IL CAVALLO VIVO, di Leon Battista Alberti - pagina 5
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vita del cavallo"]).
(7) Questo plurale può apparire assai strano; pure, tutte le antiche stesure concordano su di esso.
Ciò costituisce quindi un problema interpretativo più complesso di quanto non l'abbiano evidentemente giudicato autori quali Adolfo Venturi e Corrado Ricci, i quali tradussero semplicemente la parola al singolare come se la cosa fosse indifferente (lo si riscontra nelle brevi citazioni operate rispettivamente nella Storia dell'arte italiana, vol.
VIII, parte I, L'Architettura del Quattrocento, Hoepli, Milano 1923, pag.
161; e in Leon Battista Alberti architetto, Celanza, Torino 1917, pag.
29).
La concordanza dei manoscritti e delle edizioni sulla lezione qui data però esclude la possibilità di ignorare la cosa sic et simpliciter.
E dunque se il testo albertiano reca "statuas", ciò non sarà stato per caso e bisogna necessariamente chiedersi cosa volesse intendere l'autore.
In effetti sappiamo che le statue estensi erette nella piazza di Ferrara erano e sono due: quella equestre dedicata a Niccolò III e quella raffigurante il di lui figlio, Borso, assiso.
Una ipotesi possibile è che in un primo momento (al tempo in cui l'Alberti dedicava il trattato a Leonello) fosse stato progettato di dedicare entrambe le statue a Niccolò III, magari raffigurando nella seconda qualcosa di simbolico (ma a tale riguardo nulla risulta dai documenti, anzi il Borsetti - FERRANTIS BORSETTI, Historia almi Ferrariae Gymnasii in duas partes divisa, pars prima, Pomatelli, Ferrariae 1735, pag.
40 - scrive precisamente: "Aenea Equestris Statua"), e che tale progetto sia stato in seguito modificato dallo stesso Borso dopo la sua ascesa al trono di famiglia (I ottobre 1450), o magari in occasione della investitura ducale ottenuta dall'imperatore Federico III d'Absburgo nell'anno 1452.
(8) Come abbiamo visto nella corrispondente nota del testo latino, il MORELLI (op.
cit., vol.
cit., pagg.
255-256) scrive a proposito del codice Canoniciano (traduco): "Veramente già diciannove anni fa, prendendo visione dei codici manoscritti di proprietà del veneziano Matteo Luigi Canonici, un tempo nella Compagnia di Gesù, il quale aveva raccolto nella sua patria una ricchissima collezione di siffatti documenti, mi imbattei in un esemplare particolarmente prezioso, nonostante la scarsa accuratezza con la quale era stato eseguito, redatto a Bologna nel 1487, il quale conteneva varie opere di Leon Battista Alberti.
Lo esaminai accuratamente e annotai, come solevo fare, le cose più notevoli.
E davvero bene feci perché l'anno scorso anche questo codice, col più e col meglio di quella collezione, andò ad arricchire la biblioteca dell'Università di Oxford." Più avanti (pag.
271) parla più in dettaglio dell'opuscolo dedicato al cavallo, dimostrandone un'esatta conoscenza e riportandone il passo che comprende l'inciso "per tuo ordine", ma senza in alcun modo attirare l'attenzione del lettore su queste parole.
Tale constatazione smentisce l'osservazione esplicita fatta dal Mancini a tale riguardo, che ho già riportato nella nota num.
5 di pag.
84 [nota (19) testo latino].
Deve dunque esserci, la controversa precisazione, o no? Io ritengo di sì, ed ho adottato la lezione del manoscritto di Oxford, riportata dal Morelli, rifiutata dal Mancini, per due ordini di motivi (dei quali ho già discusso nell'introduzione, a pag.
68, note num.
1 e 2 [(101) e (102)]): uno di carattere logico, l'altro di carattere cronologico, ma entrambi connessi alle vicende del concorso per il monumento al marchese Niccolò III d'Este, a quelle del concilio presieduto dal papa Eugenio IV, a quelle personali dell'Alberti e della sua amicizia con Leonello d'Este, come abbiamo visto a suo luogo.
(9) Il Mancini - nella sua edizione in latino - annota a questo punto: "Nel mese di novembre del 1444, essendo stata decretata pubblicamente in Ferrara una statua equestre a Niccolò d'Este, vi era una grande contesa fra i reggitori della città circa l'opera da scegliere fra quelle proposte dagli scultori.
Leonello, successore di Niccolò nella signoria, domandò a Battista Alberti quale gli paresse da preporre fra le altre.
Battista, trattenendosi presso Leonello, scrisse del cavallo elegantissimamente.
Egli superava tutti quanti nella perizia e nell'affettuosità con le quali l'animale va governato, addestrato e guidato."
(10) La circostanza che l'autore ha indicata come motivante la sua decisione di occuparsi dell'argomento (ossia la sua attenta considerazione delle sculture presentate al concorso), a differenza del titolo dell'opera, potrebbe veramente indurre il lettore a pensare che l'Alberti intenda trattare, nelle pagine che seguono, almeno in ugual misura sia l'aspetto estetico che quello biologico del cavallo - e forse, anzi, del primo in quanto naturale estrinsecazione del secondo -.
In realtà, come abbiamo già visto in vari luoghi dell'introduzione, cfr.
la n.
num.
1 a pag.
26 [nota (38)], i fatti non corrispondono a questa sia pur legittima aspettativa.
(11) Corrispondenza delle opposizioni fra uso pubblico ed uso privato, e fra guerra e pace, come se gli agi della pace fossero squisitamente privati e i doveri pubblici del cittadino, prevalentemente legati alla violenza della guerra (cfr.
la nota num.
3 a pag.
117 nella prima parte del testo italiano [nota (50)]).
In tal caso sarebbe implicita una orgogliosa affermazione di principio circa la libertà e la privatezza dell'individuo, salvo in casi di forza maggiore (per esempio i suoi doveri nei confronti della patria in pericolo).
(12) Si tratta di pura retorica (nel senso tecnico di tale parola) o di un autentico sentimento di nostalgia per l'antico?
Non sappiamo con quanta vera partecipazione egli si cali in questa finzione umanistica, ma è certo comunque che almeno essa ha documentabili radici nella storia della mitologia: "L'immaginazione dell'uomo ha popolato di cavalli il pantheon dei suoi dei e dei suoi demoni...
Uomini e cavalli si fondevano in esseri soprannaturali, come i centauri...
Gli dei e i geni scelsero i cavalli come troni da dove regnarono sul mondo e sui mortali...
La quadriga di Elio, lo scintillante dio del sole della mitologia greca, è tirata da quattro destrieri che simboleggiano l'orbita solare..." (da H.
H.
ISENBART e E.
M.
BÜHRER, Il regno del cavallo, Mondadori, Milano 1970, pag.
72).
A proposito di una possibile origine del mito dei centauri A.
AZZAROLI (Il cavallo nella storia antica, L.
L.
Edizioni Equestri, Milano 1975, pag.
56) richiama le notizie tramandate da Erodoto riguardanti la cavalleria leggera dei razziatori sciti (i quali trascorrevano il loro tempo quasi permanentemente in groppa ai loro destrieri) e l'impressione che questi dovettero suscitare sui primi Greci che ebbero contatti con essi: di una quasi mostruosa immedesimazione dell'uomo con l'animale.
(13) Pare di cogliere un ricordo classico di trionfatori a cavallo che sovrastano il nemico vinto osservati in qualche figurazione di rilievi onorari o di gruppi alessandrini, ma - pensando ai luoghi nei quali l'Alberti è vissuto - non mi pare di poter cogliere alcun riferimento puntuale.
Questa mistura di epopea eroica antica e di favolosità tardogotica può anche richiamare alla mente la "Battaglia di San Romano" di Paolo Uccello, specie nella tavola degli "Uffizi", ma al tempo di questo trattato essa, con tutta probabilità, non era stata ancora dipinta, almeno a prestar fede alle opinioni della maggior parte di quegli storici dell'arte che si sono cimentati nella datazione delle tre tavole medicee.
Forse si tratta di differenti portati di una comune temperie storica.
Nella quale, del resto, si accamperà il genio di Donatello, quale punto di riferimento di un gusto che si esplicherà per tutto il secolo ed oltre in disparate tonalità di una suggestione di classicità romana che si compiaceva particolarmente di queste compatte commettiture di un "tessuto" di corpi vibranti e contrapposti nella zuffa di uomini e di cavalli, come nel bel bronzetto di Bertoldo di Giovanni al "Bargello" di Firenze.
Ma anche rispetto a tutto questo i vagheggiamenti antiquari dell'Alberti qui si collocano cronologicamente prima: sulla linea di partenza.
(14) È un precetto dell'addestramento arabo: "L'arabo insegna al suo cavallo...
a non sopportare altro peso che quello del padrone." (da L.
GIANOLI, Il cavallo e l'uomo, Longanesi, Milano 1967, pag.
61a); "Rifiutando ogni altro cavaliere, non è facile preda dei ladri." (da N.
LUGLI, Il romanzo del cavallo, Vallecchi, Firenze 1966, pagg.
46-47).
(15) Ritornano qui le osservazioni già fatte nella nota num.
1 di pag.
89 [nota (13)]; ma qui mi pare che l'Alberti stia davvero lavorando di fantasia.
Come che sia, non ho potuto trovare in proposito alcuna testimonianza scritta o figurata.
(16) Questo fatto è veramente narrato da PLUTARCO, nel capitolo 61 della vita di Alessandro Magno (ed.
usata: a cura di F.
BRINDESI, Rizzoli, Milano 1953, pag.
77).
La città in questione si chiamò Alessandria Bucefala e fu fondata dall'imperatore sulla riva destra del fiume Idaspe (oggi Ibelum, nel Panjab) presso l'odierna Dilawar.
Il cavallo era morto, forse di ferite, nell'anno 326 a.
C.
Del resto in tempi anche più antichi era in uso in varie regioni dell'Eurasia la "sepoltura rituale" che consisteva nell'inumazione del cavallo, o di due, talvolta insieme al carro (in epoche e in ambienti in cui il guerriero combatteva ancora dalla biga e non in groppa) in sepolcri poco discosti dalle tombe dei padroni, o talvolta (nel caso contrario, ossia quando già i guerrieri avevano imparato a montare sul cavallo), nei medesimi tumuli, col cavaliere stesso e con le armi di questo.
Ce ne parla, con riferimento a Sciti, Etruschi e Celti A.
AZZAROLI nell'op.
cit., alle pagg.
65-66, 82, 84 e 93.
Da ricordare sono anche "la vittoria di Cimone, nel 536, alla LXI Olimpiade.
Questo nobile ateniese" (che, si badi, è il nonno - detto Coalemo - del famoso figlio di Milziade: si tratta dell'illustre famiglia dei Filaidi) "possedeva quattro prodigiose cavalle, ed era legato ad esse da tale affetto che quando morirono le onorò di sepoltura di fronte al proprio mausoleo e le fece effigiare in bronzo." (da L.
GIANOLI ed U.
BERTI, Quel motore che si chiama cavallo, UNIRE, Milano 1962, pag.
35); e l'episodio di Claudia Erice, moglie dell'auriga Aulo Dionisio, la quale sulla tomba del marito volle incidere i nomi dei suoi cavalli più famosi (GIANOLI, op.
cit., pag.
34b).
(17) Torna un altro motivo espresso nella dedica del "Teogenio", oltre quelli che ho già ricordati nella nota num.
2 di pag.
83 [nota (4)].
In un altro luogo di essa, infatti, l'Alberti aveva scritto: "Poi che io te lo [intendasi il "Teogenio"] mostrai e intesi quanto ei non dispiaceva, parsemi debito mandartelo...".
(18) Già nell'introduzione, alle pagg.
68-73 [cfr.
Il titolo e i contenuti: "Rimane ora...
vita del cavallo"]ho cercato con ogni possibile approfondimento di individuare quali siano potuti essere "questi giorni" abbastanza sballottati in tutta la storiografia precedente.
Anche il tono di questo passo sembra bene accordarsi con le ipotesi ivi formulate.
(19) Ho già fatto cenno, nell'introduzione (passim) al particolare modo di atteggiarsi dell'Alberti nei confronti degli autori antichi del ramo, che è di spregiudicatezza nei riguardi di quelli più vicini al suo tempo e veramente da lui conosciuti, e di ossequio (con la continua preoccupazione di chiamarli a mallevadori e testimoni delle sue affermazioni) verso quelli antichi che spesso - invece -, come dimostrò documentatamente lo Zoubov nel menzionato saggio, conosce solo per la mediazione dei non esaurientemente citati autori medioevali.
(20) Viste le osservazioni contenute nella nota precedente e l'abituale "disinvoltura" dell'Alberti in queste cose, nonché l'assenza, nel testo, di qualsiasi riferimento puntuale, c'è da chiedersi che senso abbia questa affermazione.
(21) In che senso "degno"? Degno di chi e di che cosa? Degno del principe? Questa sarebbe l'interpretazione immediatamente suggerita dal periodo successivo, che conclude il proemio.
E tuttavia lascia alquanto perplessi: in che modo e in che cosa una simile materia, intesa in un senso tanto empirico e tecnico (operativo, diremmo oggi) poteva esser degna di un principe per suo conto anche umanista e poeta (cfr.
G.
PRAMPOLINI, Storia Universale della Letteratura, 7 volumi, vol.
III, UTET, Torino 1949, pag.
612)?
Degno dell'Alberti stesso? Si cade quasi nel medesimo discorso.
Degno degli specialisti? Ma egli stesso esclude - subito dopo - tale destinazione; e, d'altra parte, sembrerebbe davvero eccessivo un siffatto impegno di "scrematura" quando fosse assunto ad utilità di persone impossibilitate ad usufruirne, come è facile immaginare, perché incapaci di leggere il latino (se non di leggere in assoluto - cfr.
a tal proposito quanto ho riportato da Vegezio, a pag.
32 [cfr.
Il titolo e i contenuti: "di aver usato uno stile pedestre..."] -) e ad uso delle quali, comunque, esisteva già un vasto e fondato bagaglio tecnico al quale non si vede cosa avrebbe potuto aggiungere o togliere l'Alberti in un frettoloso e "accademico" excursus.
Rimane ancora la possibilità di intendere genericamente "degno di applicarvi l'ingegno", "interessante".
Ma, francamente, rimane l'impressione di una mera clausola retorica, di un discorso alquanto campato in aria.
Salvo a mettere nel conto quella "sublime inutilità" che in qualche caso improntò le applicazioni dei protagonisti di questa singolarissima temperie storica, assetati solamente di dar libero sfogo a qualsivoglia disincantata e curiosa divagazione della mente su tutte le cose del mondo e dell'uomo nella sua vita terrena, in questa felice, miracolosa quanto breve parentesi di autonomia delle coscienze.
Proprio come per quei complicati e gratuiti "scherzi" di prospettiva che avvincevano fino a togliergli il sonno (e i guadagni) Paolo Uccello e che - secondo l'arguto racconto del Vasari - gli venivano rimproverati da Donatello nella pratica dell'arte, e in casa sua...
dalla moglie.
Sennonché in questa fattispecie, che non è, per esempio, l'intelligente divertimento della "camera ottica" sul quale con tanto entusiasmo si sofferma il MANCINI sulla scorta dell'anonimo biografo magliabechiano (cfr.
Vita ecc., ed.
cit., pagg.
100-102; ed anche J.
SCHLOSSER MAGNINO, La letteratura artistica, I ed.
italiana: 1935; ed.
usata: "La nuova Italia", Firenze 1964, pagg.
114 e 118-119), non si intravedono innovazioni alle quali votarsi con avventuroso slancio: fonti e norme sono quelle di sempre, ed ancora per un buon secolo non si avrà alcun apporto di rilievo.
E dunque una simile divagazione non può che richiamare cognizioni scontate.
(22) Nell'introduzione, alle pagg.
45-55 [cfr.
Le fonti], ho cercato di fornire alcuni chiarimenti di "pronto soccorso "riguardo agli autori qui citati dall'Alberti; e ciò solo per agevolare il lettore e facilitare la godibilità del testo, ma senza alcuna pretesa che esse risultassero esaustive dei molteplici interrogativi e spunti di ricerca che nascono da queste citazioni.
La materia infatti non è di mia competenza ed - oltre tutto - non rientra nei miei precipui interessi.
È evidente che quanti siano meglio attrezzati nell'ambito specifico - e meno, invece, in tutto quanto ha reso possibile la riesumazione di questo testo - potranno giovarsi di questa mia fatica per contribuire dal loro punto di vista alla soluzione della, a volte, tutt'altro che limpida problematica che esso adduce.
(23) Ritorna l'impressione, in rapporto all'effettiva consistenza dello scritto albertiano, di una certa compiaciuta amplificazione: quante cose ha potuto vedere l'Alberti nel fugace periodo della sua seconda permanenza ferrarese? E tutte erano disponibili sul posto?
(24) Intendasi in contrapposizione a "un principe", ossia: "tolto te, vorrei che tutti gli altri...".
Ma potrebbe avere - specie tenendo conto della posizione di queste parole ad apertura di periodo - un altro senso (cfr.
la nota num.
1 a pag.
97 [nota (26)]).
(25) Intende dire che la materia non è stata trattata in modo tale da costituire un prontuario utile alle persone del mestiere (come quelli che furono compilati in luoghi ed in epoche diversi, dall'inizio dell'età bizantina fino al secolo XIII)? O semplicemente intende escludere che il trattatello potrà comunque esser conosciuto da maniscalchi e stallieri per il fatto stesso che è scritto in latino? C'è da chiedersi infatti come mai proprio per un testo simile, proprio l'Alberti - che in quegli stessi anni si batteva per l'elevazione di rango della lingua volgare, come si rivela anche dalla lettera a Leonello dedicatoria del "Teogenio", nella quale scriveva: "...E fummi caro sì 'l far cosa fusse a te grata, sì ed anche avere te, uomo eruditissimo, non inculpatore di quello che molti m'ascrivono a biasimo, e dicono che io offesi la maestà letteraria non scrivendo materia sì eloquente in lingua piuttosto latina.
A questi fia altrove da rispondere..." (cfr.
G.
MANCINI, Vita ecc., ed.
cit., pag.
171) - abbia scelto di esprimersi in latino.
Forse per evitare a priori ogni possibile equivoco circa la sua destinazione? O forse per il suo intimo gusto per le contrapposizioni dialettiche (come dire: materia aulica/lingua volgare; materia empirica/lingua curiale)?
(26) Tutto il corrispondente periodo latino, in apparenza abbastanza piano, è in realtà di problematica interpretazione; e la traduzione di "parcum" con "sintetico", sebbene alquanto libera ed anzi quasi contraddittoria rispetto alla lettera (che dovrebbe essere invece limitato, modesto - o, magari, avaro -), è l'unica con la quale sia possibile dare un senso logico a tutta la frase (cfr.
in proposito quanto già discusso nell'introduzione, alle pagg.
30-34 [cfr.
Il titolo e i contenuti: "In realtà...
la mia traduzione"]).
(27) Tutta questa espressione (la quale letteralmente suonerebbe "in tutte le mie veglie") appare in verità spropositata a fronte dell'effettiva mole del trattato.
Anche questo passo, quindi, come altri luoghi che saranno a suo tempo indicati, sembra avvalorare la mia ipotesi che l'opera ci sia pervenuta incompleta.
Può darsi anche - d'altra parte - che l'Alberti abbia stilato questa lettera dedicatoria prima e non dopo l'effettiva stesura del trattato, e che sul momento pensasse di svolgere un programma di più articolato sviluppo e di dar luogo perciò ad un'opera di maggiore respiro.
(28) Oltre alla descrizione qui di seguito esposta, l'autore tornerà sull'argomento con altre notazioni alle pagg.
105-119 [cfr.
Prima parte: "Affermano che nei cavalli..."].
Tutte insieme esse rivelano che egli non si discosta dalle concezioni tradizionali già canonizzate (dopo Senofonte e Simone d'Atene) dagli Arabi.
(29) Cfr.
Virgilio nella nota al corrispondente passo del testo latino.
(30) Come nella nota num.
20 a pag.
100 [nota (131) testo latino].
(31) Nel linguaggio moderno internodio è termine precipuamente botanico, non zoologico; ed indica la porzione di un ramo che è fra due nodi.
Nella latinità, invece, la parola era usata soprattutto nell'àmbito dell'anatomia umana e animale, indicando "lo spazio fra due giunture" (cfr.
F.
CALONGHI, Dizionario Latino-Italiano, 1950; usata III ed., Rosemberg e Sellier, Torino 1967, ad vocem).
Nella fattispecie potremmo quindi pensare al tratto del braccio del cavallo che sta fra il ginocchio e lo zoccolo, ossia a quello che nell'attuale gergo ippologico viene chiamato stinco.
Ma ho voluto - per ovvi motivi - lasciare intatta la terminologia usata dall'Alberti.
(32) Cfr.
Virgilio nella nota al corrispondente luogo del testo latino.
Questa delle unghie risonanti è proprio una delle raccomandazioni contenute nell'unico capitolo pervenutoci (con in più qualche frammento degli altri) del trattato di Simone d'Atene, contemporaneo e concittadino di Senofonte, canonista della perfezione formale dei cavalli, il quale pare fosse anche uno scultore (cfr.
N.
LUGLI, op.
cit., pag.
51; e V.
CHIODI, Storia della Veterinaria, "Farmitalia", Milano 1957, pag.
73).
(33) Si noti, anche in rapporto a quanto più volte sottolineato nell'àmbito delle note al proemio, la sommarietà ed approssimazione di questi accenni, specialmente ove si consideri la vastità della letteratura riguardante i mantelli dei cavalli e la complessità dei suoi canoni.
Di ciò che possa intendersi con la locuzione "candidum gyris inscriptum", che nel gergo specialistico - più correttamente di "bianco pezzato" o di decorato di cerchi - dovrebbe forse dirsi grigio con specchiettature o pomellato, si può avere, credo, un esempio calzantissimo nel cavallo montato dal santo nel dipinto con "San Giorgio e il drago", in "San Zeno maggiore" a Verona (cfr.
L.
GIANOLI, op.
cit., tav.
n.
77).
(34) Lo scarso rigore logico di questa descrizione della femmina in rapporto a quella del maschio è uno dei tanti elementi che indicano il superficiale impegno specialistico posto dall'Alberti nel trattato.
(35) Per quanto possa sembrare favolosa, questa notizia è esatta.
Scrive infatti il GIANOLI (op.
cit., pag.
385a): "Il cavallo siriaco di razza pura è particolarmente longevo, vive anche fino a quarant'anni; gli stalloni di venticinque ed anche trent'anni sono ancora prolifici.".
(36) "Columellares" debbono essere i denti che oggi si chiamano scaglioni (cfr.
N.
CHECCHIA, Il cavallo, Vallardi, Milano 1947, pag.
54) - cioè gli equivalenti dei canini, prerogativa peraltro dei soli cavalli maschi - come si ricava dall'età indicata (quattro anni).
Il nome - che "a primo impatto" potrebbe ben sembrare derivato da quello di Columella, il quale si interessò in particolare dei problemi della bocca (cfr.
V.
CHIODI, op.
cit., pag.
104) - va, invece, ricondotto fino a columna (= columnelli, columelli, columellaris) con riferimento alla forma alta e cilindrica (qual è quella di una colonna, appunto) dei canini, come apprendiamo dal Du Cange, in Glossarium et infimae latinitatis, ed.
anastatica, Graz 1954 e dal FORCELLINI, Lexicon totius latinitatis ed.
J.
PERIN curante, Patavii MDCCCCLXV, (in entrambi) ad voces.
Utile ed interessante per tutte le questioni tecniche è anche il vecchio prontuario dell'Esercito, destinato al personale delle armi a cavallo (ed.
usata: STATO MAGGIORE REGIO ESERCITO, Nozioni d'Ippologia, Ed.
"Le Forze Armate", Roma 1941), nel quale cfr.
in proposito la pag.
62.
(37) Non so cosa voglia esattamente dire l'Alberti.
Questa che egli chiama "una midolla completamente nera" potrebbe essere quella che nel gergo comune degli ippologi viene chiamata germe di fava.
Il conto dell'età però in tal caso non tornerebbe.
Il germe di fava, infatti, scompare gradatamente a mano a mano che le superfici di contatto degli incisivi, a causa della consunzione, si agguagliano, dando luogo a quella che viene definita tavola dentale, sulla cui faccia superiore si forma, sempre gradatamente, "una superficie gialla detta stella dentaria" (cfr.
L.
GIANOLI, op.
cit., pag.
401a).
Tale trasformazione - nell'àmbito dei periodi nei quali viene suddivisa la trasformazione dei denti equini ai fini della valutazione dell'età del cavallo - avviene nel IV periodo, che va dai 6 ai 9 anni.
L'età di dodici anni, indicata dall'Alberti, invece, verrebbe a cadere entro il V periodo, quando il germe di fava è ormai del tutto scomparso (cfr.
anche N.
CHECCHIA, op.
cit., pagg.
58-64).
(38) Qui davvero sembra che l'autore esageri! Cfr.
la nota num.
3 di pag.
103 [nota (33)].
(39) La gravidanza delle cavalle dura mediamente 11, 12 mesi.
Ciascuna cavalla destinata alla riproduzione non subisce che una sola monta per ogni turno riproduttivo.
Di conseguenza lo stallone che disponesse di una sola femmina non potrebbe godere che di un solo accoppiamento per ogni periodo di un anno almeno.
Dato però che il maschio - al contrario della femmina - non ha un periodo preciso di calore, ed è invece sempre disponibile all'accoppiamento per un arco di tempo che l'Alberti dice di cinque anni, ma che pare sia anche più lungo, evidentemente un solo coito all'anno non potrebbe soddisfarlo.
Ne consegue che ogni maschio riproduttore deve disporre di più femmine.
(40) Naturalmente questo termine non va inteso nel senso di quelle qualità metafisiche o psicologiche le quali sono proprie dell'umanità, ma bensì nel mero senso di ardore, entusiasmo, estro, come diremmo oggi.
In ogni caso, sembra di cogliere tuttavia nell'Alberti una specie di poetica umanizzazione del cavallo.
(41) Il tono qui muta subitaneamente, affermando un concetto utilitaristico nettamente in contrasto con l'umanizzazione quasi lirica del cavallo avvertita nella nota precedente.
(42) Naturalmente l'osservazione acquista un senso solo supponendo che la stanchezza intervenga prima del compimento "dell'operazione".
Inoltre v'è da osservare una possibile intenzionale correlazione fra il "volente", nel caso di disaccordo fra i due soggetti della monta, e il "nolente" nel caso di stanchezza prematura.
(43) Qui sembrerebbe contraddire il concetto dell'accoppiamento unico espresso più su, ma probabilmente bisogna riferire questa affermazione ai soli maschi, risultandone così confermato quanto osservato nella nota num.
2 di pag.
109 [nota (39)]: ossia che i maschi per l'appunto fossero impegnati più volte, con femmine diverse, ma non tutti i giorni.
(44) L'immagine è pleonastica, e pertinente più ad una fantasia poetica dell'Alberti che alla realtà.
Non sappiamo infatti se ai suoi tempi si usasse indurre i soggetti ad un libero approccio, sia pure con la garbata assistenza di...
un moderatore.
Come che sia, oggi certo non è così; perché tutta l'operazione si svolge in maniera predisposta e con la femmina impossibilitata ad avventurose fughe o tergiversamenti in liberi spazi, anche se - malgrado questi accorgimenti - eventuali violente manifestazioni di rifiuto da parte di essa determinano comunque l'impossibilità della monta, come del resto lo stesso Alberti afferma subito di séguito.
(45) Questo accorgimento è veramente raccomandato da Senofonte, nel caso particolare dell'accoppiamento delle giumente con gli asini: egli mitizza e dà un'interpretazione poetica (il taglio della coda e della criniera, togliendo alle femmine la fierezza delle proprie forme, le renderebbe più disponibili a tale "declassamento") di quello che invece è un espediente di natura pratica, e riguarda soprattutto le code, le quali - nel caso di accoppiamento con un asino - costituirebbero un impedimento data la diversa statura dei due animali (cfr.
L.
GIANOLI, op.
cit., pag.
28b).
(46) In gergo, fino al compimento dei sei mesi di vita, si chiamerebbe vannino; in inglese: foal, da pullus, appunto (cfr.
L.
GIANOLI, op.
cit., pag.
401a).
(47) Come s'è già precisato nella nota num.
2 di pag.
109 [nota (39)], il maschio è continuamente propenso all'amore, e potrebbe infastidire le madri nel periodo dell'allattamento.
In conseguenza di ciò, dopo la nascita del puledrino è questo e non il maschio a condurre vita in comune con la giumenta, per sei mesi (cfr.
L.
GIANOLI e U.
BERTI, op.
cit., pag.
52).
(48) È un argomento, questo della cura degli zoccoli, sul quale insiste particolarmente Senofonte con una serie di precetti che ci sono riportati da Vegezio.
I piedi dei cavallini vanno protetti dall'umidità e dalla sporcizia, così come da traumatizzanti asperità del terreno, con l'apposizione, nelle scuderie e sui percorsi abituali, di assi di legno.
Eventuali ferite vanno attentamente cauterizzate, previa l'asportazione delle parti guaste.
(49) Per una descrizione, condotta con affettuosità ed ammirata partecipazione, di questo periodo felice del puledro libero accanto alla madre, cfr.
L.
GIANOLI e U.
BERTI, op.
cit., pagg.
52-56.
(50) Qui, sicuramente per suggestione di richiami concettuali, si ha l'impressione di una concorrenza di elementi di cultura (l'individualismo umanistico dell'Alberti; un possibile aristotelismo di partenza, con riferimento alla teoria degli istinti e dei luoghi naturali) certo tutti "più difficili" di quello che è semplicemente un fatto di consuetudine fondato sulla logica dell'esperienza nei centri di addestramento dei purosangue.
Scrivono infatti L.
GIANOLI e U.
BERTI (op.
cit., pagg.
56-57): "Avvenuta la doma, si inizierà...
il periodo dell'addestramento, con i primi passi di trotto o di galoppo e le prime lezioni di andatura.
Scartati i prodotti fisicamente mal riusciti e difettosi, i puledri validi manifestano, da questi assaggi, le loro attitudini...".
Cfr.
Virgilio nella nota al corrispondente luogo del testo latino.
(51) Non sappiamo che aspetto avesse il cavallo effigiato dal Baroncelli a Ferrara, essendo - come già precisato nell'introduzione a pag.
57 [cfr.
Il monumento ferrarese: "Al tempo dei moti giacobini..."] - andati perduti nel 1796 i bronzi originali delle due statue ritraenti Niccolò III a cavallo e Borso d'Este assiso.
Ma certo è che questo cavallo "horrendus" fa pensare più alla fierissima bestia montata da Niccolò da Tolentino nel monumento dipinto da Andrea del Castagno circa una quarantina di anni più tardi, che alle maestose cavalcature da parata concepite nelle opere, cronologicamente più vicine, di Paolo Uccello, di Donatello e del Verrocchio.
(52) Inutile attardarsi sulla funzione tipica e indispensabile attribuita dall'uomo al cavallo in ogni epoca antecedente al moderno tracollo della cavalleria come arma combattente.
Se durante il Medioevo esso è l'emblema stesso di tutto un costume sociale fondato sulla investitura nobiliare, fino a divenire l'immagine materializzata di un'ideologia ("cavalleresca", appunto), nel Rinascimento, per itinerari ideologici diversi, e connessi al recupero della classicità, la sua importanza si mantiene "a livello", proprio in questo senso di glorificazione del vir e di esaltazione delle sue virtù (fino a culminare nel romantico "lanciare il cuore al di là dell'ostacolo").
(53) Lo scarico della violenza è istintivo nell'uomo come nell'animale (ed anzi rende l'uomo simile all'animale) e può verificarsi in qualsiasi momento; il controllo di tale istinto è affidato alle virtù cardinali, prerogative proprie dell'umanità, ma questa cerca di trasporne gli esiti concreti - di condizionamento dell'istinto - anche ai suoi complementi inseparabili (il cavallo...
e il cane, dovremmo a tal proposito aggiungere) quasi umanizzandoli (e ciò avvicina l'animale all'uomo).
(54) Cfr.
Virgilio nella nota al corrispondente passo del testo latino.
(55) Sebbene tale termine sia desueto nella nomenclatura odierna, in effetti due cuscini di cuoio imbottiti e trapuntati fanno parte integrante della sella (cfr.
STATO MAGGIORE REGIO ESERCITO, op.
cit., pag.
56, ove si parla di "cuscinetti che, all'occorrenza, vanno rifatti per rinnovare l'imbottitura che ha sempre tendenza ad indurirsi").
Essi isolano dal corpo del cavallo l'armatura rigida - di legno e di acciaio - della sella.
Ma nell'antichità i cuscinetti, con la gualdrappa e il sottopancia, costituivano da soli la sella.
Leggiamo infatti in L.
GIANOLI e U.
BERTI, op.
cit., pag.
16: "...la sella era rappresentata da una gualdrappa di cuoio, sormontata da un cuscinetto imbottito, e assicurata all'animale da un sottopancia.".
Questo tipo di bardatura, ove adottassimo in pieno il gergo ippologico, credo dovrebbe chiamarsi efippio.
Questa parola, infatti, viene definita da F.
PALAZZI nel suo classico Nuovissimo Dizionario della Lingua italiana, Ceschina, Milano 1942, ad vocem, "sella primitiva formata da un pezzo di stoffa piegata a più doppi a mo' di cuscinetto".
Da esso penso derivi pure lo strumento che anche oggi si usa nelle operazioni di domatura, costituito da una coperta completata da un tirante, la quale viene disposta sul dorso del cavallo, e mediante quel finimento viene per gradi aggiustata in modo da risultare sempre più aderente al corpo, affinché l'animale si abitui insensibilmente a stare bardato.
(56) Questa fase, che con la domatura chiude il periodo della condizione brada ed avvia quello dell'addestramento, viene chiamata in gergo della vestizione.
(57) Sull'utilità dell'orzo come parte integrante dell'alimentazione del cavallo, l'Alberti ritorna più volte nel trattato.
La norma dietetica deriva dal regime arabo: "Uova, latte di pecora e di cammella, datteri, farina d'orzo hanno formato per secoli la base dell'alimentazione di un soggetto nato in zone dove non cresce avena": L.
GIANOLI, op.
cit., pag.
61a.
Il LUGLI (op.
cit., pag.
47) addirittura scrive spiritosamente: "Se non avesse visto la giumenta, l'arabo crederebbe che è stato l'orzo a fare il cavallo.".
(58) Cfr.
Virgilio nella nota al corrispondente passo del testo latino.
Scrive il Gianoli citando Senofonte: "Raccomanda di accarezzarlo sovente, di parlargli, di affidarlo ad un palafreniere calmo e prudente che lo abitui a passeggiare tra la folla, a prendere contatto e confidenza con tutte le cose della nostra vita, rumori, luci.
Qualora il cavallo ne avesse paura, "bisogna dimostrargli che non c'è nulla di terribile in quell'oggetto, in quel rumore"" (op.
cit., 28a).
(59) "Dapprima il morso fu semplicemente una corda...", dicono L.
GIANOLI e U.
BERTI a pag.
5.
Dal LUGLI, op.
cit., pag.
45, apprendiamo che "Il primo morso è di lana grezza: il puledro ne gusta il sapore e si abitua a tenerlo in bocca".
(60) Cfr.
la nota num.
1 [58].
(61) La variante "hiantibus" (di cui alla nota num.
1 del testo latino [(342)], a pag.
128) sarebbe in sé convincente ove si considerasse la forma dei morsi antichi, che era tale da impedire al cavallo di stare con la bocca chiusa.
Tuttavia, in questo luogo particolare - pur tenendo conto della complessiva oscurità del passo - la variante "tumescentibus" appare più coerente con l'espressione "naribus quasi sursum fractis" che segue; tanto più che il senso del passo non muta: "Tale morso doveva essere un vero strumento di tortura", esso "costringeva il cavallo...
a tenere la bocca semiaperta, come del resto appare dalle raffigurazioni plastiche." (L.
GIANOLI, op.
cit., pag.
49b).
Della maggiore o minore "severità" dei morsi in rapporto alla loro struttura e considerati fin dai tempi più antichi della adozione di essi, ci parla anche A.
AZZAROLI nella sua op.
cit., alle pagg.
103-106.
(62) Cfr.
la nota num.
2, a pag.
123 [nota55].
(63) Oltre a quanto già precisato nella nota num.
2, a pag.
123 [nota (55)], va aggiunto che la parte esterna dei cuscinetti - che oggigiorno è di cuoio - era nei tempi antichi di stoffa e perciò soggetta ad aggrinzirsi.
Ciò - come suol dirsi - fiaccava il cavallo, ossia lo rendeva piagato.
Di qui la necessità di stendere bene la stoffa di ciascun cuscinetto prima di applicarlo alla groppa dell'animale.
(64) Secondo l'uso arabo, il primo a salire in groppa al puledro era un ragazzetto (cfr.
N.
LUGLI, op.
cit., pag.
45), e ciò suona ad ulteriore conferma (oltre quanto già osservato sul piano testuale nella nota num.
13 [(354)] del testo latino, a pag.
128) della interpretazione data di tutto il brano, in relazione alla quale risultano anche meglio comprensibili tutti i participi che vi si susseguono.
(65) Qui la trattazione prosegue come se non vi fosse alcuna soluzione di continuità rispetto alla fine del paragrafo precedente.
Cfr.
a tal proposito quanto detto nei Criteri tecnici dell'edizione.
(66) Si noti come qui l'autore sembra quasi attribuire ad una ipotetica "volontà" del cavallo la possibilità di collaborare per la realizzazione delle finalità indicate.
Peraltro, l'affermazione, che può apparire strana di primo acchito (specie ove si accenna alla "dignità" e alla "gloria della patria" come ad una "preoccupazione" che verrebbe fatto di ritenere "personale" del cavallo) si spiega più facilmente considerando la strumentalizzazione di importanza quasi essenziale - specie ai fini bellici - di cui questo animale era oggetto ancora ai tempi dell'Alberti e della quale del resto egli ha già fatto cenno in più punti di questo trattato, per cui l'autore sembra qui volere immedesimare cavallo e cavaliere in un unico blocco, come è tipico anche di molte note figurazioni, da Simone Martini - per esempio - alle arche di Verona, espressioni di quel costume cavalleresco che era ancora vivo o almeno da alcuni artisti (si pensi a Paolo Uccello o, ancora più tardi, e proprio nell'ambiente estense, al Boiardo) nostalgicamente vagheggiato al suo tempo.
(67) Tutti questi canoni di addestramento riportano immancabilmente ai precetti di istruzione arabi che, tutti insieme, costituiscono quel tipico ammaestramento che va sotto il nome di "fantasia araba" (cfr.
N.
LUGLI, op.
cit., pag.
45 e L.
GIANOLI, op.
cit., pag.
61a).
(68) Questa affermazione con tutta probabilità perviene all'Alberti, per tradizione indiretta, dal più importante degli Ippiatrici: Absirto di Clazomene, del quale ho già ricordato a pag.
46 [cfr.
Le fonti] la specifica competenza relativa agli usi ippologici dei Sarmati e dei Goti (cfr.
anche V.
CHIODI, op.
cit., pagg.
120-122).
(69) Corrispettivi delle briglie e degli speroni secondo la albertiana gradualità sùbito di séguito precisata.
(70) Sembrerebbe di poter cogliere qui quasi una anticipazione del metodo educativo delle conseguenze naturali di rousseauiana memoria; se non fosse per l'intervento di quel piccolo inganno di provocare con le redini i dolorosi movimenti del freno, quasi come per instaurare una sorta di automatismo che l'Alberti - umanizzando come al solito il cavallo - interpreta quasi come una "disamina" sui propri errori da parte dell'animale e che noi invece sappiamo essere un riflesso condizionato.
Resta comunque che l'autore appare evidentemente alieno da metodi costrittivi.
Questo sistema indiretto di educazione, dunque, ben si armonizza con quella moderazione onde è caratterizzato il pensiero dell'Alberti in tutte le sue manifestazioni.
(71) Non si comprende bene a quali denti voglia riferirsi l'Alberti; sia perché "cascaliones" non è temine del latino classico, sia perché l'aggettivo "primi" non ha un preciso termine di riferimento (primi rispetto a che cosa?), e non ne è chiaro il senso (di luogo o di tempo?).
Tuttavia, in base alla natura stessa del suggerimento, sembra logico supporre che l'autore volesse riferirsi a quei denti che sono chiamati antimolari.
(72) Anche questo suggerimento può esser fatto risalire in qualche modo a Senofonte, laddove suggerisce di convincere garbatamente il cavallo a guardare da vicino le cose che gli siano riuscite spaventose per la loro forma o per altre cause (luci, rumori), onde si rassicuri da se stesso circa la loro innocuità.
Cfr.
la nota num.
1 a pag.
127 [nota (58)].
(73) Cfr.
le notizie circa l'addestramento secondo Senofonte reperibili in LUGLI (op.
cit., pag.
45) e in GIANOLI (op.
cit., pagg.
28 e 61a).
Anche Virgilio esprime reiteratamente questo concetto: cfr.
la nota al corrispondente passo del testo latino.
(74) Anche qui il già notato senso della moderazione e del convincimento, e una certa fede nella esperienza, che comporta da parte dell'istruttore la predominanza della paziente applicazione di un metodo sull'immediatezza degli impulsi.
E il metodo consiste soprattutto nel seguire quanto è possibile la naturale evoluzione del soggetto.
(75) Questa descrizione sintomatologica ci avverte di come al riguardo siamo ancora nell'"autunno del Medioevo".
Mi pare superfluo porre in rilievo singoli dettagli quali la questione del sudore e le strane idee sull'assimilazione sanguigna.
Conviene piuttosto notare come qui sia quasi impossibile intuire nell'Alberti l'uomo dei tempi nuovi; ed è l'unico punto ove debbo dissentire dalle osservazioni del Petrini, il quale accenna al problematico rapporto dell'Alberti col Medioevo negandone addirittura, in opposizione a P.
H.
MICHEL - Un idéal humain au XVe siècle: La pensée de L.
B.
Alberti (1404-1472), "Les Belles Lettres", Paris 1930, pag.
609 -, l'esistenza.
Invero le osservazioni del Petrini non sono ingiuste relativamente ai materiali che egli esamina.
Anche queste mie, però, mi paiono inoppugnabili sulla base del testo qui in discussione.
Probabilmente entrambe le critiche sono corrette in relazione alle rispettive "letture"; e la spiegazione della discrepanza sarebbe allora, ancora una volta, in quelle tipiche "oscillazioni" albertiane (cfr., qui le pagg.
38-40 ["Ci si può chiedere...
ippiatri"]) che il Petrini stesso stigmatizza (pag.
674); senza contare il fatto al quale ho qui più volte accennato (e che anche lo Schmitt non ha mancato di porre in rilievo, nel suo incisivo intervento premesso a questo lavoro, alle pagg.
VII-VIII [cfr.
Foreword]) che la conoscenza del testo del "De equo animante" nella sua interezza appare tuttora ristretta a pochissimi studiosi.
Perché di certo nella fattispecie appare evidente l'assenza in lui di qualsiasi curiosità di verifica di ciò che va affermando sulla scorta della più comune precettistica popolare e medioevale, con tutta probabilità senza aver presenti nemmeno i documenti della migliore classicità, ove la sintomatologia di molte malattie era già descritta in termini tutt'altro che immaginari e prescindendo da qualsiasi indulgenza a spiegazioni di tipo magico o superstizioso.
(76) In tale esposizione ha però dimenticato di trattare di due delle cause precedentemente enunciate: la sazietà e l'eccesso di cure.
Ma ritornerà su tali argomenti più avanti.
Del resto, in più punti del trattato è possibile riscontrare lacune o inesattezze di tal genere nella simmetria di termini di riferimento connessi per correlazione o contrapposizione.
(77) Anche a proposito dei "tronchi orridi" da mostrare al cavallo allievo (cfr.
il testo latino a pag.
136 ["Sunt qui iubeant..."], e la nota num.
1 riferentesi al correlativo testo italiano a pag.
139 [nota (72)]), l'Alberti ha usato la perifrasi "forme di cose" per "cose".
Questo modo di riferirsi alla forma anziché alla cosa stessa può avere qualche significato interessante in senso filosofico, sia come residuo di terminologia scolastica, sia in quanto sintomo di un'attitudine figurativa a vedere tutte le cose sotto la specie della loro "configurabilità", o, come diremmo oggi, quali elementi linguistici della percezione visiva più che quali concrete e tangibili "presenze".
Il suo costante riferimento alla natura avviene, come si ricava dal trattato "Della pittura", per il tramite fisso di due media: la mente, che ne scopre le ragioni; l'occhio, che ne coglie le forme in termini di geometria e di "lumi" (...ancora l'"occhio albertiano" - cfr.
l'introduzione a pag.
38 ["Quello poi che nelle sue opere..."] -).
Sono certo due ipotesi e due portati di cultura (scolasticismo e struttura geometrica della visione) molto differenti.
Si ricordi però - l'ho già accennato - il gusto albertiano delle contrapposizioni, la sua mirabile attitudine ad assimilare e far convivere in una armonia tutta sua personale fattori contrastanti.
(78) Anche nella genericità un po' fumosa di questo termine si avverte un residuo di cultura medioevale.
Cfr.
l'introduzione a pag.
39 ["...
questa diffidenza nei riguardi..."].
(79) Come in altri luoghi del trattatello qui l'Alberti sembra fare un paragone improprio assimilando fra loro termini di natura diversa (quelli cioè che si riferiscono all'età con quelli che si riferiscono alla robustezza dei soggetti da addestrare).
Le alternative di interpretazione erano: o di considerare i quattro termini come due endiadi ("i puledri che sono deboli" e "gli adolescenti che sono forti") oppure - come ho preferito - di contrapporre i puledri agli adolescenti ed i soggetti deboli a quelli forti.
(80) Qui è veramente sincero e si mostra quasi poeticamente ispirato nell'ammirazione per questo generoso animale divenuto prodotto dell'immaginazione più che oggetto di una razionale trattazione.
Nel diffuso grigiore di tutta la pagina questa improvvisa illuminazione della fantasia è come l'entrata vibrante in crescendo del violino solista entro il contesto del tessuto orchestrale di un concerto.
Ed è significativo che proprio in un passo così caratterizzato egli ricorra all'attributo "animans": cfr.
l'introduzione a pag.
28 ["Per la resa italiana del titolo..."].
(81) "I raggi della luna"...
È chiaro che se c'era un campo nel quale più facilmente - e direi fatalmente - l'Alberti non poteva che mostrare il fianco, questo doveva essere per forza di cose quello scientifico, e della scienza medica in particolare.
Del resto, come è noto, la magia, naturale e soprannaturale, secondo la comune distinzione, era coltivata al tempo del trattato e, dopo, ancora per molto.
(82) Si avverte la mancanza di uno sviluppo rigoroso del pensiero e di una stringata progressione degli argomenti.
Sostanzialmente l'autore ripete cose già dette.
(83) Pare un chiaro riferimento alla tecnica militare di origine orientale tardo-antica della finta fuga.
Essa viene attribuita ai Dalmati, ai Parti, agli Unni, ai Sarmati, agli Avari, ecc.
Il GIANOLI (op.
cit., pagg.
40, 54a, 62a, 78b) torna varie volte su questo argomento, raccontando anche qualche avvincente episodio di battaglie nelle quali - grazie a questa tattica - agili torme di cavalieri armati alla leggera, dandosi alla fuga e costringendo così reparti regolari pesantemente bardati e corazzati - schierati in acie - ad inseguimenti fiaccanti, quando avvertivano la stanchezza dell'avversario, con subitanei dietro front piombavano addosso al nemico, avendone ragione.
Ma questa tattica pare avesse in realtà origini di gran lunga più antiche: Erodoto narra degli inani sforzi dell'esercito persiano di Dario I durante l'inutile campagna tentata contro gli inafferrabili Sciti nel 514 a.C.
(cfr.
A.
AZZAROLI, op.
cit., pagg.
56-57).
(84) Uno dei tipici movimenti della già citata (cfr.
la nota num.
3 di pag.
133 [nota (67)]) fantasia araba è appunto quello di "gettarsi in avanti con gli anteriori sollevati contro" il "nemico e morderlo" (cfr.
N.
LUGLI, op.
cit., pag.
45).
(85) Tale precetto è già indicato da Absirto, come si rileva da una lettera indirizzata da questi al mulomedico Lao Demetrio, riportata nel libro degli "Ippiatrica".
Questo, è una raccolta di vari ippiatri greci soprattutto del IV secolo d.
C.
(dei quali i più noti sono: Eumelo, - che altri chiamano Eumene -, Absirto, Pelagonio, Chirone e Ierocle), compilata - in due libri e centoventinove capitoli - probabilmente nel X secolo, sotto Costantino Porfirogenito, imperatore d'Oriente più dedito - come è noto - ai fatti della cultura (anche come organizzatore di enciclopedie) che alle cure dello Stato.
A proposito del salasso Absirto scrive nella citata lettera: "...ciascun cavallo che castrato sia non ha bisogno di salasso perché interviene che diventino più deboli alle fatiche e che dove punti saranno si apostemiscano..." (riportato da V.
CHIODI, op.
cit., pag.
122).
Le questioni concernenti il salasso sono state trattate anche da Vegezio nel capitolo XXI del libro I del trattato che va sotto il suo nome.
(86) Questo discorso, oltre ad essere assurdo nella sostanza, è anche incoerente nell'esposizione: ben noto è il sofisma "barocco" secondo il quale la carne salata disseta (cfr.
B.
CROCE, Storia dell'età barocca in Italia, 1944; ed.
usata: Laterza, Bari 1957, pagg.
21-24); ma qui non siamo nemmeno al livello di un falso sillogismo, appunto - ma ben congegnato come quello famoso -, poiché mancano sufficienti nessi fra le varie proposizioni: prescindendo infatti dalle considerazioni che non solo nel mare esistono creature immani e che non tutte le creature del mare sono immani, va notato che mentre nella prima parte del discorso l'autore sembra attribuire al bere la virtù di ingigantire le membra e al sale soltanto la funzione di stimolare la sete, nella seconda la causa specifica di tale gigantismo sembra esser riconosciuta - invece - proprio nel sale in se stesso: come potrebbe, infatti, l'acqua salata dissetare ad un tempo e provocare la sete?
Si può peraltro forse supporre che l'Alberti abbia volutamente finto di non accorgersi dell'assurdità di credenze di tal fatta, per il gusto di indulgere ad una certa favolosità, come il grande compositore di musica indulge a volte, ma da par suo, alle più ingenue frasi o a scontate cadenze di ritmi popolari, per attribuire un più fascinoso potere evocativo ad un tessuto sinfonico; visto anche che, come si ricorderà, qui l'Alberti si rivolgeva ad un "principe eruditissimo", al quale sembra quasi ammiccare con aria compiaciuta ed un certo gusto del paradossale e dell'ironia, dalla quale non era affatto alieno (cfr.
in proposito le osservazioni di R.
CONTARINO nel suo saggio introduttivo agli Apologhi ed elogi, ed.
cit., pagg.
26 e segg.).
(87) Cfr.
la nota num.
1 a pag.
125 [nota (57)].
(88) Per quanto secondo il LUGLI (op.
cit., pag.
28) già gli Sciti praticavano "una rudimentale ferratura" a protezione degli zoccoli, secondo il CHIODI (op.
cit., pagg.
180-184) i Greci e i Romani ignoravano la ferratura del cavallo, e nessun ippiatra dell'antichità e del Medioevo - fino al Ruffo - accenna alla ferratura e alle malattie che da essa possono derivare.
Ma, secondo l'Azzaroli (op.
cit., pag.
98) l'introduzione nell'uso dell'ipposandalo "di ferro e cuoio, primo tentativo di porre rimedio ai danni che le strade sassose e fangose arrecavano alle unghie dei cavalli", era stata una delle poche innovazioni (insieme allo sviluppo della selezione delle razze in relazione ad i vari usi ai quali gli animali erano destinati) introdotte dai Romani i quali, per il resto, a quanto pare, non furono un popolo di grandi cultori delle tecniche equestri, alle quali non diedero per proprio conto grandi contributi, anche se, come al solito, assimilarono e valorizzarono le cognizioni dei popoli ad essi soggetti, utilizzandone anche le truppe a cavallo.
Accenni più o meno vaghi a "calzature" per cavalli si trovano in: Omero ("cavalli dal piede di rame"); Virgilio ("sonipes" ["sopines", ma per accertabile accidente tipografico, nel Chiodi il quale peraltro non ne precisa il "luogo"]); Orazio ("sonans ungula"); Catullo ("ferream soleam"); Svetonio ("soleis mularum argenteis" e "ad calceandas mulas"); Plinio ("dedicatioribus iumentis suis soleas ex auro inducere"); di tali espressioni il CHIODI, che le riporta nell'op.
cit.
a pag.
182, non indica la collocazione precisa.
Io ho potuto riscontrare gli esempi di VIRGILIO e di SVETONIO rispettivamente nell'Eneide, IV 135 ("...stat sonipes ac frena ferox spumantia mandit.") e nelle Vite de' dodici Cesari (Nero Claudius, XXX e T.
Flavius Vespasianus, XXIII).
Resta ancora da notare che fra le espressioni citate, quelle di Virgilio e di Orazio potrebbero essere immagini poetiche riferite semplicemente alle unghie stesse dei cavalli, in qualche caso addirittura con valore metonimico.
Senofonte e Aristotele parlano di ippopodi attribuendo alla parola il significato di "calzature di cuoio"; Columella dice che questi erano formati con vimini di ginestra; Absirto, Vegezio ed altri scrivono delle lesioni che tali calzature potevano causare.
Quanto alle ferrature con chiodi, solo dopo il Mille dovette diffondersene l'uso.
Del resto, prima che in Giordano Ruffo non se ne trova menzione.
(89) È evidente qui il riferimento alla dottrina di origine aristotelica secondo la quale i vari elementi della natura concorrono alla perfetta attuazione di un armonico insieme (stavo per dire programma, prendendo la parola in prestito dalla teoria genetica e cromosomica) tendendo ciascuno per un suo proprio "istinto" - nel senso del movimento locale - a collocarsi entro il suo luogo naturale, e - nel senso del movimento qualitativo - a realizzarsi secondo quell'ordine interno delle parti che - per virtù della entelechia - si compie come perfezione di ogni singolo organismo.
Questo concetto finalistico della perfezione naturale, che fu accolto ed elaborato dagli scolastici tanto da diventare comune a tutta la cultura del basso Medioevo fino - anche - a costituire un motivo di ispirazione poetica (di Dante, per esempio, in vari luoghi del Paradiso), lo si ritrova pure presso alcuni scrittori dell'Umanesimo.
Anche a proposito di questo passo, quindi (come già, nella più ampia prospettiva del pensiero albertiano nelle sue svariate manifestazioni, è stato notato dagli storici), non è facile determinare con assoluta precisione quale sia la posizione filosofica dell'Alberti, il quale sembra oscillare (e in questo trattatello lo si è più volte avvertito: cfr.
anche l'insieme delle osservazioni fatte nella nota num.
2, pag.
145 [nota (77)]) fra tesi mutuate dalla tradizione più spiccatamente aristotelica e canonica medioevale, e tesi già partecipi dei moderni dibattiti che animavano il pensiero del suo tempo.
Nella fattispecie, comunque, dalla esaltazione dell'armonia costitutiva e dell'autonoma funzionalità delle cose naturali, scaturisce la condanna, sia di ogni intervento inopportuno ("imperizia"), sia di ogni forma di disubbidienza ai ritmi propri dei processi naturali ("negligenza", "pigrizia").
Sarebbe cioè turpe sviare con interventi arbitrari od errati il corso spontaneo di tali processi.
(90) Suggestiva osservazione nella quale l'Alberti sembra quasi preconizzare la rovina dei nostri monumenti in conseguenza dell'incuria e dell'inquinamento.
(91) Indubbiamente questo paragone a prima lettura ripugna alla nostra sensibilità; poiché, se l'autore paragona il cavallo all'uomo schiavo, è facile dedurre che nell'espressione sia implicito anche il paragone inverso.
Ne deriverebbe comunque che il cavallo e lo schiavo insieme sarebbero l'anello di congiunzione fra la bestia e l'uomo.
E potremmo dire con Peter Singer che ciò sia possibile perché entrambi (come tutti gli irresponsabili, e quindi - per esempio - anche i neonati) non hanno, agli occhi dei "raziocinanti", senso di giustizia, poteri propri e autonomia di giudizio.
Tuttavia per il mite Alberti essi vanno trattati (come si dirà in epoche posteriori) umanitaristicamente, con quella moderazione e quella pietas che debbono sempre ispirare il buon padre di famiglia.
Ma forse, a ben riflettere, la nostra prima impressione va corretta dalla considerazione - anche sulla scorta di altri frequenti luoghi del libro - che si possa trattare di un'accentuata umanizzazione del cavallo.
L'autore in sostanza vorrebbe dire che giustamente gli antichi affermavano che il cavallo dovesse esser considerato quasi come un uomo - anche se, appunto, come un uomo non libero perché soggetto al governo altrui - al quale invero, se è lecito chiedere quei servigi che non si addicono all'uomo libero, non è lecito imporre comandi che eccedano dai limiti del giusto.
Concorrono del resto in questo senso gli elementi del suo pensiero espressi nei trattati in qualche modo attinenti a tale problematica: il "Teogenio", il trattato "Della famiglia", quello "Della tranquillità dell'animo" e soprattutto - per questo luogo - il "De iciarchia".
Ma per tornare sul terreno più concreto dell'ippologia, anche nei moderni criteri d'allevamento è affermato il principio che l'uomo, nel servirsi del cavallo, debba assecondarne gli istinti; perché il cavallo trae in gran parte la sua perizia e il suo ardimento dalla sicurezza del cavaliere, ma tuttavia conserva inalterato il senso del proprio orgoglio e della propria indipendenza, e quindi alla sua fiducia deve corrispondere la giustezza del comando, senza la quale si determinerebbe in esso un atteggiamento riottoso (cfr.
H.
H.
ISENBART, op.
cit., pagg.
8-9).
(92) Il discorso continua sullo stesso binario.
Il cavallo è ancora umanizzato, quasi come facente parte della famiglia, e all'allevatore sono richieste le stesse qualità del pater familias.
L'autore si mostra coerente nell'affermare sempre i medesimi principi fondamentali.
Questi erano stati da lui diffusamente esposti nel trattato "Della famiglia" - ove, per esempio, si sofferma circa l'opportunità di esercitare piacevolmente il corpo e di proteggerlo, e condanna "la libidine del tiranneggiare" che snatura la disciplina - e sarebbero stati ripresi anche molto più tardi nel "De iciarchia", ove si pone l'accento sul fatto che l'educatore deve saper moderare i propri impulsi.
Tutto sommato, il principio essenziale - valido anche oggi - è che il rapporto uomo-cavallo debba esser fondato sulla reciproca "tolleranza".
(93) Nell'introduzione ho trattato (cfr.
pagg.
45-55 [Le fonti]) di tutti i nomi che compaiono qui e che l'autore aveva già citato (all'infuori di uno) nel proemio.
Il nome taciuto nella prima occasione è quello che in questo luogo il Covato, lo Stella e il Mancini riportano con una sola effe (cioè Rufo), e che il manoscritto di Oxford, invece, presenta con due effe (cioè Ruffo), derivandone perciò, in questo caso specifico, una questione che rimane aperta, e sulla quale non si può fare altro che formulare delle ipotesi, come s'è visto più diffusamente a suo luogo (cfr.
pagg.
53-55 ["Cominciamo col precisare..."]).
(94) Già nel proemio l'Alberti ha scritto di aver "riportato" nel suo "libretto tutto quanto vi fosse di elegante e di degno" negli autori consultati.
Ora pone nuovamente l'accento sull'eleganza come su uno dei fattori determinanti - insieme alla dottrina - del fatto che gli autori citati gli sembrino esaurienti rispetto agli argomenti del suo studio.
Un interesse di questo tipo nei confronti di cognizioni scientifiche potrebbe assumere per la nostra sensibilità quasi una coloritura di esteriore accademismo a discapito della severità ed autenticità del rigore scientifico.
Si consideri peraltro che ciò è conforme al comune sentire dell'età umanistica, secondo il quale la dottrina doveva andare sempre congiunta all'eleganza formale che della dottrina stessa era anzi ritenuta naturale espressione.
E del resto è ben noto come in questo primo insorgere dello spirito italiano, e presso l'Alberti stesso (il quale ne costituì anzi una delle sorgenti), e per molto tempo ancora, anche l'arte come la scienza (anzi come primo fondamento di questa) fu ritenuta uno strumento conoscitivo al servizio dell'uomo.
Tanto che nell'avanzare del secolo, e proprio in quel filone ideale e teoretico che da lui si sviluppa - ma del quale per obiettivi fattori di cronologia non può esser direttamente partecipe - attraverso il Filarete, Bernardo Rossellino, Piero della Francesca, e giù di lì per i complessi itinerari del neoplatonismo figurativo (anche con le suggestioni allegoriche di matrice letteraria e filosofica così splendidamente "informate" - per esempio - in qualche capolavoro del Botticelli) quell'iniziale riferimento alla natura, per via di esigenze sempre più capziose e sottili, finiva per travalicare la natura stessa nella sua immediata percettibilità, fino a intravedere nella perfezione dello stile la rivelazione di certi aspetti riposti della realtà naturale resi sensibili dall'artista, appunto, mediante un'operazione di tipo "divino".
D'altra parte questo tipo di cultura è fondato su concezioni unitarie ed universali ben lontane dalle discriminazioni categoriali onde è articolata la cultura di oggi.
(95) L'Alberti quindi intende affermare che nulla di valido e di nuovo può aggiungere a quanto era stato già scritto dagli antichi e di non poterne ripetere i concetti senza scadere in un inutile plagio.
V'è dunque un incondizionato ossequio nei riguardi della scienza antica; ma indubbiamente quest'osservanza, in tal caso, era giustificata anche dall'onesto convincimento del fatto che nulla di nuovo era stato aggiunto alle nozioni di essa.
(96) Sarà facile notare (a conferma di quanto esposto nella nota precedente) come nella successiva parte ciò che è chiaro è scontato, e ciò che non è scontato è oscuro; avverandosi perfettamente e paradossalmente proprio ciò che l'autore stesso aveva affermato di temere.
In effetti la trattazione si poteva ritenere, come avvertito dall'Alberti stesso, conclusa con questa parte, alla fine del periodo precedente.
Stranamente invece il discorso ricomincia (e già il titolo contraddice in maniera palese la dichiarazione di inopportunità appena fatta), ma poi, come vedremo, non acquista uno sviluppo logico e sembra quasi concludersi di colpo.
Cfr.
la nota num.
8 dell'ultima parte del testo latino, alla pag.
180 [nota 682].
(97) A conclusione del trattato ritorna l'attributo animante
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