IL BUGIARDO, di Carlo Goldoni - pagina 4
...
.)
COL.
Di che paese è, mio signore? (ad Arlecchino)
ARL.
Io sono dell'alma città di Roma.
Sono imparentato coi primi cavalieri d'Europa, ed ho i miei feudi nelle quattro parti del mondo.
(starnuta forte)
COL.
Il ciel l'ajuti!
ARL.
Non s'incomodi, ch'è tabacco.
(piano a Lelio) (Gnanca per servizio?)
LEL.
(Le dici troppo pesanti.)
ARL.
(Gnanca le vostre no le son liniere.)
COL.
Il signor Marchese, che ama la mia padrona, l'ha regalata; se Vossignoria facesse stima di me, farebbe lo stesso.
ARL.
Comandate.
Andate in Fiera, prendete quel che vi piace, ch'io pagherò; e disponete sino ad un mezzo milione.
COL.
Signor Don Piccaro, è troppo grossa.
(entra in casa)
SCENA XV
Lelio ed Arlecchino.
LEL.
Non te l'ho detto? Sei un balordo.
ARL.
Se l'ho da sbarar, tanto serve metter man al pezzo più grosso.
LEL.
Orsù, sieguimi; voglio andar nell'albergo.
Non vedo l'ora di vedere Ottavio, per raccontargli questa nuova avventura.
ARL.
Me par a mi che no sia troppo ben fatto raccontar tutti i fatti soi.
LEL.
Il maggior piacer dell'amante è il poter raccontare con vanità i favori della sua bella.
ARL.
E con qualche poco de zonta.
LEL.
Il racconto delle avventure amorose non può aver grazia senza un po' di romanzo.
(entra in locanda)
ARL.
Evviva le spiritose invenzion.
(entra in locanda)
SCENA XVI
Una gondola condotta da due barcajuoli, dalla quale sbarcano Pantalone e il Dottore, vestiti da campagna.
DOTT.
Grazie al cielo, siamo arrivati felicemente.
PAN.
Dalla Mira a Venezia no se pol vegnir più presto de quel che semo vegnui 5.
DOTT.
Questo per me è stato un viaggio felicissimo.
In primo luogo sono stato a Padova, dove in tre consulti ho guadagnato dieci zecchini.
Questa notte sono stato in casa vostra trattato in Apolline, e poi soprattutto il matrimonio che abbiamo concluso fra il signor Lelio, vostro figlio, e Rosaura, mia figlia, mi colma d'allegrezza e di consolazione.
PAN.
Xè tanti anni che semo amici, ho gusto che deventemo parenti.
DOTT.
Quando credete che vostro figlio possa arrivare in Venezia?
PAN.
Coll'ultima lettera che el m'ha scritto da Roma el me dise che el parte subito.
Ancuo o doman l'averave da esser qua.
DOTT.
Ditemi, caro amico, è poi un giovane ben fatto? Forte, prosperoso? Mia figlia sarà in grado di esser contenta?
PAN.
Mi veramente xè vinti anni che no lo vedo.
De dies'anni l'ho mandà a Napoli da un mio fradello, col qual negozievimo insieme.
DOTT.
Se lo vedeste, non lo conoscereste?
PAN.
Siguro, perchè el xè andà via putello.
Ma per le relazion ch'ho avude de elo, l'è un zovene de proposito, de bona presenza e de spirito.
DOTT.
Ho piacere.
Tanto più mia figlia sarà contenta.
PAN.
Xè assae che no l'abbiè maridada avanti d'adesso.
DOTT.
Vi dirò la verità.
Ho in casa uno scolaro del mio paese, un certo signor Florindo, giovine di buona casa e d'ottimi costumi.
Io ho sempre desiderato di darla a lui per moglie, ma finalmente mi sono assicurato ch'è contrarissimo al matrimonio e nemico del sesso femminino, onde ho risoluto di collocarla in qualch'altra casa.
Fortunatamente son venuto da voi, e in quattro parole abbiamo concluso il miglior negozio di questo mondo.
PAN.
E siora Beatrice la voleu maridar?
DOTT.
Ora che marito Rosaura, se posso, voglio spicciarmi anche di lei.
PAN.
Farè ben.
Le putte in casa, specialmente co no gh'è la madre, no le sta ben.
DOTT.
Vi è un certo signor Ottavio, cavalier padovano, che la prenderebbe, ma sin ad ora non ho voluto che la maggiore restasse indietro.
Ora può darsi che gliela dia.
PAN.
Sior Ottavio lo cognosso; cognosso so sior pare e tutta la so casa.
Dèghela, che fe un bon negozio.
DOTT.
Tanto più gliela darò, perchè voi mi date questo consiglio.
Signor Pantalone, vi ringrazio d'avermi fatto condurre sin qui dalla vostra gondola.
Vado in casa, vado a principiare il discorso a tutt'e due le mie figlie, ma specialmente a Rosaura, che, se non m'inganno, parmi di vedere in quegli occhi una grand'inclinazione al matrimonio.
(apre la porta, ed entra in casa)
SCENA XVII
Pantalone solo.
Sta inclinazion ghe xè poche putte che no la gh'abbia.
Chi per meggiorar condizion, chi per aver un poco più de libertà, chi per no dormir sole, no le vede l'ora de maridarse.
SCENA XVIII
Lelio ed un Vetturino, dalla locanda, e detto.
VETT.
Mi maraviglio di lei, che non si vergogni darmi un zecchino di mancia da Napoli sino a Venezia.
LEL.
La mancia è cortesia, e non è obbligo; e quando ti do un zecchino, intendo trattarti bene.
VETT.
Le mance sono il nostro salario.
Da Napoli a qui mi aspettavo almeno tre zecchini.
PAN.
(da sè) (Sto zentilomo vien da Napoli, chi sa che no l'abbia visto mio fio.)
LEL.
Orsù, se vuoi lo zecchino, bene; se no, lascialo, e ti darò in cambio una dozzina di bastonate.
VETT.
Se non fossimo a Venezia, le farei vedere quel che sono i vetturini napoletani.
LEL.
Vattene, e non mi rompere il capo.
VETT.
Ecco cosa si guadagna a servire questi pidocchi.
(parte)
LEL.
Temerario! Ti romperò le braccia.
(È meglio lasciarlo andare.)
PAN.
(Che el fusse elo mio fio?)
LEL.
Vetturini! Non si contentano mai.
Vorrebbero potere scorticare il povero forestiere.
PAN.
(Voggio assicurarme con bona maniera, per no fallar.) Lustrissimo, la perdona l'ardir, vienla da Napoli?
LEL.
Sì, signore.
PAN.
A Napoli gh'ho dei patroni e dei amici assae; carteggio con molti cavalieri; se mai vusustrissima fusse un de quelli, sarave mia fortuna el poderla servir.
LEL.
Io sono il conte d'Ancora per servirvi.
PAN.
(Cancarazzo! Nol xè mio fio.
M'avea ingannà.) La perdona, lustrissimo sior conte, l'ardìr: ala cognossù in Napoli un certo sior Lelio Bisognosi?
LEL.
L'ho conosciuto benissimo; anzi era molto mio amico, un giovane veramente di tutto garbo, pieno di spirito; amato, adorato da tutti.
Le donne gli corrono dietro, egli è l'idolo di Napoli, e quello che è più rimarchevole, è d'un cuore schietto e sincero, ch'è impossibile che egli non dica sempre la verità.
PAN.
(Cielo, te ringrazio.) El me consola con ste bone notizie.
Me vien da pianzer dall'allegrezza.
SCENA XIX
Ottavio dalla locanda, e detti.
OTT.
(a Pantalone) Signore, mi rallegro delle vostre consolazioni.
PAN.
De cossa, sior Ottavio, se rallegrela con mi?
OTT.
Dell'arrivo di vostro figlio.
PAN.
El xè arrivà? Dove xèlo?
OTT.
Bellissima! Non è qui il signor Lelio a voi presente?
LEL.
(Questi è mio padre? L'ho fatta bella.)
PAN.
(verso Lelio) Come? Sior conte d'Ancora?
LEL.
(ridendo) Ah, ah, ah.
Caro signor padre, perdonate questo piccolo scherzo.
Già vi avevo conosciuto, e stavo in voi osservando gli effetti della natura.
Perdonatemi, ve ne prego, eccomi a' vostri piedi.
PAN.
Vien qua el mio caro fio, vien qua.
Xè tanto che te desidero, che te sospiro.
Tiò un baso, el mio caro Lelio, ma varda ben, gnanca da burla no dir de sta sorte de falsità.
LEL.
Credetemi, che questa è la prima bugia che ho detto da che so d'esser uomo.
PAN.
Benissimo, fa che la sia anca l'ultima.
Caro el mio caro fio, me consolo a vederte cussì bello, cussì spiritoso.
Asto fatto bon viazzo? Perchè no xestu vegnù a casa a drettura?
LEL.
Seppi che eravate in villa, e se oggi non vi vedeva in Venezia, veniva certamente a ritrovarvi alla Mira.
PAN.
Oh magari! Anderemo a casa, che parleremo.
T'ho da dir delle gran cosse.
Sior Ottavio, con so bona grazia.
OTT.
Son vostro servo.
PAN.
(Oh caro! Siestu benedio! Vardè che putto! Vardè che tocco de omo! Gran amor xè l'amor de pare! Son fora de mi dalla consolazion.) (parte)
LEL.
Amico.
Stamane ho pagata la fiera alle due sorelle.
Son venute in maschera a cercare di me, le ho condotte al moscato.
Ve lo confido, ma state cheto.
(va dietro a Pantalone)
SCENA XX
Ottavio, poi il Dottore.
OTT.
Resto sempre più maravigliato della debolezza di queste due ragazze.
Mi compariscono d'un carattere affatto nuovo.
Per l'assenza del padre si prendono libertà; ma di tanto non le ho mai credute capaci.
DOTT.
(uscendo di casa) Gli son servitore, il mio caro signor Ottavio.
OTT.
(Povero padre! Bell'onore che gli rendono le sue figliuole!)
DOTT.
(Egli sta sulle sue.
Sarà disgustato, perchè sino adesso ho negato di dargli Beatrice.)
OTT.
(Manco male, che avendomi egli negato Beatrice, mi ha sottratto dal pericolo di avere una cattiva moglie.)
DOTT.
(Ora l'aggiusterò io.) Signor Ottavio, gli do nuova che ho fatta sposa Rosaura mia figlia.
OTT.
Me ne rallegro infinitamente.
(Lo sposo è aggiustato bene.)
DOTT.
Ora mi resta da collocare Beatrice.
OTT.
Non durerà fatica a trovarle marito.
DOTT.
So ancor io che ci sarà più d'uno che aspirerà ad esser mio genero, poichè non ho altro che queste due figlie, e alla mia morte tutto sarà di loro; ma siccome il signor Ottavio più e più volte ha mostrato della premura per Beatrice, dovendola maritare, la darò a lui piuttosto che ad un altro.
OTT.
Vi ringrazio infinitamente.
Non sono più in grado di ricevere le vostre grazie.
DOTT.
Che vuol ella dire? Pretende di voler vendicarsi della mia negativa? Allora non era in grado di maritarla; ora mi ritrovo in qualche disposizione.
OTT.
(con alterezza) La dia a chi vuole.
Io non sono in caso di prenderla.
DOTT.
Vossignoria parla con tal disprezzo? Beatrice è figlia d'un ciabattino?
OTT.
È figlia d'un galantuomo; ma, degenerando dal padre, fa poco conto del suo decoro.
DOTT.
Come parla, padron mio?
OTT.
Parlo con fondamento.
Dovrei tacere, ma la passione che ho avuta per la signora Beatrice, e che tuttavia non so staccarmi dal seno, e la buona amicizia che a voi professo, mi obbliga ad esagerare così e ad illuminarvi, se foste cieco.
DOTT.
Ella mi rende stupido e insensato.
Che mai vi è di nuovo?
OTT.
Sia quello ch'esser si voglia, non vo' tacere.
Le vostre due figlie, la scorsa notte, dopo aver goduta una serenata, hanno introdotto un forestiere nella loro casa, con cui cenando e tripudiando, hanno consumata la notte.
DOTT.
Mi maraviglio di voi, signore; questa cosa non può essere.
OTT.
Quel che io vi dico, son pronto a mantenervelo.
DOTT.
Se siete galantuomo, preparatevi dunque a farmelo constatare; altrimenti, se è una impostura la vostra, troverò la maniera di farmene render conto.
OTT.
Obbligherò a confermarlo quello stesso che, venuto ieri da Napoli, è stato ammesso alla loro conversazione.
DOTT.
Mie figlie non sono capaci di commettere tali azioni.
OTT.
Se sono capaci, lo vedremo.
Se prendete la cosa da me in buona parte, sono un amico che vi rende avvisato; se la prendete sinistramente, son uno che in qualunque maniera renderà conto delle sue parole.
(parte)
SCENA XXI
Il Dottore solo.
Oh misero me! Povera mia casa! Povera mia riputazione! Questo sì è un male, cui nè Ippocrate, nè Galeno mi insegnano a risanare.
Ma saprò ben trovare un sistema di medicina morale, che troncherà la radice.
Tutto consiste a far presto, non lasciar che il mal s'avanzi troppo, che non pigli possesso.
Principiis obsta, sero medicina paratur.
(entra in casa)
FINE DELL'ATTO PRIMO.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Camera in casa del Dottore.
Dottore e Florindo.
FLOR.
Creda, signor Dottore, glielo giuro sull'onor mio.
In casa questa notte non è venuto nessuno.
DOTT.
So di certo che alle mie figlie è stata fatta una serenata.
FLOR.
È verissimo, ed esse l'hanno goduta sul terrazzino modestissimamente.
Le serenate non rendono alcun pregiudizio alle figlie oneste.
Fare all'amore con onestà è lecito ad ogni civile fanciulla.
DOTT.
Ma ricevere di notte la gente in casa? Cenare con un forestiere?
FLOR.
Questo è quello che non è vero.
DOTT.
Che ne potete saper voi? Sarete stato a letto.
FLOR.
Sono stato svegliato tutta la notte.
DOTT.
Perchè svegliato?
FLOR.
Per causa del caldo io non poteva dormire.
DOTT.
Conoscete il signor Ottavio?
FLOR.
Lo conosco.
DOTT.
Egli mi ha detto tutto ciò, ed è pronto a sostenere che ha detto la verità.
FLOR.
Il signor Ottavio mentisce.
Lo troveremo; si farà che si spieghi con qual fondamento l'ha detto, e son certo ritroverete essere tutto falso.
DOTT.
Se fosse così, mi spiacerebbe aver date tante mortificazioni alle mie figliuole.
FLOR.
Povere ragazze! Le avete ingiustamente trattate male.
DOTT.
Specialmente Rosaura piangeva dirottamente; nè si poteva dar pace.
FLOR.
Povera innocente! Mi fa compassione.
(si asciuga gli occhi)
DOTT.
Che cosa avete, figliuolo, che sembra che piangiate?
FLOR.
Niente: mi è andato del tabacco negli occhi.
(mostra la tabacchiera)
SCENA II
Colombina e detti.
COL.
Presto, signor padrone, presto.
La povera signora Rosaura è svenuta, e non so come fare a farla rinvenire; (al dottore) correte per carità ad ajutarla.
FLOR.
(smania)
DOTT.
Presto! un poco di spirito di melissa.
COL.
Se sentiste come le palpita il cuore! Avrebbe bisogno d'una cavata di sangue.
DOTT.
Signor Florindo, andate a vederla, toccatele il polso, e se vi pare che abbia bisogno di sangue, pungetele la vena.
So che siete bravissimo in queste operazioni.
Io intanto vado a prendere lo spirito di melissa.
(parte)
COL.
Per amor del cielo, non abbandonate la povera mia padrona.
FLOR.
Ecco l'effetto de' rimproveri ingiusti di suo padre.
La soccorrerò, se potrò.
(parte)
SCENA III
Camera di Rosaura con sedie.
Rosaura svenuta sopra una sedia; poi Colombina, poi Florindo, e poi il Dottore.
COL.
Ecco qui, poverina! non è ancor rinvenuta; e sua sorella non la soccorre, non ci pensa; vorrebbe che ella morisse.
Queste due sorelle non si amano, non si possono vedere.
FLOR.
Dove sono? Io non ci vedo.
COL.
Come non ci vedete, se siamo in una camera così chiara? Guardate la povera signora Rosaura svenuta.
FLOR.
Ohimè! non posso più.
Colombina, andate a prendere quel che bisogna per cavarle sangue.
COL.
Vado subito.
Per l'amor del cielo, non l'abbandonate.
(parte, e poi ritorna)
FLOR.
Son solo, nessuno mi vede, posso toccar quella bella mano.
Sì, cara, ti tasterò il polso.
Quanto è bella, benchè svenuta! (le tocca il polso) Ahimè, ch'io muojo.
(cade svenuto in terra, o sopra una sedia vicina)
COL.
(portando il cerino e qualche altra cosa per il sangue) Oh bella! Il medico fa compagnia all'ammalata.
DOTT.
Son qui, son qui; non è ancor rinvenuta?
COL.
Osservate.
Il signor Florindo è venuto meno ancor esso per conversazione.
DOTT.
Oh diavolo! Che cos'è quest'istoria? Presto, bisogna dargli soccorso.
Piglia questo spirito e bagna sotto il naso Rosaura, ch'io assisterò questo ragazzo.
COL.
(bagnandola collo spirito) Ecco, ecco, la padrona si muove.
DOTT.
Anche Florindo si desta.
Vanno di concerto.
ROS.
Ohimè! Dove sono?
DOTT.
Via, figlia mia, fatti animo, non è niente.
FLOR.
(s'alza, vede il Dottore, e si vergogna) (Povero me! Che mai ho fatto?)
DOTT.
Che cosa è stato, Florindo? Che avete avuto?
FLOR.
Signore...
non lo so nemmen'io...
Con vostra buona licenza.
(parte confuso)
DOTT.
Se ho da dire la verità, mi sembra un pazzerello.
COL.
Animo, signora padrona, allegramente.
ROS.
Ah signor padre, per carità...
DOTT.
Figlia mia, non ti affligger più.
Sono stato assicurato non esser vero ciò che mi è stato detto di te.
Voglio credere che sia una calunnia, un'invenzione.
Verremo in chiaro della verità.
ROS.
Ma, caro signor padre, chi mai vi ha dato ad intendere falsità così enormi, così pregiudichevoli alla nostra riputazione?
DOTT.
È stato il signor Ottavio.
ROS.
Con qual fondamento ha egli potuto dirlo?
DOTT.
Non lo so.
Lo ha detto e s'impegna di sostenerlo.
ROS.
Lo sostenga, se può.
Signor padre, si tratta dell'onor vostro, si tratta dell'onor mio: non vi gettate dietro le spalle una cosa di tanto rimarco.
DOTT.
Sì, lo ritroverò e me ne farò render conto.
COL.
Aspettate.
Anderò io a ritrovarlo.
Io lo condurrò in casa e, cospetto di bacco, lo faremo disdire.
DOTT.
Va, e se lo trovi, digli che io gli voglio parlare.
COL.
Or ora lo conduco qui a suo dispetto.
(parte)
SCENA IV
Rosaura e il Dottore.
ROS.
Gran dolore mi avete fatto provare!
DOTT.
Orsù via, medicheremo il dolore sofferto con una nuova allegrezza.
Sappi, Rosaura, che io ti ho fatta sposa.
ROS.
A chi mai mi avete voi destinata?
DOTT.
Al figlio del signor Pantalone.
ROS.
Deh, se mi amate, dispensatemi per ora da queste nozze.
DOTT.
Dimmi il perchè, e può essere che ti contenti.
ROS.
Una figlia obbediente e rispettosa non deve celar cos'alcuna al suo genitore.
Sappiate, signore, che un cavalier forestiere, di gran sangue e di grandi fortune, mi desidera per consorte.
DOTT.
Dunque è vero che vi è il forestiere, e sarà vero della serenata e della cena.
ROS.
È vero che un forestiere mi ama, e che mi ha fatta una serenata; ma mi ha parlato una sol volta sotto del terrazzino, e mi fulmini il cielo s'egli ha posto piede mai in questa casa.
DOTT.
È un signor grande, e ti vuole per moglie?
ROS.
Così almeno mi fa sperare.
DOTT.
Guarda bene che egli non sia qualche impostore.
ROS.
Oggi si darà a conoscere a voi.
Voi aprirete gli occhi per me.
DOTT.
Senti, figlia mia, quando il cielo ti avesse destinata questa fortuna non sarei sì pazzo a levartela.
Con Pantalone ho qualche impegno, ma solamente di parole: non mancheranno pretesti per liberarmene.
ROS.
Basta dire ch'io non lo voglio.
DOTT.
Veramente non basterebbe, perchè son io quello che comanda: ma troveremo una miglior ragione.
Dimmi, come si chiama questo cavaliere?
ROS.
Il marchese Asdrubale di Castel d'Oro.
DOTT.
Capperi! figlia mia, un marchese?
SCENA V
Beatrice che ascolta, e detti.
ROS.
È un anno ch'è innamorato di me, e solo jeri sera si è dichiarato.
DOTT.
Ti vuole veramente bene?
ROS.
Credetemi, che mi adora.
DOTT.
Sei sicura che ti voglia prender per moglie?
ROS.
Me ne ha data positiva parola.
DOTT.
Quando è così, procurerò di assicurare la tua fortuna.
BEAT.
Signor padre, non crediate sì facilmente alle parole di mia sorella.
Non è vero che il marchese Asdrubale siasi dichiarato per lei.
Egli ama una di noi due e, senza troppo lusingarmi, ho ragione di credere ch'egli mi preferisca.
DOTT.
(a Rosaura) Oh bella! Come va questa storia?
ROS.
(a Beatrice) Dove appoggiate le vostre speranze?
BEAT.
Dove avete appoggiate le vostre.
ROS.
Signor padre, io parlo con fondamento.
BEAT.
(al Dottore) Credetemi, ch'io so quel che dico.
DOTT.
Questa è la più bella favoletta del mondo.
Orsù sentite cosa vi dico per concluderla in poche parole.
Intanto state dentro delle finestre, e non andate fuori di casa senza licenza mia.
Se il signor marchese parlerà con me, sentirò se sia vero quello m'avete detto, e chi di voi sia la prediletta; se poi sarà una favola, come credo, avrò motivo di dire, senza far torto nè all'una nè all'altra, che tutt'e due siete pazze.
(parte)
SCENA VI
Rosaura e Beatrice.
BEAT.
Signora sorella, qual fondamento avete voi di credere che il signor marchese si sia dichiarato per voi?
ROS.
Il fondamento l'ho infallibile, ma non sono obbligata di dirvi tutto.
BEAT.
Sì, sì, lo so.
Siete stata fuori di casa in maschera.
Vi sarete ingegnata di tirar l'acqua al vostro mulino; ma giuro al cielo, non vi riuscirà, forse, di macinare.
ROS.
Che pretensione avete voi? Ha egli detto essere per voi inclinato? Ha dimostrato volervi?
BEAT.
Ha detto a me quello che ha detto a voi; e non so ora con qual franchezza lo pretendiate per vostro.
ROS.
Basta, si vedrà.
BEAT.
Se saprò che mi abbiate fatta qualche soverchieria, sorella, me la pagherete.
ROS.
Mi pare che dovreste avere un poco di convenienza.
Io finalmente son la maggiore.
BEAT.
Di grazia, baciatele la mano alla signora superiora.
ROS.
Già, l'ho sempre detto, insieme non si sta bene.
BEAT.
Se non era per causa vostra, sarei maritata che sarebbero più di tre anni.
Cinquanta mi volevano.
Ma il signor padre non ha voluto far torto alla sua primogenita.
ROS.
Certo, gran pretendenti avete avuti! Fra gli altri il garbatissimo signor Ottavio, il quale forse per vendicarsi de' vostri disprezzi, ha inventate tutte le indegnità raccontate di noi a nostro padre.
BEAT.
Ottavio n'è stato inventore?
ROS.
Testè me lo disse il genitore medesimo.
BEAT.
Ah indegno! Se mi capita alle mani, vo' che mi senta.
ROS.
Meriterebbe essere trucidato.
SCENA VII
Colombina, poi Ottavio, e dette.
COL.
Signore padrone, ecco qui il signor Ottavio che desidera riverirle.
OTT.
Son qui pien di rossore e di confusione...
ROS.
Siete un mentitore.
BEAT.
Siete un bugiardo.
OTT.
Signore, il mentitore, il bugiardo, non sono io.
ROS.
Chi ha detto a nostro padre che abbiamo avuta una serenata?
OTT.
L'ho detto io, ma però...
BEAT.
Chi gli ha detto che abbiamo ricevuto di notte un forestiere in casa?
OTT.
Io, ma sappiate...
BEAT.
Siete un bugiardo.
ROS.
Siete un mentitore.
OTT.
Sappiate che Lelio Bisognosi...
ROS.
Avete voi detto che siamo state sul terrazzino?
OTT.
Sì signore, ascoltatemi...
BEAT.
Avete detto che siamo state trattate dal forestiere?
OTT.
L'ho detto, perchè egli stesso...
BEAT.
Siete un bugiardo.
(parte)
ROS.
Siete un mentitore.
(parte)
SCENA VIII
Ottavio e Colombina.
OTT.
Ma se non mi lasciate parlare...
Colombina, ti raccomando l'onor mio.
Va dalle tue padrone, di' loro che, se mi ascolteranno, saranno contente.
COL.
Che cosa potete dire in vostra discolpa?
OTT.
Moltissimo posso dire, e che sia la verità, senti, e giudica tu, se ho ragione...
COL.
Veniamo alle corte.
Voi avete detto al padrone che il forestiere è entrato in casa di notte.
OTT.
Ma se...
COL.
Voi avete detto che ha dato loro una cena.
OTT.
Sì, ma tutto questo...
COL.
L'avete detto, o non l'avete detto?
OTT.
L'ho detto...
COL.
Dunque siete un mentitore, un bugiardo.
(parte)
SCENA IX
Ottavio, poi il Dottore.
OTT.
Anche la cameriera si burla di me? Vi è pur troppo il bugiardo, ma non sono io quello, e non posso giustificarmi.
Il signor Florindo mi assicura non esser vero che Lelio sia stato introdotto in casa, e molto meno che abbia seco loro cenato.
Una serenata non reca pregiudizio all'onestà d'una giovane, onde mi pento d'aver creduto, e molto più mi pento d'aver parlato.
Lelio è l'impostore, Lelio è il bugiardo, ed io, acciecato dalla gelosia, ho avuta la debolezza di credere, e non ho avuto tempo di riflettere che Lelio è un giovinastro, venuto recentemente da Napoli.
Come l'aggiusterò io con Beatrice, e quel che più importa, come l'aggiusterò con suo padre? Eccolo ch'egli viene; merito giustamente i di lui rimproveri.
DOTT.
Che c'è, signor Ottavio? Che fate in casa mia?
OTT.
Signore eccomi a' vostri piedi.
DOTT.
Dunque mi avete raccontate delle falsità.
OTT.
Tutto quello ch'io ho detto, non fu mia invenzione; ma troppo facilmente ho creduto, e troppo presto vi ho riportato, quanto da un bugiardo mi fu asserito.
DOTT.
E chi è costui?
OTT.
Lelio Bisognosi.
DOTT.
Il figlio del signor Pantalone?
OTT.
Egli per l'appunto.
DOTT.
È venuto a Venezia?
OTT.
Vi è giunto ieri, per mia disgrazia.
DOTT.
Dov'è? È in casa di suo padre?
OTT.
Credo di no.
È un giovine scapestrato, che ama la libertà.
DOTT.
Ma come ha potuto dire questo disgraziato tutto quello che ha detto?
OTT.
L'ha detto con tanta costanza, che sono stato forzato a crederlo, e se il signor Florindo, che so essere sincero e onorato, non mi avesse chiarito, forse forse ancora non ne sarei appieno disingannato.
DOTT.
Io resto attonito come colui, appena arrivato, abbia avuto il tempo di piantare questa carota.
Sa che Rosaura e Beatrice sieno mie figlie?
OTT.
Io credo di sì.
Sa che sono figlie d'un medico.
DOTT.
Ah disgraziato! Così le tratta? Non gli do più Rosaura per moglie.
OTT.
Signor Dottore, vi domando perdono.
DOTT.
Vi compatisco.
OTT.
Non mi private della vostra grazia.
DOTT.
Vi sarò amico.
OTT.
Ricordatevi che mi avete esibita la signora Beatrice.
DOTT.
Mi ricordo che l'avete rifiutata.
OTT.
Ora vi supplico di non negarmela.
DOTT.
Ne parleremo.
OTT.
Ditemi di sì, ve ne supplico.
DOTT.
Ci penserò.
OTT.
Vi chiedo la figlia, non vi disturberò per la dote.
DOTT.
Via, non occorre altro, ci parleremo.
(parte)
OTT.
Non mi curo perder la dote, se acquisto Beatrice.
Ma vuol essere difficile l'acquistarla.
Le donne sono più costanti nell'odio, che nell'amore.
(parte)
SCENA X
Camera in casa di Pantalone
Lelio ed Arlecchino.
LEL.
Arlecchino, sono innamorato davvero.
ARL.
Mi, con vostra bona grazia, no ve credo una maledetta.
LEL.
Credimi che è così.
ARL.
No ve lo credo, da galantomo.
LEL.
Questa volta dico pur troppo il vero.
ARL.
Sarà vero, ma mi no lo credo.
LEL.
E perchè, s'è vero, non lo vuoi credere?
ARL.
Perchè al busiaro no se ghe crede gnanca la verità.
LEL.
Dovresti pur conoscerlo ch'io sono innamorato, dal sospirar ch'io faccio continuamente.
ARL.
Siguro! perchè non savì suspirar e pianzer, quando ve comoda.
Lo sa la povera siora Cleonice, se savì pianzer e suspirar, se savì tirar zo le povere donne.
LEL.
Ella è stata facile un poco troppo.
ARL.
Gh'avì promesso sposarla, e la povera romana la v'ha credesto.
LEL.
Più di dieci donne hanno ingannato me; non potrò io burlarmi di una?
ARL.
Basta: preghè el cielo che la ve vaga ben, e che la romana non ve vegna a trovar a Venezia.
LEL.
Non avrà tanto ardire.
ARL.
Le donne, co se tratta d'amor, le fa delle cosse grande.
LEL.
Orsù, tronca ormai questo discorso odioso.
A Cleonice più non penso.
Amo adesso Rosaura, e l'amo con un amore straordinario, con un amore particolare.
ARL.
Se vede veramente che ghe volì ben, se non altro per i bei regali che gh'andè facendo.
Corpo de mi! Diese zecchini in merlo.
LEL.
(ridendo) Che dici, Arlecchino, come a tempo ho saputo prevalermi dell'occasione?
ARL.
L'è una bella spiritosa invenzion.
Ma, sior padron, semo in casa de vostro padre, e gnancora no se magna.
LEL.
Aspetta, non essere tanto ingordo.
ARL.
Com'elo fatto sto vostro padre, che no l'ho gnancora visto.
LEL.
È un buonissimo vecchio.
Eccolo che viene.
ARL.
Oh, che bella barba!
SCENA XI
Pantalone e detti.
PAN.
Fio mio, giusto ti te cercava.
LEL.
Eccomi a' vostri comandi.
ARL.
Signor Don Pantalone, essendo, come sarebbe a dire, il servo della mascolina prole, così mi do il bell'onore di essere, cioè di protestarmi di essere, suo di vusignoria!...
Intendetemi senza ch'io parli.
PAN.
Oh, che caro matto! Chi elo costù?
LEL.
È un mio servitore, lepido ma fedele.
PAN.
Bravo, pulito.
El sarà el nostro divertimento.
ARL.
Farò il buffone, se ella comanda.
PAN.
Me farè servizio.
ARL.
Ma avvertite; datemi ben da mangiare, perchè i buffoni mangiano meglio degli altri.
PAN.
Gh'avè rason.
No ve mancherà el vostro bisogno.
ARL.
Vederò se si' galantomo.
PAN.
Quel che prometto, mantegno.
ARL.
Alle prove.
Mi adesso gh'ho bisogno de magnar.
PAN.
Andè in cusina, e fèvene dar.
ARL.
Sì ben, sè galantomo.
Vago a trovar el cogo.
(a Lelio) Sior padron, una parola.
LEL.
Cosa vuoi?
ARL.
(a Lelio piano) (Ho paura che nol sia voster pader.)
LEL.
(E perchè?)
ARL.
(Perchè lu el dis la verità, e vu si' busiaro.) (parte)
LEL.
(da sè) (Costui si prende troppa confidenza.)
SCENA XII
Pantalone e Lelio.
PAN.
L'è curioso quel to servitor.
E cusì, come che te diseva, fio mio, t'ho da parlar.
LEL.
Son qui ad ascoltarvi con attenzione.
PAN.
Ti ti xè l'unico erede de casa mia, e za che la morte del povero mio fradello t'ha lassà più ricco ancora de quello che te podeva lassar to pare, bisogna pensar alla conservazion della casa e della fameggia: onde, in poche parole, vôi maridarte.
LEL.
A questo già ci aveva pensato.
Ho qualche cosa in vista, e a suo tempo si parlerà.
PAN.
Al tempo d'ancuo, la zoventù, co se tratta de maridarse, no pensa altro che a sodisfar el caprizio, e dopo quattro zorni de matrimonio, i se pente d'averlo fatto.
Sta sorte de negozi bisogna lassarli manizar ai pari.
Eli, interessai per el ben dei fioi più dei fioi medesimi, senza lassarse orbar nè dalla passion, nè dal caldo, i fa le cosse con più giudizio, e cussì col tempo i fioi se chiama contenti.
LEL.
Certo che senza di voi non lo farei.
Dipenderò sempre da' vostri consigli, anzi dalla vostra autorità.
PAN.
Oh ben, co l'è cussì, fio mio, sappi che za t'ho maridà, e giusto stamattina ho stabilio el contratto delle to nozze.
LEL.
Come! Senza di me?
PAN.
L'occasion no podeva esser meggio.
Una bona putta de casa e da qualcossa, con una bona dota, fia d'un omo civil bolognese, ma stabilio in Venezia.
Te dirò anca, a to consolazion, bella e spiritosa.
Cossa vustu de più? Ho chiappà so pare in parola, el negozio xè stabilio.
LEL.
Signor padre, perdonatemi: è vero che i padri pensano bene per i figliuoli, ma i figliuoli devono star essi colla moglie, ed è giusto che si soddisfacciano.
PAN.
Sior fio, questi no xè quei sentimenti de rassegnazion, coi quali me avè fin adesso parlà.
Finalmente son pare, e se per esser stà arlevà lontan da mi, no avè imparà a respettarme, son ancora a tempo per insegnarvelo.
LEL.
Ma non volete nemmeno che prima io la veda?
PAN.
La vederè, quando averè sottoscritto el contratto.
Alla vecchia se fa cussì.
Quel che ho fatto, ho fatto ben: son vostro pare, e tanto basta.
LEL.
(Ora è tempo di qualche spiritosa invenzione.)
PAN.
E cussì, cossa me respondeu?
LEL.
Ah, signor padre, ora mi veggo nel gran cimento, in cui mi pone la vostra autorità; non posso più a lungo tenervi celato un arcano.
PAN.
Coss'è? Cossa gh'è da niovo?
LEL.
(s'inginocchia) Eccomi a' vostri piedi.
So che ho errato, ma fui costretto a farlo.
PAN.
Mo via, di' su, coss'astu fatto?
LEL.
Ve lo dico colle lagrime agli occhi.
PAN.
Destrighete, parla.
LEL.
A Napoli ho preso moglie.
PAN.
E adesso ti me lo disi? E mai no ti me l'ha scritto? E mio fradello no lo saveva?
LEL.
Non lo sapeva.
PAN.
Levete su, ti meriteressi che te depennasse de fio, che te scazzasse de casa mia.
Ma te voio ben, ti xè el mio unico fio, e co la cossa xè fatta, no gh'è remedio.
Se el matrimonio sarà da par nostro, se la niora me farà scriver, o me farà parlar, fursi fursi l'accetterò.
Ma se ti avessi sposà qualche squaquarina...
LEL.
Oh, che dite mai, signor padre? Io ho sposato una onestissima giovane.
PAN.
De che condizion?
LEL.
È figlia di un cavaliere.
PAN.
De che paese?
LEL.
Napoletana.
PAN.
Ala dota?
LEL.
È ricchissima.
PAN.
E d'un matrimonio de sta sorte no ti me avvisi? Gh'avevistu paura, che disesse de no? No son miga matto.
Ti ha fatto ben a farlo.
Ma perchè no dir gnente nè a mi, nè a to barba? L'astu fursi fatto in scondon dei soi?
LEL.
Lo sanno tutti.
PAN.
Ma perchè taser con mi e co mio fradello?
LEL.
Perchè ho fatto il matrimonio su due piedi.
PAN.
Come s'intende un matrimonio su do piè?
LEL.
Fui sorpreso dal padre in camera della sposa...
PAN.
Perchè geristu andà in camera della putta?
LEL.
Pazzie amorose, frutti della gioventù.
PAN.
Ah disgrazià! Basta, ti xè maridà, la sarà fenia.
Cossa gh'ala nome la to novizza?
LEL.
Briseide.
PAN.
E so pare?
LEL.
Don Policarpio.
PAN.
El cognome?
LEL.
Di Albacava.
PAN.
Xela zovene?
LEL.
Della mia età.
PAN.
Come astu fatto amicizia?
LEL.
La sua villa era vicina alla nostra.
PAN.
Come t'astu introdotto in casa?
LEL.
Col mezzo d'una cameriera.
PAN.
E i t'ha trovà in camera?
LEL.
Sì, da solo a sola.
PAN.
De dì, o de notte?
LEL.
Fra il chiaro e l'oscuro.
PAN.
E ti ha avudo cussì poco giudizio de lassarte trovar, a rischio che i te mazza?
LEL.
Mi son nascosto in un armadio.
PAN.
Come donca t'ali trovà?
LEL.
Il mio orologio di ripetizione ha suonate le ore, e il padre si è insospettito.
PAN.
Oh diavolo! Coss'alo dito?
LEL.
Ha domandato alla figlia da chi aveva avuta quella ripetizione.
PAN.
E ella?
LEL.
Ed ella disse subito averla avuta da sua cugina.
PAN.
Chi ela sta so cugina?
LEL.
La duchessa Matilde, figlia del principe Astolfo, sorella del conte Argante, sopraintendente alle cacce di Sua Maestà.
PAN.
Sta to novizza la gh'ha un parentà strepitoso.
LEL.
È d'una nobiltà fioritissima.
PAN.
E cussì, del relogio cossa ha dito so pare? S'alo quietà?
LEL.
L'ha voluto vedere.
PAN.
Oh bella! Com'èla andada?
LEL.
È venuta Briseide, ha aperto un pocolino l'armadio, e mi ha chiesto sotto voce l'orologio.
PAN.
Bon; co ti ghel davi, no giera altro.
LEL.
Nel levarlo dal saccoccino, la catena si è riscontrata col cane d'una pistola che tenevo montata, e la pistola sparò.
PAN.
Oh poveretto mi! T'astu fatto mal?
LEL.
Niente affatto.
PAN.
Cossa ai dito? Cossa xè stà?
LEL.
Strepiti grandi.
Mio suocero ha chiamata la servitù.
PAN.
T'hai trovà?
LEL.
E come!
PAN.
Me trema el cuor.
Cossa t'ali fatto?
LEL.
Ho messo mano alla spada, e sono tutti fuggiti.
PAN.
E se i te mazzava?
LEL.
Ho una spada che non teme di cento.
PAN.
In semola 6, padron, in semola.
E cussì, xestu scampà?
LEL.
Non ho voluto abbandonar la mia bella.
PAN.
Ella coss'ala dito?
LEL.
(tenero) Mi si è gettata a' piedi colle lagrime agli occhi.
PAN.
Par che ti me conti un romanzo.
LEL.
Eppure vi narro la semplice verità.
PAN.
Come ha fenio l'istoria?
LEL.
Mio suocero è ricorso alla Giustizia.
È venuto un capitano con una compagnia di soldati, me l'hanno fatta sposare, e per castigo mi hanno assegnato venti mila scudi di dote.
PAN.
(Questa la xè fursi la prima volta, che da un mal sia derivà un ben.)
LEL.
(Sfido il primo gazzettiere d'Europa a inventare un fatto così bene circostanziato.)
PAN.
Fio mio, ti xè andà a un brutto rischio, ma za che ti xè riuscio con onor, ringrazia el cielo, e per l'avegnir abbi un poco più de giudizio.
Pistole, pistole! Cossa xè ste pistole? Qua no se usa ste cosse.
LEL.
Da quella volta in qua, mai più non ho portate armi da fuoco.
PAN.
Ma de sto matrimonio, perchè no dirlo a to barba?
LEL.
Quando è successo il caso, era gravemente ammalato.
PAN.
Perchè no scriverlo a mi?
LEL.
Aspettai a dirvelo a voce.
PAN.
Perchè no astu menà la sposa con ti a Venezia?
LEL.
È gravida in sei mesi.
PAN.
Anca gravia? In sie mesi? Una bagattella! El negozio no xè tanto fresco.
Va là, che ti ha fatto una bella cossa a no me avvisar.
Dirà ben to missier che ti gh'ha un pare senza creanza, non avendoghe scritto una riga per consolarme de sto matrimonio.
Ma quel che non ho fatto, farò.
Sta sera va via la posta de Napoli, ghe voggio scriver subito, e sora tutto ghe voggio raccomandar la custodia de mia niora e de quel putto che vegnirà alla luse, che essendo frutto de mio fio, el xè anca parto delle mie viscere.
Vago subito...
Ma no me arrecordo più el cognome de Don Policarpio.
Tornemelo a dir, caro fio.
LEL.
(Non me lo ricordo più nemmen io!) Don Policarpio Carciofoli.
PAN.
Carciofoli? Non me par che ti abbi dito cussì.
Adesso me l'arrecordo.
Ti m'ha dito d'Albacava.
LEL.
Ebbene, Carciofoli è il cognome, Albacava è il suo feudo: si chiama nell'una e nell'altra maniera.
PAN.
Ho capio.
Vago a scriver.
Ghe dirò che subito che la xè in stato de vegnir, i me la manda a Venezia la mia cara niora.
No vedo l'ora de vèderla: no vedo l'ora de basar quel caro putello, unica speranza e sostegno de casa Bisognosi, baston della vecchiezza del povero Pantalon.
(parte)
SCENA XIII
Lelio solo.
Che fatica terribile ho dovuto fare per liberarmi dall'impegno di sposare questa bolognese, che mio padre aveva impegnata per me! Quand'abbia a far la pazzia di legarmi colla catena del matrimonio, altre spose non voglio che Rosaura.
Ella mi piace troppo.
Ha un non so che, che a prima vista m'ha colpito.
Finalmente è figlia di un medico, mio padre non può disprezzarla.
Quando l'avrò sposata, la napolitana si convertirà in veneziana.
Mio padre vuol dei bambini? Gliene faremo quanti vorrà.
(parte)
SCENA XIV
Strada col terrazzino della casa del Dottore
Florindo e Brighella.
FLOR.
Brighella, son disperato.
BRIG.
Per che causa?
FLOR.
Ho inteso dire che il dottor Balanzoni voglia dar per moglie la signora Rosaura ad un marchese napolitano.
BRIG.
Da chi avì sentido a dir sta cossa?
FLOR.
Dalla signora Beatrice sua sorella.
BRIG.
Donca no bisogna perder più tempo.
Bisogna che parlè, che ve dichiarè.
FLOR.
Sì, Brighella, ho risolto spiegarmi.
BRIG.
Sia ringrazià el cielo.
Una volta ve vederò fursi contento.
FLOR.
Ho composto un sonetto, e con questo penso di scoprirmi a Rosaura.
BRIG.
Eh, che no ghe vol sonetti.
L'è mejo parlar in prosa.
FLOR.
Il sonetto è bastantemente chiaro per farmi intendere.
BRIG.
Quando l'è chiaro, e che siora Rosaura el capissa, anca el sonetto pol servir.
Possio sentirlo anca mi?
FLOR.
Eccolo qui.
Osserva come è scritto bene.
BRIG.
No l'è miga scritto de vostro carattere.
FLOR.
No, l'ho fatto scrivere.
BRIG.
Perchè mo l'avi fatto scriver da un altro?
FLOR.
Acciò non si conosca la mia mano.
BRIG.
Mo no s'ha da saver che l'avi fatto vu?
FLOR.
Senti, se può parlare più chiaramente di me.
SONETTO:
Idolo del mio cor, nume adorato
Per voi peno tacendo, e v'amo tanto
Che temendo d'altrui vi voglia il fato
M'esce dagli occhi, e più dal cuore il pianto.
Io non son cavalier, nè titolato,
Nè ricchezze o tesori aver mi vanto
A me diede il destin mediocre stato,
Ed è l'industria mia tutto il mio vanto.
Io nacqui in Lombardia sott'altro cielo.
Mi vedete sovente a voi d'intorno.
Tacqui un tempo in mio danno, ed or mi svelo.
Sol per vostra cagion fo qui soggiorno.
A voi, Rosaura mia, noto è il mio zelo,
E il nome mio vi farò noto un giorno.
FLOR.
Ah, che ne dici?
BRIG.
L'è bello, l'è bello, ma nol spiega gnente.
FLOR.
Come non spiega niente? Non parla chiaramente di me? La seconda quaderna mi dipinge esattamente.
E poi, dicendo nel primo verso del primo terzetto: Io nacqui in Lombardia, non mi manifesto per bolognese?
BRIG.
Lombardia è anca Milan, Bergamo, Bressa, Verona, Mantova, Modena e tante altre città.
Come ala mo da indovinar, che voja dir bolognese?
FLOR.
E questo verso Mi vedete sovente a voi d'intorno, non dice espressamente che sono io?
BRIG.
El pol esser qualchedun altro.
FLOR.
Eh via, sei troppo sofistico.
Il sonetto parla chiaro, e Rosaura l'intenderà.
BRIG.
Se ghel darì vu, la l'intenderà mejo.
FLOR.
Io non glielo voglio dare.
BRIG.
Donca come volì far?
FLOR.
Ho pensato di gettarlo sul terrazzino.
Lo troverà, lo leggerà, e capirà tutto.
BRIG.
E se lo trova qualchedun altro?
FLOR.
Chiunque lo troverà, lo farà leggere anche a Rosaura.
BRIG.
No saria meio...
FLOR.
Zitto; osserva come si fa.
(getta il sonetto sul terrazzino)
BRIG.
Pulito! Sè più franco de man, che de lengua.
FLOR.
Parmi di vedere che venga gente sul terrazzino.
BRIG.
Stemo qua a gòder la scena.
FLOR.
Andiamo, andiamo.
(parte)
BRIG.
El parlerà, quando no ghe sarà più tempo.
(parte)
SCENA XV
Colombina sul terrazzino, poi Rosaura.
COL.
Ho veduto venire un non so che sul terrazzino.
Son curiosa sapere che cos'è.
Oh! ecco un pezzo di carta.
Che sia qualche lettera? (l'apre) Mi dispiace che so poco leggere.
S, o, so; n, e, t, sonet, t, o, to, sonetto.
È un sonetto.
(verso la casa) Signora padrona, venite sul terrazzino.
È stato gettato un sonetto.
ROS.
(viene sul terrazzino) Un sonetto? Chi l'ha gettato?
COL.
Non lo so.
L'ho ritrovato a caso.
ROS.
Da' qui, lo leggerò volentieri.
COL.
Leggetelo, che poi lo farete sentire anche a me.
Vado a stirare, sin tanto che il ferro è caldo.
(parte)
ROS.
Lo leggerò con piacere.
(legge piano)
SCENA XVI
Lelio e detta.
LEL.
Ecco la mia bella Rosaura; legge con grande attenzione: son curioso di saper cosa legga.
ROS.
(Questo sonetto ha delle espressioni, che mi sorprendono.)
LEL.
Permette la signora Rosaura, ch'io abbia il vantaggio di riverirla?
ROS.
Oh perdonatemi, signor marchese, non vi aveva osservato.
LEL.
Che legge di bello? Poss'io saperlo?
ROS.
Ve lo dirò.
Colombina mi ha chiamato sul terrazzino: ha ella ritrovato a caso questo sonetto, me lo ha consegnato, e lo trovo essere a me diretto.
LEL.
Sapete voi chi l'abbia fatto?
ROS.
Non vi è nome veruno.
LEL.
Conoscete il carattere?
ROS.
Nemmeno.
LEL.
Potete immaginarvi chi l'abbia composto?
ROS.
Questo è quello ch'io studio, e non l'indovino.
LEL.
È bello il sonetto?
ROS.
Mi par bellissimo.
LEL.
Non è un sonetto amoroso?
ROS.
Certo, egli parla d'amore.
Un amante non può scrivere con maggior tenerezza.
LEL.
E ancor dubitate chi sia l'autore?
ROS.
Non me lo so figurare.
LEL.
Quello è un parto della mia musa.
ROS.
Voi avete composto questo sonetto?
LEL.
Io, sì, mia cara; non cesso mai di pensare ai varj modi di assicurarvi dell'amor mio.
ROS.
Voi mi fate stupire.
LEL.
Forse non mi credete capace di comporre un sonetto?
ROS.
Sì; ma non vi credeva in istato di scriver così.
LEL.
Non parla il sonetto d'un cuor che vi adora?
ROS.
Sentite i primi versi, e ditemi se il sonetto è vostro:
Idolo del mio cor, nume adorato,
Per voi peno tacendo, e v'amo tanto...
LEL.
Oh, è mio senz'altro.
Idolo del mio cor, nume adorato,
Per voi peno tacendo, e v'amo tanto.
Sentite? Lo so a memoria.
ROS.
Ma perchè tacendo, se jersera già mi parlaste?
LEL.
Non vi dissi la centesima parte delle mie pene.
E poi è un anno che taccio: e posso dir ancora ch'io peno tacendo.
ROS.
Andiamo avanti;
Che temendo d'altrui vi voglia il fato,
M'esce dagli occhi, e più dal cuore il pianto.
Chi mi vuole? Chi mi pretende?
LEL.
Solita gelosia degli amanti.
Io non ho ancora parlato con vostro padre, non siete ancora mia, dubito sempre e dubitando io piango.
ROS.
Signor marchese, spiegatemi questi quattro versi bellissimi:
Io non son cavalier, nè titolato,
Nè ricchezze o tesori aver mi vanto;
A me diede il destin mediocre stato,
Ed è l'industria mia tutto il mio vanto.
LEL.
(Ora sì, che sono imbrogliato.)
ROS.
È vostro questo bel sonetto?
LEL.
Sì, signora, è mio.
Il sincero e leale amore, che a voi mi lega, non mi ha permesso di tirar più a lungo una favola, che poteva un giorno esser a voi di cordoglio, e a me di rossore.
Non son cavaliere, non son titolato, è vero.
Tale mi finsi per bizzarria, presentandomi a due sorelle, dalle quali non volevo esser conosciuto.
Non volevo io avventurarmi così alla cieca senza prima esperimentare se potea lusingarmi della vostra inclinazione: ora che vi veggo pieghevole a' miei onesti desiri, e che vi spero amante, ho risoluto di dirvi il vero, e non avendo coraggio di farlo colla mia voce, prendo l'espediente di dirvelo in un sonetto.
Non sono ricco, ma di mediocri fortune, ed esercitando in Napoli la nobil arte della mercatura, è vero che l'industria mia è tutto il mio vanto.
ROS.
Mi sorprende non poco la confessione che voi mi fate; dovrei licenziarvi dalla mia presenza, trovandovi menzognero; ma l'amore che ho concepito per voi, non me lo permette.
Se siete un mercante comodo, non sarete un partito per me disprezzabile.
Ma il resto del sonetto mi pone in maggiore curiosità.
Lo finirò di leggere.
LEL.
(Che diavolo vi può essere di peggio!)
ROS.
Io nacqui in Lombardia sott'altro cielo.
Come si adatta a voi questo verso, se siete napoletano?
LEL.
Napoli è una parte della Lombardia.
ROS.
Io non ho mai sentito dire, che il regno di Napoli si comprenda nella Lombardia.
LEL.
Perdonatemi, leggete le istorie, troverete che i Longobardi hanno occupata tutta l'Italia: e da per tutto dove hanno occupato i Longobardi, poeticamente si chiama Lombardia.
(Con una donna posso passar per istorico.)
ROS.
Sarà come dite voi: andiamo avanti.
Mi vedete sovente a voi d'intorno.
Io non vi ho veduto altro che ieri sera: come potete dire, mi vedete sovente?
LEL.
Dice vedete?
ROS.
Così per l'appunto.
LEL.
È error di penna, deve dire vedrete; mi vedrete sovente a voi d'intorno.
ROS.
Tacqui un tempo in mio danno, ed or mi svelo.
LEL.
È un anno ch'io taccio, ora non posso più.
ROS.
All'ultima terzina.
LEL.
(Se n'esco, è un prodigio.)
ROS.
Sol per vostra cagion fo qui soggiorno.
LEL.
Se non fosse per voi, sarei a quest'ora o in Londra, o in Portogallo.
I miei affari lo richiedono, ma l'amor che ho per voi, mi trattiene in Venezia.
ROS.
A voi Rosaura mia, noto è il mio zelo.
LEL.
Questo verso non ha bisogno di spiegazione.
ROS.
Ne avrà bisogno l'ultimo.
E il nome mio vi farò noto un giorno.
LEL.
Questo è il giorno, e questa è la spiegazione.
Io non mi chiamo Asdrubale di Castel d'Oro, ma Ruggiero Pandolfi.
ROS.
Il sonetto non si può intendere, senza la spiegazione.
LEL.
I poeti sogliono servirsi del parlar figurato.
ROS.
Dunque avete finto anche il nome.
LEL.
Ieri sera era in aria di fingere.
ROS.
E stamane in che aria siete?
LEL.
Di dirvi sinceramente la verità.
ROS.
Posso credere che mi amiate senza finzione?
LEL.
Ardo per voi, nè trovo pace senza la speranza di conseguirvi.
ROS.
Io non voglio essere soggetta a nuovi inganni.
Spiegatevi col mio genitore.
Datevi a lui a conoscere, e se egli acconsentirà, non saprò ricusarvi.
Ancorchè mi abbiate ingannata, non so disprezzarvi.
LEL.
Ma il vostro genitore dove lo posso ritrovare?
ROS.
Eccolo che viene.
SCENA XVII
Il Dottore e detti.
DOTT.
(a Rosaura, di lontano) È questi?
ROS.
Sì, ma...
DOTT.
(a Rosaura, non sentito da Lelio) Andate dentro!
ROS.
Sentite prima...
DOTT.
(come sopra) Va dentro, non mi fare adirare!
ROS.
Bisogna ch'io l'ubbidisca.
(entra)
LEL.
(Veramente mi sono portato bene.
Gil-Blas non ha di queste belle avventure.)
DOTT.
(All'aria si vede ch'è un gran signore; ma mi pare un poco bisbetico.)
LEL.
(Ora conviene infinocchiare il padre, se sia possibile.) Signor Dottore, la riverisco divotamente.
DOTT.
Le fo umilissima riverenza.
LEL.
Non è ella il padre della signora Rosaura?
DOTT.
Per servirla.
LEL.
Ne godo infinitamente, e desidero l'onore di poterla servire.
DOTT.
Effetto della sua bontà.
LEL.
Signore, io son uomo che in tutte le cose mie vado alle corte.
Permettetemi dunque, che senza preamboli vi dica ch'io sono invaghito di vostra figlia, e che la desidero per consorte.
DOTT.
Così mi piace: laconicamente; ed io le rispondo che mi fa un onor che non merito, che gliela darò più che volentieri, quando la si compiaccia darmi gli opportuni attestati dell'esser suo.
LEL.
Quando mi accordate la signora Rosaura, mi do a conoscere immediatamente.
DOTT.
Non è ella il marchese Asdrubale?
LEL.
Vi dirò, caro amico...
SCENA XVIII
Ottavio e detti.
OTT.
(a Lelio) Di voi andava in traccia.
Mi avete a render conto delle imposture inventate contro il decoro delle figlie del signor Dottore.
Se siete uomo d'onore, ponete mano alla spada.
DOTT.
Come? Al signor marchese?
OTT.
Che marchese! Questi è Lelio, figlio del signor Pantalone.
DOTT.
Oh diavolo, cosa sento!
LEL.
Chiunque mi sia, avrò spirito bastante per rintuzzare la vostra baldanza.
(mette mano alla spada)
OTT.
Venite, se avete cuore.
(mette mano egli ancora)
DOTT.
(Entra in mezzo) Alto, alto, fermatevi, signor Ottavio, non voglio certamente.
Perchè vi volete battere con questo bugiardaccio? (ad Ottavio) Andiamo, venite con me.
OTT.
Lasciatemi, ve ne prego.
DOTT.
Non voglio, non voglio assolutamente.
Se vi preme mia figlia, venite meco.
OTT.
Mi conviene obbedirvi.
(a Lelio) Ad altro tempo ci rivedremo.
LEL.
In ogni tempo saprò darvi soddisfazione.
DOTT.
Bello il signor marchese! Il signor napoletano! Cavaliere! titolato! Cabalone, impostore, bugiardo.
(parte con Ottavio)
SCENA XIX
Lelio, poi Arlecchino.
LEL.
Maledettissimo Ottavio! Costui ha preso a perseguitarmi: ma giuro al cielo, me la pagherà.
Questa spada lo farà pentire d'avermi insultato.
ARL.
Sior padron, cossa feu colla spada alla man?
LEL.
Fui sfidato a duello da Ottavio.
ARL.
Avì combattù?
LEL.
Ci battemmo tre quarti d'ora.
ARL.
Com'ela andada?
LEL.
Con una stoccata ho passato il nemico da parte a parte.
ARL.
El sarà morto.
LEL.
Senz'altro.
ARL.
Dov'è el cadavere?
LEL.
L'hanno portato via.
ARL.
Bravo, sior padron, si' un omo de garbo, non avì mai più fatto tanto ai vostri zorni.
SCENA XX
Ottavio e detti.
OTT.
Non sono di voi soddisfatto.
V'attendo domani alla Giudecca: se siete uomo d'onore, venite a battervi meco.
ARL.
(Fa degli atti di ammirazione, vedendo Ottavio)
LEL.
Attendetemi, che vi prometto venire.
OTT.
Imparerete ad esser meno bugiardo.
(parte)
ARL.
(ridendo) Sior padron, el morto cammina.
LEL.
La collera mi ha acciecato.
Ho ucciso un altro invece di lui.
ARL.
M'immagino che l'averì ammazzà colla spada d'una spiritosa invenzion.
(starnuta, e parte)
SCENA XXI
Lelio solo.
Non può passare per spiritoso, chi non ha il buon gusto dell'inventare.
Quel sonetto però mi ha posto in un grande impegno.
Potea dir peggio? Io non son cavalier nè titolato, Nè ricchezze o tesori aver mi vanto! E poi nacqui in Lombardia sott'altro cielo! Mi ha preso per l'appunto di mira quest'incognito mio rivale, ma il mio spirito, la mia destrezza, la mia prontezza d'ingegno supera ogni strana avventura.
Quando faccio il mio testamento, voglio ordinare che sulla lapide mia sepolcrale sieno incisi questi versi:
Qui giace Lelio, per voler del Fato,
Che per piantar carote a prima vista
Ne sapeva assai più d'un avvocato
E ne inventava più d'un novellista:
Ancorchè mor
...
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