IL CAVALLO VIVO, di Leon Battista Alberti - pagina 9
...
.
in proposito le osservazioni di R.
CONTARINO nel suo saggio introduttivo agli Apologhi ed elogi, ed.
cit., pagg.
26 e segg.).
(87) Cfr.
la nota num.
1 a pag.
125 [nota (57)].
(88) Per quanto secondo il LUGLI (op.
cit., pag.
28) già gli Sciti praticavano "una rudimentale ferratura" a protezione degli zoccoli, secondo il CHIODI (op.
cit., pagg.
180-184) i Greci e i Romani ignoravano la ferratura del cavallo, e nessun ippiatra dell'antichità e del Medioevo - fino al Ruffo - accenna alla ferratura e alle malattie che da essa possono derivare.
Ma, secondo l'Azzaroli (op.
cit., pag.
98) l'introduzione nell'uso dell'ipposandalo "di ferro e cuoio, primo tentativo di porre rimedio ai danni che le strade sassose e fangose arrecavano alle unghie dei cavalli", era stata una delle poche innovazioni (insieme allo sviluppo della selezione delle razze in relazione ad i vari usi ai quali gli animali erano destinati) introdotte dai Romani i quali, per il resto, a quanto pare, non furono un popolo di grandi cultori delle tecniche equestri, alle quali non diedero per proprio conto grandi contributi, anche se, come al solito, assimilarono e valorizzarono le cognizioni dei popoli ad essi soggetti, utilizzandone anche le truppe a cavallo.
Accenni più o meno vaghi a "calzature" per cavalli si trovano in: Omero ("cavalli dal piede di rame"); Virgilio ("sonipes" ["sopines", ma per accertabile accidente tipografico, nel Chiodi il quale peraltro non ne precisa il "luogo"]); Orazio ("sonans ungula"); Catullo ("ferream soleam"); Svetonio ("soleis mularum argenteis" e "ad calceandas mulas"); Plinio ("dedicatioribus iumentis suis soleas ex auro inducere"); di tali espressioni il CHIODI, che le riporta nell'op.
cit.
a pag.
182, non indica la collocazione precisa.
Io ho potuto riscontrare gli esempi di VIRGILIO e di SVETONIO rispettivamente nell'Eneide, IV 135 ("...stat sonipes ac frena ferox spumantia mandit.") e nelle Vite de' dodici Cesari (Nero Claudius, XXX e T.
Flavius Vespasianus, XXIII).
Resta ancora da notare che fra le espressioni citate, quelle di Virgilio e di Orazio potrebbero essere immagini poetiche riferite semplicemente alle unghie stesse dei cavalli, in qualche caso addirittura con valore metonimico.
Senofonte e Aristotele parlano di ippopodi attribuendo alla parola il significato di "calzature di cuoio"; Columella dice che questi erano formati con vimini di ginestra; Absirto, Vegezio ed altri scrivono delle lesioni che tali calzature potevano causare.
Quanto alle ferrature con chiodi, solo dopo il Mille dovette diffondersene l'uso.
(89) È evidente qui il riferimento alla dottrina di origine aristotelica secondo la quale i vari elementi della natura concorrono alla perfetta attuazione di un armonico insieme (stavo per dire programma, prendendo la parola in prestito dalla teoria genetica e cromosomica) tendendo ciascuno per un suo proprio "istinto" - nel senso del movimento locale - a collocarsi entro il suo luogo naturale, e - nel senso del movimento qualitativo - a realizzarsi secondo quell'ordine interno delle parti che - per virtù della entelechia - si compie come perfezione di ogni singolo organismo.
Questo concetto finalistico della perfezione naturale, che fu accolto ed elaborato dagli scolastici tanto da diventare comune a tutta la cultura del basso Medioevo fino - anche - a costituire un motivo di ispirazione poetica (di Dante, per esempio, in vari luoghi del Paradiso), lo si ritrova pure presso alcuni scrittori dell'Umanesimo.
Anche a proposito di questo passo, quindi (come già, nella più ampia prospettiva del pensiero albertiano nelle sue svariate manifestazioni, è stato notato dagli storici), non è facile determinare con assoluta precisione quale sia la posizione filosofica dell'Alberti, il quale sembra oscillare (e in questo trattatello lo si è più volte avvertito: cfr.
anche l'insieme delle osservazioni fatte nella nota num.
2, pag.
145 [nota (77)]) fra tesi mutuate dalla tradizione più spiccatamente aristotelica e canonica medioevale, e tesi già partecipi dei moderni dibattiti che animavano il pensiero del suo tempo.
Nella fattispecie, comunque, dalla esaltazione dell'armonia costitutiva e dell'autonoma funzionalità delle cose naturali, scaturisce la condanna, sia di ogni intervento inopportuno ("imperizia"), sia di ogni forma di disubbidienza ai ritmi propri dei processi naturali ("negligenza", "pigrizia").
Sarebbe cioè turpe sviare con interventi arbitrari od errati il corso spontaneo di tali processi.
(90) Suggestiva osservazione nella quale l'Alberti sembra quasi preconizzare la rovina dei nostri monumenti in conseguenza dell'incuria e dell'inquinamento.
(91) Indubbiamente questo paragone a prima lettura ripugna alla nostra sensibilità; poiché, se l'autore paragona il cavallo all'uomo schiavo, è facile dedurre che nell'espressione sia implicito anche il paragone inverso.
Ne deriverebbe comunque che il cavallo e lo schiavo insieme sarebbero l'anello di congiunzione fra la bestia e l'uomo.
E potremmo dire con Peter Singer che ciò sia possibile perché entrambi (come tutti gli irresponsabili, e quindi - per esempio - anche i neonati) non hanno, agli occhi dei "raziocinanti", senso di giustizia, poteri propri e autonomia di giudizio.
Tuttavia per il mite Alberti essi vanno trattati (come si dirà in epoche posteriori) umanitaristicamente, con quella moderazione e quella pietas che debbono sempre ispirare il buon padre di famiglia.
Ma forse, a ben riflettere, la nostra prima impressione va corretta dalla considerazione - anche sulla scorta di altri frequenti luoghi del libro - che si possa trattare di un'accentuata umanizzazione del cavallo.
L'autore in sostanza vorrebbe dire che giustamente gli antichi affermavano che il cavallo dovesse esser considerato quasi come un uomo - anche se, appunto, come un uomo non libero perché soggetto al governo altrui - al quale invero, se è lecito chiedere quei servigi che non si addicono all'uomo libero, non è lecito imporre comandi che eccedano dai limiti del giusto.
Concorrono del resto in questo senso gli elementi del suo pensiero espressi nei trattati in qualche modo attinenti a tale problematica: il "Teogenio", il trattato "Della famiglia", quello "Della tranquillità dell'animo" e soprattutto - per questo luogo - il "De iciarchia".
Ma per tornare sul terreno più concreto dell'ippologia, anche nei moderni criteri d'allevamento è affermato il principio che l'uomo, nel servirsi del cavallo, debba assecondarne gli istinti; perché il cavallo trae in gran parte la sua perizia e il suo ardimento dalla sicurezza del cavaliere, ma tuttavia conserva inalterato il senso del proprio orgoglio e della propria indipendenza, e quindi alla sua fiducia deve corrispondere la giustezza del comando, senza la quale si determinerebbe in esso un atteggiamento riottoso (cfr.
H.
H.
ISENBART, op.
cit., pagg.
8-9).
(92) Il discorso continua sullo stesso binario.
Il cavallo è ancora umanizzato, quasi come facente parte della famiglia, e all'allevatore sono richieste le stesse qualità del pater familias.
L'autore si mostra coerente nell'affermare sempre i medesimi principi fondamentali.
Questi erano stati da lui diffusamente esposti nel trattato "Della famiglia" - ove, per esempio, si sofferma circa l'opportunità di esercitare piacevolmente il corpo e di proteggerlo, e condanna "la libidine del tiranneggiare" che snatura la disciplina - e sarebbero stati ripresi anche molto più tardi nel "De iciarchia", ove si pone l'accento sul fatto che l'educatore deve saper moderare i propri impulsi.
Tutto sommato, il principio essenziale - valido anche oggi - è che il rapporto uomo-cavallo debba esser fondato sulla reciproca "tolleranza".
(93) Nell'introduzione ho trattato (cfr.
pagg.
45-55 [Le fonti]) di tutti i nomi che compaiono qui e che l'autore aveva già citato (all'infuori di uno) nel proemio.
Il nome taciuto nella prima occasione è quello che in questo luogo il Covato, lo Stella e il Mancini riportano con una sola effe (cioè Rufo), e che il manoscritto di Oxford, invece, presenta con due effe (cioè Ruffo), derivandone perciò, in questo caso specifico, una questione che rimane aperta, e sulla quale non si può fare altro che formulare delle ipotesi, come s'è visto più diffusamente a suo luogo (cfr.
pagg.
53-55 ["Cominciamo col precisare..."]).
(94) Già nel proemio l'Alberti ha scritto di aver "riportato" nel suo "libretto tutto quanto vi fosse di elegante e di degno" negli autori consultati.
Ora pone nuovamente l'accento sull'eleganza come su uno dei fattori determinanti - insieme alla dottrina - del fatto che gli autori citati gli sembrino esaurienti rispetto agli argomenti del suo studio.
Un interesse di questo tipo nei confronti di cognizioni scientifiche potrebbe assumere per la nostra sensibilità quasi una coloritura di esteriore accademismo a discapito della severità ed autenticità del rigore scientifico.
Si consideri peraltro che ciò è conforme al comune sentire dell'età umanistica, secondo il quale la dottrina doveva andare sempre congiunta all'eleganza formale che della dottrina stessa era anzi ritenuta naturale espressione.
E del resto è ben noto come in questo primo insorgere dello spirito italiano, e presso l'Alberti stesso (il quale ne costituì anzi una delle sorgenti), e per molto tempo ancora, anche l'arte come la scienza (anzi come primo fondamento di questa) fu ritenuta uno strumento conoscitivo al servizio dell'uomo.
Tanto che nell'avanzare del secolo, e proprio in quel filone ideale e teoretico che da lui si sviluppa - ma del quale per obiettivi fattori di cronologia non può esser direttamente partecipe - attraverso il Filarete, Bernardo Rossellino, Piero della Francesca, e giù di lì per i complessi itinerari del neoplatonismo figurativo (anche con le suggestioni allegoriche di matrice letteraria e filosofica così splendidamente "informate" - per esempio - in qualche capolavoro del Botticelli) quell'iniziale riferimento alla natura, per via di esigenze sempre più capziose e sottili, finiva per travalicare la natura stessa nella sua immediata percettibilità, fino a intravedere nella perfezione dello stile la rivelazione di certi aspetti riposti della realtà naturale resi sensibili dall'artista, appunto, mediante un'operazione di tipo "divino".
D'altra parte questo tipo di cultura è fondato su concezioni unitarie ed universali ben lontane dalle discriminazioni categoriali onde è articolata la cultura di oggi.
(95) L'Alberti quindi intende affermare che nulla di valido e di nuovo può aggiungere a quanto era stato già scritto dagli antichi e di non poterne ripetere i concetti senza scadere in un inutile plagio.
V'è dunque un incondizionato ossequio nei riguardi della scienza antica; ma indubbiamente quest'osservanza, in tal caso, era giustificata anche dall'onesto convincimento del fatto che nulla di nuovo era stato aggiunto alle nozioni di essa.
(96) Sarà facile notare (a conferma di quanto esposto nella nota precedente) come nella successiva parte ciò che è chiaro è scontato, e ciò che non è scontato è oscuro; avverandosi perfettamente e paradossalmente proprio ciò che l'autore stesso aveva affermato di temere.
In effetti la trattazione si poteva ritenere, come avvertito dall'Alberti stesso, conclusa con questa parte, alla fine del periodo precedente.
Stranamente invece il discorso ricomincia (e già il titolo contraddice in maniera palese la dichiarazione di inopportunità appena fatta), ma poi, come vedremo, non acquista uno sviluppo logico e sembra quasi concludersi di colpo.
Cfr.
la nota num.
8 dell'ultima parte del testo latino, alla pag.
180 [nota 682].
(97) A conclusione del trattato ritorna l'attributo animante - che, dopo il titolo, non era quasi più apparso (cfr.
pag.
28 ["Per la resa italiana del titolo..."]) -, come per una conclusiva conferma di quelle implicazioni che ho già diffusamente messe in luce, a giustificazione del titolo italiano, nell'introduzione, alle pagg.
28-45 [cfr.
Il titolo e i contenuti].
(98) Qui l'autore, con quella prolissità che gli abbiamo più volte riscontrata, ripete in tre consecutive proposizioni, in sostanza, il medesimo concetto: non bisogna fermarsi alle manifestazioni morbose in sé considerate, né ai danni che da esse possano derivare, ma porle in relazione con la sintomatologia nota delle varie malattie, onde poter non solo mitigarne gli effetti, ma rimuoverne le cause.
Saggio suggerimento che, se da una parte costituisce una riprova della razionalità e della tendenza ad una serena considerazione degli eventi che sono proprie dell'Alberti, d'altro canto non è del tutto originale perché lo si ritrova - come tanti altri da lui fatti propri - nella precettistica degli ippiatri greci e italiani; nella fattispecie, di Ierocle (che è, come s'è detto a suo luogo, uno degli autori raccolti negli "Ippiatrica") e di Giordano Ruffo.
(99) Si noti la innegabile quanto compiaciuta oziosità di una simile elencazione nel medesimo tempo tanto ovvia che era davvero inutile specificarla così pedissequamente, e tanto velleitaria che risulterebbe un "troppo pretendere" anche per un clinico dei nostri giorni.
(100) In più punti del trattatello si avverte una più o meno dichiarata avversione nei riguardi delle medicine.
Queste, evidentemente, nella loro artificialità gli debbono apparire come una alterazione dei fatti naturali dei quali egli in tante manifestazioni del suo pensiero consiglia una fatalistica accettazione.
Rimane da notare l'apparente contraddizione fra l'esortazione a non dar medicine e quella a somministrare "tutte quelle cose che servano ad aiutare la natura".
Ma forse egli per "quelle cose" intende semplicemente cibi e bevande preparati con particolari accorgimenti dietetici.
(101) Qui veramente l'Alberti si dimostra uomo collocato nel momento di frizione tra due atteggiamenti mentali e nel passo convergono svariati spunti di pensiero ambiguamente connessi e non decantati in una precisa definizione, della quale, peraltro, egli - che forse rifuggiva per natura da ogni sistematica costruzione (e non solo in senso metaforico) - neppure avrà avvertito il bisogno.
Questo suo composito insieme di diffidenza, di "buonsenso", di amore per il "quieto vivere" e di entusiasmi studiosi, può essere problematicamente inteso, tanto come un atteggiamento antichizzante (se lo si interpreta quale una specie di timor panico nei confronti di quegli "strani individui" di cui si è detto a pag.
39 ["...
i suoi cultori amarono..."]), tanto come un atteggiamento mentale progredito (che esige più razionali impostazioni della ricerca e della sperimentazione).
E così anche la fiducia che egli mostra di nutrire nella dinamica autonoma dei processi schiettamente naturali, lo pone in un contesto ove altrettanto problematicamente possono essere avvertiti addentellati sia con particolari correnti di pensiero medioevale (con quelle stesse venature orientalizzanti di una mistica della natura che anche oggigiorno, dopo tanto scientifismo, rappresentano per molti l'ultima spiaggia aperta alle nevrosi e alle disperazioni del nostro tempo) ancora operanti - econdo i quali "la natura è dotata di una vita che non è dissimile da quella umana" (A.
PAZZINI, op.
cit., vol.
I, pag.
603) -, sia anche con le più serene (per il momento) ed empiriche convinzioni dell'insorgente naturalismo rinascimentale, il quale di lì a qualche decennio sarebbe arrivato a farsi perfino la convinzione che anche la natura "fa i suoi sbagli".
(102) Più che pensare qui ad una vera e propria presa di posizione conformista e ad un reazionario rigetto di ogni novità, sembra di cogliere una sfumatura di ironia, quasi uno scettico sorriso per l'affaccendarsi degli sperimentatori a oltranza, i quali anche allora, come in ogni temperie storica di profondi mutamenti e di "insorgenti mode", non dovevano mancare; e "naturalmente" dovevano anche essere delle due solite specie di sempre: la specie di quelli che si sforzano di apparire "nuovi" tanto più radicalmente quanto meno lo sono in concreto (che poi è sempre la specie più comune, e la peggiore); e quelli che sinceramente infervorati di curiosità per il nuovo, vi si dedicano con una tal quale ingenuità (e talvolta finanche goffaggine) che ne rivela, non solo la sostanziale onestà e buona fede, ma anche più legami e nostalgie per le antiche tradizioni di quanti essi stessi non riconoscano (fenomeno comune e riscontrabile anche nei modi espressivi tipici di alcuni validi ma problematici e "difficili" artisti figurativi del primo Umanesimo).
Di tali ansie più o meno sincere, ma che in ogni caso determinano atteggiamenti non equilibrati sul piano della vita pratica, un uomo come l'Alberti, geloso della propria quiete interiore, attento ai vantaggi concreti dell'operare, e per di più animato da un certo aristocratico distacco, non poteva non avvertire il fastidio e non esprimerlo appunto quasi con un sorriso di compatimento, molto simile invero a quello messo dal caustico Vasari sulle labbra di Donatello, nei riguardi di Paolo Uccello, nel noto episodio della "Vita" di quest'ultimo, che ho già ricordato.
(103) L'Alberti, dopo aver consigliato di non affrettarsi a dare medicine, di non forzare la natura, di non lasciarsi prendere dalla smania di sperimentazione, conclude coerentemente il discorso affermando, finalmente in termini espliciti, di rifarsi con fiducia ai mezzi legittimati dall'esperienza.
Ora, per quanto questo possa apparire un consiglio ovvio dettato dal buonsenso in relazione soprattutto alla preoccupazione pura e semplice di salvaguardare il cavallo, esso, proprio perché ispirato dalle elementari esigenze della praticità "quotidiana", ci rivela immediatamente quale sia in concreto l'atteggiamento più autentico dell'uomo e, come tale, si presta a qualche conclusiva considerazione relativa a tutto questo contesto (e riallacciabile a quelle espresse nelle precedenti note) più di quanto a prima vista non comporterebbe l'esilità del singolo argomento (cfr.
le pagg.
38-42 [cfr.
Il titolo e i contenuti]).
(104) Cfr.
quanto ho messo in rilievo nella corrispondente nota, num.
8, a pag.
180 [nota 682 testo latino] il sospetto cioè che il trattato ci sia pervenuto incompleto.
In tal caso potrebbero essere le eventuali lacune o i mancati sviluppi dell'esposizione a compromettere l'esatta interpretazione del pensiero dell'autore.
Sta di fatto che gli estensori delle tre trascrizioni più antiche appaiono concordi nel sigillare a questo punto esplicitamente il termine dell'esposizione: quello del codice ora in Oxford, e così l'editore Stella, con un semplice "FINE"; quello del codice vaticano apponendo in calce alla stesura la nota che si può tradurre così: "Batt.
Alberti ha svolto la sua breve trattazione riguardante la vita del cavallo.
La quale Giovanni Odone Covato ha trascritto rapidamente il 7 marzo del 1468".
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