana e animale, indicando "lo spazio fra due giunture" (cfr.
F.
CALONGHI, Dizionario Latino-Italiano, 1950; usata III ed., Rosemberg e Sellier, Torino 1967, ad vocem).
Nella fattispecie potremmo quindi pensare al tratto del braccio del cavallo che sta fra il ginocchio e lo zoccolo, ossia a quello che nell'attuale gergo ippologico viene chiamato stinco.
Ma ho voluto - per ovvi motivi - lasciare intatta la terminologia usata dall'Alberti.
(32) Cfr.
Virgilio nella nota al corrispondente luogo del testo latino.
Questa delle unghie risonanti è proprio una delle raccomandazioni contenute nell'unico capitolo pervenutoci (con in più qualche frammento degli altri) del trattato di Simone d'Atene, contemporaneo e concittadino di Senofonte, canonista della perfezione formale dei cavalli, il quale pare fosse anche uno scultore (cfr.
N.
LUGLI, op.
cit., pag.
51; e V.
CHIODI, Storia della Veterinaria, "Farmitalia", Milano 1957, pag.
73).
(33) Si noti, anche in rapporto a quanto più volte sottolineato nell'àmbito delle note al proemio, la sommarietà ed approssimazione di questi accenni, specialmente ove si consideri la vastità della letteratura riguardante i mantelli dei cavalli e la complessità dei suoi canoni.
Di ciò che possa intendersi con la locuzione "candidum gyris inscriptum", che nel gergo specialistico - più correttamente di "bianco pezzato" o di decorato di cerchi - dovrebbe forse dirsi grigio con specchiettature o pomellato, si può avere, credo, un esempio calzantissimo nel cavallo montato dal santo nel dipinto con "San Giorgio e il drago", in "San Zeno maggiore" a Verona (cfr.
L.
GIANOLI, op.
cit., tav.
n.
77).
(34) Lo scarso rigore logico di questa descrizione della femmina in rapporto a quella del maschio è uno dei tanti elementi che indicano il superficiale impegno specialistico posto dall'Alberti nel trattato.
(35) Per quanto possa sembrare favolosa, questa notizia è esatta.
Scrive infatti il GIANOLI (op.
cit., pag.
385a): "Il cavallo siriaco di razza pura è particolarmente longevo, vive anche fino a quarant'anni; gli stalloni di venticinque ed anche trent'anni sono ancora prolifici.".
(36) "Columellares" debbono essere i denti che oggi si chiamano scaglioni (cfr.
N.
CHECCHIA, Il cavallo, Vallardi, Milano 1947, pag.
54) - cioè gli equivalenti dei canini, prerogativa peraltro dei soli cavalli maschi - come si ricava dall'età indicata (quattro anni).
Il nome - che "a primo impatto" potrebbe ben sembrare derivato da quello di Columella, il quale si interessò in particolare dei problemi della bocca (cfr.
V.
CHIODI, op.
cit., pag.
104) - va, invece, ricondotto fino a columna (= columnelli, columelli, columellaris) con riferimento alla forma alta e cilindrica (qual è quella di una colonna, appunto) dei canini, come apprendiamo dal Du Cange, in Glossarium et infimae latinitatis, ed.
anastatica, Graz 1954 e dal FORCELLINI, Lexicon totius latinitatis ed.
J.
PERIN curante, Patavii MDCCCCLXV, (in entrambi) ad voces.
Utile ed interessante per tutte le questioni tecniche è anche il vecchio prontuario dell'Esercito, destinato al personale delle armi a cavallo (ed.
usata: STATO MAGGIORE REGIO ESERCITO, Nozioni d'Ippologia, Ed.
"Le Forze Armate", Roma 1941), nel quale cfr.
in proposito la pag.
62.
(37) Non so cosa voglia esattamente dire l'Alberti.
Questa che egli chiama "una midolla completamente nera" potrebbe essere quella che nel gergo comune degli ippologi viene chiamata germe di fava.
Il conto dell'età però in tal caso non tornerebbe.
Il germe di fava, infatti, scompare gradatamente a mano a mano che le superfici di contatto degli incisivi, a causa della consunzione, si agguagliano, dando luogo a quella che viene definita tavola dentale, sulla cui faccia superiore si forma, sempre gradatamente, "una superficie gialla detta stella dentaria" (cfr.
L.
GIANOLI, op.
cit., pag.
401a).
Tale trasformazione - nell'àmbito dei periodi nei quali viene suddivisa la trasformazione dei denti equini ai fini della valutazione dell'età del cavallo - avviene nel IV periodo, che va dai 6 ai 9 anni.
L'età di dodici anni, indicata dall'Alberti, invece, verrebbe a cadere entro il V periodo, quando il germe di fava è ormai del tutto scomparso (cfr.
anche N.
CHECCHIA, op.
cit., pagg.
58-64).
(38) Qui davvero sembra che l'autore esageri! Cfr.
la nota num.
3 di pag.
103 [nota (33)].
(39) La gravidanza delle cavalle dura mediamente 11, 12 mesi.
Ciascuna cavalla destinata alla riproduzione non subisce che una sola monta per ogni turno riproduttivo.
Di conseguenza lo stallone che disponesse di una sola femmina non potrebbe godere che di un solo accoppiamento per ogni periodo di un anno almeno.
Dato però che il maschio - al contrario della femmina - non ha un periodo preciso di calore, ed è invece sempre disponibile all'accoppiamento per un arco di tempo che l'Alberti dice di cinque anni, ma che pare sia anche più lungo, evidentemente un solo coito all'anno non potrebbe soddisfarlo.
Ne consegue che ogni maschio riproduttore deve disporre di più femmine.
(40) Naturalmente questo termine non va inteso nel senso di quelle qualità metafisiche o psicologiche le quali sono proprie dell'umanità, ma bensì nel mero senso di ardore, entusiasmo, estro, come diremmo oggi.
In ogni caso, sembra di cogliere tuttavia nell'Alberti una specie di poetica umanizzazione del cavallo.
(41) Il tono qui muta subitaneamente, affermando un concetto utilitaristico nettamente in contrasto con l'umanizzazione quasi lirica del cavallo avvertita nella nota precedente.
(42) Naturalmente l'osservazione acquista un senso solo supponendo che la stanchezza intervenga prima del compimento "dell'operazione".
Inoltre v'è da osservare una possibile intenzionale correlazione fra il "volente", nel caso di disaccordo fra i due soggetti della monta, e il "nolente" nel caso di stanchezza prematura.
(43) Qui sembrerebbe contraddire il concetto dell'accoppiamento unico espresso più su, ma probabilmente bisogna riferire questa affermazione ai soli maschi, risultandone così confermato quanto osservato nella nota num.
2 di pag.
109 [nota (39)]: ossia che i maschi per l'appunto fossero impegnati più volte, con femmine diverse, ma non tutti i giorni.
(44) L'immagine è pleonastica, e pertinente più ad una fantasia poetica dell'Alberti che alla realtà.
Non sappiamo infatti se ai suoi tempi si usasse indurre i soggetti ad un libero approccio, sia pure con la garbata assistenza di...
un moderatore.
Come che sia, oggi certo non è così; perché tutta l'operazione si svolge in maniera predisposta e con la femmina impossibilitata ad avventurose fughe o tergiversamenti in liberi spazi, anche se - malgrado questi accorgimenti - eventuali violente manifestazioni di rifiuto da parte di essa determinano comunque l'impossibilità della monta, come del resto lo stesso Alberti afferma subito di séguito.
(45) Questo accorgimento è veramente raccomandato da Senofonte, nel caso particolare dell'accoppiamento delle giumente con gli asini: egli mitizza e dà un'interpretazione poetica (il taglio della coda e della criniera, togliendo alle femmine la fierezza delle proprie forme, le renderebbe più disponibili a tale "declassamento") di quello che invece è un espediente di natura pratica, e riguarda soprattutto le code, le quali - nel caso di accoppiamento con un asino - costituirebbero un impedimento data la diversa statura dei due animali (cfr.
L.
GIANOLI, op.
cit., pag.
28b).
(46) In gergo, fino al compimento dei sei mesi di vita, si chiamerebbe vannino; in inglese: foal, da pullus, appunto (cfr.
L.
GIANOLI, op.
cit., pag.
401a).
(47) Come s'è già precisato nella nota num.
2 di pag.
109 [nota (39)], il maschio è continuamente propenso all'amore, e potrebbe infastidire le madri nel periodo dell'allattamento.
In conseguenza di ciò, dopo la nascita del puledrino è questo e non il maschio a condurre vita in comune con la giumenta, per sei mesi (cfr.
L.
GIANOLI e U.
BERTI, op.
cit., pag.
52).
(48) È un argomento, questo della cura degli zoccoli, sul quale insiste particolarmente Senofonte con una serie di precetti che ci sono riportati da Vegezio.
I piedi dei cavallini vanno protetti dall'umidità e dalla sporcizia, così come da traumatizzanti asperità del terreno, con l'apposizione, nelle scuderie e sui percorsi abituali, di assi di legno.
Eventuali ferite vanno attentamente cauterizzate, previa l'asportazione delle parti guaste.
(49) Per una descrizione, condotta con affettuosità ed ammirata partecipazione, di questo periodo felice del puledro libero accanto alla madre, cfr.
L.
GIANOLI e U.
BERTI, op.
cit., pagg.
52-56.
(50) Qui, sicuramente per suggestione di richiami concettuali, si ha l'impressione di una concorrenza di elementi di cultura (l'individualismo umanistico dell'Alberti; un possibile aristotelismo di partenza, con riferimento alla teoria degli istinti e dei luoghi naturali) certo tutti "più difficili" di quello che è semplicemente un fatto di consuetudine fondato sulla logica dell'esperienza nei centri di addestramento dei purosangue.
Scrivono infatti L.
GIANOLI e U.
BERTI (op.
cit., pagg.
56-57): "Avvenuta la doma, si inizierà...
il periodo dell'addestramento, con i primi passi di trotto o di galoppo e le prime lezioni di andatura.
Scartati i prodotti fisicamente mal riusciti e difettosi, i puledri validi manifestano, da questi assaggi, le loro attitudini...".
Cfr.
Virgilio nella nota al corrispondente luogo del testo latino.
(51) Non sappiamo che aspetto avesse il cavallo effigiato dal Baroncelli a Ferrara, essendo - come già precisato nell'introduzione a pag.
57 [cfr.
Il monumento ferrarese: "Al tempo dei moti giacobini..."] - andati perduti nel 1796 i bronzi originali delle due statue ritraenti Niccolò III a cavallo e Borso d'Este assiso.
Ma certo è che questo cavallo "horrendus" fa pensare più alla fierissima bestia montata da Niccolò da Tolentino nel monumento dipinto da Andrea del Castagno circa una quarantina di anni più tardi, che alle maestose cavalcature da parata concepite nelle opere, cronologicamente più vicine, di Paolo Uccello, di Donatello e del Verrocchio.
(52) Inutile attardarsi sulla funzione tipica e indispensabile attribuita dall'uomo al cavallo in ogni epoca antecedente al moderno tracollo della cavalleria come arma combattente.
Se durante il Medioevo esso è l'emblema stesso di tutto un costume sociale fondato sulla investitura nobiliare, fino a divenire l'immagine materializzata di un'ideologia ("cavalleresca", appunto), nel Rinascimento, per itinerari ideologici diversi, e connessi al recupero della classicità, la sua importanza si mantiene "a livello", proprio in questo senso di glorificazione del vir e di esaltazione delle sue virtù (fino a culminare nel romantico "lanciare il cuore al di là dell'ostacolo").
(53) Lo scarico della violenza è istintivo nell'uomo come nell'animale (ed anzi rende l'uomo simile all'animale) e può verificarsi in qualsiasi momento; il controllo di tale istinto è affidato alle virtù cardinali, prerogative proprie dell'umanità, ma questa cerca di trasporne gli esiti concreti - di condizionamento dell'istinto - anche ai suoi complementi inseparabili (il cavallo...
e il cane, dovremmo a tal proposito aggiungere) quasi umanizzandoli (e ciò avvicina l'animale all'uomo).
(54) Cfr.
Virgilio nella nota al corrispondente passo del testo latino.
(55) Sebbene tale termine sia desueto nella nomenclatura odierna, in effetti due cuscini di cuoio imbottiti e trapuntati fanno parte integrante della sella (cfr.
STATO MAGGIORE REGIO ESERCITO, op.
cit., pag.
56, ove si parla di "cuscinetti che, all'occorrenza, vanno rifatti per rinnovare l'imbottitura che ha sempre tendenza ad indurirsi").
Essi isolano dal corpo del cavallo l'armatura rigida - di legno e di acciaio - della sella.
Ma nell'antichità i cuscinetti, con la gualdrappa e il sottopancia, costituivano da soli la sella.
Leggiamo infatti in L.
GIANOLI e U.
BERTI, op.
cit., pag.
16: "...la sella era rappresentata da una gualdrappa di cuoio, sormontata da un cuscinetto imbottito, e assicurata all'animale da un sottopancia.".
Questo tipo di bardatura, ove adottassimo in pieno il gergo ippologico, credo dovrebbe chiamarsi efippio.
Questa parola, infatti, viene definita da F.
PALAZZI nel suo classico Nuovissimo Dizionario della Lingua italiana, Ceschina, Milano 1942, ad vocem, "sella primitiva formata da un pezzo di stoffa piegata a più doppi a mo' di cuscinetto".
Da esso penso derivi pure lo strumento che anche oggi si usa nelle operazioni di domatura, costituito da una coperta completata da un tirante, la quale viene disposta sul dorso del cavallo, e mediante quel finimento viene per gradi aggiustata in modo da risultare sempre più aderente al corpo, affinché l'animale si abitui insensibilmente a stare bardato.
(56) Questa fase, che con la domatura chiude il periodo della condizione brada ed avvia quello dell'addestramento, viene chiamata in gergo della vestizione.
(57) Sull'utilità dell'orzo come parte integrante dell'alimentazione del cavallo, l'Alberti ritorna più volte nel trattato.
La norma dietetica deriva dal regime arabo: "Uova, latte di pecora e di cammella, datteri, farina d'orzo hanno formato per secoli la base dell'alimentazione di un soggetto nato in zone dove non cresce avena": L.
GIANOLI, op.
cit., pag.
61a.
Il LUGLI (op.
cit., pag.
47) addirittura scrive spiritosamente: "Se non avesse visto la giumenta, l'arabo crederebbe che è stato l'orzo a fare il cavallo.".
(58) Cfr.
Virgilio nella nota al corrispondente passo del testo latino.
Scrive il Gianoli citando Senofonte: "Raccomanda di accarezzarlo sovente, di parlargli, di affidarlo ad un palafreniere calmo e prudente che lo abitui a passeggiare tra la folla, a prendere contatto e confidenza con tutte le cose della nostra vita, rumori, luci.
Qualora il cavallo ne avesse paura, "bisogna dimostrargli che non c'è nulla di terribile in quell'oggetto, in quel rumore"" (op.
cit., 28a).
(59) "Dapprima il morso fu semplicemente una corda...", dicono L.
GIANOLI e U.
BERTI a pag.
5.
Dal LUGLI, op.
cit., pag.
45, apprendiamo che "Il primo morso è di lana grezza: il puledro ne gusta il sapore e si abitua a tenerlo in bocca".
(60) Cfr.
la nota num.
1 [58].
(61) La variante "hiantibus" (di cui alla nota num.
1 del testo latino [(342)], a pag.
128) sarebbe in sé convincente ove si considerasse la forma dei morsi antichi, che era tale da impedire al cavallo di stare con la bocca chiusa.
Tuttavia, in questo luogo particolare - pur tenendo conto della complessiva oscurità del passo - la variante "tumescentibus" appare più coerente con l'espressione "naribus quasi sursum fractis" che segue; tanto più che il senso del passo non muta: "Tale morso doveva essere un vero strumento di tortura", esso "costringeva il cavallo...
a tenere la bocca semiaperta, come del resto appare dalle raffigurazioni plastiche." (L.
GIANOLI, op.
cit., pag.
49b).
Della maggiore o minore "severità" dei morsi in rapporto alla loro struttura e considerati fin dai tempi più antichi della adozione di essi, ci parla anche A.
AZZAROLI nella sua op.
cit., alle pagg.
103-106.
(62) Cfr.
la nota num.
2, a pag.
123 [nota55].
(63) Oltre a quanto già precisato nella nota num.
2, a pag.
123 [nota (55)], va aggiunto che la parte esterna dei cuscinetti - che oggigiorno è di cuoio - era nei tempi antichi di stoffa e perciò soggetta ad aggrinzirsi.
Ciò - come suol dirsi - fiaccava il cavallo, ossia lo rendeva piagato.
Di qui la necessità di stendere bene la stoffa di ciascun cuscinetto prima di applicarlo alla groppa dell'animale.
(64) Secondo l'uso arabo, il primo a salire in groppa al puledro era un ragazzetto (cfr.
N.
LUGLI, op.
cit., pag.
45), e ciò suona ad ulteriore conferma (oltre quanto già osservato sul piano testuale nella nota num.
13 [(354)] del testo latino, a pag.
128) della interpretazione data di tutto il brano, in relazione alla quale risultano anche meglio comprensibili tutti i participi che vi si susseguono.
(65) Qui la trattazione prosegue come se non vi fosse alcuna soluzione di continuità rispetto alla fine del paragrafo precedente.
Cfr.
a tal proposito quanto detto nei Criteri tecnici dell'edizione.
(66) Si noti come qui l'autore sembra quasi attribuire ad una ipotetica "volontà" del cavallo la possibilità di collaborare per la realizzazione delle finalità indicate.
Peraltro, l'affermazione, che può apparire strana di primo acchito (specie ove si accenna alla "dignità" e alla "gloria della patria" come ad una "preoccupazione" che verrebbe fatto di ritenere "personale" del cavallo) si spiega più facilmente considerando la strumentalizzazione di importanza quasi essenziale - specie ai fini bellici - di cui questo animale era oggetto ancora ai tempi dell'Alberti e della quale del resto egli ha già fatto cenno in più punti di questo trattato, per cui l'autore sembra qui volere immedesimare cavallo e cavaliere in un unico blocco, come è tipico anche di molte note figurazioni, da Simone Martini - per esempio - alle arche di Verona, espressioni
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