IL BUGIARDO, di Carlo Goldoni - pagina 9
...
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Con donne non ho mai avuto verun impegno.
PAN.
Nè a Napoli, nè fora de Napoli?
LEL.
In nessun luogo.
PAN.
Varda ben, vè!
LEL.
Non direi più una bugia per tutto l'oro del mondo.
PAN.
Gh'astu le fede del stato libero?
LEL.
Non le ho, ma le aspetto a momenti.
PAN.
Se le fusse vegnue, averessistu gusto?
LEL.
Il ciel volesse; spererei più presto conseguir la mia cara Rosaura.
PAN.
Varda mo.
Cossa xele queste? (dà le fedi a Lelio)
LEL.
Oh me felice! Queste sono le mie fedi dello stato libero.
PAN.
Me despiase che le sarà false.
LEL.
Perchè false? Non vedete l'autentica?
PAN.
Le xè false, perchè le spedisse un morto.
LEL.
Un morto? Come?
PAN.
Varda, le spedisse sior Masaniello Capezzali, el qual ti disi che l'è morto che xè tre mesi.
LEL.
Lasciate vedere; ora riconosco il carattere.
Non è Masaniello, il vecchio, che scrive; è suo figlio, il mio caro amico.
(ripone le fedi)
PAN.
E el fio se chiama Masaniello, come el pare?
LEL.
Sì, per ragione di una eredità, tutti si chiamano col medesimo nome.
PAN.
L'è tanto to amigo, e no ti cognossevi el carattere?
LEL.
Siamo sempre stati insieme, non abbiamo avuto occasione di carteggiare.
PAN.
E ti cognossevi el carattere de so pare?
LEL.
Quello lo conoscevo, perchè era banchiere e mi ha fatto delle lettere di cambio.
PAN.
Ma xè morto so pare, e sto sior Masaniello no sigilla la lettera col bolin negro?
LEL.
Lo sapete pure: il bruno non si usa più.
PAN.
Lelio, no vorria che ti me contassi delle altre fandonie.
LEL.
Se dico più una bugia sola, possa morire.
PAN.
Tasi là, frasconazzo.
Donca ste fede le xè bone?
LEL.
Buonissime; mi posso ammogliar domani.
PAN.
E i do mesi e più che ti xè stà a Roma?
LEL.
Questo non si dice a nessuno.
Si dà ad intendere che sono venuto a dirittura da Napoli a Venezia.
Troveremo due testimoni che l'affermeranno.
PAN.
Da resto po, non s'ha da dir altre busie.
LEL.
Questa non è bugia, è un facilitare la cosa.
PAN.
Basta.
Parlerò col Dottor, e la discorreremo.
Vardè sta lettera, che m'ha dà el portalettere.
LEL.
Viene a me?
PAN.
A vu; gh'ho dà sette soldi.
Bisogna che la vegna da Roma.
LEL.
Può essere.
Datemela, che la leggerò.
PAN.
Con vostra bona grazia, la voggio lezer mi.
(l'apre bel bello)
LEL.
Ma favoritemi...
la lettera è mia.
PAN.
E mi son vostro pare, la posso lezer.
LEL.
Come volete...
(Non vorrei nascesse qualche nuovo imbroglio).
PAN.
(legge) Carissimo sposo.
(guardando Lelio) Carissimo sposo?
LEL.
Quella lettera non viene a me.
PAN.
Questa xè la mansion:
All'Illustriss.
Sign.
Sign.
e Padron Colendiss.
Il Sign.
Lelio Bisognosi - Venezia.
LEL.
Vedete che non viene a me.
PAN.
No, perchè?
LEL.
Noi non siamo illustrissimi.
PAN.
Eh, al dì d'ancuo i titoli i xè a bon marcà, e po ti, ti te sorbiressi anca dell'Altezza.
Vardemo chi scrive: Vostra fedelissima sposa Cleonice Anselmio.
LEL.
Sentite? La lettera non viene a me.
PAN.
Mo perchè?
LEL.
Perchè io questa donna non la conosco.
PAN.
Busie non ti ghe n'ha da dir più.
LEL.
Il cielo me ne liberi.
PAN.
Ti ha fina zurà.
LEL.
Ho detto: possa morire.
PAN.
A chi vustu che sia indrizzada sta lettera?
LEL.
Vi sarà qualcun altro che avrà il nome mio ed il cognome.
PAN.
Mi gh'ho tanti anni sul cesto, e non ho mai sentio che ghe sia nissun a Venezia de casa Bisognosi, altri che mi.
LEL.
A Napoli ed a Roma ve ne sono.
PAN.
La lettera xè diretta a Venezia.
LEL.
E non vi può essere a Venezia qualche Lelio Bisognosi di Napoli o di Roma?
PAN.
Se pol dar.
Sentimo la lettera.
LEL.
Signor padre, perdonatemi, non è buona azione leggere i fatti degli altri.
Quando si apre una lettera per errore, si torna a serrar senza leggerla.
PAN.
Una lettera de mio fio la posso lezer.
LEL.
Ma se non viene a me.
PAN.
Lo vedremo.
LEL.
(Senz'altro, Cleonice mi dà de' rimproveri.
Ma saprò schermirmi colle mie invenzioni).
PAN.
La vostra partenza da Roma mi ha lasciata in una atroce malinconia, mentre mi avevate promesso di condurmi a Venezia con voi, e poi tutto in un tratto siete partito...
LEL.
Se lo dico, non viene a me.
PAN.
Mo se la dise che l'è partio per Venezia.
LEL.
Bene: quel tale sarà a Venezia.
PAN.
Ricordatevi che mi avete data la fede di sposo.
LEL.
Oh, assolutamente non viene a me.
PAN.
Digo ben; vu no gh'avè impegno con nissuna.
LEL.
No certamente.
PAN.
Busie no ghe ne disè più.
LEL.
Mai più.
PAN.
Andemo avanti.
LEL.
(Questa lettera vuol esser compagna del sonetto.)
PAN.
Se mai aveste intenzione d'ingannarmi, state certo che in qualunque luogo saprò farmi fare giustizia.
LEL.
Qualche povera diavola abbandonata.
PAN.
Bisogna che sto Lelio Bisognosi sia un poco de bon.
LEL.
Mi dispiace che faccia torto al mio nome.
PAN.
Vu sè un omo tanto sincero...
LEL.
Così mi vanto.
PAN.
Sentimo el fin.
Se voi non mi fate venire costì, e non risolvete sposarmi, farò scrivere da persona di autorità al signor Pantalone vostro padre...
Olà! Pantalon?
LEL.
Oh bella! S'incontra anco il nome del padre.
PAN.
So che il signor Pantalone è un onorato mercante veneziano...
Meggio! E benchè siate stato allevato a Napoli da suo fratello...
Via, che la vaga,.
avrà dell'amore e della premura per voi, e non vorrà vedervi in una prigione, mentre sarò obbligata manifestare quello che avete levato dalle mie mani, in conto di dote.
Possio sentir de pezo?
LEL.
Io gioco che questa è una burla d'un mio caro amico...
PAN.
Una burla de un vostro amigo? Se vu la tiolè per burla, sentì cossa che mi ve digo dasseno.
In casa mia no ghe mettè nè piè, nè passo.
Ve darò la vostra legittima.
Andè a Roma a mantegnir la vostra parola.
LEL.
Come, signor padre...
PAN.
Via de qua, busiaro infame, busiaro baron, muso duro, sfrontà, pezo d'una palandrana12.
(parte)
LEL.
Forti, niente paura.
Non mi perdo d'animo per queste cose.
Per altro non voglio dir più bugie.
Voglio procurare di dir sempre la verità.
Ma se qualche volta il dir la verità non mi giovasse a seconda de' miei disegni? L'uso delle bugie mi sarà sempre una gran tentazione.
(parte)
SCENA VI
Camera in casa del Dottore.
Dottore e Rosaura.
DOTT.
Ditemi un poco, la mia signora figlia, quant'è che non avete veduto il signor marchese Asdrubale di Castel d'Oro?
ROS.
So benissimo ch'egli non è marchese.
DOTT.
Dunque saprete chi è.
ROS.
Sì signore, si chiama Ruggiero Pandolfi, mercante napolitano.
DOTT.
Ruggiero Pandolfi?
ROS.
Così mi disse.
DOTT.
Mercante napolitano?
ROS.
Napolitano.
DOTT.
Pazza, stolida, senza giudizio; sai chi è colui?
ROS.
Chi mai?
DOTT.
Lelio, figlio di Pantalone.
ROS.
Quello che mi avevate proposto voi per consorte?
DOTT.
Quello; quella buona lana.
ROS.
Dunque, s'è quello, la cosa è più facile ad accomodarsi.
DOTT.
Senti, disgraziata, senti dove ti potea condurre il tuo poco giudizio, la facilità colla quale hai dato orecchio ad un forestiere.
Lelio Bisognosi, che con nome finto ha cercato sedurti, a Napoli è maritato.
ROS.
Lo sapete di certo? Difficilmente lo posso credere.
DOTT.
Sì, lo so di certo.
Me l'ha detto suo padre.
ROS.
(piange) Oh me infelice! Oh traditore inumano!
DOTT.
Tu piangi, frasconcella? Impara a vivere con più giudizio, con più cautela.
Io non posso abbadare a tutto.
Mi conviene attendere alla mia professione.
Ma giacchè non hai prudenza, ti porrò in un luogo dove non vi sarà pericolo che tu caschi in questa sorta di debolezze.
ROS.
Avete ragione.
Castigatemi, che ben lo merito.
(Scellerato impostore, il cielo ti punirà.) (parte)
SCENA VII
Il Dottore, poi Ottavio.
DOTT.
Da una parte la compatisco, e me ne dispiace; ma per la riputazione, la voglio porre in sicuro.
OTT.
Signor Dottore, la vostra cameriera di casa mi ha fatto intendere, che la signora Beatrice desiderava parlarmi.
Io sono un uomo d'onore, non intendo trattar colla figlia senza l'intelligenza del padre.
DOTT.
Bravo, siete un uomo di garbo.
Ho sempre fatta stima di voi, ed ora mi cresce il concetto della vostra prudenza.
Se siete disposto, avanti sera concluderemo il contratto con mia figliuola.
(Non vedo l'ora di sbrattarla di casa.)
OTT.
Io per me sono disposto.
DOTT.
Ora chiameremo Beatrice, e sentiremo la di lei volontà.
SCENA VIII
Colombina e detti.
COL.
Signor padrone, il signor Lelio Bisognosi, quondam marchese, gli vorrebbe dire una parola.
OTT.
Costui me la pagherà certamente.
DOTT.
Non dubitate, che si castigherà da se stesso.
Sentiamo un poco che cosa sa dire.
Fallo venire innanzi.
COL.
Oh che bugiardo! E poi dicono di noi altre donne.
(parte)
OTT.
Avrà preparata qualche altra macchina.
DOTT.
S'egli è maritato, ha finito di macchinar con Rosaura.
SCENA IX
LELIO, OTTAVIO ed il DOTTORE
LEL.
Signor Dottore, vengo pieno di rossore e di confusione a domandarvi perdono.
DOTT.
Bugiardaccio!
OTT.
(a Lelio) Domani la discorreremo fra voi e me.
LEL.
(ad Ottavio) Voi vi volete batter meco, voi mi volete nemico; ed io son qui ad implorare la vostra amichevole protezione.
OTT.
Presso di chi?
LEL.
Presso il mio amatissimo signor Dottore.
DOTT.
Che vuole dai fatti miei?
LEL.
La vostra figlia in consorte.
DOTT.
Come! Mia figlia in consorte? E siete maritato?
LEL.
Io ammogliato? Non è vero.
Sarei un temerario, un indegno, se a voi facessi una tale richiesta, quando ad altra donna avessi solamente promesso.
DOTT.
Vorreste voi piantarmi un'altra carota?
OTT.
Le vostre bugie hanno perduto il credito.
LEL.
Ma chi vi ha detto che io sono ammogliato?
DOTT.
Vostro padre l'ha detto; m'ha detto che avete sposata la signora Briseide, figlia di Don Policarpio.
LEL.
Ah, signor Dottore, mi dispiace dover smentire mio padre; ma il zelo della mia riputazione, e l'amore che ho concepito per la signora Rosaura, mi violentano a farlo.
No, mio padre non dice il vero.
DOTT.
Tacete; vergognatevi di favellare così.
Vostro padre è un galantuomo: non è capace di mentire.
OTT.
(a Lelio) Quando cesserete d'imposturare?
LEL.
(mostra ad Ottavio le fedi avute da Napoli) Osservate, se io dico il falso.
Mirate quali sono le mie imposture.
Ecco le mie fedi dello stato libero, fatte estrarre da Napoli.
Voi, signor Ottavio, che siete pratico di quel paese, osservate, se sono legittime ed autenticate.
OTT.
È vero; conosco i caratteri, mi sono noti i sigilli.
DOTT.
Poter del mondo! Non siete voi maritato?
LEL.
No certamente.
DOTT.
Ma per qual causa dunque il signor Pantalone mi ha dato intendere che lo siete?
LEL.
Ve lo dirò io il perchè.
DOTT.
Non mi state a raccontar qualche favola.
LEL.
Mio padre si è pentito di aver dato a voi la parola per me di prendere vostra figlia.
DOTT.
Per che causa?
LEL.
Perchè stamane in piazza un sensale, che ha saputo la mia venuta, gli ha offerto una dote di cinquanta mila ducati.
DOTT.
Il signor Pantalone mi fa questo aggravio?
LEL.
L'interesse accieca facilmente.
OTT.
(Io resto maravigliato.
Non so ancor cosa credere.)
DOTT.
Dunque, siete voi innamorato della mia figliuola?
LEL.
Sì, signore, pur troppo.
DOTT.
Come avete fatto ad innamorarvi sì presto?
LEL.
Sì presto? In due mesi, amor bambino si fa gigante.
DOTT.
Come in due mesi, se siete arrivato jer sera?
LEL.
Signor Dottore, ora vi svelo tutta la verità.
OTT.
(da sè) (Qualche altra macchina.)
LEL.
Sapete voi quanto tempo sia, ch'io sono partito da Napoli?
OTT.
Vostro padre mi ha detto, che saranno tre mesi in circa.
LEL.
Ebbene, dove sono stato io questi tre mesi?
DOTT.
Mi ha detto che siete stato in Roma.
LEL.
Questo è quello che non è vero.
Mi fermai a Roma tre o quattro giorni, e venni a dirittura a Venezia.
OTT.
E il signor Pantalone non l'ha saputo?
LEL.
Non l'ha saputo, perchè, quando giunsi, egli era al solito al suo casino alla Mira.
DOTT.
Ma perchè non vi siete fatto vedere da lui? Perchè non siete andato a ritrovarlo in campagna?
LEL.
Perchè, veduto il volto della signora Rosaura, non ho più potuto staccarmi da lei.
OTT.
Signor Lelio, voi le infilzate sempre più grosse.
Sono due mesi ch'io alloggio alla locanda dell'Aquila, e solo jeri voi ci siete arrivato.
LEL.
Il mio alloggio sinora è stato lo Scudo di Francia e per vagheggiare più facilmente la signora Rosaura sono venuto all'Aquila jeri sera.
DOTT.
Perchè, se eravate innamorato di mia figlia, inventare la serenata e la cena in casa?
LEL.
Della serenata è vero, l'ho fatta far io.
DOTT.
E della cena?
LEL.
Ho detto di aver fatto quello che avrei desiderato di fare.
OTT.
E la mattina, che avete condotto le due sorelle alla malvagìa?
LEL.
Oh via! Ho detto delle facezie, son pentito, non ne dirò mai più.
Venghiamo alla conclusione.
Signor Dottore, io son figlio di Pantalone de' Bisognosi, e questo lo crederete.
DOTT.
Può esser anche che non sia vero.
LEL.
Io son libero, ed ecco gli attestati della mia libertà.
DOTT.
Basta che siano veri.
LEL.
il signor Ottavio li riconosce.
OTT.
Certamente, mi pajon veri.
LEL.
Il matrimonio fra la signora Rosaura e me è stato trattato fra voi e mio padre.
DOTT.
Mi dispiace che il signor Pantalone, colla lusinga dei cinquanta mila ducati, manca a me di parola.
LEL.
Vi dirò.
La dote dei cinquanta mila ducati è andata in fumo, e mio padre è pentito d'aver inventata la favola del matrimonio.
DOTT.
Perchè non viene egli a parlarmi?
LEL.
Non ardisce di farlo.
Ha mandato me in vece sua.
DOTT.
Eh! Mi pare un imbroglio.
LEL.
Ve lo giuro sulla mia fede.
DOTT.
Orsù, sia come esser si voglia, ve la darò.
Perchè, se il signor Pantalone è contento, avrà piacere; e se non fosse contento, mi ricatterei dell'affronto ch'egli voleva farmi.
Che dice il signor Ottavio?
OTT.
Voi pensate benissimo.
Finalmente, quando sarà maritata, non vi sarà da dir altro.
DOTT.
Date a me quelle fedi di stato libero.
LEL.
Eccole.
DOTT.
Ma in questi tre mesi potreste esser obbligato.
LEL.
Se sono stato sempre in Venezia.
DOTT.
Ve l'ho da credere?
LEL.
Non direi una bugia per diventare Monarca.
DOTT.
Ora chiamerò mia figlia; se ella è contenta, si concluderà.
(parte)
SCENA X
Lelio, Ottavio; poi il Dottore e Rosaura.
LEL.
(Il colpo è fatto.
Se mi marito, cadono a terra tutte le pretensioni della Romana.)
OTT.
Signor Lelio, voi siete fortunato nelle vostre imposture.
LEL.
Amico, domani non mi potrò venire a batter con voi.
OTT.
Perchè?
LEL.
Perchè spero di fare un altro duello.
DOTT.
(a Rosaura) Ecco qua il signor Lelio.
Egli si esibisce di essere tuo marito, che cosa dici? Sei tu contenta?
ROS.
Ma non mi avete detto che era ammogliato?
DOTT.
Credevo che avesse moglie, ma è libero ancora.
ROS.
Mi pareva impossibile, ch'ei fosse capace di una tal falsità.
LEL.
No, mia cara, non sono capace di mentire con voi, che v'amo tanto.
ROS.
Però mi avete dette delle belle bugie.
DOTT.
Animo, concludiamo.
Lo vuoi per marito?
ROS.
Se me lo date, lo prenderò.
SCENA XI
Pantalone e detti.
PAN.
Sior Dottor, con vostra bona grazia.
Cossa fa qua mio fio?
DOTT.
Sapete cosa fa vostro figlio? Rende soddisfazione alla mia casa del torto e dell'affronto che voi mi avete fatto.
PAN.
Mi? Cossa v'oggio fatto?
DOTT.
Mi avete dato ad intendere che era ammogliato, per disobbligarvi dell'impegno di dargli la mia figliuola.
PAN.
Ho dito che el gera maridà, perchè lu el me lo ha dà da intender.
LEL.
Oh via, tutto è finito.
Signor padre, questa è la mia sposa, voi me l'avete destinata.
Tutti sono contenti.
Tacete e non dite altro.
PAN.
Che tasa? Tocco de desgrazià! Che tasa?...
Sior Dottor, sentì sta lettera, e vardè se sto matrimonio pol andar avanti.
(dà al Dottore la lettera di Cleonice)
LEL.
Quella lettera non viene a me.
DOTT.
Bravo, signor Lelio! Due mesi e più che siete in Venezia? Non avete impegno con nessuna donna? Siete libero, liberissimo? Rosaura, scostati da questo bugiardaccio.
È stato a Roma tre mesi, ha promesso a Cleonice Anselmi.
Non può sposare altra femmina.
Impostore, menzognero, sfacciatissimo, temerario.
LEL.
Giacchè mio padre mi vuol far arrossire, sono obbligato a dire essere colei una trista femmina, colla quale mi sono ritrovato casualmente all'albergo in Roma tre soli giorni, che colà ho dimorato.
Una sera, oppresso dal vino, mi ha tirato nella rete e mi ha fatto promettere, senza saper quel ch'io facessi: avrò i testimonj ch'ero fuori di me quando parlai, quando scrissi.
DOTT.
Per mettere in chiaro questa verità, vi vuol tempo; intanto favorisca di andar fuori di questa casa.
LEL.
Voi mi volete veder morire.
Come potrò resistere lontano dalla mia cara Rosaura?
DOTT.
Sempre più vado scoprendo il vostro carattere, e credo, sebben fingete di morir per mia figlia, che non ve ne importi un fico.
LEL.
Non me ne importa? Chiedetelo a lei, se mi preme l'amor suo, la sua grazia.
Dite, signora Rosaura con quanta attenzione ho procurato io in poche ore di contentarvi.
Narrate voi la magnifica serenata che ieri sera vi ho fatta, e la sincerità colla quale mi son fatto a voi conoscere con un sonetto.
SCENA XII
Florindo, Brighella e detti.
FLOR.
Signor Dottore, signora Rosaura, con vostra buona licenza, permettetemi che io vi sveli un arcano, finora tenuto con tanta gelosia custodito.
Un impostore tenta usurpare il merito alle mie attenzioni, onde forzato sono a levarmi la maschera e manifestare la verità.
Sappiate, signori miei, che io ho fatto fare la serenata, e del sonetto io sono stato l'autore.
LEL.
Siete un bugiardo.
Non è vero.
FLOR.
(dà due carte a Rosaura) Questa è la canzonetta da me composta, e questo è l'abbozzo del mio sonetto.
Signora Rosaura, vi supplico riscontrarli.
BRIG.
Sior Dottor, se la me permette, dirò, per la verità, che son stà mi, che d'ordine del sior Florindo ho ordinà la serenada: e che me son trovà presente, quando colle so man l'ha buttà quel sonetto sul terrazzin.
DOTT.
Che dice il signor Lelio?
LEL.
Ah, ah, rido come un pazzo.
Non poteva io preparare alla signora Rosaura una commedia più graziosa di questa.
Un giovinastro sciocco e senza spirito fa fare una serenata, e non si palesa autore di essa.
Compone un sonetto, e lo getta sul terrazzino, e si nasconde, e tace; sono cose che fanno crepar di ridere.
Ma io ho resa la scena ancor più ridicola, mentre colle mie spiritose invenzioni ho costretto lo stolido a discoprirsi.
Signor incognito, che pretendete voi? Siete venuto a discoprirvi un poco tardi.
La signora Rosaura è cosa mia; ella mi ama, il padre suo me l'accorda, e alla vostra presenza le darò la mano di sposo.
PAN.
(Oh che muso! Oh che lengua!)
DOTT.
Adagio un poco, signore dalle spiritose invenzioni.
Dunque, signor Florindo, siete innamorato di Rosaura mia figlia?
FLOR.
Signore, io non ardiva manifestare la mia passione.
DOTT.
Che dite, Rosaura, il signor Florindo lo prendereste voi per marito?
ROS.
Volesse il cielo che io conseguir lo potessi! Lelio è un bugiardo, non lo sposerei per tutto l'oro del mondo.
PAN.
(E mi bisogna che soffra.
Me vien voggia de scanarlo con le mie man).
LEL.
Come, signora Rosaura? Voi mi avete data la fede, voi avete da esser mia.
DOTT.
Andate a sposar la Romana.
LEL.
Una donna di mercato non può obbligarmi a sposarla.
SCENA XIII
Arlecchino e detti.
ARL.
(a Lelio) Sior padron, salveve.
LEL.
Che c'è?
PAN.
(ad Arlecchino) Dime a mi, coss'è stà?
ARL.
(a Lelio) No gh'è più tempo de dir busìe.
La Romana l'è vegnuda a Venezia.
DOTT.
Chi è questa Romana?
ARL.
Siora Cleonice Anselmi.
DOTT.
È una femmina prostituita?
ARL.
Via, tasì là.
L'è fiola d'un dei primi mercanti de Roma.
LEL.
Non è vero, costui mentisce.
Non sarà quella, sono un galantuomo.
Io non dico bugie.
OTT.
Voi galantuomo? Avete prostituito l'onor vostro, la vostra fede, con falsi giuramenti, con testimoni mendaci.
DOTT.
Via di questa casa.
PAN.
(al Dottore) Cussì scazzè un mio fio?
DOTT.
Un figlio che deturpa l'onorato carattere di suo padre.
PAN.
Pur troppo disè la verità.
Un fio scellerato, un fio traditor, che a forza de busìe mette sottosora la casa, e me fa comparir un babbuin anca mi.
Fio indegno, fio desgrazià.
Va, che no te voggio più veder; vame lontan dai occhi, come te scazzo lontan dal cuor.
(parte)
LEL.
Scellerate bugie, vi abomino, vi maledico.
Lingua mendace, se più ne dici, ti taglio.
ROS.
(chiama) Colombina.
SCENA XIV
Colombina e detti.
COL.
Signora.
ROS.
(Le parla all'orecchio)
COL.
Subito.
DOTT.
Vergognatevi di esser così bugiardo!
LEL.
Se mi sentite più dire una bugia, riputatemi per uomo infame.
OTT.
Cambiate costume, se volete vivere fra gente onesta.
LEL.
Se più dico bugie, possa essere villanamente trattato.
COL.
(colla scatola con i pizzi) Eccola.
(la dà a Rosaura)
ROS.
Tenete signor impostore.
Questi sono i pizzi, che mi avete voi regalati.
Non voglio nulla del vostro.
(offre a Lelio la scatola con i pizzi)
FLOR.
Come! Quei pizzi li ho fatti comprar io.
BRIG.
Sior sì, mi ho pagà i dieci zecchini all'insegna del Gatto, e li ho mandadi alla signora Rosaura per el zovene della bottega, senza dir chi ghe li mandasse.
ROS.
(li prende) Ora intendo; Florindo mi ha regalata, e l'impostore s'è fatto merito.
LEL.
Il silenzio del signor Florindo mi ha stimolato a prevalermi dell'occasione, per farmi merito con due bellezze.
Per sostenere la favola, ho principiato a dire qualche bugìa, e le bugìe sono per natura così feconde, che una ne suole partorir cento.
Ora mi converrà sposar la Romana.
Signor Dottore, signora Rosaura, vi chiedo umilmente perdono, e prometto che bugìe non ne voglio dire mai più.
(parte)
ARL.
Sta canzonetta l'ho imparada a memoria.
Busìe mai più, ma qualche volta, qualche spiritosa invenzion.
DOTT.
Orsù, andiamo.
Rosaura sposerà il signor Florindo, e il signor Ottavio darà la mano a Beatrice.
OTT.
Saremo quattro persone felici, e goderemo il frutto de' nostri sinceri affetti.
Ameremo noi sempre la bellissima verità, apprendendo dal nostro bugiardo, che le bugie rendono l'uomo ridicolo, infedele, odiato da tutti; e che per non esser bugiardi, conviene parlar poco, apprezzare il vero, e pensare al fine.
FINE DELLA COMMEDIA.
1 Il linguaggio di Brighella può passare per veneziano.
2 Gli Arlecchini oggi comunemente usano il linguaggio veneziano.
3 Affetta di parlare toscano per finzione.
4 Mussa con due ss, in veneziano, vuol dire asina.
5 Il linguaggio di Pantalone è tutto veneziano.
6 Detto burlesco, derisorio, che vuol dire mettere la spada nella crusca.
(7) Parla veneziano.
(8) Modo di dire: servo di Vosustrissima.
9 Proverbio veneziano: vuol dire esser facile a far qualche cosa.
10 Fanfaluche, bugie.
(11) Suocero.
12 Donna di mal affare.
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