IL BUGIARDO, di Carlo Goldoni - pagina 2
...
.)
LEL.
(Presto.)
ARL.
(Le son fie d'un certo...)
LEL.
(Non voglio saper questo.
Dimmi il loro nome.)
ARL.
(Adesso.
So pader l'è un medico.)
LEL.
(Lo so.
Dimmi il loro nome, che tu sia maledetto.)
ARL.
(Una se chiama Rosaura, e l'altra Beatrice.)
LEL.
(Basta così.) (torna sotto al terrazzino) Perdonino.
Ho data una commissione al mio servitore.
ROS.
Ma voi siete veneziano, o pur forestiere?
LEL.
Sono un cavaliere napolitano.
ARL.
(Cavaliere e napolitano? Do busìe in t'una volta.)
ROS.
Ma come ci conoscete?
LEL.
Sarà ormai un anno, ch'io albergo incognito in questa città.
ARL.
(Semo arrivadi jer sera).
(da sè)
LEL.
Appena arrivato, mi si presentarono agli occhi le bellezze della signora Rosaura e della signora Beatrice.
Stetti qualche tempo dubbioso a chi dovessi donar il cuore, sembrandomi tutte due esserne degne, ma finalmente sono stato costretto a dichiararmi...
ROS.
Per chi?
LEL.
Questo è quello che dir non posso per ora.
ARL.
(da sè) (Se le ghe tenderà, el le torrà tutte do.)
BEAT.
Ma perchè avete renitenza a spiegarvi?
LEL.
Perchè temo prevenuta quella beltà ch'io desidero.
ROS.
Io vi assicuro che non ho amanti.
BEAT.
Nemmen io sono con alcuno impegnata.
ARL.
(a Lelio, piano) (Do piazze vacanti! l'è la vostra fortuna.)
LEL.
Però si fanno le serenate sotto le vostre finestre.
ROS.
Vi giuro sull'onor mio che non ne sappiamo l'autore.
BEAT.
Il cielo mi fulmini, se mi è noto chi l'abbia fatta.
LEL.
Lo credo anch'io che non lo saprete.
Ma veramente avreste curiosità di saperlo?
ROS.
Io ne muojo di volontà.
BEAT.
Siamo donne, e tanto basta.
LEL.
Orsù, vi leverò io di queste pene.
La serenata che avete goduta, è un piccolo testimonio di quell'affetto ch'io nutro per la mia bella.
ARL.
(Oh maledettissimo! Che boccon de carota!)
ROS.
E non volete dire per chi?
LEL.
No certamente.
Avete voi sentita quella canzonetta, ch'io feci cantare? Non parlava ella d'un amante segreto e timido? Quello appunto son io.
ROS.
Se dunque alcuna di noi non vi ringrazia, imputatelo a voi stesso, che non volete dichiarare a chi sieno stati diretti i vostri favori.
LEL.
Non merita ringraziamenti una tenue dimostrazione di stima.
Se avrò l'onore di servire scopertamente quella ch'io amo, farò stupire Venezia per il buon gusto, con cui soglio dare i divertimenti.
ARL.
(E un de sti dì s'impegna i abiti, se no vien so padre.)
ROS.
(a Beatrice) (Sorella, questo è un cavalier molto ricco.)
BEAT.
(a Rosaura) Non sarà per me.
Son troppo sfortunata.
ROS.
Signore, favoritemi almeno il vostro nome.
LEL.
Volentieri.
Don Asdrubale de' Marchesi di Castel d'Oro.
ARL.
(Nomi e cognomi no ghe ne manca.)
BEAT.
(a Rosaura) (Ritiriamoci.
Non ci facciamo credere due civette.)
ROS.
(Dite bene.
Usiamo prudenza).
Signor marchese, con sua licenza, l'aria principia a offenderci il capo.
LEL.
Volete già ritirarvi?
BEAT.
Una vecchia di casa ci sollecita, perchè andiamo al riposo.
LEL.
Pazienza! Resto privo di un gran contento.
ROS.
In altro tempo goderemo le vostre grazie.
LEL.
Domani, se il permettete, verrò in casa a riverirvi.
ARL.
(Sì, a drettura in casa.)
ROS.
Oh! bel bello, signor amante timido.
In casa non si viene con questa facilità.
LEL.
Almeno vi riverirò alla finestra.
ROS.
Sin qui ve lo concediamo.
BEAT.
E se vi dichiarerete, sarete ammesso a qualche cosa di più.
LEL.
Al ritorno del signor dottore, ne parleremo.
Intanto...
ROS.
Signor marchese, la riverisco.
(entra)
BEAT.
Signor Asdrubale, le son serva.
(entra)
SCENA IV
Lelio ed Arlecchino.
ARL.
(a Lelio ridendo) Signor napolitano, ghe baso la man.
LEL.
Che ne dici? Mi sono portato bene?
ARL.
Mi no so come diavolo fè a inventarve tante filastrocche, a dir tante busìe senza mai confonderve.
LEL.
Ignorante! Queste non sono bugie; sono spiritose invenzioni, prodotte dalla fertilità del mio ingegno pronto e brillante.
A chi vuol godere il mondo, necessaria è la franchezza, e non s'hanno a perdere le buone occasioni.
(parte)
SCENA V
Arlecchino, poi Colombina sul terrazzino.
ARL.
No vedo l'ora che vegna a Venezia so pader, perchè sto matto el se vol precipitar.
COL.
Ora che le padrone vanno a letto, posso anch'io prendere un poco d'aria.
ARL.
Un'altra femena sul terrazzin! No la me par nissuna de quelle do.
COL.
Un uomo passeggia e mi guarda; sarebbe tempo che anch'io, poverina, trovassi la mia fortuna.
ARL.
Vòi veder se me basta l'animo anca a mi de infilzarghene quattro, sul gusto del mio padron.
COL.
In verità, che si va accostando.
ARL.
Riverisco quel bello che anche di notte risplende, e non veduto, innamora 3.
COL.
Signore, chi siete voi?
ARL.
Don Piccaro di Catalogna.
COL.
(Il Don è titolo di cavaliere.)
ARL.
Son uno che more, spasima e diventa matto per voi.
COL.
Ma io non vi conosco.
ARL.
Sono un amante timido e vergognoso.
COL.
Con me può parlare con libertà, mentre sono una povera serva.
ARL.
(Serva! Giusto un bon negozio per mi.) Ditemi, bella servetta, avete voi sentita a cantare quella canzonetta?
COL.
Sì, signore, l'ho sentita.
ARL.
Sapete chi l'ha cantata?
COL.
Io, no certamente.
ARL.
L'ho cantata io.
COL.
La voce pareva di donna.
ARL.
Io ho l'abilità di cantare in tutte le voci.
I miei acuti vanno due ottave fuori del cembalo.
COL.
Era veramente una bella canzonetta amorosa.
ARL.
L'ho composta io.
COL.
È anche poeta?
ARL.
Ho succhiato anch'io il latte di una mussa 4.
COL.
Ma per chi ha fatto tutte queste fatiche?
ARL.
Per voi, mia cara, per voi.
COL.
Se credessi dicesse il vero, avrei occasione d'insuperbirmi.
ARL.
Credetelo, ve lo giuro per tutti i titoli della mia nobiltà.
COL.
Vi ringrazio di tutto cuore.
ARL.
Mia bella, che non farei per le vostre luci vermiglie?
COL.
Vengo, vengo.
Signore, le mie padrone mi chiamano.
ARL.
Deh, non mi private delle rubiconde tenebri della vostra bellezza.
COL.
Non posso più trattenermi.
ARL.
Ci rivedremo.
COL.
Sì, ci rivedremo.
Signor Don Piccaro, vi riverisco.
(entra)
ARL.
Gnanca mi no m'ho portà mal.
Dise ben el proverbi, che chi stà col lovo, impara a urlar.
Faria tort al me padron se andass via dal so servizio, senza aver imparà a dir cento mille busie.
(va in locanda)
SCENA VI
Giorno.
Florindo e Brighella.
BRIG.
Ecco qua: tutta la notte in serenada, e po la mattina a bon ora fora de casa.
L'amor, per quel che vedo, ghe leva el sonno.
FLOR.
Non ho potuto dormire, per la consolazione recatami dal bell'esito della mia serenata.
BRIG.
Bella consolazion! Aver speso i so bezzi, aver perso la notte, senza farsi merito colla morosa!
FLOR.
Bastami che Rosaura l'abbia goduta.
Io non ricerco di più.
BRIG.
La se contenta de troppo poco.
FLOR.
Senti, Brighella, intesi dire l'altr'jeri dalla mia cara Rosaura, ch'ella aveva desiderio d'avere un fornimento di pizzi di seta; ora che siamo in occasione di fiera, voglio io provvederglieli, e farle questo regalo.
BRIG.
Ben; e co stà occasion la poderà scomenzar a introdur el discorso, per descovrirghe el so amor.
FLOR.
Oh, non glieli voglio dar io.
Caro Brighella, ascoltami e fa quanto ti dico, se mi vuoi bene.
Prendi questa borsa, in cui vi sono dieci zecchini; va in Merceria, compra quaranta braccia di pizzi de' più belli che aver si possano, a mezzo filippo al braccio.
Ordina al mercante che li faccia avere a Rosaura, ma con espressa proibizione di svelar chi li manda.
BRIG.
Diese zecchini buttadi via.
FLOR.
Perchè?
BRIG.
Perchè no savendo la siora Rosaura da chi vegna el regalo, non l'averà nè obbligazion, nè gratitudine con chi la regala.
FLOR.
Non importa, col tempo lo saprà.
Per ora voglio acquistar merito senza scoprirmi.
BRIG.
Ma come avì fatto a unir sti diese zecchini?
FLOR.
Fra le mesate che mi manda da Bologna mio padre, e qualche incerto delle visite ch'io vo facendo in luogo del mio principale...
BRIG.
Se unisce tutto, e se buta via.
FLOR.
Via, Brighella, va subito a farmi questo piacere.
Oggi è il primo giorno di fiera: vorrei ch'ella avesse i pizzi avanti l'ora di pranzo.
BRIG.
No so cossa dir, lo fazzo de mala voja, ma lo servirò.
FLOR.
Avverti che sieno belli.
BRIG.
La se fida de mi.
FLOR.
Ti sarò eternamente obbligato.
BRIG.
(Co sti diese zecchini, un omo de spirito, el goderìa mezzo mondo.) (parte)
SCENA VII
Florindo, poi Ottavio.
FLOR.
Ecco lì quel caro terrazzino, a cui s'affaccia il mio bene.
S'ella ora venisse, mi pare che vorrei azzardarmi di dirle qualche parola.
Le direi, per esempio...
OTT.
(sopraggiunge dalla parte opposta al terrazzino, e sta osservando Florindo)
FLOR.
Sì, le direi: Signora, io vi amo teneramente; non posso vivere senza di voi; siete l'anima mia.
Cara, movetevi a compassione di me.
(si volta, e vede Ottavio) (Oimè, non vorrei che mi avesse veduto.) Amico, che dite voi della bella architettura di quel terrazzino?
OTT.
Bellissimo; ma, di grazia, siete voi architetto o ritrattista?
FLOR.
Che cosa volete voi dire?
OTT.
Voglio dire, se siete qui per copiare il disegno del terrazzino, o il bel volto delle padrone di casa.
FLOR.
Io non so quel che voi vi diciate.
OTT.
Benché, con più comodo, potete ritrarle in casa.
FLOR.
Io attendo alla mia professione.
Fo il medico, e non il pittore.
OTT.
Caro amico, avete voi sentita la serenata, che fu fatta in questo canale la scorsa notte?
FLOR.
Io vado a letto per tempo.
Non so di serenate.
OTT.
Eppure siete stato veduto passar di qui, mentre si cantava nella peota.
FLOR.
Sarò passato a caso.
Io non so nulla.
Io non ho innamorate...
OTT.
(Parmi che si confonda.
Sempre più credo ch'ei ne sia stato l'autore).
FLOR.
Signor Ottavio, vi riverisco.
OTT.
Fermatevi per un momento.
Sapete che siamo amici.
Non mi nascondete la verità.
Io amo la signora Beatrice, e a voi non ho difficoltà di svelarlo.
Se voi amate la signora Rosaura, potrò io forse contribuire a giovarvi; se amate la signora Beatrice, son pronto a cederla, se ella vi preferisce.
FLOR.
Vi torno a dire che io non faccio all'amore.
Applico alla medicina e alla chirurgia, e non mi curo di donne.
OTT.
Eppure non vi credo.
Più volte vi ho sentito gettar de' sospiri.
Per la medicina non si sospira.
FLOR.
Orsù, se non mi volete credere, non m'importa.
Vi torno a dire che io non amo donna veruna, e se guardavo quella finestra, erano attratti i miei lumi dalla vaghezza del suo disegno.
(guarda le finestre, e parte)
SCENA VIII
Ottavio, poi Lelio.
OTT.
Senz'altro è innamorato, e non volendolo a me confidare, temo che sia la sua diletta Beatrice.
Se la scorsa notte foss'io stato alla locanda, e non l'avessi perduta miseramente al giuoco, avrei veduto Florindo, e mi sarei d'ogni dubbio chiarito; ma aprirò gli occhi, e saprò svelare la verità.
LEL.
(uscendo dalla locanda) Chi vedo! Amico Ottavio!
OTT.
Lelio mio dilettissimo.
LEL.
Voi qui?
OTT.
Voi ritornato alla patria?
LEL.
Sì; vi giunsi nel giorno di jeri.
OTT.
Come avete voi fatto a lasciar Napoli, dove eravate ferito da cento strali amorosi?
LEL.
Ah, veramente sono di là con troppa pena partito, avendo lasciate tante bellezze da me trafitte.
Ma appena giunto in Venezia, le belle avventure che qui mi sono accadute, m'hanno fatto scordare tutte le bellezze napoletane.
OTT.
Mi rallegro con voi.
Sempre fortunato in amore.
LEL.
La fortuna qualche volta sa far giustizia, e amore non è sempre cieco.
OTT.
Già si sa, è il vostro merito, che vi arricchisce di pellegrine conquiste.
LEL.
Ditemi, siete voi pratico di questa città?
OTT.
Qualche poco.
Sarà un anno che vi abito.
LEL.
Conoscete voi quelle due sorelle, che abitano in quella casa?
OTT.
(Voglio scoprir terreno.) Non le conosco.
LEL.
Amico, sono due belle ragazze.
Una ha nome Rosaura, e l'altra Beatrice; sono figlie di un dottore di medicina, e tutt'e due sono innamorate di me.
OTT.
Tutt'e due?
LEL.
Sì, tutt'e due.
Vi par cosa strana?
OTT.
Ma come avete fatto a innamorarle sì presto?
LEL.
Appena mi videro, furono esse le prime a farmi un inchino, e m'invitarono a parlar seco loro.
OTT.
(Possibile che ciò sia vero!)
LEL.
Pochissime delle mie parole bastarono per incantarle; e tutt'e due mi si dichiararono amanti.
OTT.
Tutt'e due?
LEL.
Tutt'e due.
OTT.
(Fremo di gelosia.)
LEL.
Volevano ch'io entrassi in casa...
OTT.
(Anco di più!)
LEL.
Ma siccome si avvicinava la sera, mi venne in mente di dar loro un magnifico divertimento, e mi licenziai.
OTT.
Avete forse fatto fare una serenata?
LEL.
Per l'appunto.
Lo sapete anche voi?
OTT.
Sì, mi fu detto.
(Ora ho scoperto l'autore della serenata; Florindo ha ragione.)
LEL.
Ma non terminò colla serenata il divertimento della scorsa notte.
OTT.
(con ironia) Bravo, signor Lelio, che faceste di bello?
LEL.
Smontai dalla peota, feci portar in terra da' miei servidori una sontuosa cena, e impetrai dalle due cortesi sorelle l'accesso in casa, ove si terminò la notte fra i piatti e fra le bottiglie.
OTT.
Amico, non per far torto alla vostra onestà, ma giudicando che vogliate divertirvi meco, sospendo di credere ciò che mi avete narrato.
LEL.
Che? vi pajono cose straordinarie? Che difficoltà avete a crederlo?
OTT.
Non è cosa tanto ordinaria che due figlie oneste e civili, mentre il loro genitore è in campagna, aprano la porta di notte ad uno che può passare per forestiere, e permettano, che in casa loro si faccia un tripudio.
SCENA IX
Arlecchino e detti.
LEL.
Ecco il mio servo.
Ricercatelo minutamente, se è vero quanto vi dissi.
OTT.
(Sarebbe un gran caso che avessero commessa una simile debolezza!)
LEL.
Dimmi un poco, Arlecchino, dove sono stato la scorsa notte?
ARL.
A chiappar i freschi.
LEL.
Non ho parlato io sotto quel terrazzino con due signore?
ARL.
Gnorsì, l'è vera.
LEL.
Non ho fatta fare una serenata?
ARL.
Siguro, e mi ho cantà la canzonetta.
LEL.
Dopo non abbiamo fatto la cena?
ARL.
La cena...
LEL.
Sì, la gran cena in casa della signora Rosaura e della signora Beatrice.
(gli fa cenno che dica di sì)
ARL.
Sior sì, dalla siora Rosaura e dalla siora Beatrice.
LEL.
Non fu magnifica quella cena?
ARL.
E che magnada che avemo dà!
LEL.
(ad Ottavio) Sentite? Eccovi confermata ogni circostanza.
OTT.
Non so che ripetere: siete un uomo assai fortunato.
LEL.
Non dico per dire, ma la fortuna non è il primo motivo delle mie conquiste.
OTT.
Ma da che derivano queste?
LEL.
Sia detto colla dovuta modestia, da qualche poco di merito.
OTT.
Sì, ve l'accordo.
Siete un giovine di brio, manieroso; a Napoli ho avuto occasione di ammirare il vostro spirito: ma innamorar due sorelle così su due piedi...
mi par troppo.
LEL.
Eh amico! ne vedrete delle più belle!
OTT.
Sono schiavo del vostro merito e della vostra fortuna.
A miglior tempo ci goderemo.
Ora, se mi date licenza, devo andare nella mia camera a prendere del denaro per pagare la perdita della scorsa notte.
(s'incammina verso la locanda)
LEL.
Dove siete alloggiato?
OTT.
In quella locanda.
LEL.
(Oh diavolo!) Alloggio anch'io nella locanda istessa, ma nè jeri, nè la notte passata vi ho qui veduto.
OTT.
Andai a pranzo fuori di casa, ed ho giuocato tutta la notte.
LEL.
Siete qui da tanto tempo alloggiato e non conoscete quelle due signore?
OTT.
Le conosco di vista, ma non ho seco loro amicizia.
(Non vo' scoprirmi).
LEL.
Sentite: se mai v'incontraste a parlar con esse, avvertite non far loro nota la confidenza che a voi ho fatta.
Sono cose che si fanno segretamente.
Ad altri che a un amico di cuore, non le avrei confidate.
OTT.
Amico, a rivederci.
LEL.
Vi sono schiavo.
OTT.
(Non mi sarei mai creduto che Rosaura e Beatrice avessero così poca riputazione.) (entra in locanda)
SCENA X
Lelio ed Arlecchino.
ARL.
Sior patron, se farì cussì, s'imbroieremo.
LEL.
Sciocco che sei, secondami e non pensar altro.
ARL.
Femo una cossa.
Quando volì dir qualche busìa...
LEL.
Asinaccio! Qualche spiritosa invenzione.
ARL.
Ben.
Quando volì dir qualche spiritosa invenzion, feme un segno, acciò che anca mi possa segondar la spiritosa invenzion.
LEL.
Questa tua goffaggine m'incomoda infinitamente.
ARL.
Fe cusì, quando volì che segonda, tirè un starnudo.
LEL.
Ma vi vuol tanto a dir come dico io?
ARL.
Me confondo.
No so quando abbia da parlar, e quando abbia da taser.
SCENA XI
Rosaura e Colombina mascherate, di casa, e detti.
LEL.
Osserva, Arlecchino, quelle due maschere che escono di quella casa.
ARL.
Semio de carneval?
LEL.
In questa città, il primo giorno della fiera si fanno maschere ancor di mattina.
ARL.
Chi mai sarale?
LEL.
Assolutamente saranno le due sorelle, colle quali ho parlato la scorsa notte.
ARL.
Sti mustazzi coverti l'è una brutta usanza.
LEL.
Signore, non occorre celar il volto per coprire le vostre bellezze, mentre la luce tramandata da' vostri occhi bastantemente vi manifesta.
ROS.
(accennando Colombina) Anco questa?
LEL.
Sono impegnato per ora a non distinguere il merito di una sorella da quello dell'altra.
ROS.
Ma questa è la cameriera.
ARL.
Alto là, sior padron, questa l'è roba mia.
LEL.
Non è gran cosa ch'io abbia equivocato con due maschere.
ROS.
Però i raggi delle luci di Colombina fanno nel vostro spirito l'istessa impressione de' miei.
LEL.
Signora, ora che posso parlarvi con libertà, vi dirò che voi sola siete quella che attraete tutte le mie ammirazioni, che occupate intieramente il mio cuore, e se parlai egualmente della creduta vostra sorella, lo feci senza mirarla.
ROS.
E mi distinguete da mia sorella, benchè mascherata?
LEL.
E come! Vi amerei ben poco, se non sapessi conoscervi.
ROS.
E da che mi conoscete?
LEL.
Dalla voce, dalla figura, dall'aria nobile e maestosa, dal brio de' vostri occhi, e poi dal mio cuore, che meco non sa mentire.
ROS.
Ditemi, in grazia, chi sono io?
LEL.
Siete l'idolo mio.
ROS.
Ma il mio nome qual è?
LEL.
(Conviene indovinarlo).
Rosaura.
ROS.
Bravo! ora vedo che mi conoscete.
(si scuopre)
LEL.
(Questa volta la sorte mi ha fatto coglier nel vero.) (piano ad Arlecchino) Osserva, Arlecchino, che volto amabile!
ARL.
(Crepo dalla curiosità de veder in tel babbio quell'altra.)
ROS.
Posso veramente assicurarmi dell'amor vostro?
LEL.
Asdrubale non sa mentire.
Vi amo, vi adoro, e quando mi è vietato il vedervi, non fo che da me stesso ripetere il vostro nome, lodar le vostre bellezze.
(ad Arlecchino) Di' tu, non è vero?
ARL.
(da sè) (Se podesse veder quella maschereta!)
LEL.
Rispondi, non è vero? (starnuta)
ARL.
Sior sì, l'è verissimo.
ROS.
Perchè dunque, se tanto mi amate, non vi siete finora spiegato?
LEL.
Vi dirò, mia cara.
Il mio genitore voleva accasarmi a Napoli con una palermitana, ed io che l'aborriva anzi che amarla, mi assentai per non esser astretto alle odiose nozze.
Scrissi a mio padre che, acceso delle vostre bellezze, vi desiderava in consorte, e solo jeri n'ebbi con lettera il di lui assenso.
ROS.
Mi par difficile che vostro padre vi accordi che sposiate la figlia di un medico.
LEL.
Eppure è la verità.
(starnuta)
ARL.
Signora sì, la lettera l'ho letta mi.
ROS.
Ma la dote che potrà darvi mio padre, non sarà corrispondente al merito della vostra casa.
LEL.
La casa di Castel d'Oro non ha bisogno di dote.
Il mio genitore è un bravo economo.
Sono venti anni che egli accumula gioje, ori, argenti per le mie nozze.
Voi sarete una ricca sposa.
ROS.
Rimango sorpresa, e le troppe grandezze che mi mettete in vista, mi fanno temere che mi deludiate per divertirvi.
LEL.
Guardimi il cielo, che io dica una falsità; non sono capace di alterare in una minima parte la verità.
Da che ho l'uso della ragione, non vi è persona che possa rimproverarmi di una leggiera bugia.
(Arlecchino ride) Domandatelo al mio servitore.
(starnuta)
ARL.
Signora sì; el me padron l'è la bocca della verità.
ROS.
Quando potrò sperare veder qualche prova della verità che mi dite?
LEL.
Subito che ritorna vostro padre in Venezia.
ROS.
Vedrò se veramente mi amate di cuor leale.
LEL.
Non troverete l'uomo più sincero di me.
SCENA XII
Un Giovane di merceria, con scatola di pizzi, e detti.
GIOV.
Questa mi par la casa del signor dottore.
(si accosta per battere)
ROS.
Chi domandate, quel giovine?
GIOV.
Perdoni, signora maschera, è questa la casa del signor dottor Balanzoni?
ROS.
Per l'appunto: che ricercate?
GIOV.
Ho della roba da consegnare alla signora Rosaura, di lui figliuola.
ROS.
Quella sono io.
Che roba è? Chi la manda?
GIOV.
Questi sono quaranta braccia di bionda.
Il mio padrone m'ha detto che viene a lei; ma nè egli, nè io sappiamo chi sia la persona che l'ha comprata.
ROS.
Quand'è così, riportatela pure.
Io non ricevo la roba se non so da chi mi viene mandata.
GIOV.
Io ho l'ordine di lasciargliela in ogni forma.
Se non la vuol ricevere per la strada, batterò e la porterò in casa.
ROS.
Vi dico che non la voglio assolutamente.
GIOV.
È pagata: costa dieci zecchini.
ROS.
Ma chi la manda?
GIOV.
Non lo so, da giovine onorato.
ROS.
Dunque non la voglio.
LEL.
Signora Rosaura, ammiro la vostra delicatezza.
Prendete i pizzi senza riguardo, e poichè li ricusate per non sapere da qual mano vi vengono presentati, sono forzato a dirvi esser quei pizzi un piccolo testimonio della mia stima.
GIOV.
Sente? Li ha comprati questo signore.
ARL.
(si maraviglia)
ROS.
(a Lelio) Voi me li regalate?
LEL.
Sì, mia signora, e volevo aver il merito di farlo senza dirlo, per non avere il rossore di offerirvi una cosa così triviale.
GIOV.
Sappia, signora, che di meglio difficilmente si trova.
LEL.
Io poi sono di buon gusto.
Il mio denaro lo spendo bene.
ARL.
(Oh che galiotto!)
ROS.
Gradisco sommamente le vostre grazie.
Credetemi che quei pizzi mi sono cari all'eccesso.
Per l'appunto li desideravo e li volevo comprare, non però così belli.
Prendi, Colombina.
Domani principierai a disporli pel fornimento.
(Colombina riceve dal Giovane la scatola)
GIOV.
(a Lelio) Comanda altro?
LEL.
No, andate pure.
GIOV.
Illustrissimo, mi dona la cortesia?
LEL.
Ci rivedremo.
GIOV.
(a Rosaura) Signora, l'ho servita puntualmente.
ROS.
Aspettate, vi darò la mancia...
LEL.
Mi maraviglio.
Farò io.
GIOV.
(a Lelio) Grazie infinite.
Son qui da lei.
LEL.
Andate, che ci rivedremo.
GIOV.
(Ho inteso, non lo vedo mai più.) (parte)
SCENA XIII
Lelio, Rosaura, Colombina e Arlecchino.
ROS.
Se mi date licenza, torno in casa.
LEL.
Non volete ch'io abbia l'onore di servirvi?
ROS.
Per ora no.
Uscii mascherata solo per vedervi e parlarvi e sentire da voi chi era la fortunata favorita dalla vostra predilezione.
Ora tutta lieta me ne ritorno dentro.
LEL.
Vi portate con voi il mio cuore.
ROS.
A mia sorella che dovrò dire?
LEL.
Per ora non vi consiglio scoprire i nostri interessi.
ROS.
Tacerò, perchè m'insinuate di farlo.
LEL.
Sposina, amatemi di buon cuore.
ROS.
Sposa? Ancor ne dubito.
LEL.
Le mie parole sono contratti.
ROS.
Il tempo ne sarà giudice.
(entra in casa)
COL.
(Quel morettino mi pare quello che parlò meco stanotte, ma l'abito non è di Don Piccaro.
Or ora, senza soggezione, mi chiarirò.) (entra in casa)
SCENA XIV
Lelio ed Arlecchino, poi Colombina.
ARL.
Sia maledetto, l'è andada via senza che la possa veder in fazza.
LEL.
Che dici della bellezza di Rosaura? Non è un capo d'opera?
ARL.
Ella l'è un capo d'opera de bellezza, e Vusioria un capo d'opera per le spiritose invenzion.
LEL.
Dubito che ella abbia qualche incognito amante, il quale aspiri alla sua grazia e non ardisca di dirlo.
ARL.
E vu mò, prevalendove dell'occasion, supplì alle so mancanze.
LEL.
Sarei pazzo, se non mi approfittassi d'una sì bella occasione.
COL.
(torna a uscire di casa, senza maschera)
ARL.
Oe, la cameriera torna in strada.
La mia, in materia de muso, no la gh'ha gnente d'invidia della vostra.
LEL.
Se puoi, approfittati; se fai breccia, procura ch'ella cooperi colla sua padrona per me.
ARL.
Insegnème qualche busìa.
LEL.
La natura a tutti ne somministra.
ARL.
Signora, se non m'inganno, ella è quella de sta notte.
COL.
Sono quella di questa notte, quella di jeri e quella che ero già vent'anni.
ARL.
Brava, spiritosa! Mi mo son quello che sta notte gh'ha dito quelle belle parole.
COL.
Il signor Don Piccaro?
ARL.
Per servirla.
COL.
Mi perdoni, non posso crederlo.
L'abito che ella porta, non è da cavaliere.
ARL.
Son cavaliere, nobile, ricco e grande; e se non lo credete, domandatelo a questo mio amico.
(starnuta verso Lelio)
COL.
Evviva.
ARL.
Obbligatissimo.
(piano a Lelio) (Sior padron, ho starnudado.)
LEL.
(piano ad Arlecchino) (Sbrigati e vieni meco).
ARL.
(piano a Lelio) (Ve prego, confermè anca vu le mie spi
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