IL BUGIARDO, di Carlo Goldoni - pagina 1
Carlo Goldoni
IL BUGIARDO
COMMEDIA
Rappresentata per la prima volta in Mantova la primavera dell'anno 1750.
L'AUTORE A CHI LEGGE
Il valoroso Pietro Cornelio, colla più bella ingenuità del mondo, ha confessato al Pubblico aver lavorato il suo Bugiardo sul modello di quello che fu attribuito in Ispagna a Lopez de Vega, quantunque un altro Autore Spagnuolo lo pretendesse per suo.
Io con altrettanta sincerità svelerò a' miei Leggitori aver il soggetto della presente Commedia tratto in parte da quella del sopraddetto Cornelio.
Vanta l'Autor Francese aver condotto l'opera sua con quella varietà nell'intreccio, che più gli parve adattata al gusto della nazione, a cui doveva rappresentarsi.
Tanto ho fatto io nel valermi di un tal soggetto: servito appena mi sono dell'argomento; seguito ho in qualche parte l'intreccio; ma chi vorrà riscontrarlo, dopo alcune scene che si somigliano, troverà il mio Bugiardo assai diverso dagli altri due; talmentechè avrei potuto darmi merito dell'invenzione ancora, se sopra un tal punto non fossi io assai scrupoloso, e nemicissimo di qualunque impostura.
Pur troppo nella edizione di Venezia, stampandosi dal Bettinelli le mie Commedie, senza le piccole mie Prefazioni, e non leggendosi questa tale premessa al mio Bugiardo, non mancherà chi dirà il bugiardo esser io medesimo, arrogandomi l'altrui merito e l'altrui fatica; ed ecco la necessità de' miei ragionamenti al Lettore, la mancanza de' quali fa difetto notabilissimo nella prenarrata Edizione.
Io per altro, come diceva, ho dato un giro assai più brillante ad una tale Commedia.
Ho posto al confronto dell'uomo franco un timido, che lo fa risaltare.
Ho posto il mentitore in impegni molto ardui e difficili da superare, per maggiormente intralciarlo nelle bugie medesime, le quali sono per natura così feconde, che una ne suol produr più di cento, e l'une han bisogno dell'altre per sostenersi.
Il sonetto è forse la parte più ridicola della Commedia.
Le lettere a Pantalone e a Lelio dirette accrescono l'imbarazzo e la sospensione.
Tutte cose da me inventate, le quali potevano darmi sufficiente materia per una Commedia, che si potesse dir tutta mia, ciò non ostante, sapendo io d'aver fatto uso del soggetto dell'Autore Francese, non ho voluto abusarmene, e Dio volesse che così da tutti si praticasse, che non si vederebbono tante maschere, tanti rappezzamenti, tante manifeste imposture.
PERSONAGGI
Il DOTTOR BALANZONI, bolognese, Medico in Venezia.
ROSAURA, sua figlia.
BEATRICE, sua figlia.
COLOMBINA, loro cameriera.
OTTAVIO, Cavaliere padovano, amante di Beatrice.
FLORINDO, cittadino bolognese, che impara la medicina, e abita in casa del Dottore; amante timido di Rosaura.
BRIGHELLA, suo confidente.
PANTALONE, mercante veneziano, Padre di
LELIO, il bugiardo.
ARLECCHINO, suo servo.
Un VETTURINO napolitano.
Un GIOVINE di mercante.
Un PORTALETTERE
Una DONNA che canta.
SUONATORI.
BARCAJUOLI di peota.
BARCAJUOLI di gondola.
La Commedia si rappresenta in Venezia.
SCENA PRIMA
Notte con luna.
Strada con veduta del canale.
Da una parte la casa del Dottore, con un terrazzino.
Dall'altra, locanda con l'insegna dell'Aquila.
Nell'alzar della tenda vedesi una peota illuminata, disposta per una serenata con dentro i suonatori, ed una donna che canta.
I suonatori suonano una sinfonia.
Florindo e Brighella in terra, da un lato della scena.
Rosaura e Beatrice vengono sul terrazzino.
FLOR.
Osserva, osserva, Brighella; ecco la mia cara Rosaura sul terrazzino con sua sorella Beatrice; sono venute a godere la serenata.
Ora è tempo ch'io faccia cantare la canzonetta da me composta, per ispiegare con essa a Rosaura l'affetto mio.
BRIG.
1 Mi non ho mai più visto un amor più curioso del vostro.
Vusignoria ama teneramente la signora Rosaura: el ghe sta in casa, facendo pratica de medicina col signor dottor, padre della ragazza; el gh'ha quanto comodo el vol de parlarghe, e invece de farlo a bocca, el vol spiegarse con una serenada, el vol dirghelo con una canzonetta? Eh, no la butta via el so tempo cusì miseramente.
La parla, la se fazza intender, la senta l'inclinazion della giovine; e se la ghe corrisponde, allora po la ghe fazza delle serenade, che almanco no la butterà via cusì malamente i so bezzi.
FLOR.
Caro Brighella, te l'ho detto altre volte: non ho coraggio.
Amo Rosaura, ma non trovo la via di spiegarmi che l'amo.
Credimi: se a faccia a faccia giungessi a dirle qualche cosa dell'amor mio, morirei di rossore.
BRIG.
Donca la vol tirar avanti cussì? Penar senza dirlo?
FLOR.
Via, va alla peota, e ordina che si canti la nuova mia canzonetta.
BRIG.
La me perdona.
Ho servido in Bologna so sior padre.
Vusignoria l'ho vista a nascer, e ghe vojo ben.
Siben che adesso in sta città servo un altro, co la vedo ella, me par de vèder el mio patron, e quelle ore che posso robar, le impiego volontiera...
FLOR.
Brighella, se mi vuoi bene, fa quello che ora ti ordino; va alla peota, e di' che si canti.
BRIG.
La servirò come la comanda.
FLOR.
Mi ritirerò dietro di questa casa.
BRIG.
Perchè retirarse?
FLOR.
Per non esser da nessuno osservato.
BRIG.
(Oh che amor stravagante! Oh che zovene fatto all'antiga! Ai nostri dì se ne trova pochi de sta sorte de mammalucchi.) (s'avvia verso la peota)
FLOR.
Cara Rosaura tu sei l'anima mia.
Tu sei l'unica mia speranza.
Oh se sapessi quanto ti amo! (si ritira)
I suonatori nella peota suonano il ritornello della canzonetta, e la donna dalla stessa peota canta la seguente canzonetta veneziana.
Idolo del mio cuor,
Ardo per vu d'amor,
E sempre, o mia speranza,
Se avanza el mio penar.
Vorria spiegar, o cara,
La mia passion amara;
Ma un certo no so che...
No so se m'intendè,
Fa, che non so parlar.
Quando lontana sè,
Quando no me vedè,
Vorria, senza parlarve,
Spiegarve el mio dolor;
Ma co ve son arente,
No son più bon da gnente.
Un certo no so che...
No so se m'intendè,
Me fa serrar el cuor.
Se in viso me vardè,
Fursi cognosserè
Quel barbaro tormento,
Che sento in tel mio sen.
Dissimular vorria
La cruda pena mia;
Ma un certo no so che...
No so se m'intendè,
Ve dise: el te vol ben.
Mio primo amor vu sè,
E l'ultimo sarè,
E se ho da maridarme,
Sposarme vòi con vu;
Ma, cara, femo presto...
Vorave dir el resto,
Ma un certo no so che...
No so se m'intendè,
No vol che diga più.
Peno la notte e 'l dì
Per vu sempre cussì.
Sta pena (se ho da dirla)
Soffrirla più no so.
Donca, per remediarla,
Cara, convien che parla;
Ma un certo no so che...
No so se m'intendè,
Fa che parlar no so.
Sento che dise Amor:
Lassa sto to rossor,
E spiega quel tormento,
Che drento in cuor ti gh'ha.
Ma se a parlar me provo,
Parole più no trovo,
E un certo no so che...
No so se m'intendè,
Pur troppo m'ha incantà.
Frattanto che si canta la canzonetta, escono Lelio ed Arlecchino dalla Locanda, e stanno godendo la serenata.
Terminata la canzonetta, i suonatori suonano, e la peota parte
BRIG.
(piano a Florindo) Èla contenta?
FLOR.
Sono contentissimo.
BRIG.
Ela andada ben?
FLOR.
Non poteva andar meglio.
BRIG.
Ma siora Rosaura no sa chi gh'abbia fatto sta serenada.
FLOR.
Ciò non m'importa: mi basta che l'abbia ella goduta.
BRIG.
La vada in casa, la se fazza veder, la fazza almanco sospettar che sta finezza vegna da Vusignoria.
FLOR.
Il cielo me ne liberi.
Anzi, per non dar sospetto di ciò, vo per di qua.
Faccio un giro, ed entro in casa per l'altra porta.
Vieni con me.
BRIG.
Vegno dove la vol.
FLOR.
Questo è il vero amore.
Amar senza dirlo.
(partono)
SCENA II
Lelio e Arlecchino, Rosaura e Beatrice sul terrazzino.
LEL.
Che ne dici, Arlecchino, eh? Bel paese ch'è questa Venezia! In ogni stagione qui si godono divertimenti.
Ora che il caldo chiama di nottetempo al respiro, si godono di queste bellissime serenate.
ARL.
Mi sta serenada no la stimo un soldo 2.
LEL.
No? Perchè?
ARL.
Perchè me piase le serenade, dove se canta e se magna.
LEL.
Osserva, osserva, Arlecchino, quelle due signore che sono su quel terrazzino.
Le ho vedute anche dalla finestra della mia camera, e benchè fosse nell'imbrunir della sera, mi parvero belle.
ARL.
Per vusioria tutte le donne le son belle a un modo.
Anca la siora Cleonice in Roma la ve pareva una stella, e adesso l'avì lassada.
LEL.
Non me ne ricordo nemmeno più.
Stando tanto quelle signore sul terrazzino, mi do a credere che non sieno delle più ritirate.
Voglio tentar la mia sorte.
ARL.
Con patto che ghe disè ogni quattro parole diese busìe.
LEL.
Sei un impertinente.
ARL.
Faressi mejo andar a casa del sior Pantalon vostro padre.
LEL.
Egli è in campagna.
Quando verrà a Venezia, andrò a stare con lui.
ARL.
E in tanto volì star alla locanda?
LEL.
Sì, per godere la mia libertà.
È tempo di fiera, tempo d'allegria: sono vent'anni che manco dalla mia cara patria.
Osserva, come al chiaro della luna, pajono brillanti quelle due signore.
Prima d'inoltrarmi a parlar con esse, bramerei sapere chi sono.
Fa una cosa, Arlecchino, va alla locanda, e chiedi ad alcuno de' camerieri chi sono e se son belle, e come si chiamano.
ARL.
Per tutta sta roba ghe vuol un mese.
LEL.
Va, sbrigati, e qui ti attendo.
ARL.
Ma sto voler cercar i fatti d'altri...
LEL.
Non far che la collera mi spinga a bastonarti.
ARL.
Per levarghe l'incomodo, vado a servirla.
(torna in locanda)
LEL.
Vo' provarmi, se mi riesce in questa sera profittar di una nuova avventura.
(va passeggiando)
ROS.
È vero, sorella, è vero; la serenata non poteva essere più magnifica.
BEAT.
Qui d'intorno non mi pare vi sieno persone che meritino tanto, onde mi lusingo che sia stata fatta per noi.
ROS.
Almeno si sapesse per quale di noi, e da chi sia stata ordinata.
BEAT.
Qualche incognito amante delle vostre bellezze.
ROS.
O piuttosto qualche segreto ammiratore del vostro merito.
BEAT.
Io non saprei a chi attribuirla.
Il signor Ottavio par di me innamorato, ma s'egli avesse fatta fare la serenata, non si sarebbe celato.
ROS.
Nemmen io saprei sognarmi l'autore.
Florindo non può essere.
Più volte ho procurato dirgli qualche dolce parola, ed egli si è sempre mostrato nemico d'amore.
BEAT.
Vedete colà un uomo che passeggia?
ROS.
Sì, e al lume di luna pare ben vestito.
LEL.
(da sè passeggiando) (Arlecchino non torna; non so chi sieno, nè come regolarmi.
Basta, starò sui termini generali).
ROS.
Ritiriamoci.
BEAT.
Che pazzia! Di che avete paura?
LEL.
Gran bella serenità di cielo! Che notte splendida e quieta! (verso il terrazzino) Mah! Non è maraviglia, se il cielo splende più dell'usato, poichè viene illuminato da due vaghissime stelle.
ROS.
(a Beatrice) (Parla di noi.)
BEAT.
(a Rosaura) (Bellissima! Ascoltiamo.)
LEL.
Non vi è pericolo che l'umido raggio della luna ci offenda, poichè due soli ardenti riscaldano l'aria.
BEAT.
(a Rosaura) (O è qualche pazzo; o qualche nostro innamorato.)
ROS.
(a Beatrice) (Pare un giovane molto ben fatto, e parla assai bene.)
LEL.
Se non temessi la taccia di temerario, ardirei augurare a lor signore la buona notte.
ROS.
Anzi ci fa onore.
LEL.
Stanno godendo il fresco? Veramente la stagion lo richiede.
BEAT.
Godiamo questo poco di libertà, per l'assenza di nostro padre.
LEL.
Ah, non è in città il loro genitore?
BEAT.
No, signore.
ROS.
Lo conosce ella nostro padre?
LEL.
Oh, è molto mio amico.
Dove è andato, se è lecito saperlo?
ROS.
A Padova, per visitare un infermo.
LEL.
(Sono figlie d'un medico.) Certo è un grand'uomo il signor dottore: è l'onore del nostro secolo.
ROS.
Tutta bontà di chi lo sa compatire.
Ma in grazia, chi è lei che ci conosce, e non è da noi conosciuto?
LEL.
Sono un adoratore del vostro merito.
ROS.
Del mio?
LEL.
Di quello di una di voi, mie signore.
BEAT.
Fateci l'onore di dirci di qual di noi v'intendiate.
LEL.
Permettetemi che tuttavia tenga nascosto un tale arcano.
A suo tempo mi spiegherò.
ROS.
(a Beatrice) (Questo vorrà una di noi per consorte.)
BEAT.
(a Rosaura) (Sa il cielo a chi toccherà tal fortuna.)
SCENA III
Arlecchino, dalla locanda, e detti.
ARL.
(cercando Lelio) Dov'el andà?
LEL.
(piano ad Arlecchino, incontrandolo) (E bene, sai tu il loro nome?)
ARL.
(So tutto.
El camerier m'ha dito tutto.)
...
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