IL CAVALLO VIVO, di Leon Battista Alberti - pagina 7
...
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Ne consegue che ogni maschio riproduttore deve disporre di più femmine.
(40) Naturalmente questo termine non va inteso nel senso di quelle qualità metafisiche o psicologiche le quali sono proprie dell'umanità, ma bensì nel mero senso di ardore, entusiasmo, estro, come diremmo oggi.
In ogni caso, sembra di cogliere tuttavia nell'Alberti una specie di poetica umanizzazione del cavallo.
(41) Il tono qui muta subitaneamente, affermando un concetto utilitaristico nettamente in contrasto con l'umanizzazione quasi lirica del cavallo avvertita nella nota precedente.
(42) Naturalmente l'osservazione acquista un senso solo supponendo che la stanchezza intervenga prima del compimento "dell'operazione".
Inoltre v'è da osservare una possibile intenzionale correlazione fra il "volente", nel caso di disaccordo fra i due soggetti della monta, e il "nolente" nel caso di stanchezza prematura.
(43) Qui sembrerebbe contraddire il concetto dell'accoppiamento unico espresso più su, ma probabilmente bisogna riferire questa affermazione ai soli maschi, risultandone così confermato quanto osservato nella nota num.
2 di pag.
109 [nota (39)]: ossia che i maschi per l'appunto fossero impegnati più volte, con femmine diverse, ma non tutti i giorni.
(44) L'immagine è pleonastica, e pertinente più ad una fantasia poetica dell'Alberti che alla realtà.
Non sappiamo infatti se ai suoi tempi si usasse indurre i soggetti ad un libero approccio, sia pure con la garbata assistenza di...
un moderatore.
Come che sia, oggi certo non è così; perché tutta l'operazione si svolge in maniera predisposta e con la femmina impossibilitata ad avventurose fughe o tergiversamenti in liberi spazi, anche se - malgrado questi accorgimenti - eventuali violente manifestazioni di rifiuto da parte di essa determinano comunque l'impossibilità della monta, come del resto lo stesso Alberti afferma subito di séguito.
(45) Questo accorgimento è veramente raccomandato da Senofonte, nel caso particolare dell'accoppiamento delle giumente con gli asini: egli mitizza e dà un'interpretazione poetica (il taglio della coda e della criniera, togliendo alle femmine la fierezza delle proprie forme, le renderebbe più disponibili a tale "declassamento") di quello che invece è un espediente di natura pratica, e riguarda soprattutto le code, le quali - nel caso di accoppiamento con un asino - costituirebbero un impedimento data la diversa statura dei due animali (cfr.
L.
GIANOLI, op.
cit., pag.
28b).
(46) In gergo, fino al compimento dei sei mesi di vita, si chiamerebbe vannino; in inglese: foal, da pullus, appunto (cfr.
L.
GIANOLI, op.
cit., pag.
401a).
(47) Come s'è già precisato nella nota num.
2 di pag.
109 [nota (39)], il maschio è continuamente propenso all'amore, e potrebbe infastidire le madri nel periodo dell'allattamento.
In conseguenza di ciò, dopo la nascita del puledrino è questo e non il maschio a condurre vita in comune con la giumenta, per sei mesi (cfr.
L.
GIANOLI e U.
BERTI, op.
cit., pag.
52).
(48) È un argomento, questo della cura degli zoccoli, sul quale insiste particolarmente Senofonte con una serie di precetti che ci sono riportati da Vegezio.
I piedi dei cavallini vanno protetti dall'umidità e dalla sporcizia, così come da traumatizzanti asperità del terreno, con l'apposizione, nelle scuderie e sui percorsi abituali, di assi di legno.
Eventuali ferite vanno attentamente cauterizzate, previa l'asportazione delle parti guaste.
(49) Per una descrizione, condotta con affettuosità ed ammirata partecipazione, di questo periodo felice del puledro libero accanto alla madre, cfr.
L.
GIANOLI e U.
BERTI, op.
cit., pagg.
52-56.
(50) Qui, sicuramente per suggestione di richiami concettuali, si ha l'impressione di una concorrenza di elementi di cultura (l'individualismo umanistico dell'Alberti; un possibile aristotelismo di partenza, con riferimento alla teoria degli istinti e dei luoghi naturali) certo tutti "più difficili" di quello che è semplicemente un fatto di consuetudine fondato sulla logica dell'esperienza nei centri di addestramento dei purosangue.
Scrivono infatti L.
GIANOLI e U.
BERTI (op.
cit., pagg.
56-57): "Avvenuta la doma, si inizierà...
il periodo dell'addestramento, con i primi passi di trotto o di galoppo e le prime lezioni di andatura.
Scartati i prodotti fisicamente mal riusciti e difettosi, i puledri validi manifestano, da questi assaggi, le loro attitudini...".
Cfr.
Virgilio nella nota al corrispondente luogo del testo latino.
(51) Non sappiamo che aspetto avesse il cavallo effigiato dal Baroncelli a Ferrara, essendo - come già precisato nell'introduzione a pag.
57 [cfr.
Il monumento ferrarese: "Al tempo dei moti giacobini..."] - andati perduti nel 1796 i bronzi originali delle due statue ritraenti Niccolò III a cavallo e Borso d'Este assiso.
Ma certo è che questo cavallo "horrendus" fa pensare più alla fierissima bestia montata da Niccolò da Tolentino nel monumento dipinto da Andrea del Castagno circa una quarantina di anni più tardi, che alle maestose cavalcature da parata concepite nelle opere, cronologicamente più vicine, di Paolo Uccello, di Donatello e del Verrocchio.
(52) Inutile attardarsi sulla funzione tipica e indispensabile attribuita dall'uomo al cavallo in ogni epoca antecedente al moderno tracollo della cavalleria come arma combattente.
Se durante il Medioevo esso è l'emblema stesso di tutto un costume sociale fondato sulla investitura nobiliare, fino a divenire l'immagine materializzata di un'ideologia ("cavalleresca", appunto), nel Rinascimento, per itinerari ideologici diversi, e connessi al recupero della classicità, la sua importanza si mantiene "a livello", proprio in questo senso di glorificazione del vir e di esaltazione delle sue virtù (fino a culminare nel romantico "lanciare il cuore al di là dell'ostacolo").
(53) Lo scarico della violenza è istintivo nell'uomo come nell'animale (ed anzi rende l'uomo simile all'animale) e può verificarsi in qualsiasi momento; il controllo di tale istinto è affidato alle virtù cardinali, prerogative proprie dell'umanità, ma questa cerca di trasporne gli esiti concreti - di condizionamento dell'istinto - anche ai suoi complementi inseparabili (il cavallo...
e il cane, dovremmo a tal proposito aggiungere) quasi umanizzandoli (e ciò avvicina l'animale all'uomo).
(54) Cfr.
Virgilio nella nota al corrispondente passo del testo latino.
(55) Sebbene tale termine sia desueto nella nomenclatura odierna, in effetti due cuscini di cuoio imbottiti e trapuntati fanno parte integrante della sella (cfr.
STATO MAGGIORE REGIO ESERCITO, op.
cit., pag.
56, ove si parla di "cuscinetti che, all'occorrenza, vanno rifatti per rinnovare l'imbottitura che ha sempre tendenza ad indurirsi").
Essi isolano dal corpo del cavallo l'armatura rigida - di legno e di acciaio - della sella.
Ma nell'antichità i cuscinetti, con la gualdrappa e il sottopancia, costituivano da soli la sella.
Leggiamo infatti in L.
GIANOLI e U.
BERTI, op.
cit., pag.
16: "...la sella era rappresentata da una gualdrappa di cuoio, sormontata da un cuscinetto imbottito, e assicurata all'animale da un sottopancia.".
Questo tipo di bardatura, ove adottassimo in pieno il gergo ippologico, credo dovrebbe chiamarsi efippio.
Questa parola, infatti, viene definita da F.
PALAZZI nel suo classico Nuovissimo Dizionario della Lingua italiana, Ceschina, Milano 1942, ad vocem, "sella primitiva formata da un pezzo di stoffa piegata a più doppi a mo' di cuscinetto".
Da esso penso derivi pure lo strumento che anche oggi si usa nelle operazioni di domatura, costituito da una coperta completata da un tirante, la quale viene disposta sul dorso del cavallo, e mediante quel finimento viene per gradi aggiustata in modo da risultare sempre più aderente al corpo, affinché l'animale si abitui insensibilmente a stare bardato.
(56) Questa fase, che con la domatura chiude il periodo della condizione brada ed avvia quello dell'addestramento, viene chiamata in gergo della vestizione.
(57) Sull'utilità dell'orzo come parte integrante dell'alimentazione del cavallo, l'Alberti ritorna più volte nel trattato.
La norma dietetica deriva dal regime arabo: "Uova, latte di pecora e di cammella, datteri, farina d'orzo hanno formato per secoli la base dell'alimentazione di un soggetto nato in zone dove non cresce avena": L.
GIANOLI, op.
cit., pag.
61a.
Il LUGLI (op.
cit., pag.
47) addirittura scrive spiritosamente: "Se non avesse visto la giumenta, l'arabo crederebbe che è stato l'orzo a fare il cavallo.".
(58) Cfr.
Virgilio nella nota al corrispondente passo del testo latino.
Scrive il Gianoli citando Senofonte: "Raccomanda di accarezzarlo sovente, di parlargli, di affidarlo ad un palafreniere calmo e prudente che lo abitui a passeggiare tra la folla, a prendere contatto e confidenza con tutte le cose della nostra vita, rumori, luci.
Qualora il cavallo ne avesse paura, "bisogna dimostrargli che non c'è nulla di terribile in quell'oggetto, in quel rumore"" (op.
cit., 28a).
(59) "Dapprima il morso fu semplicemente una corda...", dicono L.
GIANOLI e U.
BERTI a pag.
5.
Dal LUGLI, op.
cit., pag.
45, apprendiamo che "Il primo morso è di lana grezza: il puledro ne gusta il sapore e si abitua a tenerlo in bocca".
(60) Cfr.
la nota num.
1 [58].
(61) La variante "hiantibus" (di cui alla nota num.
1 del testo latino [(342)], a pag.
128) sarebbe in sé convincente ove si considerasse la forma dei morsi antichi, che era tale da impedire al cavallo di stare con la bocca chiusa.
Tuttavia, in questo luogo particolare - pur tenendo conto della complessiva oscurità del passo - la variante "tumescentibus" appare più coerente con l'espressione "naribus quasi sursum fractis" che segue; tanto più che il senso del passo non muta: "Tale morso doveva essere un vero strumento di tortura", esso "costringeva il cavallo...
a tenere la bocca semiaperta, come del resto appare dalle raffigurazioni plastiche." (L.
GIANOLI, op.
cit., pag.
49b).
Della maggiore o minore "severità" dei morsi in rapporto alla loro struttura e considerati fin dai tempi più antichi della adozione di essi, ci parla anche A.
AZZAROLI nella sua op.
cit., alle pagg.
103-106.
(62) Cfr.
la nota num.
2, a pag.
123 [nota55].
(63) Oltre a quanto già precisato nella nota num.
2, a pag.
123 [nota (55)], va aggiunto che la parte esterna dei cuscinetti - che oggigiorno è di cuoio - era nei tempi antichi di stoffa e perciò soggetta ad aggrinzirsi.
Ciò - come suol dirsi - fiaccava il cavallo, ossia lo rendeva piagato.
Di qui la necessità di stendere bene la stoffa di ciascun cuscinetto prima di applicarlo alla groppa dell'animale.
(64) Secondo l'uso arabo, il primo a salire in groppa al puledro era un ragazzetto (cfr.
N.
LUGLI, op.
cit., pag.
45), e ciò suona ad ulteriore conferma (oltre quanto già osservato sul piano testuale nella nota num.
13 [(354)] del testo latino, a pag.
128) della interpretazione data di tutto il brano, in relazione alla quale risultano anche meglio comprensibili tutti i participi che vi si susseguono.
(65) Qui la trattazione prosegue come se non vi fosse alcuna soluzione di continuità rispetto alla fine del paragrafo precedente.
Cfr.
a tal proposito quanto detto nei Criteri tecnici dell'edizione.
(66) Si noti come qui l'autore sembra quasi attribuire ad una ipotetica "volontà" del cavallo la possibilità di collaborare per la realizzazione delle finalità indicate.
Peraltro, l'affermazione, che può apparire strana di primo acchito (specie ove si accenna alla "dignità" e alla "gloria della patria" come ad una "preoccupazione" che verrebbe fatto di ritenere "personale" del cavallo) si spiega più facilmente considerando la strumentalizzazione di importanza quasi essenziale - specie ai fini bellici - di cui questo animale era oggetto ancora ai tempi dell'Alberti e della quale del resto egli ha già fatto cenno in più punti di questo trattato, per cui l'autore sembra qui volere immedesimare cavallo e cavaliere in un unico blocco, come è tipico anche di molte note figurazioni, da Simone Martini - per esempio - alle arche di Verona, espressioni di quel costume cavalleresco che era ancora vivo o almeno da alcuni artisti (si pensi a Paolo Uccello o, ancora più tardi, e proprio nell'ambiente estense, al Boiardo) nostalgicamente vagheggiato al suo tempo.
(67) Tutti questi canoni di addestramento riportano immancabilmente ai precetti di istruzione arabi che, tutti insieme, costituiscono quel tipico ammaestramento che va sotto il nome di "fantasia araba" (cfr.
N.
LUGLI, op.
cit., pag.
45 e L.
GIANOLI, op.
cit., pag.
61a).
(68) Questa affermazione con tutta probabilità perviene all'Alberti, per tradizione indiretta, dal più importante degli Ippiatrici: Absirto di Clazomene, del quale ho già ricordato a pag.
46 [cfr.
Le fonti] la specifica competenza relativa agli usi ippologici dei Sarmati e dei Goti (cfr.
anche V.
CHIODI, op.
cit., pagg.
120-122).
(69) Corrispettivi delle briglie e degli speroni secondo la albertiana gradualità sùbito di séguito precisata.
(70) Sembrerebbe di poter cogliere qui quasi una anticipazione del metodo educativo delle conseguenze naturali di rousseauiana memoria; se non fosse per l'intervento di quel piccolo inganno di provocare con le redini i dolorosi movimenti del freno, quasi come per instaurare una sorta di automatismo che l'Alberti - umanizzando come al solito il cavallo - interpreta quasi come una "disamina" sui propri errori da parte dell'animale e che noi invece sappiamo essere un riflesso condizionato.
Resta comunque che l'autore appare evidentemente alieno da metodi costrittivi.
Questo sistema indiretto di educazione, dunque, ben si armonizza con quella moderazione onde è caratterizzato il pensiero dell'Alberti in tutte le sue manifestazioni.
(71) Non si comprende bene a quali denti voglia riferirsi l'Alberti; sia perché "cascaliones" non è temine del latino classico, sia perché l'aggettivo "primi" non ha un preciso termine di riferimento (primi rispetto a che cosa?), e non ne è chiaro il senso (di luogo o di tempo?).
Tuttavia, in base alla natura stessa del suggerimento, sembra logico supporre che l'autore volesse riferirsi a quei denti che sono chiamati antimolari.
(72) Anche questo suggerimento può esser fatto risalire in qualche modo a Senofonte, laddove suggerisce di convincere garbatamente il cavallo a guardare da vicino le cose che gli siano riuscite spaventose per la loro forma o per altre cause (luci, rumori), onde si rassicuri da se stesso circa la loro innocuità.
Cfr.
la nota num.
1 a pag.
127 [nota (58)].
(73) Cfr.
le notizie circa l'addestramento secondo Senofonte reperibili in LUGLI (op.
cit., pag.
45) e in GIANOLI (op.
cit., pagg.
28 e 61a).
Anche Virgilio esprime reiteratamente questo concetto: cfr.
la nota al corrispondente passo del testo latino.
(74) Anche qui il già notato senso della moderazione e del convincimento, e una certa fede nella esperienza, che comporta da parte dell'istruttore la predominanza della paziente applicazione di un metodo sull'immediatezza degli impulsi.
E il metodo consiste soprattutto nel seguire quanto è possibile la naturale evoluzione del soggetto.
(75) Questa descrizione sintomatologica ci avverte di come al riguardo siamo ancora nell'"autunno del Medioevo".
Mi pare superfluo porre in rilievo singoli dettagli quali la questione del sudore e le strane idee sull'assimilazione sanguigna.
Conviene piuttosto notare come qui sia quasi impossibile intuire nell'Alberti l'uomo dei tempi nuovi; ed è l'unico punto ove debbo dissentire dalle osservazioni del Petrini, il quale accenna al problematico rapporto dell'Alberti col Medioevo negandone addirittura, in opposizione a P.
H.
MICHEL - Un idéal humain au XVe siècle: La pensée de L.
B.
Alberti (1404-1472), "Les Belles Lettres", Paris 1930, pag.
609 -, l'esistenza.
Invero le osservazioni del Petrini non sono ingiuste relativamente ai materiali che egli esamina.
Anche queste mie, però, mi paiono inoppugnabili sulla base del testo qui in discussione.
Probabilmente entrambe le critiche sono corrette in relazione alle rispettive "letture"; e la spiegazione della discrepanza sarebbe allora, ancora una volta, in quelle tipiche "oscillazioni" albertiane (cfr., qui le pagg.
38-40 ["Ci si può chiedere...
ippiatri"]) che il Petrini stesso stigmatizza (pag.
674); senza contare il fatto al quale ho qui più volte accennato (e che anche lo Schmitt non ha mancato di porre in rilievo, nel suo incisivo intervento premesso a questo lavoro, alle pagg.
VII-VIII [cfr.
Foreword]) che la conoscenza del testo del "De equo animante" nella sua interezza appare tuttora ristretta a pochissimi studiosi.
Perché di certo nella fattispecie appare evidente l'assenza in lui di qualsiasi curiosità di verifica di ciò che va affermando sulla scorta della più comune precettistica popolare e medioevale, con tutta probabilità senza aver presenti nemmeno i documenti della migliore classicità, ove la sintomatologia di molte malattie era già descritta in termini tutt'altro che immaginari e prescindendo da qualsiasi indulgenza a spiegazioni di tipo magico o superstizioso.
(76) In tale esposizione ha però dimenticato di trattare di due delle cause precedentemente enunciate: la sazietà e l'eccesso di cure.
Ma ritornerà su tali argomenti più avanti.
Del resto, in più punti del trattato è possibile riscontrare lacune o inesattezze di tal genere nella simmetria di termini di riferimento connessi per correlazione o contrapposizione.
(77) Anche a proposito dei "tronchi orridi" da mostrare al cavallo allievo (cfr.
il testo latino a pag.
136 ["Sunt qui iubeant..."], e la nota num.
1 riferentesi al correlativo testo italiano a pag.
139 [nota (72)]), l'Alberti ha usato la perifrasi "forme di cose" per "cose".
Questo modo di riferirsi alla forma anziché alla cosa stessa può avere qualche significato interessante in senso filosofico, sia come residuo di terminologia scolastica, sia in quanto sintomo di un'attitudine figurativa a vedere tutte le cose sotto la specie della loro "configurabilità", o, come diremmo oggi, quali elementi linguistici della percezione visiva più che quali concrete e tangibili "presenze".
Il suo costante riferimento alla natura avviene, come si ricava dal trattato "Della pittura", per il tramite fisso di due media: la mente, che ne scopre le ragioni; l'occhio, che ne coglie le forme in termini di geometria e di "lumi" (...ancora l'"occhio albertiano" - cfr.
l'introduzione a pag.
38 ["Quello poi che nelle sue opere..."] -).
Sono certo due ipotesi e due portati di cultura (scolasticismo e struttura geometrica della visione) molto differenti.
Si ricordi però - l'ho già accennato - il gusto albertiano delle contrapposizioni, la sua mirabile attitudine ad assimilare e far convivere in una armonia tutta sua personale fattori contrastanti.
(78) Anche nella genericità un po' fumosa di questo termine si avverte un residuo di cultura medioevale.
Cfr.
l'introduzione a pag.
39 ["...
questa diffidenza nei riguardi..."].
(79) Come in altri luoghi del trattatello qui l'Alberti sembra fare un paragone improprio assimilando fra loro termini di natura diversa (quelli cioè che si riferiscono all'età con quelli che si riferiscono alla robustezza dei soggetti da addestrare).
Le alternative di interpretazione erano: o di considerare i quattro termini come due endiadi ("i puledri che sono deboli" e "gli adolescenti che sono forti") oppure - come ho preferito - di contrapporre i puledri agli adolescenti ed i soggetti deboli a quelli forti.
(80) Qui è veramente sincero e si mostra quasi poeticamente ispirato nell'ammirazione per questo generoso animale divenuto prodotto dell'immaginazione più che oggetto di una razionale trattazione.
Nel diffuso grigiore di tutta la pagina questa improvvisa illuminazione della fantasia è come l'entrata vibrante in crescendo del violino solista entro il contesto del tessuto orchestrale di un concerto.
Ed è significativo che proprio in un passo così caratterizzato egli ricorra all'attributo "animans": cfr.
l'introduzione a pag.
28 ["Per la resa italiana del titolo..."].
(81) "I raggi della luna"...
È chiaro che se c'era un campo nel quale più facilmente - e direi fatalmente - l'Alberti non poteva che mostrare il fianco, questo doveva essere per forza di cose quello scientifico, e della scienza medica in particolare.
Del resto, come è noto, la magia, naturale e soprannaturale, secondo la comune distinzione, era coltivata al tempo del trattato e, dopo, ancora per molto.
(82) Si avverte la mancanza di uno sviluppo rigoroso del pensiero e di una stringata progressione degli argomenti.
Sostanzialmente l'autore ripete cose già dette.
(83) Pare un chiaro riferimento alla tecnica militare di origine orientale tardo-antica della finta fuga.
Essa viene attribuita ai Dalmati, ai Parti, agli Unni, ai Sarmati, agli Avari, ecc.
Il GIANOLI (op.
cit., pagg.
40, 54a, 62a, 78b) torna varie volte su questo argomento, raccontando anche qualche avvincente episodio di battaglie nelle quali - grazie a questa tattica - agili torme di cavalieri armati alla leggera, dandosi alla fuga e costringendo così reparti regolari pesantemente bardati e corazzati - schierati in acie - ad inseguimenti fiaccanti, quando avvertivano la stanchezza dell'avversario, con subitanei dietro front piombavano addosso al nemico, avendone ragione.
Ma questa tattica pare avesse in realtà origini di gran lunga più antiche: Erodoto narra degli inani sforzi dell'esercito persiano di Dario I durante l'inutile campagna tentata contro gli inafferrabili Sciti nel 514 a.C.
(cfr.
A.
AZZAROLI, op.
cit., pagg.
56-57).
(84) Uno dei tipici movimenti della già citata (cfr.
la nota num.
3 di pag.
133 [nota (67)]) fantasia araba è appunto quello di "gettarsi in avanti con gli anteriori sollevati contro" il "nemico e morderlo" (cfr.
N.
LUGLI, op.
cit., pag.
45).
(85) Tale precetto è già indicato da Absirto, come si rileva da una lettera indirizzata da questi al mulomedico Lao Demetrio, riportata nel libro degli "Ippiatrica".
Questo, è una raccolta di vari ippiatri greci soprattutto del IV secolo d.
C.
(dei quali i più noti sono: Eumelo, - che altri chiamano Eumene -, Absirto, Pelagonio, Chirone e Ierocle), compilata - in due libri e centoventinove capitoli - probabilmente nel X secolo, sotto Costantino Porfirogenito, imperatore d'Oriente più dedito - come è noto - ai fatti della cultura (anche come organizzatore di enciclopedie) che alle cure dello Stato.
A proposito del salasso Absirto scrive nella citata lettera: "...ciascun cavallo che castrato sia non ha bisogno di salasso perché interviene che diventino più deboli alle fatiche e che dove punti saranno si apostemiscano..." (riportato da V.
CHIODI, op.
cit., pag.
122).
Le questioni concernenti il salasso sono state trattate anche da Vegezio nel capitolo XXI del libro I del trattato che va sotto il suo nome.
(86) Questo discorso, oltre ad essere assurdo nella sostanza, è anche incoerente nell'esposizione: ben noto è il sofisma "barocco" secondo il quale la carne salata disseta (cfr.
B.
CROCE, Storia dell'età barocca in Italia, 1944; ed.
usata: Laterza, Bari 1957, pagg.
21-24); ma qui non siamo nemmeno al livello di un falso sillogismo, appunto - ma ben congegnato come quello famoso -, poiché mancano sufficienti nessi fra le varie proposizioni: prescindendo infatti dalle considerazioni che non solo nel mare esistono creature immani e che non tutte le creature del mare sono immani, va notato che mentre nella prima parte del discorso l'autore sembra attribuire al bere la virtù di ingigantire le membra e al sale soltanto la funzione di stimolare la sete, nella seconda la causa specifica di tale gigantismo sembra esser riconosciuta - invece - proprio nel sale in se stesso: come potrebbe, infatti, l'acqua salata dissetare ad un tempo e provocare la sete?
Si può peraltro forse supporre che l'Alberti abbia volutamente finto di non accorgersi dell'assurdità di credenze di tal fatta, per il gusto di indulgere ad una certa favolosità, come il grande compositore di musica indulge a volte, ma da par suo, alle più ingenue frasi o a scontate cadenze di ritmi popolari, per attribuire un più fascinoso potere evocativo ad un tessuto sinfonico; visto anche che, come si ricorderà, qui l'Alberti si rivolgeva ad un "principe eruditissimo", al quale sembra quasi ammiccare con aria compiaciuta ed un certo gusto del paradossale e dell'ironia, dalla quale non era affatto alieno (cfr.
in proposito le osservazioni di R.
CONTARINO nel suo saggio introduttivo agli Apologhi ed elogi, ed.
cit., pagg.
26 e segg.).
(87) Cfr.
la nota num.
1 a pag.
125 [nota (57)].
(88) Per quanto secondo il LUGLI (op.
cit., pag.
28) già gli Sciti praticavano "una rudimentale ferratura" a protezione degli zoccoli, secondo il CHIODI (op.
cit., pagg.
180-184) i Greci e i Romani ignoravano la ferratura del cavallo, e nessun ippiatra dell'antichità e del Medioevo - fino al Ruffo - accenna alla ferratura e alle malattie che da essa possono derivare.
Ma, secondo l'Azzaroli (op.
cit., pag.
98) l'introduzione nell'uso dell'ipposandalo "di ferro e cuoio, primo tentativo di porre rimedio ai danni che le strade sassose e fangose arrecavano alle unghie dei cavalli", era stata una delle poche innovazioni (insieme allo sviluppo della selezione delle razze in relazione ad i vari usi ai quali gli animali erano destinati) introdotte dai Romani i quali, per il resto, a quanto pare, non furono un popolo di grandi cultori delle tecniche equestri, alle quali non diedero per proprio conto grandi contributi, anche se, come al solito, assimilarono e valorizzarono le cognizioni dei popoli ad essi soggetti, utilizzandone anche le truppe a cavallo.
Accenni più o meno vaghi a "calzature" per cavalli si trovano in: Omero ("cavalli dal piede di rame"); Virgilio ("sonipes" ["sopines", ma per accertabile accidente tipografico, nel Chiodi il quale peraltro non ne precisa il "luogo"]); Orazio ("sonans ungula"); Catullo ("ferream soleam"); Svetonio ("soleis mularum argenteis" e "ad calceandas mulas"); Plinio ("dedicatioribus iumentis suis soleas ex auro inducere"); di tali espressioni il CHIODI, che le riporta nell'op.
cit.
a pag.
182, non indica la collocazione precisa.
Io ho potuto riscontrare gli esempi di VIRGILIO e di SVETONIO rispettivamente nell'Eneide, IV 135 ("...stat sonipes ac frena ferox spumantia mandit.") e nelle Vite de' dodici Cesari (Nero Claudius, XXX e T.
Flavius Vespasianus, XXIII).
Resta ancora da notare che fra le espressioni citate, quelle di Virgilio e di Orazio potrebbero essere immagini poetiche riferite semplicemente alle unghie stesse dei cavalli, in qualche caso addirittura con valore metonimico.
Senofonte e Aristotele parlano di ippopodi attribuendo alla parola il significato di "calzature di cuoio"; Columella dice che questi erano formati con vimini di ginestra; Absirto, Vegezio ed altri scrivono delle lesioni che tali calzature potevano causare.
Quanto alle ferrature con chiodi, solo dopo il Mille dovette diffondersene l'uso.
Del resto, prima che in Giordano Ruffo non se ne trova menzione.
(89) È evidente qui il riferimento alla dottrina di origine aristotelica secondo la quale i vari elementi della natura concorrono alla perfetta attuazione di un armonico insieme (stavo per dire programma, prendendo la parola in prestito dalla teoria genetica e cromosomica) tendendo ciascuno per un suo proprio "istinto" - nel senso del movimento locale - a collocarsi entro il suo luogo naturale, e - nel senso del movimento qualitativo - a realizzarsi secondo quell'ordine interno delle parti che - per virtù della entelechia - si compie come perfezione di ogni singolo organismo.
Questo concetto finalistico della perfezione naturale, che fu accolto ed elaborato dagli scolastici tanto da diventare comune a tutta la cultura del basso Medioevo fino - anche - a costituire un motivo di ispirazione poetica (di Dante, per esempio, in vari luoghi del Paradiso), lo si ritrova pure presso alcuni scrittori dell'Umanesimo.
Anche a proposito di questo passo, quindi (come già, nella più ampia prospettiva del pensiero albertiano nelle sue svariate manifestazioni, è stato notato dagli storici), non è facile determinare con assoluta precisione quale sia la posizione filosofica dell'Alberti, il quale sembra oscillare (e in questo trattatello lo si è più volte avvertito: cfr.
anche l'insieme delle osservazioni fatte nella nota num.
2, pag.
145 [nota (77)]) fra tesi mutuate dalla tradizione più spiccatamente aristotelica e canonica medioevale, e tesi già partecipi dei moderni dibattiti che animavano il pensiero del suo tempo.
Nella fattispecie, comunque, dalla esaltazione dell'armonia costitutiva e dell'autonoma funzionalità delle cose naturali, scaturisce la condanna, sia di ogni intervento inopportuno ("imperizia"), sia di ogni forma di disubbidienza ai ritmi propri dei processi naturali ("negligenza", "pigrizia").
Sarebbe cioè turpe sviare con interventi arbitrari od errati il corso spontaneo di tali processi.
(90) Suggestiva osservazione nella quale l'Alberti sembra quasi preconizzare la rovina dei nostri monumenti in conseguenza dell'incuria e dell'inquinamento.
(91) Indubbiamente questo paragone a prima lettura ripugna alla nostra sensibilità; poiché, se l'autore paragona il cavallo all'uomo schiavo, è facile dedurre che nell'espressione sia implicito anche il paragone inverso.
Ne deriverebbe comunque che il cavallo e lo schiavo insieme sarebbero l'anello di congiunzione fra la bestia e l'uomo.
E potremmo dire con Peter Singer che ciò sia possibile perché entrambi (come tutti gli irresponsabili, e quindi - per esempio - anche i neonati) non hanno, agli occhi dei "raziocinanti", senso di giustizia, poteri propri e autonomia di giudizio.
Tuttavia per il mite Alberti essi vanno trattati (come si dirà in epoche posteriori) umanitaristicamente, con quella moderazione e quella pietas che debbono sempre ispirare il buon padre di famiglia.
Ma forse, a ben riflettere, la nostra prima impressione va corretta dalla considerazione - anche sulla scorta di altri frequenti luoghi del libro - che si possa trattare di un'accentuata umanizzazione del cavallo.
L'autore in sostanza vorrebbe dire che giustamente gli antichi affermavano che il cavallo dovesse esser considerato quasi come un uomo - anche se, appunto, come un uomo non libero perché soggetto al governo altrui - al quale invero, se è lecito chiedere quei servigi che non si addicono all'uomo libero, non è lecito imporre comandi che eccedano dai limiti del giusto.
Concorrono del resto in questo senso gli elementi del suo pensiero espressi nei trattati in qualche modo attinenti a tale problematica: il "Teogenio", il trattato "Della famiglia", quello "Della tranquillità dell'animo" e soprattutto - per questo luogo - il "De iciarchia".
Ma per tornare sul terreno più concreto dell'ippologia, anche nei moderni criteri d'allevamento è affermato il principio che l'uomo, nel servirsi del cavallo, debba assecondarne gli istinti; perché il cavallo trae in gran parte la sua perizia e il suo ardimento dalla sicurezza del cavaliere, ma tuttavia conserva inalterato il senso del proprio orgoglio e della propria indipendenza, e quindi alla sua fiducia deve corrispondere la giustezza del comando, senza la quale si determinerebbe in esso un atteggiamento riottoso (cfr.
H.
H.
ISENBART, op.
cit., pagg.
8-9).
(92) Il discorso continua sullo stesso binario.
Il cavallo è ancora umanizzato, quasi come facente parte della famiglia, e all'allevatore sono richieste le stesse qualità del pater familias.
L'autore si mostra coerente nell'affermare sempre i medesimi principi fondamentali.
Questi erano stati da lui diffusamente esposti nel trattato "Della famiglia" - ove, per esempio, si sofferma circa l'opportunità di esercitare piacevolmente il corpo e di proteggerlo, e condanna "la libidine del tiranneggiare" che snatura la disciplina - e sarebbero stati ripresi anche molto più tardi nel "De iciarchia", ove si pone l'accento sul fatto che l'educatore deve saper moderare i propri impulsi.
Tutto sommato, il principio essenziale - valido anche oggi - è che il rapporto uomo-cavallo debba esser fondato sulla reciproca "tolleranza".
(93) Nell'introduzione ho trattato (cfr.
pagg.
45-55 [Le fonti]) di tutti i nomi che compaiono qui e che l'autore aveva già citato (all'infuori di uno) nel proemio.
Il nome taciuto nella prima occasione è quello che in questo luogo il Covato, lo Stella e il Mancini riportano con una sola effe (cioè Rufo), e che il manoscritto di Oxford, invece, presenta con due effe (cioè Ruffo), derivandone perciò, in questo caso specifico, una questione che rimane aperta, e sulla quale non si può fare altro che formulare delle ipotesi, come s'è visto più diffusamente a suo luogo (cfr.
pagg.
53-55 ["Cominciamo col precisare..."]).
(94) Già nel proemio l'Alberti ha scritto di aver "riportato" nel suo "libretto tutto quanto vi fosse di elegante e di degno" negli autori consultati.
Ora pone nuovamente l'accento sull'eleganza come su uno dei fattori determinanti - insieme alla dottrina - del fatto che gli autori citati gli sembrino esaurienti rispetto agli argomenti del suo studio.
Un interesse di questo tipo nei confronti di cognizioni scientifiche potrebbe assumere per la nostra sensibilità quasi una coloritura di esteriore accademismo a discapito della severità ed autenticità del rigore scientifico.
Si consideri peraltro che ciò è conforme al comune sentire dell'età umanistica, secondo il quale la dottrina doveva andare sempre congiunta all'eleganza formale che della dottrina stessa era anzi ritenuta naturale espressione.
E del resto è ben noto come in questo primo insorgere dello spirito italiano, e presso l'Alberti stesso (il quale ne costituì anzi una delle sorgenti), e per molto tempo ancora, anche l'arte come la scienza (anzi come primo fondamento di questa) fu ritenuta uno strumento conoscitivo al servizio dell'uomo.
Tanto che nell'avanzare del secolo, e proprio in quel filone ideale e teoretico che da lui si sviluppa - ma del quale per obiettivi fattori di cronologia non può esser direttamente partecipe - attraverso il Filarete, Bernardo Rossellino, Piero della Francesca, e giù di lì per i complessi itinerari del neoplatonismo figurativo (anche con le suggestioni allegoriche di matrice letteraria e filosofica così splendidamente "informate" - per esempio - in qualche capolavoro del Botticelli) quell'iniziale riferimento alla natura, per via di esigenze sempre più capziose e sottili, finiva per travalicare la natura stessa nella sua immediata percettibilità, fino a intravedere nella perfezione dello stile la rivelazione di certi aspetti riposti della realtà naturale resi sensibili dall'artista, appunto, mediante un'operazione di tipo "divino".
D'altra parte questo tipo di cultura è fondato su concezioni unitarie ed universali ben lontane dalle discriminazioni categoriali onde è articolata la cultura di oggi.
(95) L'Alberti quindi intende affermare che nulla di valido e di nuovo può aggiungere a quanto era stato già scritto dagli antichi e di non poterne ripetere i concetti senza scadere in un inutile plagio.
V'è dunque un incondizionato ossequio nei riguardi della scienza antica; ma indubbiamente quest'osservanza, in tal caso, era giustificata anche dall'onesto convincimento del fatto che nulla di nuovo era stato aggiunto alle nozioni di essa.
(96) Sarà facile notare (a conferma di quanto esposto nella nota precedente) come nella successiva parte ciò che è chiaro è scontato, e ciò che non è scontato è oscuro; avverandosi perfettamente e paradossalmente proprio ciò che l'autore stesso aveva affermato di temere.
In effetti la trattazione si poteva ritenere, come avvertito dall'Alberti stesso, conclusa con questa parte, alla fine del periodo precedente.
Stranamente invece il discorso ricomincia (e già il titolo contraddice in maniera palese la dichiarazione di inopportunità appena fatta), ma poi, come vedremo, non acquista uno sviluppo logico e sembra quasi concludersi di colpo.
Cfr.
la nota num.
8 dell'ultima parte del testo latino, alla pag.
180 [nota 682].
(97) A conclusione del trattato ritorna l'attributo animante - che, dopo il titolo, non era quasi più apparso (cfr.
pag.
28 ["Per la resa italiana del titolo..."]) -, come per una conclusiva conferma di quelle implicazioni che ho già diffusamente messe in luce, a giustificazione del titolo italiano, nell'introduzione, alle pagg.
28-45 [cfr.
Il titolo e i contenuti].
(98) Qui l'autore, con quella prolissità che gli abbiamo più volte riscontrata, ripete in tre consecutive proposizioni, in sostanza, il medesimo concetto: non bisogna fermarsi alle manifestazioni morbose in sé considerate, né ai danni che da esse possano derivare, ma porle in relazione con la sintomatologia nota delle varie malattie, onde poter non solo mitigarne gli effetti, ma rimuoverne le cause.
Saggio suggerimento che, se da una parte costituisce una riprova della razionalità e della tendenza ad una serena considerazione degli eventi che sono proprie dell'Alberti, d'altro canto non è del tutto originale perché lo si ritrova - come tanti altri da lui fatti propri - nella precettistica degli ippiatri greci e italiani; nella fattispecie, di Ierocle (che è, come s'è detto a suo luogo, uno degli autori raccolti negli "Ippiatrica") e di Giordano Ruffo.
(99) Si noti la innegabile quanto compiaciuta oziosità di una simile elencazione nel medesimo tempo tanto ovvia che era davvero inutile specificarla così pedissequamente, e tanto velleitaria che risulterebbe un "troppo pretendere" anche per un clinico dei nostri giorni.
(100) In più punti del trattatello si avverte una più o meno dichiarata avversione nei riguardi delle medicine.
Queste, evidentemente, nella loro artificialità gli debbono apparire come una alterazione dei fatti naturali dei quali egli in tante manifestazioni del suo pensiero consiglia una fatalistica accettazione.
Rimane da notare l'apparente contraddizione fra l'esortazione a non dar medicine e quella a somministrare "tutte quelle cose che servano ad aiutare la natura".
Ma forse egli per "quelle cose" intende semplicemente cibi e bevande preparati con particolari accorgimenti dietetici.
(101) Qui veramente l'Alberti si dimostra uomo collocato nel momento di frizione tra due atteggiamenti mentali e nel passo convergono svariati spunti di pensiero ambiguamente connessi e non decantati in una precisa definizione, della quale, peraltro, egli - che forse rifuggiva per natura da ogni sistematica costruzione (e non solo in senso metaforico) - neppure avrà avvertito il bisogno.
Questo suo composito insieme di diffidenza, di "buonsenso", di amore per il "quieto vivere" e di entusiasmi studiosi, può essere problematicamente inteso, tanto come un atteggiamento antichizzante (se lo si interpreta quale una specie di timor panico nei confronti di quegli "strani individui" di cui si è detto a pag.
39 ["...
i suoi cultori amarono..."]), tanto come un atteggiamento mentale progredito (che esige più razionali impostazioni della ricerca e della sperimentazione).
E così anche la fiducia che egli mostra di nutrire nella dinamica autonoma dei processi schiettamente naturali, lo pone in un contesto ove altrettanto problematicamente possono essere avvertiti addentellati sia con particolari correnti di pensiero medioevale (con quelle stesse venature orientalizzanti di una mistica della natura che anche oggigiorno, dopo tanto scientifismo, rappresentano per molti l'ultima spiaggia aperta alle nevrosi e alle disperazioni del nostro tempo) ancora operanti - econdo i quali "la natura è dotata di una vita che non è dissimile da quella umana" (A.
PAZZINI, op.
cit., vol.
I, pag.
603) -, sia anche con le più serene (per il momento) ed empiriche convinzioni dell'insorgente naturalismo rinascimentale, il quale di lì a qualche decennio sarebbe arrivato a farsi perfino la convinzione che anche la natura "fa i suoi sbagli".
(102) Più che pensare qui ad una vera e propria presa di posizione conformista e ad un reazionario rigetto di ogni novità, sembra di cogliere una sfumatura di ironia, quasi uno scettico sorriso per l'affaccendarsi degli sperimentatori a oltranza, i quali anche allora, come in ogni temperie storica di profondi mutamenti e di "insorgenti mode", non dovevano mancare; e "naturalmente" dovevano anche essere delle due solite specie di sempre: la specie di quelli che si sforzano di apparire "nuovi" tanto più radicalmente quanto meno lo sono in concreto (che poi è sempre la specie più comune, e la peggiore); e quelli che sinceramente infervorati di curiosità per il nuovo, vi si dedicano con una tal quale ingenuità (e talvolta finanche goffaggine) che ne rivela, non solo la sostanziale onestà e buona fede, ma anche più legami e nostalgie per le antiche tradizioni di quanti essi stessi non riconoscano (fenomeno comune e riscontrabile anche nei modi espressivi tipici di alcuni validi ma problematici e "difficili" artisti figurativi del primo Umanesimo).
Di tali ansie più o meno sincere, ma che in ogni caso determinano atteggiamenti non equilibrati sul piano della vita pratica, un uomo come l'Alberti, geloso della propria quiete interiore, attento ai vantaggi concreti dell'operare, e per di più animato da un certo aristocratico distacco, non poteva non avvertire il fastidio e non esprimerlo appunto quasi con un sorriso di compatimento, molto simile invero a quello messo dal caustico Vasari sulle labbra di Donatello, nei riguardi di Paolo Uccello, nel noto episodio della "Vita" di quest'ultimo, che ho già ricordato.
(103) L'Alberti, dopo aver consigliato di non affrettarsi a dare medicine, di non forzare la natura, di non lasciarsi prendere dalla smania di sperimentazione, conclude coerentemente il discorso affermando, finalmente in termini espliciti, di rifarsi con fiducia ai mezzi legittimati dall'esperienza.
Ora, per quanto questo possa apparire un consiglio ovvio dettato dal buonsenso in relazione soprattutto alla preoccupazione pura e semplice di salvaguardare il cavallo, esso, proprio perché ispirato dalle elementari esigenze della praticità "quotidiana", ci rivela immediatamente quale sia in concreto l'atteggiamento più autentico dell'uomo e, come tale, si presta a qualche conclusiva considerazione relativa a tutto questo contesto (e riallacciabile a quelle espresse nelle precedenti note) più di quanto a prima vista non comporterebbe l'esilità del singolo argomento (cfr.
le pagg.
38-42 [cfr.
Il titolo e i contenuti]).
(104) Cfr.
quanto ho messo in rilievo nella corrispondente nota, num.
8, a pag.
180 [nota 682 testo latino] il sospetto cioè che il trattato ci sia pervenuto incompleto.
In tal caso potrebbero essere le eventuali lacune o i mancati sviluppi dell'esposizione a compromettere l'esatta interpretazione del pensiero dell'autore.
Sta di fatto che gli estensori delle tre trascrizioni più antiche appaiono concordi nel sigillare a questo punto esplicitamente il termine dell'esposizione: quello del codice ora in Oxford, e così l'editore Stella, con un semplice "FINE"; quello del codice vaticano apponendo in calce alla stesura la nota che si può tradurre così: "Batt.
Alberti ha svolto la sua breve trattazione riguardante la vita del cavallo.
La quale Giovanni Odone Covato ha trascritto rapidamente il 7 marzo del 1468".
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