IL BUGIARDO, di Carlo Goldoni - pagina 3
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Ma siccome si avvicinava la sera, mi venne in mente di dar loro un magnifico divertimento, e mi licenziai.
OTT.
Avete forse fatto fare una serenata?
LEL.
Per l'appunto.
Lo sapete anche voi?
OTT.
Sì, mi fu detto.
(Ora ho scoperto l'autore della serenata; Florindo ha ragione.)
LEL.
Ma non terminò colla serenata il divertimento della scorsa notte.
OTT.
(con ironia) Bravo, signor Lelio, che faceste di bello?
LEL.
Smontai dalla peota, feci portar in terra da' miei servidori una sontuosa cena, e impetrai dalle due cortesi sorelle l'accesso in casa, ove si terminò la notte fra i piatti e fra le bottiglie.
OTT.
Amico, non per far torto alla vostra onestà, ma giudicando che vogliate divertirvi meco, sospendo di credere ciò che mi avete narrato.
LEL.
Che? vi pajono cose straordinarie? Che difficoltà avete a crederlo?
OTT.
Non è cosa tanto ordinaria che due figlie oneste e civili, mentre il loro genitore è in campagna, aprano la porta di notte ad uno che può passare per forestiere, e permettano, che in casa loro si faccia un tripudio.
SCENA IX
Arlecchino e detti.
LEL.
Ecco il mio servo.
Ricercatelo minutamente, se è vero quanto vi dissi.
OTT.
(Sarebbe un gran caso che avessero commessa una simile debolezza!)
LEL.
Dimmi un poco, Arlecchino, dove sono stato la scorsa notte?
ARL.
A chiappar i freschi.
LEL.
Non ho parlato io sotto quel terrazzino con due signore?
ARL.
Gnorsì, l'è vera.
LEL.
Non ho fatta fare una serenata?
ARL.
Siguro, e mi ho cantà la canzonetta.
LEL.
Dopo non abbiamo fatto la cena?
ARL.
La cena...
LEL.
Sì, la gran cena in casa della signora Rosaura e della signora Beatrice.
(gli fa cenno che dica di sì)
ARL.
Sior sì, dalla siora Rosaura e dalla siora Beatrice.
LEL.
Non fu magnifica quella cena?
ARL.
E che magnada che avemo dà!
LEL.
(ad Ottavio) Sentite? Eccovi confermata ogni circostanza.
OTT.
Non so che ripetere: siete un uomo assai fortunato.
LEL.
Non dico per dire, ma la fortuna non è il primo motivo delle mie conquiste.
OTT.
Ma da che derivano queste?
LEL.
Sia detto colla dovuta modestia, da qualche poco di merito.
OTT.
Sì, ve l'accordo.
Siete un giovine di brio, manieroso; a Napoli ho avuto occasione di ammirare il vostro spirito: ma innamorar due sorelle così su due piedi...
mi par troppo.
LEL.
Eh amico! ne vedrete delle più belle!
OTT.
Sono schiavo del vostro merito e della vostra fortuna.
A miglior tempo ci goderemo.
Ora, se mi date licenza, devo andare nella mia camera a prendere del denaro per pagare la perdita della scorsa notte.
(s'incammina verso la locanda)
LEL.
Dove siete alloggiato?
OTT.
In quella locanda.
LEL.
(Oh diavolo!) Alloggio anch'io nella locanda istessa, ma nè jeri, nè la notte passata vi ho qui veduto.
OTT.
Andai a pranzo fuori di casa, ed ho giuocato tutta la notte.
LEL.
Siete qui da tanto tempo alloggiato e non conoscete quelle due signore?
OTT.
Le conosco di vista, ma non ho seco loro amicizia.
(Non vo' scoprirmi).
LEL.
Sentite: se mai v'incontraste a parlar con esse, avvertite non far loro nota la confidenza che a voi ho fatta.
Sono cose che si fanno segretamente.
Ad altri che a un amico di cuore, non le avrei confidate.
OTT.
Amico, a rivederci.
LEL.
Vi sono schiavo.
OTT.
(Non mi sarei mai creduto che Rosaura e Beatrice avessero così poca riputazione.) (entra in locanda)
SCENA X
Lelio ed Arlecchino.
ARL.
Sior patron, se farì cussì, s'imbroieremo.
LEL.
Sciocco che sei, secondami e non pensar altro.
ARL.
Femo una cossa.
Quando volì dir qualche busìa...
LEL.
Asinaccio! Qualche spiritosa invenzione.
ARL.
Ben.
Quando volì dir qualche spiritosa invenzion, feme un segno, acciò che anca mi possa segondar la spiritosa invenzion.
LEL.
Questa tua goffaggine m'incomoda infinitamente.
ARL.
Fe cusì, quando volì che segonda, tirè un starnudo.
LEL.
Ma vi vuol tanto a dir come dico io?
ARL.
Me confondo.
No so quando abbia da parlar, e quando abbia da taser.
SCENA XI
Rosaura e Colombina mascherate, di casa, e detti.
LEL.
Osserva, Arlecchino, quelle due maschere che escono di quella casa.
ARL.
Semio de carneval?
LEL.
In questa città, il primo giorno della fiera si fanno maschere ancor di mattina.
ARL.
Chi mai sarale?
LEL.
Assolutamente saranno le due sorelle, colle quali ho parlato la scorsa notte.
ARL.
Sti mustazzi coverti l'è una brutta usanza.
LEL.
Signore, non occorre celar il volto per coprire le vostre bellezze, mentre la luce tramandata da' vostri occhi bastantemente vi manifesta.
ROS.
(accennando Colombina) Anco questa?
LEL.
Sono impegnato per ora a non distinguere il merito di una sorella da quello dell'altra.
ROS.
Ma questa è la cameriera.
ARL.
Alto là, sior padron, questa l'è roba mia.
LEL.
Non è gran cosa ch'io abbia equivocato con due maschere.
ROS.
Però i raggi delle luci di Colombina fanno nel vostro spirito l'istessa impressione de' miei.
LEL.
Signora, ora che posso parlarvi con libertà, vi dirò che voi sola siete quella che attraete tutte le mie ammirazioni, che occupate intieramente il mio cuore, e se parlai egualmente della creduta vostra sorella, lo feci senza mirarla.
ROS.
E mi distinguete da mia sorella, benchè mascherata?
LEL.
E come! Vi amerei ben poco, se non sapessi conoscervi.
ROS.
E da che mi conoscete?
LEL.
Dalla voce, dalla figura, dall'aria nobile e maestosa, dal brio de' vostri occhi, e poi dal mio cuore, che meco non sa mentire.
ROS.
Ditemi, in grazia, chi sono io?
LEL.
Siete l'idolo mio.
ROS.
Ma il mio nome qual è?
LEL.
(Conviene indovinarlo).
Rosaura.
ROS.
Bravo! ora vedo che mi conoscete.
(si scuopre)
LEL.
(Questa volta la sorte mi ha fatto coglier nel vero.) (piano ad Arlecchino) Osserva, Arlecchino, che volto amabile!
ARL.
(Crepo dalla curiosità de veder in tel babbio quell'altra.)
ROS.
Posso veramente assicurarmi dell'amor vostro?
LEL.
Asdrubale non sa mentire.
Vi amo, vi adoro, e quando mi è vietato il vedervi, non fo che da me stesso ripetere il vostro nome, lodar le vostre bellezze.
(ad Arlecchino) Di' tu, non è vero?
ARL.
(da sè) (Se podesse veder quella maschereta!)
LEL.
Rispondi, non è vero? (starnuta)
ARL.
Sior sì, l'è verissimo.
ROS.
Perchè dunque, se tanto mi amate, non vi siete finora spiegato?
LEL.
Vi dirò, mia cara.
Il mio genitore voleva accasarmi a Napoli con una palermitana, ed io che l'aborriva anzi che amarla, mi assentai per non esser astretto alle odiose nozze.
Scrissi a mio padre che, acceso delle vostre bellezze, vi desiderava in consorte, e solo jeri n'ebbi con lettera il di lui assenso.
ROS.
Mi par difficile che vostro padre vi accordi che sposiate la figlia di un medico.
LEL.
Eppure è la verità.
(starnuta)
ARL.
Signora sì, la lettera l'ho letta mi.
ROS.
Ma la dote che potrà darvi mio padre, non sarà corrispondente al merito della vostra casa.
LEL.
La casa di Castel d'Oro non ha bisogno di dote.
Il mio genitore è un bravo economo.
Sono venti anni che egli accumula gioje, ori, argenti per le mie nozze.
Voi sarete una ricca sposa.
ROS.
Rimango sorpresa, e le troppe grandezze che mi mettete in vista, mi fanno temere che mi deludiate per divertirvi.
LEL.
Guardimi il cielo, che io dica una falsità; non sono capace di alterare in una minima parte la verità.
Da che ho l'uso della ragione, non vi è persona che possa rimproverarmi di una leggiera bugia.
(Arlecchino ride) Domandatelo al mio servitore.
(starnuta)
ARL.
Signora sì; el me padron l'è la bocca della verità.
ROS.
Quando potrò sperare veder qualche prova della verità che mi dite?
LEL.
Subito che ritorna vostro padre in Venezia.
ROS.
Vedrò se veramente mi amate di cuor leale.
LEL.
Non troverete l'uomo più sincero di me.
SCENA XII
Un Giovane di merceria, con scatola di pizzi, e detti.
GIOV.
Questa mi par la casa del signor dottore.
(si accosta per battere)
ROS.
Chi domandate, quel giovine?
GIOV.
Perdoni, signora maschera, è questa la casa del signor dottor Balanzoni?
ROS.
Per l'appunto: che ricercate?
GIOV.
Ho della roba da consegnare alla signora Rosaura, di lui figliuola.
ROS.
Quella sono io.
Che roba è? Chi la manda?
GIOV.
Questi sono quaranta braccia di bionda.
Il mio padrone m'ha detto che viene a lei; ma nè egli, nè io sappiamo chi sia la persona che l'ha comprata.
ROS.
Quand'è così, riportatela pure.
Io non ricevo la roba se non so da chi mi viene mandata.
GIOV.
Io ho l'ordine di lasciargliela in ogni forma.
Se non la vuol ricevere per la strada, batterò e la porterò in casa.
ROS.
Vi dico che non la voglio assolutamente.
GIOV.
È pagata: costa dieci zecchini.
ROS.
Ma chi la manda?
GIOV.
Non lo so, da giovine onorato.
ROS.
Dunque non la voglio.
LEL.
Signora Rosaura, ammiro la vostra delicatezza.
Prendete i pizzi senza riguardo, e poichè li ricusate per non sapere da qual mano vi vengono presentati, sono forzato a dirvi esser quei pizzi un piccolo testimonio della mia stima.
GIOV.
Sente? Li ha comprati questo signore.
ARL.
(si maraviglia)
ROS.
(a Lelio) Voi me li regalate?
LEL.
Sì, mia signora, e volevo aver il merito di farlo senza dirlo, per non avere il rossore di offerirvi una cosa così triviale.
GIOV.
Sappia, signora, che di meglio difficilmente si trova.
LEL.
Io poi sono di buon gusto.
Il mio denaro lo spendo bene.
ARL.
(Oh che galiotto!)
ROS.
Gradisco sommamente le vostre grazie.
Credetemi che quei pizzi mi sono cari all'eccesso.
Per l'appunto li desideravo e li volevo comprare, non però così belli.
Prendi, Colombina.
Domani principierai a disporli pel fornimento.
(Colombina riceve dal Giovane la scatola)
GIOV.
(a Lelio) Comanda altro?
LEL.
No, andate pure.
GIOV.
Illustrissimo, mi dona la cortesia?
LEL.
Ci rivedremo.
GIOV.
(a Rosaura) Signora, l'ho servita puntualmente.
ROS.
Aspettate, vi darò la mancia...
LEL.
Mi maraviglio.
Farò io.
GIOV.
(a Lelio) Grazie infinite.
Son qui da lei.
LEL.
Andate, che ci rivedremo.
GIOV.
(Ho inteso, non lo vedo mai più.) (parte)
SCENA XIII
Lelio, Rosaura, Colombina e Arlecchino.
ROS.
Se mi date licenza, torno in casa.
LEL.
Non volete ch'io abbia l'onore di servirvi?
ROS.
Per ora no.
Uscii mascherata solo per vedervi e parlarvi e sentire da voi chi era la fortunata favorita dalla vostra predilezione.
Ora tutta lieta me ne ritorno dentro.
LEL.
Vi portate con voi il mio cuore.
ROS.
A mia sorella che dovrò dire?
LEL.
Per ora non vi consiglio scoprire i nostri interessi.
ROS.
Tacerò, perchè m'insinuate di farlo.
LEL.
Sposina, amatemi di buon cuore.
ROS.
Sposa? Ancor ne dubito.
LEL.
Le mie parole sono contratti.
ROS.
Il tempo ne sarà giudice.
(entra in casa)
COL.
(Quel morettino mi pare quello che parlò meco stanotte, ma l'abito non è di Don Piccaro.
Or ora, senza soggezione, mi chiarirò.) (entra in casa)
SCENA XIV
Lelio ed Arlecchino, poi Colombina.
ARL.
Sia maledetto, l'è andada via senza che la possa veder in fazza.
LEL.
Che dici della bellezza di Rosaura? Non è un capo d'opera?
ARL.
Ella l'è un capo d'opera de bellezza, e Vusioria un capo d'opera per le spiritose invenzion.
LEL.
Dubito che ella abbia qualche incognito amante, il quale aspiri alla sua grazia e non ardisca di dirlo.
ARL.
E vu mò, prevalendove dell'occasion, supplì alle so mancanze.
LEL.
Sarei pazzo, se non mi approfittassi d'una sì bella occasione.
COL.
(torna a uscire di casa, senza maschera)
ARL.
Oe, la cameriera torna in strada.
La mia, in materia de muso, no la gh'ha gnente d'invidia della vostra.
LEL.
Se puoi, approfittati; se fai breccia, procura ch'ella cooperi colla sua padrona per me.
ARL.
Insegnème qualche busìa.
LEL.
La natura a tutti ne somministra.
ARL.
Signora, se non m'inganno, ella è quella de sta notte.
COL.
Sono quella di questa notte, quella di jeri e quella che ero già vent'anni.
ARL.
Brava, spiritosa! Mi mo son quello che sta notte gh'ha dito quelle belle parole.
COL.
Il signor Don Piccaro?
ARL.
Per servirla.
COL.
Mi perdoni, non posso crederlo.
L'abito che ella porta, non è da cavaliere.
ARL.
Son cavaliere, nobile, ricco e grande; e se non lo credete, domandatelo a questo mio amico.
(starnuta verso Lelio)
COL.
Evviva.
ARL.
Obbligatissimo.
(piano a Lelio) (Sior padron, ho starnudado.)
LEL.
(piano ad Arlecchino) (Sbrigati e vieni meco).
ARL.
(piano a Lelio) (Ve prego, confermè anca vu le mie spiritose invenzion.)
COL.
Di che paese è, mio signore? (ad Arlecchino)
ARL.
Io sono dell'alma città di Roma.
Sono imparentato coi primi cavalieri d'Europa, ed ho i miei feudi nelle quattro parti del mondo.
(starnuta forte)
COL.
Il ciel l'ajuti!
ARL.
Non s'incomodi, ch'è tabacco.
(piano a Lelio) (Gnanca per servizio?)
LEL.
(Le dici troppo pesanti.)
ARL.
(Gnanca le vostre no le son liniere.)
COL.
Il signor Marchese, che ama la mia padrona, l'ha regalata; se Vossignoria facesse stima di me, farebbe lo stesso.
ARL.
Comandate.
Andate in Fiera, prendete quel che vi piace, ch'io pagherò; e disponete sino ad un mezzo milione.
COL.
Signor Don Piccaro, è troppo grossa.
(entra in casa)
SCENA XV
Lelio ed Arlecchino.
LEL.
Non te l'ho detto? Sei un balordo.
ARL.
Se l'ho da sbarar, tanto serve metter man al pezzo più grosso.
LEL.
Orsù, sieguimi; voglio andar nell'albergo.
Non vedo l'ora di vedere Ottavio, per raccontargli questa nuova avventura.
ARL.
Me par a mi che no sia troppo ben fatto raccontar tutti i fatti soi.
LEL.
Il maggior piacer dell'amante è il poter raccontare con vanità i favori della sua bella.
ARL.
E con qualche poco de zonta.
LEL.
Il racconto delle avventure amorose non può aver grazia senza un po' di romanzo.
(entra in locanda)
ARL.
Evviva le spiritose invenzion.
(entra in locanda)
SCENA XVI
Una gondola condotta da due barcajuoli, dalla quale sbarcano Pantalone e il Dottore, vestiti da campagna.
DOTT.
Grazie al cielo, siamo arrivati felicemente.
PAN.
Dalla Mira a Venezia no se pol vegnir più presto de quel che semo vegnui 5.
DOTT.
Questo per me è stato un viaggio felicissimo.
In primo luogo sono stato a Padova, dove in tre consulti ho guadagnato dieci zecchini.
Questa notte sono stato in casa vostra trattato in Apolline, e poi soprattutto il matrimonio che abbiamo concluso fra il signor Lelio, vostro figlio, e Rosaura, mia figlia, mi colma d'allegrezza e di consolazione.
PAN.
Xè tanti anni che semo amici, ho gusto che deventemo parenti.
DOTT.
Quando credete che vostro figlio possa arrivare in Venezia?
PAN.
Coll'ultima lettera che el m'ha scritto da Roma el me dise che el parte subito.
Ancuo o doman l'averave da esser qua.
DOTT.
Ditemi, caro amico, è poi un giovane ben fatto? Forte, prosperoso? Mia figlia sarà in grado di esser contenta?
PAN.
Mi veramente xè vinti anni che no lo vedo.
De dies'anni l'ho mandà a Napoli da un mio fradello, col qual negozievimo insieme.
DOTT.
Se lo vedeste, non lo conoscereste?
PAN.
Siguro, perchè el xè andà via putello.
Ma per le relazion ch'ho avude de elo, l'è un zovene de proposito, de bona presenza e de spirito.
DOTT.
Ho piacere.
Tanto più mia figlia sarà contenta.
PAN.
Xè assae che no l'abbiè maridada avanti d'adesso.
DOTT.
Vi dirò la verità.
Ho in casa uno scolaro del mio paese, un certo signor Florindo, giovine di buona casa e d'ottimi costumi.
Io ho sempre desiderato di darla a lui per moglie, ma finalmente mi sono assicurato ch'è contrarissimo al matrimonio e nemico del sesso femminino, onde ho risoluto di collocarla in qualch'altra casa.
Fortunatamente son venuto da voi, e in quattro parole abbiamo concluso il miglior negozio di questo mondo.
PAN.
E siora Beatrice la voleu maridar?
DOTT.
Ora che marito Rosaura, se posso, voglio spicciarmi anche di lei.
PAN.
Farè ben.
Le putte in casa, specialmente co no gh'è la madre, no le sta ben.
DOTT.
Vi è un certo signor Ottavio, cavalier padovano, che la prenderebbe, ma sin ad ora non ho voluto che la maggiore restasse indietro.
Ora può darsi che gliela dia.
PAN.
Sior Ottavio lo cognosso; cognosso so sior pare e tutta la so casa.
Dèghela, che fe un bon negozio.
DOTT.
Tanto più gliela darò, perchè voi mi date questo consiglio.
Signor Pantalone, vi ringrazio d'avermi fatto condurre sin qui dalla vostra gondola.
Vado in casa, vado a principiare il discorso a tutt'e due le mie figlie, ma specialmente a Rosaura, che, se non m'inganno, parmi di vedere in quegli occhi una grand'inclinazione al matrimonio.
(apre la porta, ed entra in casa)
SCENA XVII
Pantalone solo.
Sta inclinazion ghe xè poche putte che no la gh'abbia.
Chi per meggiorar condizion, chi per aver un poco più de libertà, chi per no dormir sole, no le vede l'ora de maridarse.
SCENA XVIII
Lelio ed un Vetturino, dalla locanda, e detto.
VETT.
Mi maraviglio di lei, che non si vergogni darmi un zecchino di mancia da Napoli sino a Venezia.
LEL.
La mancia è cortesia, e non è obbligo; e quando ti do un zecchino, intendo trattarti bene.
VETT.
Le mance sono il nostro salario.
Da Napoli a qui mi aspettavo almeno tre zecchini.
PAN.
(da sè) (Sto zentilomo vien da Napoli, chi sa che no l'abbia visto mio fio.)
LEL.
Orsù, se vuoi lo zecchino, bene; se no, lascialo, e ti darò in cambio una dozzina di bastonate.
VETT.
Se non fossimo a Venezia, le farei vedere quel che sono i vetturini napoletani.
LEL.
Vattene, e non mi rompere il capo.
VETT.
Ecco cosa si guadagna a servire questi pidocchi.
(parte)
LEL.
Temerario! Ti romperò le braccia.
(È meglio lasciarlo andare.)
PAN.
(Che el fusse elo mio fio?)
LEL.
Vetturini! Non si contentano mai.
Vorrebbero potere scorticare il povero forestiere.
PAN.
(Voggio assicurarme con bona maniera, per no fallar.) Lustrissimo, la perdona l'ardir, vienla da Napoli?
LEL.
Sì, signore.
PAN.
A Napoli gh'ho dei patroni e dei amici assae; carteggio con molti cavalieri; se mai vusustrissima fusse un de quelli, sarave mia fortuna el poderla servir.
LEL.
Io sono il conte d'Ancora per servirvi.
PAN.
(Cancarazzo! Nol xè mio fio.
M'avea ingannà.) La perdona, lustrissimo sior conte, l'ardìr: ala cognossù in Napoli un certo sior Lelio Bisognosi?
LEL.
L'ho conosciuto benissimo; anzi era molto mio amico, un giovane veramente di tutto garbo, pieno di spirito; amato, adorato da tutti.
Le donne gli corrono dietro, egli è l'idolo di Napoli, e quello che è più rimarchevole, è d'un cuore schietto e sincero, ch'è impossibile che egli non dica sempre la verità.
PAN.
(Cielo, te ringrazio.) El me consola con ste bone notizie.
Me vien da pianzer dall'allegrezza.
SCENA XIX
Ottavio dalla locanda, e detti.
OTT.
(a Pantalone) Signore, mi rallegro delle vostre consolazioni.
PAN.
De cossa, sior Ottavio, se rallegrela con mi?
OTT.
Dell'arrivo di vostro figlio.
PAN.
El xè arrivà? Dove xèlo?
OTT.
Bellissima! Non è qui il signor Lelio a voi presente?
LEL.
(Questi è mio padre? L'ho fatta bella.)
PAN.
(verso Lelio) Come? Sior conte d'Ancora?
LEL.
(ridendo) Ah, ah, ah.
Caro signor padre, perdonate questo piccolo scherzo.
Già vi avevo conosciuto, e stavo in voi osservando gli effetti della natura.
Perdonatemi, ve ne prego, eccomi a' vostri piedi.
PAN.
Vien qua el mio caro fio, vien qua.
Xè tanto che te desidero, che te sospiro.
Tiò un baso, el mio caro Lelio, ma varda ben, gnanca da burla no dir de sta sorte de falsità.
LEL.
Credetemi, che questa è la prima bugia che ho detto da che so d'esser uomo.
PAN.
Benissimo, fa che la sia anca l'ultima.
Caro el mio caro fio, me consolo a vederte cussì bello, cussì spiritoso.
Asto fatto bon viazzo? Perchè no xestu vegnù a casa a drettura?
LEL.
Seppi che eravate in villa, e se oggi non vi vedeva in Venezia, veniva certamente a ritrovarvi alla Mira.
PAN.
Oh magari! Anderemo a casa, che parleremo.
T'ho da dir delle gran cosse.
Sior Ottavio, con so bona grazia.
OTT.
Son vostro servo.
PAN.
(Oh caro! Siestu benedio! Vardè che putto! Vardè che tocco de omo! Gran amor xè l'amor de pare! Son fora de mi dalla consolazion.) (parte)
LEL.
Amico.
Stamane ho pagata la fiera alle due sorelle.
Son venute in maschera a cercare di me, le ho condotte al moscato.
Ve lo confido, ma state cheto.
(va dietro a Pantalone)
SCENA XX
Ottavio, poi il Dottore.
OTT.
Resto sempre più maravigliato della debolezza di queste due ragazze.
Mi compariscono d'un carattere affatto nuovo.
Per l'assenza del padre si prendono libertà; ma di tanto non le ho mai credute capaci.
DOTT.
(uscendo di casa) Gli son servitore, il mio caro signor Ottavio.
OTT.
(Povero padre! Bell'onore che gli rendono le sue figliuole!)
DOTT.
(Egli sta sulle sue.
Sarà disgustato, perchè sino adesso ho negato di dargli Beatrice.)
OTT.
(Manco male, che avendomi egli negato Beatrice, mi ha sottratto dal pericolo di avere una cattiva moglie.)
DOTT.
(Ora l'aggiusterò io.) Signor Ottavio, gli do nuova che ho fatta sposa Rosaura mia figlia.
OTT.
Me ne rallegro infinitamente.
(Lo sposo è aggiustato bene.)
DOTT.
Ora mi resta da collocare Beatrice.
OTT.
Non durerà fatica a trovarle marito.
DOTT.
So ancor io che ci sarà più d'uno che aspirerà ad esser mio genero, poichè non ho altro che queste due figlie, e alla mia morte tutto sarà di loro; ma siccome il signor Ottavio più e più volte ha mostrato della premura per Beatrice, dovendola maritare, la darò a lui piuttosto che ad un altro.
OTT.
Vi ringrazio infinitamente.
Non sono più in grado di ricevere le vostre grazie.
DOTT.
Che vuol ella dire? Pretende di voler vendicarsi della mia negativa? Allora non era in grado di maritarla; ora mi ritrovo in qualche disposizione.
OTT.
(con alterezza) La dia a chi vuole.
Io non sono in caso di prenderla.
DOTT.
Vossignoria parla con tal disprezzo? Beatrice è figlia d'un ciabattino?
OTT.
È figlia d'un galantuomo; ma, degenerando dal padre, fa poco conto del suo decoro.
DOTT.
Come parla, padron mio?
OTT.
Parlo con fondamento.
Dovrei tacere, ma la passione che ho avuta per la signora Beatrice, e che tuttavia non so staccarmi dal seno, e la buona amicizia che a voi professo, mi obbliga ad esagerare così e ad illuminarvi, se foste cieco.
DOTT.
Ella mi rende stupido e insensato.
Che mai vi è di nuovo?
OTT.
Sia quello ch'esser si voglia, non vo' tacere.
Le vostre due figlie, la scorsa notte, dopo aver goduta una serenata, hanno introdotto un forestiere nella loro casa, con cui cenando e tripudiando, hanno consumata la notte.
DOTT.
Mi maraviglio di voi, signore; questa cosa non può essere.
OTT.
Quel che io vi dico, son pronto a mantenervelo.
DOTT.
Se siete galantuomo, preparatevi dunque a farmelo constatare; altrimenti, se è una impostura la vostra, troverò la maniera di farmene render conto.
OTT.
Obbligherò a confermarlo quello stesso che, venuto ieri da Napoli, è stato ammesso alla loro conversazione.
DOTT.
Mie figlie non sono capaci di commettere tali azioni.
OTT.
Se sono capaci, lo vedremo.
Se prendete la cosa da me in buona parte, sono un amico che vi rende avvisato; se la prendete sinistramente, son uno che in qualunque maniera renderà conto delle sue parole.
(parte)
SCENA XXI
Il Dottore solo.
Oh misero me! Povera mia casa! Povera mia riputazione! Questo sì è un male, cui nè Ippocrate, nè Galeno mi insegnano a risanare.
Ma saprò ben trovare un sistema di medicina morale, che troncherà la radice.
Tutto consiste a far presto, non lasciar che il mal s'avanzi troppo, che non pigli possesso.
Principiis obsta, sero medicina paratur.
(entra in casa)
FINE DELL'ATTO PRIMO.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Camera in casa del Dottore.
Dottore e Florindo.
FLOR.
Creda, signor Dottore, glielo giuro sull'onor mio.
In casa questa notte non è venuto nessuno.
DOTT.
So di certo che alle mie figlie è stata fatta una serenata.
FLOR.
È verissimo, ed esse l'hanno goduta sul terrazzino modestissimamente.
Le serenate non rendono alcun pregiudizio alle figlie oneste.
Fare all'amore con onestà è lecito ad ogni civile fanciulla.
DOTT.
Ma ricevere di notte la gente in casa? Cenare con un forestiere?
FLOR.
Questo è quello che non è vero.
DOTT.
Che ne potete saper voi? Sarete stato a letto.
FLOR.
Sono stato svegliato tutta la notte.
DOTT.
Perchè svegliato?
FLOR.
Per causa del caldo io non poteva dormire.
DOTT.
Conoscete il signor Ottavio?
FLOR.
Lo conosco.
DOTT.
Egli mi ha detto tutto ciò, ed è pronto a sostenere che ha detto la verità.
FLOR.
Il signor Ottavio mentisce.
Lo troveremo; si farà che si spieghi con qual fondamento l'ha detto, e son certo ritroverete essere tutto falso.
DOTT.
Se fosse così, mi spiacerebbe aver date tante mortificazioni alle mie figliuole.
FLOR.
Povere ragazze! Le avete ingiustamente trattate male.
DOTT.
Specialmente Rosaura piangeva dirottamente; nè si poteva dar pace.
FLOR.
Povera innocente! Mi fa compassione.
(si asciuga gli occhi)
DOTT.
Che cosa avete, figliuolo, che sembra che piangiate?
FLOR.
Niente: mi è andato del tabacco negli occhi.
(mostra la tabacchiera)
SCENA II
Colombina e detti.
COL.
Presto, signor padrone, presto.
La povera signora Rosaura è svenuta, e non so come fare a farla rinvenire; (al dottore) correte per carità ad ajutarla.
FLOR.
(smania)
DOTT.
Presto! un poco di spirito di melissa.
COL.
Se sentiste come le palpita il cuore! Avrebbe bisogno d'una cavata di sangue.
DOTT.
Signor Florindo, andate a vederla, toccatele il polso, e se vi pare che abbia bisogno di sangue, pungetele la vena.
So che siete bravissimo in queste operazioni.
Io intanto vado a prendere lo spirito di melissa.
(parte)
COL.
Per amor del cielo, non abbandonate la povera mia padrona.
FLOR.
Ecco l'effetto de' rimproveri ingiusti di suo padre.
La soccorrerò, se potrò.
(parte)
SCENA III
Camera di Rosaura con sedie.
Rosaura svenuta sopra una sedia; poi Colombina, poi Florindo, e poi il Dottore.
COL.
Ecco qui, poverina! non è ancor rinvenuta; e sua sorella non la soccorre, non ci pensa; vorrebbe che ella morisse.
Queste due sorelle non si amano, non si possono vedere.
FLOR.
Dove sono? Io non ci vedo.
COL.
Come non ci vedete, se siamo in una camera così chiara? Guardate la povera signora Rosaura svenuta.
FLOR.
Ohimè! non posso più.
Colombina, andate a prendere quel che bisogna per cavarle sangue.
COL.
Vado subito.
Per l'amor del cielo, non l'abbandonate.
(parte, e poi ritorna)
FLOR.
Son solo, nessuno mi vede, posso toccar quella bella mano.
Sì, cara, ti tasterò il polso.
Quanto è bella, benchè svenuta! (le tocca il polso) Ahimè, ch'io muojo.
(cade svenuto in terra, o sopra una sedia vicina)
COL.
(portando il cerino e qualche altra cosa per il sangue) Oh bella! Il medico fa compagnia all'ammalata.
DOTT.
Son qui, son qui; non è ancor rinvenuta?
COL.
Osservate.
Il signor Florindo è venuto meno ancor esso per conversazione.
DOTT.
Oh diavolo! Che cos'è quest'istoria? Presto, bisogna dargli soccorso.
Piglia questo spirito e bagna sotto il naso Rosaura, ch'io assisterò questo ragazzo.
COL.
(bagnandola collo spirito) Ecco, ecco, la padrona si muove.
DOTT.
Anche Florindo si desta.
Vanno di concerto.
ROS.
Ohimè! Dove sono?
DOTT.
Via, figlia mia, fatti animo, non è niente.
FLOR.
(s'alza, vede il Dottore, e si vergogna) (Povero me! Che mai ho fatto?)
DOTT.
Che cosa è stato, Florindo? Che avete avuto?
FLOR.
Signore...
non lo so nemmen'io...
Con vostra buona licenza.
(parte confuso)
DOTT.
Se ho da dire la verità, mi sembra un pazzerello.
COL.
Animo, signora padrona, allegramente.
ROS.
Ah signor padre, per carità...
DOTT.
Figlia mia, non ti affligger più.
Sono stato assicurato non esser vero ciò che mi è stato detto di te.
Voglio credere che sia una calunnia, un'invenzione.
Verremo in chiaro della verità.
ROS.
Ma, caro signor padre, chi mai vi ha dato ad intendere falsità così enormi, così pregiudichevoli alla nostra riputazione?
DOTT.
È stato il signor Ottavio.
ROS.
Con qual fondamento ha egli potuto dirlo?
DOTT.
Non lo so.
Lo ha detto e s'impegna di sostenerlo.
ROS.
Lo sostenga, se può.
Signor padre, si tratta dell'onor vostro, si tratta dell'onor mio: non vi gettate dietro le spalle una cosa di tanto rimarco.
DOTT.
Sì, lo ritroverò e me ne farò render conto.
COL.
Aspettate.
Anderò io a ritrovarlo.
Io lo condurrò in casa e, cospetto di bacco, lo faremo disdire.
DOTT.
Va, e se lo trovi, digli che io gli voglio parlare.
COL.
Or ora lo conduco qui a suo dispetto.
(parte)
SCENA IV
Rosaura e il Dottore.
ROS.
Gran dolore mi avete fatto provare!
DOTT.
Orsù via, medicheremo il dolore sofferto con una nuova allegrezza.
Sappi, Rosaura, che io ti ho fatta sposa.
ROS.
A chi mai mi avete voi destinata?
DOTT.
Al figlio del signor Pantalone.
ROS.
Deh, se mi amate, dispensatemi per ora da queste nozze.
DOTT.
Dimmi il perchè, e può essere che ti contenti.
ROS.
Una figlia obbediente e rispettosa non deve celar cos'alcuna al suo genitore.
Sappiate, signore, che un cavalier forestiere, di gran sangue e di grandi fortune, mi desidera per consorte.
DOTT.
Dunque è vero che vi è il forestiere, e sarà vero della serenata e della cena.
ROS.
È vero che un forestiere mi ama, e che mi ha fatta una serenata; ma mi ha parlato una sol volta sotto del terrazzino, e mi fulmini il cielo s'egli ha posto piede mai in questa casa.
DOTT.
È un signor grande, e ti vuole per moglie?
ROS.
Così almeno mi fa sperare.
DOTT.
Guarda bene che egli non sia qualche impostore.
ROS.
Oggi si darà a conoscere a voi.
Voi aprirete gli occhi per me.
DOTT.
Senti, figlia mia, quando il cielo ti avesse destinata questa fortuna non sarei sì pazzo a levartela.
Con Pantalone ho qualche impegno, ma solamente di parole: non mancheranno pretesti per liberarmene.
ROS.
Basta dire ch'io non lo voglio.
DOTT.
Veramente non basterebbe, perchè son io quello che comanda: ma troveremo una miglior ragione.
Dimmi, come si chiama questo cavaliere?
ROS.
Il marchese Asdrubale di Castel d'Oro.
DOTT.
Capperi! figlia mia, un marchese?
SCENA V
Beatrice che ascolta, e detti.
ROS.
È un anno ch'è innamorato di me, e solo jeri sera si è dichiarato.
DOTT.
Ti vuole veramente bene?
ROS.
Credetemi, che mi adora.
DOTT.
Sei sicura che ti voglia prender per moglie?
ROS.
Me ne ha data positiva parola.
DOTT.
Quando è così, procurerò di assicurare la tua fortuna.
BEAT.
Signor padre, non crediate sì facilmente alle parole di mia sorella.
Non è vero che il marchese Asdrubale siasi dichiarato per lei.
Egli ama una di noi due e, senza troppo lusingarmi, ho ragione di credere ch'egli mi preferisca.
DOTT.
(a Rosaura) Oh bella! Come va questa storia?
ROS.
(a Beatrice) Dove appoggiate le vostre speranze?
BEAT.
Dove avete appoggiate le vostre.
ROS.
Signor padre, io parlo con fondamento.
BEAT.
(al Dottore) Credetemi, ch'io so quel che dico.
DOTT.
Questa è la più bella favoletta del mondo.
Orsù sentite cosa vi dico per concluderla in poche parole.
Intanto state dentro delle finestre, e non andate fuori di casa senza licenza mia.
Se il signor marchese parlerà con me, sentirò se sia vero quello m'avete detto, e chi di voi sia la prediletta; se poi sarà una favola, come credo, avrò motivo di dire, senza far torto nè all'una nè all'altra, che tutt'e due siete pazze.
(parte)
SCENA VI
Rosaura e Beatrice.
BEAT.
Signora sorella, qual fondamento avete voi di credere che il signor marchese si sia dichiarato per voi?
ROS.
Il fondamento l'ho infallibile, ma non sono obbligata di dirvi tutto.
BEAT.
Sì, sì, lo so.
Siete stata fuori di casa in maschera.
Vi sarete ingegnata di tirar l'acqua al vostro mulino; ma giuro al cielo, non vi riuscirà, forse, di macinare.
ROS.
Che pretensione avete voi? Ha egli detto essere per voi inclinato? Ha dimostrato volervi?
BEAT.
Ha detto a me quello che ha detto a voi; e non so ora con qual franchezza lo pretendiate per vostro.
ROS.
Basta, si vedrà.
BEAT.
Se saprò che mi abbiate fatta qualche soverchieria, sorella, me la pagherete.
ROS.
Mi pare che dovreste avere un poco di convenienza.
Io finalmente son la maggiore.
BEAT.
Di grazia, baciatele la mano alla signora superiora.
ROS.
Già, l'ho sempre detto, insieme non si sta bene.
BEAT.
Se non era per causa vostra, sarei maritata che sarebbero più di tre anni.
Cinquanta mi volevano.
Ma il signor padre non ha voluto far torto alla sua primogenita.
ROS.
Certo, gran pretendenti avete avuti! Fra gli altri il garbatissimo signor Ottavio, il quale forse per vendicarsi de' vostri disprezzi, ha inventate tutte le indegnità raccontate di noi a nostro padre.
BEAT.
Ottavio n'è stato inventore?
ROS.
Testè me lo disse il genitore medesimo.
BEAT.
Ah indegno! Se mi capita alle mani, vo' che mi senta.
ROS.
Meriterebbe essere trucidato.
SCENA VII
Colombina, poi Ottavio, e dette.
COL.
Signore padrone, ecco qui il signor Ottavio che desidera riverirle.
OTT.
Son qui pien di rossore e di confusione...
ROS.
Siete un mentitore.
BEAT.
Siete un bugiardo.
OTT.
Signore, il mentitore, il bugiardo, non sono io.
ROS.
Chi ha detto a nostro padre che abbiamo avuta una serenata?
OTT.
L'ho detto io, ma però...
BEAT.
Chi gli ha detto che abbiamo ricevuto di notte un forestiere in casa?
OTT.
Io, ma sappiate...
BEAT.
Siete un bugiardo.
ROS.
Siete un mentitore.
OTT.
Sappiate che Lelio Bisognosi...
ROS.
Avete voi detto che siamo state sul terrazzino?
OTT.
Sì signore, ascoltatemi...
BEAT.
Avete detto che siamo state trattate dal forestiere?
OTT.
L'ho detto, perchè egli stesso...
BEAT.
Siete un bugiardo.
(parte)
ROS.
Siete un mentitore.
(parte)
SCENA VIII
Ottavio e Colombina.
OTT.
Ma se non mi lasciate parlare...
Colombina, ti raccomando l'onor mio.
Va dalle tue padrone, di' loro che, se mi ascolteranno, saranno contente.
COL.
Che cosa potete dire in vostra discolpa?
OTT.
Moltissimo posso dire, e che sia la verità, senti, e giudica tu, se ho ragione...
COL.
Veniamo alle corte.
Voi avete detto al padrone che il forestiere è entrato in casa di notte.
OTT.
Ma se...
COL.
Voi avete detto che ha dato loro una cena.
OTT.
Sì, ma tutto questo...
COL.
L'avete detto, o non l'avete detto?
OTT.
L'ho detto...
COL.
Dunque siete un mentitore, un bugiardo.
(parte)
SCENA IX
Ottavio, poi il Dottore.
OTT.
Anche la cameriera si burla di me? Vi è pur troppo il bugiardo, ma non sono io quello, e non posso giustificarmi.
Il signor Florindo mi assicura non esser vero che Lelio sia stato introdotto in casa, e molto meno che abbia seco loro cenato.
Una serenata non reca pregiudizio all'onestà d'una giovane, onde mi pento d'aver creduto, e molto più mi pento d'aver parlato.
Lelio è l'impostore, Lelio è il bugiardo, ed io, acciecato dalla gelosia, ho avuta la debolezza di credere, e non ho avuto tempo di riflettere che Lelio è un giovinastro, venuto recentemente da Napoli.
Come l'aggiusterò io con Beatrice, e quel che più importa, come l'aggiusterò con suo padre? Eccolo ch'egli viene; merito giustamente i di lui rimproveri.
DOTT.
Che c'è, signor Ottavio? Che fate in casa mia?
OTT.
Signore eccomi a' vostri piedi.
DOTT.
Dunque mi avete raccontate delle falsità.
OTT.
Tutto quello ch'io ho detto, non fu mia invenzione; ma troppo facilmente ho creduto, e troppo presto vi ho riportato, quanto da un bugiardo mi fu asserito.
DOTT.
E chi è costui?
OTT.
Lelio Bisognosi.
DOTT.
Il figlio del signor Pantalone?
OTT.
Egli per l'appunto.
DOTT.
È venuto a Venezia?
OTT.
Vi è giunto ieri, per mia disgrazia.
DOTT.
Dov'è? È in casa di suo padre?
OTT.
Credo di no.
È un giovine scapestrato, che ama la libertà.
DOTT.
Ma come ha potuto dire questo disgraziato tutto quello che ha detto?
OTT.
L'ha detto con tanta costanza, che sono stato forzato a crederlo, e se il signor Florindo, che so essere sincero e onorato, non mi avesse chiarito, forse forse ancora non ne sarei appieno disingannato.
DOTT.
Io resto attonito come colui, appena arrivato, abbia avuto il tempo di piantare questa carota.
Sa che Rosaura e Beatrice sieno mie figlie?
OTT.
Io credo di sì.
Sa che sono figlie d'un medico.
DOTT.
Ah disgraziato! Così le tratta? Non gli do più Rosaura per moglie.
OTT.
Signor Dottore, vi domando perdono.
DOTT.
Vi compatisco.
OTT.
Non mi private della vostra grazia.
DOTT.
Vi sarò amico.
OTT.
Ricordatevi che mi avete esibita la signora Beatrice.
DOTT.
Mi ricordo che l'avete rifiutata.
OTT.
Ora vi supplico di non negarmela.
DOTT.
Ne parleremo.
OTT.
Ditemi di sì, ve ne supplico.
DOTT.
Ci penserò.
OTT.
Vi chiedo la figlia, non vi disturberò per la dote.
DOTT.
Via, non occorre altro, ci parleremo.
(parte)
OTT.
Non mi curo perder la dote, se acquisto Beatrice.
Ma vuol essere difficile l'acquistarla.
Le donne sono più costanti nell'odio, che nell'amore.
(parte)
SCENA X
Camera in casa di Pantalone
Lelio ed Arlecchino.
LEL.
Arlecchino, sono innamorato davvero.
ARL.
Mi, con vostra bona grazia, no ve credo una maledetta.
LEL.
Credimi che è così.
ARL.
No ve lo credo, da galantomo.
LEL.
Questa volta dico pur troppo il vero.
ARL.
Sarà v
...
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