IL BUGIARDO, di Carlo Goldoni - pagina 5
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DOTT.
Specialmente Rosaura piangeva dirottamente; nè si poteva dar pace.
FLOR.
Povera innocente! Mi fa compassione.
(si asciuga gli occhi)
DOTT.
Che cosa avete, figliuolo, che sembra che piangiate?
FLOR.
Niente: mi è andato del tabacco negli occhi.
(mostra la tabacchiera)
SCENA II
Colombina e detti.
COL.
Presto, signor padrone, presto.
La povera signora Rosaura è svenuta, e non so come fare a farla rinvenire; (al dottore) correte per carità ad ajutarla.
FLOR.
(smania)
DOTT.
Presto! un poco di spirito di melissa.
COL.
Se sentiste come le palpita il cuore! Avrebbe bisogno d'una cavata di sangue.
DOTT.
Signor Florindo, andate a vederla, toccatele il polso, e se vi pare che abbia bisogno di sangue, pungetele la vena.
So che siete bravissimo in queste operazioni.
Io intanto vado a prendere lo spirito di melissa.
(parte)
COL.
Per amor del cielo, non abbandonate la povera mia padrona.
FLOR.
Ecco l'effetto de' rimproveri ingiusti di suo padre.
La soccorrerò, se potrò.
(parte)
SCENA III
Camera di Rosaura con sedie.
Rosaura svenuta sopra una sedia; poi Colombina, poi Florindo, e poi il Dottore.
COL.
Ecco qui, poverina! non è ancor rinvenuta; e sua sorella non la soccorre, non ci pensa; vorrebbe che ella morisse.
Queste due sorelle non si amano, non si possono vedere.
FLOR.
Dove sono? Io non ci vedo.
COL.
Come non ci vedete, se siamo in una camera così chiara? Guardate la povera signora Rosaura svenuta.
FLOR.
Ohimè! non posso più.
Colombina, andate a prendere quel che bisogna per cavarle sangue.
COL.
Vado subito.
Per l'amor del cielo, non l'abbandonate.
(parte, e poi ritorna)
FLOR.
Son solo, nessuno mi vede, posso toccar quella bella mano.
Sì, cara, ti tasterò il polso.
Quanto è bella, benchè svenuta! (le tocca il polso) Ahimè, ch'io muojo.
(cade svenuto in terra, o sopra una sedia vicina)
COL.
(portando il cerino e qualche altra cosa per il sangue) Oh bella! Il medico fa compagnia all'ammalata.
DOTT.
Son qui, son qui; non è ancor rinvenuta?
COL.
Osservate.
Il signor Florindo è venuto meno ancor esso per conversazione.
DOTT.
Oh diavolo! Che cos'è quest'istoria? Presto, bisogna dargli soccorso.
Piglia questo spirito e bagna sotto il naso Rosaura, ch'io assisterò questo ragazzo.
COL.
(bagnandola collo spirito) Ecco, ecco, la padrona si muove.
DOTT.
Anche Florindo si desta.
Vanno di concerto.
ROS.
Ohimè! Dove sono?
DOTT.
Via, figlia mia, fatti animo, non è niente.
FLOR.
(s'alza, vede il Dottore, e si vergogna) (Povero me! Che mai ho fatto?)
DOTT.
Che cosa è stato, Florindo? Che avete avuto?
FLOR.
Signore...
non lo so nemmen'io...
Con vostra buona licenza.
(parte confuso)
DOTT.
Se ho da dire la verità, mi sembra un pazzerello.
COL.
Animo, signora padrona, allegramente.
ROS.
Ah signor padre, per carità...
DOTT.
Figlia mia, non ti affligger più.
Sono stato assicurato non esser vero ciò che mi è stato detto di te.
Voglio credere che sia una calunnia, un'invenzione.
Verremo in chiaro della verità.
ROS.
Ma, caro signor padre, chi mai vi ha dato ad intendere falsità così enormi, così pregiudichevoli alla nostra riputazione?
DOTT.
È stato il signor Ottavio.
ROS.
Con qual fondamento ha egli potuto dirlo?
DOTT.
Non lo so.
Lo ha detto e s'impegna di sostenerlo.
ROS.
Lo sostenga, se può.
Signor padre, si tratta dell'onor vostro, si tratta dell'onor mio: non vi gettate dietro le spalle una cosa di tanto rimarco.
DOTT.
Sì, lo ritroverò e me ne farò render conto.
COL.
Aspettate.
Anderò io a ritrovarlo.
Io lo condurrò in casa e, cospetto di bacco, lo faremo disdire.
DOTT.
Va, e se lo trovi, digli che io gli voglio parlare.
COL.
Or ora lo conduco qui a suo dispetto.
(parte)
SCENA IV
Rosaura e il Dottore.
ROS.
Gran dolore mi avete fatto provare!
DOTT.
Orsù via, medicheremo il dolore sofferto con una nuova allegrezza.
Sappi, Rosaura, che io ti ho fatta sposa.
ROS.
A chi mai mi avete voi destinata?
DOTT.
Al figlio del signor Pantalone.
ROS.
Deh, se mi amate, dispensatemi per ora da queste nozze.
DOTT.
Dimmi il perchè, e può essere che ti contenti.
ROS.
Una figlia obbediente e rispettosa non deve celar cos'alcuna al suo genitore.
Sappiate, signore, che un cavalier forestiere, di gran sangue e di grandi fortune, mi desidera per consorte.
DOTT.
Dunque è vero che vi è il forestiere, e sarà vero della serenata e della cena.
ROS.
È vero che un forestiere mi ama, e che mi ha fatta una serenata; ma mi ha parlato una sol volta sotto del terrazzino, e mi fulmini il cielo s'egli ha posto piede mai in questa casa.
DOTT.
È un signor grande, e ti vuole per moglie?
ROS.
Così almeno mi fa sperare.
DOTT.
Guarda bene che egli non sia qualche impostore.
ROS.
Oggi si darà a conoscere a voi.
Voi aprirete gli occhi per me.
DOTT.
Senti, figlia mia, quando il cielo ti avesse destinata questa fortuna non sarei sì pazzo a levartela.
Con Pantalone ho qualche impegno, ma solamente di parole: non mancheranno pretesti per liberarmene.
ROS.
Basta dire ch'io non lo voglio.
DOTT.
Veramente non basterebbe, perchè son io quello che comanda: ma troveremo una miglior ragione.
Dimmi, come si chiama questo cavaliere?
ROS.
Il marchese Asdrubale di Castel d'Oro.
DOTT.
Capperi! figlia mia, un marchese?
SCENA V
Beatrice che ascolta, e detti.
ROS.
È un anno ch'è innamorato di me, e solo jeri sera si è dichiarato.
DOTT.
Ti vuole veramente bene?
ROS.
Credetemi, che mi adora.
DOTT.
Sei sicura che ti voglia prender per moglie?
ROS.
Me ne ha data positiva parola.
DOTT.
Quando è così, procurerò di assicurare la tua fortuna.
BEAT.
Signor padre, non crediate sì facilmente alle parole di mia sorella.
Non è vero che il marchese Asdrubale siasi dichiarato per lei.
Egli ama una di noi due e, senza troppo lusingarmi, ho ragione di credere ch'egli mi preferisca.
DOTT.
(a Rosaura) Oh bella! Come va questa storia?
ROS.
(a Beatrice) Dove appoggiate le vostre speranze?
BEAT.
Dove avete appoggiate le vostre.
ROS.
Signor padre, io parlo con fondamento.
BEAT.
(al Dottore) Credetemi, ch'io so quel che dico.
DOTT.
Questa è la più bella favoletta del mondo.
Orsù sentite cosa vi dico per concluderla in poche parole.
Intanto state dentro delle finestre, e non andate fuori di casa senza licenza mia.
Se il signor marchese parlerà con me, sentirò se sia vero quello m'avete detto, e chi di voi sia la prediletta; se poi sarà una favola, come credo, avrò motivo di dire, senza far torto nè all'una nè all'altra, che tutt'e due siete pazze.
(parte)
SCENA VI
Rosaura e Beatrice.
BEAT.
Signora sorella, qual fondamento avete voi di credere che il signor marchese si sia dichiarato per voi?
ROS.
Il fondamento l'ho infallibile, ma non sono obbligata di dirvi tutto.
BEAT.
Sì, sì, lo so.
Siete stata fuori di casa in maschera.
Vi sarete ingegnata di tirar l'acqua al vostro mulino; ma giuro al cielo, non vi riuscirà, forse, di macinare.
ROS.
Che pretensione avete voi? Ha egli detto essere per voi inclinato? Ha dimostrato volervi?
BEAT.
Ha detto a me quello che ha detto a voi; e non so ora con qual franchezza lo pretendiate per vostro.
ROS.
Basta, si vedrà.
BEAT.
Se saprò che mi abbiate fatta qualche soverchieria, sorella, me la pagherete.
ROS.
Mi pare che dovreste avere un poco di convenienza.
Io finalmente son la maggiore.
BEAT.
Di grazia, baciatele la mano alla signora superiora.
ROS.
Già, l'ho sempre detto, insieme non si sta bene.
BEAT.
Se non era per causa vostra, sarei maritata che sarebbero più di tre anni.
Cinquanta mi volevano.
Ma il signor padre non ha voluto far torto alla sua primogenita.
ROS.
Certo, gran pretendenti avete avuti! Fra gli altri il garbatissimo signor Ottavio, il quale forse per vendicarsi de' vostri disprezzi, ha inventate tutte le indegnità raccontate di noi a nostro padre.
BEAT.
Ottavio n'è stato inventore?
ROS.
Testè me lo disse il genitore medesimo.
BEAT.
Ah indegno! Se mi capita alle mani, vo' che mi senta.
ROS.
Meriterebbe essere trucidato.
SCENA VII
Colombina, poi Ottavio, e dette.
COL.
Signore padrone, ecco qui il signor Ottavio che desidera riverirle.
OTT.
Son qui pien di rossore e di confusione...
ROS.
Siete un mentitore.
BEAT.
Siete un bugiardo.
OTT.
Signore, il mentitore, il bugiardo, non sono io.
ROS.
Chi ha detto a nostro padre che abbiamo avuta una serenata?
OTT.
L'ho detto io, ma però...
BEAT.
Chi gli ha detto che abbiamo ricevuto di notte un forestiere in casa?
OTT.
Io, ma sappiate...
BEAT.
Siete un bugiardo.
ROS.
Siete un mentitore.
OTT.
Sappiate che Lelio Bisognosi...
ROS.
Avete voi detto che siamo state sul terrazzino?
OTT.
Sì signore, ascoltatemi...
BEAT.
Avete detto che siamo state trattate dal forestiere?
OTT.
L'ho detto, perchè egli stesso...
BEAT.
Siete un bugiardo.
(parte)
ROS.
Siete un mentitore.
(parte)
SCENA VIII
Ottavio e Colombina.
OTT.
Ma se non mi lasciate parlare...
Colombina, ti raccomando l'onor mio.
Va dalle tue padrone, di' loro che, se mi ascolteranno, saranno contente.
COL.
Che cosa potete dire in vostra discolpa?
OTT.
Moltissimo posso dire, e che sia la verità, senti, e giudica tu, se ho ragione...
COL.
Veniamo alle corte.
Voi avete detto al padrone che il forestiere è entrato in casa di notte.
OTT.
Ma se...
COL.
Voi avete detto che ha dato loro una cena.
OTT.
Sì, ma tutto questo...
COL.
L'avete detto, o non l'avete detto?
OTT.
L'ho detto...
COL.
Dunque siete un mentitore, un bugiardo.
(parte)
SCENA IX
Ottavio, poi il Dottore.
OTT.
Anche la cameriera si burla di me? Vi è pur troppo il bugiardo, ma non sono io quello, e non posso giustificarmi.
Il signor Florindo mi assicura non esser vero che Lelio sia stato introdotto in casa, e molto meno che abbia seco loro cenato.
Una serenata non reca pregiudizio all'onestà d'una giovane, onde mi pento d'aver creduto, e molto più mi pento d'aver parlato.
Lelio è l'impostore, Lelio è il bugiardo, ed io, acciecato dalla gelosia, ho avuta la debolezza di credere, e non ho avuto tempo di riflettere che Lelio è un giovinastro, venuto recentemente da Napoli.
Come l'aggiusterò io con Beatrice, e quel che più importa, come l'aggiusterò con suo padre? Eccolo ch'egli viene; merito giustamente i di lui rimproveri.
DOTT.
Che c'è, signor Ottavio? Che fate in casa mia?
OTT.
Signore eccomi a' vostri piedi.
DOTT.
Dunque mi avete raccontate delle falsità.
OTT.
Tutto quello ch'io ho detto, non fu mia invenzione; ma troppo facilmente ho creduto, e troppo presto vi ho riportato, quanto da un bugiardo mi fu asserito.
DOTT.
E chi è costui?
OTT.
Lelio Bisognosi.
DOTT.
Il figlio del signor Pantalone?
OTT.
Egli per l'appunto.
DOTT.
È venuto a Venezia?
OTT.
Vi è giunto ieri, per mia disgrazia.
DOTT.
Dov'è? È in casa di suo padre?
OTT.
Credo di no.
È un giovine scapestrato, che ama la libertà.
DOTT.
Ma come ha potuto dire questo disgraziato tutto quello che ha detto?
OTT.
L'ha detto con tanta costanza, che sono stato forzato a crederlo, e se il signor Florindo, che so essere sincero e onorato, non mi avesse chiarito, forse forse ancora non ne sarei appieno disingannato.
DOTT.
Io resto attonito come colui, appena arrivato, abbia avuto il tempo di piantare questa carota.
Sa che Rosaura e Beatrice sieno mie figlie?
OTT.
Io credo di sì.
Sa che sono figlie d'un medico.
DOTT.
Ah disgraziato! Così le tratta? Non gli do più Rosaura per moglie.
OTT.
Signor Dottore, vi domando perdono.
DOTT.
Vi compatisco.
OTT.
Non mi private della vostra grazia.
DOTT.
Vi sarò amico.
OTT.
Ricordatevi che mi avete esibita la signora Beatrice.
DOTT.
Mi ricordo che l'avete rifiutata.
OTT.
Ora vi supplico di non negarmela.
DOTT.
Ne parleremo.
OTT.
Ditemi di sì, ve ne supplico.
DOTT.
Ci penserò.
OTT.
Vi chiedo la figlia, non vi disturberò per la dote.
DOTT.
Via, non occorre altro, ci parleremo.
(parte)
OTT.
Non mi curo perder la dote, se acquisto Beatrice.
Ma vuol essere difficile l'acquistarla.
Le donne sono più costanti nell'odio, che nell'amore.
(parte)
SCENA X
Camera in casa di Pantalone
Lelio ed Arlecchino.
LEL.
Arlecchino, sono innamorato davvero.
ARL.
Mi, con vostra bona grazia, no ve credo una maledetta.
LEL.
Credimi che è così.
ARL.
No ve lo credo, da galantomo.
LEL.
Questa volta dico pur troppo il vero.
ARL.
Sarà vero, ma mi no lo credo.
LEL.
E perchè, s'è vero, non lo vuoi credere?
ARL.
Perchè al busiaro no se ghe crede gnanca la verità.
LEL.
Dovresti pur conoscerlo ch'io sono innamorato, dal sospirar ch'io faccio continuamente.
ARL.
Siguro! perchè non savì suspirar e pianzer, quando ve comoda.
Lo sa la povera siora Cleonice, se savì pianzer e suspirar, se savì tirar zo le povere donne.
LEL.
Ella è stata facile un poco troppo.
ARL.
Gh'avì promesso sposarla, e la povera romana la v'ha credesto.
LEL.
Più di dieci donne hanno ingannato me; non potrò io burlarmi di una?
ARL.
Basta: preghè el cielo che la ve vaga ben, e che la romana non ve vegna a trovar a Venezia.
LEL.
Non avrà tanto ardire.
ARL.
Le donne, co se tratta d'amor, le fa delle cosse grande.
LEL.
Orsù, tronca ormai questo discorso odioso.
A Cleonice più non penso.
Amo adesso Rosaura, e l'amo con un amore straordinario, con un amore particolare.
ARL.
Se vede veramente che ghe volì ben, se non altro per i bei regali che gh'andè facendo.
Corpo de mi! Diese zecchini in merlo.
LEL.
(ridendo) Che dici, Arlecchino, come a tempo ho saputo prevalermi dell'occasione?
ARL.
L'è una bella spiritosa invenzion.
Ma, sior padron, semo in casa de vostro padre, e gnancora no se magna.
LEL.
Aspetta, non essere tanto ingordo.
ARL.
Com'elo fatto sto vostro padre, che no l'ho gnancora visto.
LEL.
È un buonissimo vecchio.
Eccolo che viene.
ARL.
Oh, che bella barba!
SCENA XI
Pantalone e detti.
PAN.
Fio mio, giusto ti te cercava.
LEL.
Eccomi a' vostri comandi.
ARL.
Signor Don Pantalone, essendo, come sarebbe a dire, il servo della mascolina prole, così mi do il bell'onore di essere, cioè di protestarmi di essere, suo di vusignoria!...
Intendetemi senza ch'io parli.
PAN.
Oh, che caro matto! Chi elo costù?
LEL.
È un mio servitore, lepido ma fedele.
PAN.
Bravo, pulito.
El sarà el nostro divertimento.
ARL.
Farò il buffone, se ella comanda.
PAN.
Me farè servizio.
ARL.
Ma avvertite; datemi ben da mangiare, perchè i buffoni mangiano meglio degli altri.
PAN.
Gh'avè rason.
No ve mancherà el vostro bisogno.
ARL.
Vederò se si' galantomo.
PAN.
Quel che prometto, mantegno.
ARL.
Alle prove.
Mi adesso gh'ho bisogno de magnar.
PAN.
Andè in cusina, e fèvene dar.
ARL.
Sì ben, sè galantomo.
Vago a trovar el cogo.
(a Lelio) Sior padron, una parola.
LEL.
Cosa vuoi?
ARL.
(a Lelio piano) (Ho paura che nol sia voster pader.)
LEL.
(E perchè?)
ARL.
(Perchè lu el dis la verità, e vu si' busiaro.) (parte)
LEL.
(da sè) (Costui si prende troppa confidenza.)
SCENA XII
Pantalone e Lelio.
PAN.
L'è curioso quel to servitor.
E cusì, come che te diseva, fio mio, t'ho da parlar.
LEL.
Son qui ad ascoltarvi con attenzione.
PAN.
Ti ti xè l'unico erede de casa mia, e za che la morte del povero mio fradello t'ha lassà più ricco ancora de quello che te podeva lassar to pare, bisogna pensar alla conservazion della casa e della fameggia: onde, in poche parole, vôi maridarte.
LEL.
A questo già ci aveva pensato.
Ho qualche cosa in vista, e a suo tempo si parlerà.
PAN.
Al tempo d'ancuo, la zoventù, co se tratta de maridarse, no pensa altro che a sodisfar el caprizio, e dopo quattro zorni de matrimonio, i se pente d'averlo fatto.
Sta sorte de negozi bisogna lassarli manizar ai pari.
Eli, interessai per el ben dei fioi più dei fioi medesimi, senza lassarse orbar nè dalla passion, nè dal caldo, i fa le cosse con più giudizio, e cussì col tempo i fioi se chiama contenti.
LEL.
Certo che senza di voi non lo farei.
Dipenderò sempre da' vostri consigli, anzi dalla vostra autorità.
PAN.
Oh ben, co l'è cussì, fio mio, sappi che za t'ho maridà, e giusto stamattina ho stabilio el contratto delle to nozze.
LEL.
Come! Senza di me?
PAN.
L'occasion no podeva esser meggio.
Una bona putta de casa e da qualcossa, con una bona dota, fia d'un omo civil bolognese, ma stabilio in Venezia.
Te dirò anca, a to consolazion, bella e spiritosa.
Cossa vustu de più? Ho chiappà so pare in parola, el negozio xè stabilio.
LEL.
Signor padre, perdonatemi: è vero che i padri pensano bene per i figliuoli, ma i figliuoli devono star essi colla moglie, ed è giusto che si soddisfacciano.
PAN.
Sior fio, questi no xè quei sentimenti de rassegnazion, coi quali me avè fin adesso parlà.
Finalmente son pare, e se per esser stà arlevà lontan da mi, no avè imparà a respettarme, son ancora a tempo per insegnarvelo.
LEL.
Ma non volete nemmeno che prima io la veda?
PAN.
La vederè, quando averè sottoscritto el contratto.
Alla vecchia se fa cussì.
Quel che ho fatto, ho fatto ben: son vostro pare, e tanto basta.
LEL.
(Ora è tempo di qualche spiritosa invenzione.)
PAN.
E cussì, cossa me respondeu?
LEL.
Ah, signor padre, ora mi veggo nel gran cimento, in cui mi pone la vostra autorità; non posso più a lungo tenervi celato un arcano.
PAN.
Coss'è? Cossa gh'è da niovo?
LEL.
(s'inginocchia) Eccomi a' vostri piedi.
So che ho errato, ma fui costretto a farlo.
PAN.
Mo via, di' su, coss'astu fatto?
LEL.
Ve lo dico colle lagrime agli occhi.
PAN.
Destrighete, parla.
LEL.
A Napoli ho preso moglie.
PAN.
E adesso ti me lo disi? E mai no ti me l'ha scritto? E mio fradello no lo saveva?
LEL.
Non lo sapeva.
PAN.
Levete su, ti meriteressi che te depennasse de fio, che te scazzasse de casa mia.
Ma te voio ben, ti xè el mio unico fio, e co la cossa xè fatta, no gh'è remedio.
Se el matrimonio sarà da par nostro, se la niora me farà scriver, o me farà parlar, fursi fursi l'accetterò.
Ma se ti avessi sposà qualche squaquarina...
LEL.
Oh, che dite mai, signor padre? Io ho sposato una onestissima giovane.
PAN.
De che condizion?
LEL.
È figlia di un cavaliere.
PAN.
De che paese?
LEL.
Napoletana.
PAN.
Ala dota?
LEL.
È ricchissima.
PAN.
E d'un matrimonio de sta sorte no ti me avvisi? Gh'avevistu paura, che disesse de no? No son miga matto.
Ti ha fatto ben a farlo.
Ma perchè no dir gnente nè a mi, nè a to barba? L'astu fursi fatto in scondon dei soi?
LEL.
Lo sanno tutti.
PAN.
Ma perchè taser con mi e co mio fradello?
LEL.
Perchè ho fatto il matrimonio su due piedi.
PAN.
Come s'intende un matrimonio su do piè?
LEL.
Fui sorpreso dal padre in camera della sposa...
PAN.
Perchè geristu andà in camera della putta?
LEL.
Pazzie amorose, frutti della gioventù.
PAN.
Ah disgrazià! Basta, ti xè maridà, la sarà fenia.
Cossa gh'ala nome la to novizza?
LEL.
Briseide.
PAN.
E so pare?
LEL.
Don Policarpio.
PAN.
El cognome?
LEL.
Di Albacava.
PAN.
Xela zovene?
LEL.
Della mia età.
PAN.
Come astu fatto amicizia?
LEL.
La sua villa era vicina alla nostra.
PAN.
Come t'astu introdotto in casa?
LEL.
Col mezzo d'una cameriera.
PAN.
E i t'ha trovà in camera?
LEL.
Sì, da solo a sola.
PAN.
De dì, o de notte?
LEL.
Fra il chiaro e l'oscuro.
PAN.
E ti ha avudo cussì poco giudizio de lassarte trovar, a rischio che i te mazza?
LEL.
Mi son nascosto in un armadio.
PAN.
Come donca t'ali trovà?
LEL.
Il mio orologio di ripetizione ha suonate le ore, e il padre si è insospettito.
PAN.
Oh diavolo! Coss'alo dito?
LEL.
Ha domandato alla figlia da chi aveva avuta quella ripetizione.
PAN.
E ella?
LEL.
Ed ella disse subito averla avuta da sua cugina.
PAN.
Chi ela sta so cugina?
LEL.
La duchessa Matilde, figlia del principe Astolfo, sorella del conte Argante, sopraintendente alle cacce di Sua Maestà.
PAN.
Sta to novizza la gh'ha un parentà strepitoso.
LEL.
È d'una nobiltà fioritissima.
PAN.
E cussì, del relogio cossa ha dito so pare? S'alo quietà?
LEL.
L'ha voluto vedere.
PAN.
Oh bella! Com'èla andada?
LEL.
È venuta Briseide, ha aperto un pocolino l'armadio, e mi ha chiesto sotto voce l'orologio.
PAN.
Bon; co ti ghel davi, no giera altro.
LEL.
Nel levarlo dal saccoccino, la catena si è riscontrata col cane d'una pistola che tenevo montata, e la pistola sparò.
PAN.
Oh poveretto mi! T'astu fatto mal?
LEL.
Niente affatto.
PAN.
Cossa ai dito? Cossa xè stà?
LEL.
Strepiti grandi.
Mio suocero ha chiamata la servitù.
PAN.
T'hai trovà?
LEL.
E come!
PAN.
Me trema el cuor.
Cossa t'ali fatto?
LEL.
Ho messo mano alla spada, e sono tutti fuggiti.
PAN.
E se i te mazzava?
LEL.
Ho una spada che non teme di cento.
PAN.
In semola 6, padron, in semola.
E cussì, xestu scampà?
LEL.
Non ho voluto abbandonar la mia bella.
PAN.
Ella coss'ala dito?
LEL.
(tenero) Mi si è gettata a' piedi colle lagrime agli occhi.
PAN.
Par che ti me conti un romanzo.
LEL.
Eppure vi narro la semplice verità.
PAN.
Come ha fenio l'istoria?
LEL.
Mio suocero è ricorso alla Giustizia.
È venuto un capitano con una compagnia di soldati, me l'hanno fatta sposare, e per castigo mi hanno assegnato venti mila scudi di dote.
PAN.
(Questa la xè fursi la prima volta, che da un mal sia derivà un ben.)
LEL.
(Sfido il primo gazzettiere d'Europa a inventare un fatto così bene circostanziato.)
PAN.
Fio mio, ti xè andà a un brutto rischio, ma za che ti xè riuscio con onor, ringrazia el cielo, e per l'avegnir abbi un poco più de giudizio.
Pistole, pistole! Cossa xè ste pistole? Qua no se usa ste cosse.
LEL.
Da quella volta in qua, mai più non ho portate armi da fuoco.
PAN.
Ma de sto matrimonio, perchè no dirlo a to barba?
LEL.
Quando è successo il caso, era gravemente ammalato.
PAN.
Perchè no scriverlo a mi?
LEL.
Aspettai a dirvelo a voce.
PAN.
Perchè no astu menà la sposa con ti a Venezia?
LEL.
È gravida in sei mesi.
PAN.
Anca gravia? In sie mesi? Una bagattella! El negozio no xè tanto fresco.
Va là, che ti ha fatto una bella cossa a no me avvisar.
Dirà ben to missier che ti gh'ha un pare senza creanza, non avendoghe scritto una riga per consolarme de sto matrimonio.
Ma quel che non ho fatto, farò.
Sta sera va via la posta de Napoli, ghe voggio scriver subito, e sora tutto ghe voggio raccomandar la custodia de mia niora e de quel putto che vegnirà alla luse, che essendo frutto de mio fio, el xè anca parto delle mie viscere.
Vago subito...
Ma no me arrecordo più el cognome de Don Policarpio.
Tornemelo a dir, caro fio.
LEL.
(Non me lo ricordo più nemmen io!) Don Policarpio Carciofoli.
PAN.
Carciofoli? Non me par che ti abbi dito cussì.
Adesso me l'arrecordo.
Ti m'ha dito d'Albacava.
LEL.
Ebbene, Carciofoli è il cognome, Albacava è il suo feudo: si chiama nell'una e nell'altra maniera.
PAN.
Ho capio.
Vago a scriver.
Ghe dirò che subito che la xè in stato de vegnir, i me la manda a Venezia la mia cara niora.
No vedo l'ora de vèderla: no vedo l'ora de basar quel caro putello, unica speranza e sostegno de casa Bisognosi, baston della vecchiezza del povero Pantalon.
(parte)
SCENA XIII
Lelio solo.
Che fatica terribile ho dovuto fare per liberarmi dall'impegno di sposare questa bolognese, che mio padre aveva impegnata per me! Quand'abbia a far la pazzia di legarmi colla catena del matrimonio, altre spose non voglio che Rosaura.
Ella mi piace troppo.
Ha un non so che, che a prima vista m'ha colpito.
Finalmente è figlia di un medico, mio padre non può disprezzarla.
Quando l'avrò sposata, la napolitana si convertirà in veneziana.
Mio padre vuol dei bambini? Gliene faremo quanti vorrà.
(parte)
SCENA XIV
Strada col terrazzino della casa del Dottore
Florindo e Brighella.
FLOR.
Brighella, son disperato.
BRIG.
Per che causa?
FLOR.
Ho inteso dire che il dottor Balanzoni voglia dar per moglie la signora Rosaura ad un marchese napolitano.
BRIG.
Da chi avì sentido a dir sta cossa?
FLOR.
Dalla signora Beatrice sua sorella.
BRIG.
Donca no bisogna perder più tempo.
Bisogna che parlè, che ve dichiarè.
FLOR.
Sì, Brighella, ho risolto spiegarmi.
BRIG.
Sia ringrazià el cielo.
Una volta ve vederò fursi contento.
FLOR.
Ho composto un sonetto, e con questo penso di scoprirmi a Rosaura.
BRIG.
Eh, che no ghe vol sonetti.
L'è mejo parlar in prosa.
FLOR.
Il sonetto è bastantemente chiaro per farmi intendere.
BRIG.
Quando l'è chiaro, e che siora Rosaura el capissa, anca el sonetto pol servir.
Possio sentirlo anca mi?
FLOR.
Eccolo qui.
Osserva come è scritto bene.
BRIG.
No l'è miga scritto de vostro carattere.
FLOR.
No, l'ho fatto scrivere.
BRIG.
Perchè mo l'avi fatto scriver da un altro?
FLOR.
Acciò non si conosca la mia mano.
BRIG.
Mo no s'ha da saver che l'avi fatto vu?
FLOR.
Senti, se può parlare più chiaramente di me.
SONETTO:
Idolo del mio cor, nume adorato
Per voi peno tacendo, e v'amo tanto
Che temendo d'altrui vi voglia il fato
M'esce dagli occhi, e più dal cuore il pianto.
Io non son cavalier, nè titolato,
Nè ricchezze o tesori aver mi vanto
A me diede il destin mediocre stato,
Ed è l'industria mia tutto il mio vanto.
Io nacqui in Lombardia sott'altro cielo.
Mi vedete sovente a voi d'intorno.
Tacqui un tempo in mio danno, ed or mi svelo.
Sol per vostra cagion fo qui soggiorno.
A voi, Rosaura mia, noto è il mio zelo,
E il nome mio vi farò noto un giorno.
FLOR.
Ah, che ne dici?
BRIG.
L'è bello, l'è bello, ma nol spiega gnente.
FLOR.
Come non spiega niente? Non parla chiaramente di me? La seconda quaderna mi dipinge esattamente.
E poi, dicendo nel primo verso del primo terzetto: Io nacqui in Lombardia, non mi manifesto per bolognese?
BRIG.
Lombardia è anca Milan, Bergamo, Bressa, Verona, Mantova, Modena e tante altre città.
Come ala mo da indovinar, che voja dir bolognese?
FLOR.
E questo verso Mi vedete sovente a voi d'intorno, non dice espressamente che sono io?
BRIG.
El pol esser qualchedun altro.
FLOR.
Eh via, sei troppo sofistico.
Il sonetto parla chiaro, e Rosaura l'intenderà.
BRIG.
Se ghel darì vu, la l'intenderà mejo.
FLOR.
Io non glielo voglio dare.
BRIG.
Donca come volì far?
FLOR.
Ho pensato di gettarlo sul terrazzino.
Lo troverà, lo leggerà, e capirà tutto.
BRIG.
E se lo trova qualchedun altro?
FLOR.
Chiunque lo troverà, lo farà leggere anche a Rosaura.
BRIG.
No saria meio...
FLOR.
Zitto; osserva come si fa.
(getta il sonetto sul terrazzino)
BRIG.
Pulito! Sè più franco de man, che de lengua.
FLOR.
Parmi di vedere che venga gente sul terrazzino.
BRIG.
Stemo qua a gòder la scena.
FLOR.
Andiamo, andiamo.
(parte)
BRIG.
El parlerà, quando no ghe sarà più tempo.
(parte)
SCENA XV
Colombina sul terrazzino, poi Rosaura.
COL.
Ho veduto venire un non so che sul terrazzino.
Son curiosa sapere che cos'è.
Oh! ecco un pezzo di carta.
Che sia qualche lettera? (l'apre) Mi dispiace che so poco leggere.
S, o, so; n, e, t, sonet, t, o, to, sonetto.
È un sonetto.
(verso la casa) Signora padrona, venite sul terrazzino.
È stato gettato un sonetto.
ROS.
(viene sul terrazzino) Un sonetto? Chi l'ha gettato?
COL.
Non lo so.
L'ho ritrovato a caso.
ROS.
Da' qui, lo leggerò volentieri.
COL.
Leggetelo, che poi lo farete sentire anche a me.
Vado a stirare, sin tanto che il ferro è caldo.
(parte)
ROS.
Lo leggerò con piacere.
(legge piano)
SCENA XVI
Lelio e detta.
LEL.
Ecco la mia bella Rosaura; legge con grande attenzione: son curioso di saper cosa legga.
ROS.
(Questo sonetto ha delle espressioni, che mi sorprendono.)
LEL.
Permette la signora Rosaura, ch'io abbia il vantaggio di riverirla?
ROS.
Oh perdonatemi, signor marchese, non vi aveva osservato.
LEL.
Che legge di bello? Poss'io saperlo?
ROS.
Ve lo dirò.
Colombina mi ha chiamato sul terrazzino: ha ella ritrovato a caso questo sonetto, me lo ha consegnato, e lo trovo essere a me diretto.
LEL.
Sapete voi chi l'abbia fatto?
ROS.
Non vi è nome veruno.
LEL.
Conoscete il carattere?
ROS.
Nemmeno.
LEL.
Potete immaginarvi chi l'abbia composto?
ROS.
Questo è quello ch'io studio, e non l'indovino.
LEL.
È bello il sonetto?
ROS.
Mi par bellissimo.
LEL.
Non è un sonetto amoroso?
ROS.
Certo, egli parla d'amore.
Un amante non può scrivere con maggior tenerezza.
LEL.
E ancor dubitate chi sia l'autore?
ROS.
Non me lo so figurare.
LEL.
Quello è un parto della mia musa.
ROS.
Voi avete composto questo sonetto?
LEL.
Io, sì, mia cara; non cesso mai di pensare ai varj modi di assicurarvi dell'amor mio.
ROS.
Voi mi fate stupire.
LEL.
Forse non mi credete capace di comporre un sonetto?
ROS.
Sì; ma non vi credeva in istato di scriver così.
LEL.
Non parla il sonetto d'un cuor che vi adora?
ROS.
Sentite i primi versi, e ditemi se il sonetto è vostro:
Idolo del mio cor, nume adorato,
Per voi peno tacendo, e v'amo tanto...
LEL.
Oh, è mio senz'altro.
Idolo del mio cor, nume adorato,
Per voi peno tacendo, e v'amo tanto.
Sentite? Lo so a memoria.
ROS.
Ma perchè tacendo, se jersera già mi parlaste?
LEL.
Non vi dissi la centesima parte delle mie pene.
E poi è un anno che taccio: e posso dir ancora ch'io peno tacendo.
ROS.
Andiamo avanti;
Che temendo d'altrui vi voglia il fato,
M'esce dagli occhi, e più dal cuore il pianto.
Chi mi vuole? Chi mi pretende?
LEL.
Solita gelosia degli amanti.
Io non ho ancora parlato con vostro padre, non siete ancora mia, dubito sempre e dubitando io piango.
ROS.
Signor marchese, spiegatemi questi quattro versi bellissimi:
Io non son cavalier, nè titolato,
Nè ricchezze o tesori aver mi vanto;
A me diede il destin mediocre stato,
Ed è l'industria mia tutto il mio vanto.
LEL.
(Ora sì, che sono imbrogliato.)
ROS.
È vostro questo bel sonetto?
LEL.
Sì, signora, è mio.
Il sincero e leale amore, che a voi mi lega, non mi ha permesso di tirar più a lungo una favola, che poteva un giorno esser a voi di cordoglio, e a me di rossore.
Non son cavaliere, non son titolato, è vero.
Tale mi finsi per bizzarria, presentandomi a due sorelle, dalle quali non volevo esser conosciuto.
Non volevo io avventurarmi così alla cieca senza prima esperimentare se potea lusingarmi della vostra inclinazione: ora che vi veggo pieghevole a' miei onesti desiri, e che vi spero amante, ho risoluto di dirvi il vero, e non avendo coraggio di farlo colla mia voce, prendo l'espediente di dirvelo in un sonetto.
Non sono ricco, ma di mediocri fortune, ed esercitando in Napoli la nobil arte della mercatura, è vero che l'industria mia è tutto il mio vanto.
ROS.
Mi sorprende non poco la confessione che voi mi fate; dovrei licenziarvi dalla mia presenza, trovandovi menzognero; ma l'amore che ho concepito per voi, non me lo permette.
Se siete un mercante comodo, non sarete un partito per me disprezzabile.
Ma il resto del sonetto mi pone in maggiore curiosità.
Lo finirò di leggere.
LEL.
(Che diavolo vi può essere di peggio!)
ROS.
Io nacqui in Lombardia sott'altro cielo.
Come si adatta a voi questo verso, se siete napoletano?
LEL.
Napoli è una parte della Lombardia.
ROS.
Io non ho mai sentito dire, che il regno di Napoli si comprenda nella Lombardia.
LEL.
Perdonatemi, leggete le istorie, troverete che i Longobardi hanno occupata tutta l'Italia: e da per tutto dove hanno occupato i Longobardi, poeticamente si chiama Lombardia.
(Con una donna posso passar per istorico.)
ROS.
Sarà come dite voi: andiamo avanti.
Mi vedete sovente a voi d'intorno.
Io non vi ho veduto altro che ieri sera: come potete dire, mi vedete sovente?
LEL.
Dice vedete?
ROS.
Così per l'appunto.
LEL.
È error di penna, deve dire vedrete; mi vedrete sovente a voi d'intorno.
ROS.
Tacqui un tempo in mio danno, ed or mi svelo.
LEL.
È un anno ch'io taccio, ora non posso più.
ROS.
All'ultima terzina.
LEL.
(Se n'esco, è un prodigio.)
ROS.
Sol per vostra cagion fo qui soggiorno.
LEL.
Se non fosse per voi, sarei a quest'ora o in Londra, o in Portogallo.
I miei affari lo richiedono, ma l'amor che ho per voi, mi trattiene in Venezia.
ROS.
A voi Rosaura mia, noto è il mio zelo.
LEL.
Questo verso non ha bisogno di spiegazione.
ROS.
Ne avrà bisogno l'ultimo.
E il nome mio vi farò noto un giorno.
LEL.
Questo è il giorno, e questa è la spiegazione.
Io non mi chiamo Asdrubale di Castel d'Oro, ma Ruggiero Pandolfi.
ROS.
Il sonetto non si può intendere, senza la spiegazione.
LEL.
I poeti sogliono servirsi del parlar figurato.
ROS.
Dunque avete finto anche il nome.
LEL.
Ieri sera era in aria di fingere.
ROS.
E stamane in che aria siete?
LEL.
Di dirvi sinceramente la verità.
ROS.
Posso credere che mi amiate senza finzione?
LEL.
Ardo per voi, nè trovo pace senza la speranza di conseguirvi.
ROS.
Io non voglio essere soggetta a nuovi inganni.
Spiegatevi col mio genitore.
Datevi a lui a conoscere, e se egli acconsentirà, non saprò ricusarvi.
Ancorchè mi abbiate ingannata, non so disprezzarvi.
LEL.
Ma il vostro genitore dove lo posso ritrovare?
ROS.
Eccolo che viene.
SCENA XVII
Il Dottore e detti.
DOTT.
(a Rosaura, di lontano) È questi?
ROS.
Sì, ma...
DOTT.
(a Rosaura, non sentito da Lelio) Andate dentro!
ROS.
Sentite prima...
DOTT.
(come sopra) Va dentro, non mi fare adirare!
ROS.
Bisogna ch'io l'ubbidisca.
(entra)
LEL.
(Veramente mi sono portato bene.
Gil-Blas non ha di queste belle avventure.)
DOTT.
(All'aria si vede ch'è un gran signore; ma mi pare un poco bisbetico.)
LEL.
(Ora conviene infinocchiare il padre, se sia possibile.) Signor Dottore, la riverisco divotamente.
DOTT.
Le fo umilissima riverenza.
LEL.
Non è ella il padre della signora Rosaura?
DOTT.
Per servirla.
LEL.
Ne godo infinitamente, e desidero l'onore di poterla servire.
DOTT.
Effetto della sua bontà.
LEL.
Signore, io son uomo che in tutte le cose mie vado alle corte.
Permettetemi dunque, che senza preamboli vi dica ch'io sono invaghito di vostra figlia, e che la desidero per consorte.
DOTT.
Così mi piace: laconicamente; ed io le rispondo che mi fa un onor che non merito, che gliela darò più che volentieri, quando la si compiaccia darmi gli opportuni attestati dell'esser suo.
LEL.
Quando mi accordate la signora Rosaura, mi do a conoscere immediatamente.
DOTT.
Non è ella il marchese Asdrubale?
LEL.
Vi dirò, caro amico...
SCENA XVIII
Ottavio e detti.
OTT.
(a Lelio) Di voi andava in traccia.
Mi avete a render conto delle imposture inventate contro il decoro delle figlie del signor Dottore.
Se siete uomo d'onore, ponete mano alla spada.
DOTT.
Come? Al signor marchese?
OTT.
Che marchese! Questi è Lelio, figlio del signor Pantalone.
DOTT.
Oh diavolo, cosa sento!
LEL.
Chiunque mi sia, avrò spirito bastante per rintuzzare la vostra baldanza.
(mette mano alla spada)
OTT.
Venite, se avete cuore.
(mette mano egli ancora)
DOTT.
(Entra in mezzo) Alto, alto, fermatevi, signor Ottavio, non voglio certamente.
Perchè vi volete battere con questo bugiardaccio? (ad Ottavio) Andiamo, venite con me.
OTT.
Lasciatemi, ve ne prego.
DOTT.
Non voglio, non voglio assolutamente.
Se vi preme mia figlia, venite meco.
OTT.
Mi conviene obbedirvi.
(a Lelio) Ad altro tempo ci rivedremo.
LEL.
In ogni tempo saprò darvi soddisfazione.
DOTT.
Bello il signor marchese! Il signor napoletano! Cavaliere! titolato! Cabalone, impostore, bugiardo.
(parte con Ottavio)
SCENA XIX
Lelio, poi Arlecchino.
LEL.
Maledettissimo Ottavio! Costui ha preso a perseguitarmi: ma giuro al cielo, me la pagherà.
Questa spada lo farà pentire d'avermi insultato.
ARL.
Sior padron, cossa feu colla spada alla man?
LEL.
Fui sfidato a duello da Ottavio.
ARL.
Avì combattù?
LEL.
Ci battemmo tre quarti d'ora.
ARL.
Com'ela andada?
LEL.
Con una stoccata ho passato il nemico da parte a parte.
ARL.
El sarà morto.
LEL.
Senz'altro.
ARL.
Dov'è el cadavere?
LEL.
L'hanno portato via.
ARL.
Bravo, sior padron, si' un omo de garbo, non avì mai più fatto tanto ai vostri zorni.
SCENA XX
Ottavio e detti.
OTT.
Non sono di voi soddisfatto.
V'attendo domani alla Giudecca: se siete uomo d'onore, venite a battervi meco.
ARL.
(Fa degli atti di ammirazione, vedendo Ottavio)
LEL.
Attendetemi, che vi prometto venire.
OTT.
Imparerete ad esser meno bugiardo.
(parte)
ARL.
(ridendo) Sior padron, el morto cammina.
LEL.
La collera mi ha acciecato.
Ho ucciso un altro invece di lui.
ARL.
M'immagino che l'averì ammazzà colla spada d'una spiritosa invenzion.
(starnuta, e parte)
SCENA XXI
Lelio solo.
Non può passare per spiritoso, chi non ha il buon gusto dell'inventare.
Quel sonetto però mi ha posto in un grande impegno.
Potea dir peggio? Io non son cavalier nè titolato, Nè ricchezze o tesori aver mi vanto! E poi nacqui in Lombardia sott'altro cielo! Mi ha preso per l'appunto di mira quest'incognito mio rivale, ma il mio spirito, la mia destrezza, la mia prontezza d'ingegno supera ogni strana avventura.
Quando faccio il mio testamento, voglio ordinare che sulla lapide mia sepolcrale sieno incisi questi versi:
Qui giace Lelio, per voler del Fato,
Che per piantar carote a prima vista
Ne sapeva assai più d'un avvocato
E ne inventava più d'un novellista:
Ancorchè morto, in questa tomba il vedi,
Fai molto, passeggier, se morto il credi.
(parte)
FINE DELL'ATTO SECONDO.
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Strada
Florindo di casa, Brighella l'incontra.
BRIG.
Sior Florindo, giusto de ela andava in traccia.
FLOR.
Di me! Cosa vuoi, il mio caro Brighella?
BRIG.
Ala parlà? S'ala dichiarà colla siora Rosaura?
FLOR.
Non ancora.
Dopo il sonetto, non l'ho più veduta.
BRIG.
Ho paura che nol sia più a tempo.
FLOR.
Oh dio! Perchè?
BRIG.
Perchè un certo impostor, busiaro e cabalon, l'è drio per levarghe la polpettina dal tondo.
FLOR.
Narrami: chi è costui? È forse il marchese di Castel d'Oro?
BRIG.
Giusto quello.
Ho trovà el so servitor, che l'è un mio patrioto, e siccome l'è alquanto gnocchetto, el me ha contà tutto.
La sappia che costù s'ha finto con siora Rosaura autor della serenada, autor del sonetto, e el gh'ha piantà cento mille filastrocche, una pezo dell'altra.
Vusignoria spende, e lu gode.
Vusignoria sospira, e lu ride.
Vusignoria tase, e lu parla.
Lu goderà la macchina, e Vusignoria resterà a muso secco.
FLOR.
Oh Brighella, tu mi narri delle gran cose!
BRIG.
Qua bisogna resolver.
O parlar subito, o perder ogni speranza.
FLOR.
Parlerei volentieri, ma non ho coraggio di farlo.
BRIG.
Ch'el parla con so padre.
FLOR.
Mi dà soggezione.
BRIG.
Ch'el trova qualche amigo.
FLOR.
Non so di chi fidarmi.
BRIG.
Parleria, mi, ma a un servitor da livrea no convien sta sorte d'uffizj.
FLOR.
Consigliami: che cosa ho da fare?
BRIG.
Anèmo in casa, e studieremo la maniera più facile e più adattada.
FLOR.
Se perdo Rosaura, son disperato.
BRIG.
Per no perderla, bisogna remediar subito.
FLOR.
Sì, non perdiamo tempo.
Caro Brighella, quanto ti sono obbligato! Se sposo Rosaura, riconoscerò dal tuo amore la mia maggior felicità.
(entra in casa)
BRIG.
Chi sa se po dopo el se recorderà più de mi? Ma pazienza, ghe vòi ben, e lo fazzo de cuor.
(entra)
SCENA II
Pantalone con una lettera in mano.
Mi, mi in persona, voggio andar a metter sta lettera alla posta de Napoli; no voggio ch'el servitor se la desmentega; no vòi mancar al mio debito col sior Policarpio.
Ma gran matto, gran desgrazià che xè quel mio fio! El xè maridà, e el va a far l'amor, el va a metter suso la fia del Dottor! Questo vol dir averlo mandà a Napoli.
S'el fusse stà arlevà sotto i mii occhi, nol sarave cusì.
Basta, siben che l'è grando e grosso, e maridà, el saverò castigar.
El Dottor gh'à rason, e bisogna che cerca de farghe dar qualche sodisfazion.
Furbazzo! Marchese de Castel d'Oro, serenade, cene, lavarse la bocca contra la reputazion d'una casa! L'averà da far con mi.
Vòi destrigarme a portar sta lettera, e po col sior fio la discorreremo.
SCENA III
Un Portalettere e detto.
POR.
Sior Pantalon, una lettera.
Trenta soldi(7).
PAN.
Da dove?
POR.
La vien dalla posta de Roma.
PAN.
La sarà da Napoli.
Tolè trenta soldi.
La xè molto grossa!
POR.
La me favorissa.
Un tal Lelio Bisognosi chi xelo?
PAN.
Mio fio.
POR.
Da quando in qua?
PAN.
El xè vegnù da Napoli.
POR.
Gh'ho una lettera anca per elo.
PAN.
Demela a mi, che son so pare.
POR.
La toga.
Sette soldi.
PAN.
Tolè, sette soldi.
POR.
Strissima(8).
(parte)
SCENA IV
Pantalone solo.
Chi mai xè quello che scrive? Cossa mai ghe xè drento? Sto carattere mi no me par de cognoscerlo.
El sigillo gnanca.
L'averzirò, e saverò.
Solito vizio! voler indivinar chi scrive, avanti de averzer la lettera.
Signor mio riveritissimo.
Chi elo questo che scrive? Masaniello Capezzali.
Napoli, 24 Aprile 1750.
No so chi el sia; sentimo.
Avendo scritto due lettere per costì al signor Lelio di Lei figliuolo, e non avendo avuto risposta...
Mio fio s'ha fermà a Roma, ste do lettere le sarà alla posta.
Risolvo a scrivere la presente a Vossignoria mio signore, temendo ch'egli o non sia arrivato, o sia indisposto.
Il signor Lelio, due giorni prima di partir da Napoli, ha raccomandato a me, suo buon amico, di fargli avere le fedi del suo stato libero, per potersi ammogliare in altre parti, occorrendo...
Oh bella! S'el gera maridà! Niuno poteva servirlo meglio di me, mentre sino all'ultima ora della sua partenza sono stato quasi sempre al suo fianco, per legge di buona amicizia...
Questo doveria saver tutto, anca del matrimonio.
Onde unitamente al nostro comune amico Nicoluccio, abbiamo ottenute le fedi del suo stato libero, le quali a ciò non si smarriscano, mando incluse a Vossignoria, autentiche e legalizzate...
Com'ela? Coss'è sto negozio? Le fede del stato libero? No l'è maridà? O le fede xè false, o el matrimonio xè un'invenzion.
Andemo avanti.
È un prodigio che il signor Lelio torni alla patria libero e non legato, dopo gl'infiniti pericoli ne' quali si è ritrovato per il suo buon cuore; ma posso darmi io il vanto d'averlo per buona amicizia sottratto da mille scogli, ond'egli è partito da Napoli libero e sciolto, lo che renderà non poca consolazione a Vossignoria, potendo procurargli costì un accasamento comodo e di suo piacere; e protestandomi sono.
Cossa sentio? Lelio no xè maridà? Queste xè le fede del stato libero.
(le spiega) Sì ben, fede autentiche e recognossue.
False no le pol esser.
Sto galantomo che scrive, per cossa s'averavelo da inventar una falsità? No pol esser, no ghe vedo rason.
Ma perchè Lelio contarme sta filastrocca? No so in che modo la sia.
Sentimo se da sta lettera, diretta a elo, se pol rilevar qualcossa.
(vuol aprire la lettera)
SCENA V
Lelio e detto.
LEL.
Signor padre, di voi appunto cercava.
PAN.
Sior fio, vegnì giusto a tempo.
Diseme, cognosseu a Napoli un certo sior Masaniello Capezzali?
LEL.
L'ho conosciuto benissimo.
(Costui sa tutte le mie bizzarrie, non vorrei che mio padre gli scrivesse.)
PAN.
Elo un omo de garbo? Un omo schietto e sincero?
LEL.
Era tale, ma ora non è più.
PAN.
No? Mo perchè?
LEL.
Perchè il poverino è morto.
PAN.
Da quando in qua xelo morto?
LEL.
Prima ch'io partissi da Napoli.
PAN.
No xè tre mesi che sè partio da Napoli?
LEL.
Per l'appunto.
PAN.
Ve voggio dar una consolazion; el vostro caro amigo sior Masaniello xè resuscità.
LEL.
Eh! Barzellette!
PAN.
Vardè, questo xelo el so carattere?
LEL.
Oibò, non è suo carattere.
(Pur troppo è suo, che diavolo scrive?)
PAN.
Seu seguro che nol sia el so carattere?
LEL.
Son sicurissimo...
E poi, se è morto.
PAN.
(O che ste fede xè false, o che mio fio xè el prencipe dei busiari.
Ghe vol politica per scoverzer la verità.)
LEL.
(Sarei curioso di sapere che cosa contien quella lettera.) Signor padre, lasciatemi osservar
meglio, s'io conosco quel carattere.
PAN.
Sior Masaniello no xelo morto?
LEL.
È morto senz'altro.
PAN.
Co l'è morto, la xè fenia.
Lassemo sto tomo da parte, e vegnimo a un altro.
Cossa aveu fatto al dottor Balanzoni?
LEL.
A lui niente.
PAN.
A lu gnente; ma a so fia?
LEL.
Ella ha fatto qualche cosa a me.
PAN.
Ella a ti? Cossa diavolo te porla aver fatto?
LEL.
Mi ha incantato, mi ha acciecato.
Dubito che mi abbia stregato.
PAN.
Contime mo, com'ela stada?
LEL.
Jeri, verso sera, andava per i fatti miei.
Ella mi vide dalla finestra; bisogna dire che l'abbia innamorata quel certo non so che del mio viso, che innamora tutte le donne, e mi ha salutato con un sospiro.
Io, che quando sento sospirar una femmina, casco morto, mi son fermato a guardarla.
Figuratevi! I miei occhi si sono incontrati nei suoi.
Io credo che in quei due occhi abbia due diavoli, mi ha rovinato subito, e non vi è stato rimedio.
PAN.
Ti xè molto facile a andar zo col brenton 9.
Dime, gh'astu fatto una serenata?
LEL.
Oh pensate! Passò accidentalmente una serenata.
Io mi trovai a sentirla.
La ragazza ha creduto che l'avessi fatta far io, ed io ho lasciato correre.
PAN.
E ti t'ha inventà d'esser stà in casa dopo la serenata?
LEL.
Io non dico bugie.
In casa ci sono stato.
PAN.
E ti ha cenà con ella?
LEL.
Per dirvi la verità, sì signore, ho cenato con lei.
PAN.
E no ti gh'ha riguardo a tôrte ste confidenze con una putta?
LEL.
Ella mi ha invitato, ed io sono andato.
PAN.
Te par che un omo maridà abbia da far de ste cosse?
LEL.
È vero, ho fatto male: non lo farò più.
PAN.
Maridà ti xè certo.
LEL.
Quando non fosse morta mia moglie.
PAN.
Perchè ala da esser morta?
LEL.
Può morire di parto.
PAN.
Se la xè in siè mesi.
LEL.
Può abortire.
PAN.
Dime un poco.
Sastu chi sia quella siora Rosaura, colla qual ti ha parlà e ti xè stà in casa?
LEL.
È la figlia del dottor Balanzoni.
PAN.
Benissimo: e la xè quella che stamattina t'aveva proposto de darte per muggier.
LEL.
Quella?
PAN.
Sì, quella.
LEL.
M'avete detto la figlia d'un bolognese.
PAN.
Ben, el dottor Balanzoni xè bolognese.
LEL.
(da sè) (Oh diavolo, ch'ho io fatto!)
PAN.
Cossa distu? Se ti geri libero, l'averessistù tiolta volentiera?
LEL.
Volentierissimo, con tutto il cuore.
Deh, signor padre, non la licenziate; non abbandonate il trattato, pacificate il signor Dottore, teniamo in buona fede la figlia.
Non posso vivere senza di lei.
PAN.
Ma se ti xè maridà.
LEL.
Può essere che mia moglie sia morta.
PAN.
Queste le xè speranze da matti.
Abbi giudizio, tendi a far i fatti toi.
Lassa star le putte.
Siora Rosaura xè licenziada, e per dar una sodisfazion al Dottor, te tornerò a mandar a Napoli.
LEL.
No, per amor del cielo.
PAN.
No ti va volentiera a veder to muggier?
LEL.
Ah, voi mi volete veder morire!
PAN.
Per cossa?
LEL.
Morirò, se mi private della signora Rosaura.
PAN.
Ma quante muggier voressistu tior? Sette, co fa i Turchi?
LEL.
Una sola mi basta.
PAN.
Ben, ti gh'ha siora Briseide.
LEL.
Oimè...
Briseide...
PAN.
Cossa gh'è?
LEL.
Signor padre, eccomi a' vostri piedi.
(s'inginocchia)
PAN.
Via mo, cossa vorressi dir?
LEL.
Vi domando mille volte perdono.
PAN.
Mo via, no me fè penar.
LEL.
Briseide è una favola, ed io non sono ammogliato.
PAN.
Bravo, sior, bravo! Sta sorte de panchiane 10 piantè a vostro pare? Leveve su, sier cabalon, sier busiaro; xela questa la bella scuola de Napoli? Vegnì a Venezia, e appena arrivà, avanti de veder vostro pare, ve tacchè con persone che no savè chi le sia, dè da intender de esser napolitan, Don Asdrubale de Castel d'Oro, ricco de milioni, nevodo de prencipi, e poco manco che fradello de un re; inventè mille porcaríe in pregiudizio de do putte oneste e civil.
Sè arrivà a segno de ingannar el vostro povero pare.
Ghe dè da intender che sè maridà a Napoli: tirè fuora la siora Briseide, sior Policarpio, el relogio de repetizion, la pistòla; e permettè che butta via delle lagreme de consolazion per una niora imaginaria, per un nevodo inventà e lassè che mi scriva una lettera a vostro missier(11), che sarave sta' fidecommisso perpetuo alla posta de Napoli.
Come diavolo feu a insuniarve ste cosse? Dove diavolo troveu la materia de ste maledette invenzion? L'omo civil no se destingue dalla nascita, ma dalle azion.
El credito del marcante consiste in dir sempre la verità.
La fede xè el nostro mazor capital.
Se no gh'avè fede, se no gh'avè reputazion, sarè sempre un omo sospetto, un cattivo mercante, indegno de sta piazza, indegno della mia casa, indegno de vantar l'onorato cognome dei Bisognosi.
LEL.
Ah, signor padre, voi mi fate arrossire.
L'amore che ho concepito per la signora Rosaura, non sapendo esser quella che destinata mi avevate in isposa, mi ha fatto prorompere in tali e tante menzogne, contro la delicatezza dell'onor mio, contro il mio sincero costume.
PAN.
Se fusse vero che fussi pentio, no sarave gnente.
Ma ho paura che siè busiaro per natura, e che fe pezo per l'avegnir.
LEL.
No certamente.
Detesto le bugie e le aborrisco.
Sarò sempre amante della verità.
Giuro di non lasciarmi cader di bocca una sillaba nemmeno equivoca, non che falsa.
Ma per pietà, non mi abbandonate.
Procuratemi il perdono dalla mia cara Rosaura, altrimenti mi vedrete morire.
Anche poc'anzi, assalito dall'eccessiva passione, ho gettato non poco sangue travasato dal petto.
PAN.
(Poverazzo! El me fa peccà.) Se me podesse fidar de ti, vorave anca procurar de consolarte: ma gh'ho paura.
LEL.
Se dico più una bugia, che il diavolo mi porti.
PAN.
Donca a Napoli no ti xè maridà.
LEL.
No certamente.
PAN.
Gh'astu nissun impegno con nissuna donna?
LEL.
Con donne non ho mai avuto verun impegno.
PAN.
Nè a Napoli, nè fora de Napoli?
LEL.
In nessun luogo.
PAN.
Varda ben, vè!
LEL.
Non direi più una bugia per tutto l'oro del mondo.
PAN.
Gh'astu le fede del stato libero?
LEL.
Non le ho, ma le aspetto a momenti.
PAN.
Se le fusse vegnue, averessistu gusto?
LEL.
Il ciel volesse; spererei più presto conseguir la mia cara Rosaura.
PAN.
Varda mo.
Cossa xele queste? (dà le fedi a Lelio)
LEL.
Oh me felice! Queste sono le mie fedi dello stato libero.
PAN.
Me despiase che le sarà false.
LEL.
Perchè false? Non vedete l'autentica?
PAN.
Le xè false, perchè le spedisse un morto.
LEL.
Un morto? Come?
PAN.
Varda, le spedisse sior Masaniello Capezzali, el qual ti disi che l'è morto che xè tre mesi.
LEL.
Lasciate vedere; ora riconosco il carattere.
Non è Masaniello, il vecchio, che scrive; è suo figlio, il mio caro amico.
(ripone le fedi)
PAN.
E el fio se chiama Masaniello, come el pare?
LEL.
Sì, per ragione di una eredità, tutti si chiamano col medesimo nome.
PAN.
L'è tanto to amigo, e no ti cognossevi el carattere?
LEL.
Siamo sempre stati insieme, non abbiamo avuto occasione di carteggiare.
PAN.
E ti cognossevi el carattere de so pare?
LEL.
Quello lo conoscevo, perchè era banchiere e mi ha fatto delle lettere di cambio.
PAN.
Ma xè morto so pare, e sto sior Masaniello no sigilla la lettera col bolin negro?
LEL.
Lo sapete pure: il bruno non si usa più.
PAN.
Lelio, no vorria che ti me contassi delle altre fandonie.
LEL.
Se dico più una bugia sola, possa morire.
PAN.
Tasi là, frasconazzo.
Donca ste fede le xè bone?
LEL.
Buonissime; mi posso ammogliar domani.
PAN.
E i do mesi e più che ti xè stà a Roma?
LEL.
Questo non si dice a nessuno.
Si dà ad intendere che sono venuto a dirittura da Napoli a Venezia.
Troveremo due testimoni che l'affermeranno.
PAN.
Da resto po, non s'ha da dir altre busie.
LEL.
Questa non è bugia, è un facilitare la cosa.
PAN.
Basta.
Parlerò col Dottor, e la discorreremo.
Vardè sta lettera, che m'ha dà el portalettere.
LEL.
Viene a me?
PAN.
A vu; gh'ho dà sette soldi.
Bisogna che la vegna da Roma.
LEL.
Può essere.
Datemela, che la leggerò.
PAN.
Con vostra bona grazia, la voggio lezer mi.
(l'apre bel bello)
LEL.
Ma favoritemi...
la lettera è mia.
PAN.
E mi son vostro pare, la posso lezer.
LEL.
Come volete...
(Non vorrei nascesse qualche nuovo imbroglio).
PAN.
(legge) Carissimo sposo.
(guardando Lelio) Carissimo sposo?
LEL.
Quella lettera non viene a me.
PAN.
Questa xè la mansion:
All'Illustriss.
Sign.
Sign.
e Padron Colendiss.
Il Sign.
Lelio Bisognosi - Venezia.
LEL.
Vedete che non viene a me.
PAN.
No, perchè?
LEL.
Noi non siamo illustrissimi.
PAN.
Eh, al dì d'ancuo i titoli i xè a bon marcà, e po ti, ti te sorbiressi anca dell'Altezza.
Vardemo chi scrive: Vostra fedelissima sposa Cleonice Anselmio.
LEL.
Sentite? La lettera non viene a me.
PAN.
Mo perchè?
LEL.
Perchè io questa donna non la conosco.
PAN.
Busie non ti ghe n'ha da dir più.
LEL.
Il cielo me ne liberi.
PAN.
Ti ha fina zurà.
LEL.
Ho detto: possa morire.
PAN.
A chi vustu che sia indrizzada sta lettera?
LEL.
Vi sarà qualcun altro che avrà il nome mio ed il cognome.
PAN.
Mi gh'ho tanti anni sul cesto, e non ho mai sentio che ghe sia nissun a Venezia de casa Bisognosi, altri che mi.
LEL.
A Napoli ed a Roma ve ne sono.
PAN.
La lettera xè diretta a Venezia.
LEL.
E non vi può essere a Venezia qualche Lelio Bisognosi di Napoli o di Roma?
PAN.
Se pol dar.
Sentimo la lettera.
LEL.
Signor padre, perdonatemi, non è buona azione leggere i fatti degli altri.
Quando si apre una lettera per errore, si torna a serrar senza leggerla.
PAN.
Una lettera de mio fio la posso lezer.
LEL.
Ma se non viene a me.
PAN.
Lo vedremo.
LEL.
(Senz'altro, Cleonice mi dà de' rimproveri.
Ma saprò schermirmi colle mie invenzioni).
PAN.
La vostra partenza da Roma mi ha lasciata in una atroce malinconia, mentre mi avevate promesso di condurmi a Venezia con voi, e poi tutto in un tratto siete partito...
LEL.
Se lo dico, non viene a me.
PAN.
Mo se la dise che l'è partio per Venezia.
LEL.
Bene: quel tale sarà a Venezia.
PAN.
Ricordatevi che mi avete data la fede di sposo.
LEL.
Oh, assolutamente non viene a me.
PAN.
Digo ben; vu no gh'avè impegno con nissuna.
LEL.
No certamente.
PAN.
Busie no ghe ne disè più.
LEL.
Mai più.
PAN.
Andemo avanti.
LEL.
(Questa lettera vuol esser compagna del sonetto.)
PAN.
Se mai aveste intenzione d'ingannarmi, state certo che in qualunque luogo saprò farmi fare giustizia.
LEL.
Qualche povera diavola abbandonata.
PAN.
Bisogna che sto Lelio Bisognosi sia un poco de bon.
LEL.
Mi dispiace che faccia torto al mio nome.
PAN.
Vu sè un omo tanto sincero...
LEL.
Così mi vanto.
PAN.
Sentimo el fin.
Se voi non mi fate venire costì, e non risolvete sposarmi, farò scrivere da persona di autorità al signor Pantalone vostro padre...
Olà! Pantalon?
LEL.
Oh bella! S'incontra anco il nome del padre.
PAN.
So che il signor Pantalone è un onorato mercante veneziano...
Meggio! E benchè siate stato allevato a Napoli da suo fratello...
Via, che la vaga,.
avrà dell'amore e della premura per voi, e non vorrà vedervi in una prigione, mentre sarò obbligata manifestare quello che avete levato dalle mie mani, in conto di dote.
Possio sentir de pezo?
LEL.
Io gioco che questa è una burla d'un mio caro amico...
PAN.
Una burla de un vostro amigo? Se vu la tiolè per burla, sentì cossa che mi ve digo dasseno.
In casa mia no ghe mettè nè piè, nè passo.
Ve darò la vostra legittima.
Andè a Roma a mantegnir la vostra parola.
LEL.
Come, signor padre...
PAN.
Via de qua, busiaro infame, busiaro baron, muso duro, sfrontà, pezo d'una palandrana12.
(parte)
LEL.
Forti, niente paura.
Non mi perdo d'animo per queste cose.
Per altro non voglio dir più bugie.
Voglio procurare di dir sempre la verità.
Ma se qualche volta il dir la verità non mi giovasse a seconda de' miei disegni? L'uso delle bugie mi sarà sempre una gran tentazione.
(parte)
SCENA VI
Camera in casa del Dottore.
Dottore e Rosaura.
DOTT.
Ditemi un poco, la mia signora figlia, quant'è che non avete veduto il signor marchese Asdrubale di Castel d'Oro?
ROS.
So benissimo ch'egli non è marchese.
DOTT.
Dunque saprete chi è.
ROS.
Sì signore, si chiama Ruggiero Pandolfi, mercante napolitano.
DOTT.
Ruggiero Pandolfi?
ROS.
Così mi disse.
DOTT.
Mercante napolitano?
ROS.
Napolitano.
DOTT.
Pazza, stolida, senza giudizio; sai chi è colui?
ROS.
Chi mai?
DOTT.
Lelio, figlio di Pantalone.
ROS.
Quello che mi avevate proposto voi per consorte?
DOTT.
Quello; quella buona lana.
ROS.
Dunque, s'è quello, la cosa è più facile ad accomodarsi.
DOTT.
Senti, disgraziata, senti dove ti potea condurre il tuo poco giudizio, la facilità colla quale hai dato orecchio ad un forestiere.
Lelio Bisognosi, che con nome finto ha cercato sedurti, a Napoli è maritato.
ROS.
Lo sapete di certo? Difficilmente lo posso credere.
DOTT.
Sì, lo so di certo.
Me l'ha detto suo padre.
ROS.
(piange) Oh me infelice! Oh traditore inumano!
DOTT.
Tu piangi, frasconcella? Impara a vivere con più giudizio, con più cautela.
Io non posso abbadare a tutto.
Mi conviene attendere alla mia professione.
Ma giacchè non hai prudenza, ti porrò in un luogo dove non vi sarà pericolo che tu caschi in questa sorta di debolezze.
ROS.
Avete ragione.
Castigatemi, che ben lo merito.
(Scellerato impostore, il cielo ti punirà.) (parte)
SCENA VII
Il Dottore, poi Ottavio.
DOTT.
Da una parte la compatisco, e me ne dispiace; ma per la riputazione, la voglio porre in sicuro.
OTT.
Signor Dottore, la vostra cameriera di casa mi ha fatto intendere, che la signora Beatrice desiderava parlarmi.
Io sono un uomo d'onore, non intendo trattar colla figlia senza l'intelligenza del padre.
DOTT.
Bravo, siete un uomo di garbo.
Ho sempre fatta stima di voi, ed ora mi cresce il concetto della vostra prudenza.
Se siete disposto, avanti sera concluderemo il contratto con mia figliuola.
(Non vedo l'ora di sbrattarla di casa.)
OTT.
Io per me sono disposto.
DOTT.
Ora chiameremo Beatrice, e sentiremo la di lei volontà.
SCENA VIII
Colombina e detti.
COL.
Signor padrone, il signor Lelio Bisognosi, quondam marchese, gli vorrebbe dire una parola.
OTT.
Costui me la pagherà certamente.
DOTT.
Non dubitate, che si castigherà da se stesso.
Sentiamo un poco che cosa sa dire.
Fallo venire innanzi.
COL.
Oh che bugiardo! E poi dicono di noi altre donne.
(parte)
OTT.
Avrà preparata qualche altra macchina.
DOTT.
S'egli è maritato, ha finito di macchinar con Rosaura.
SCENA IX
LELIO, OTTAVIO ed il DOTTORE
LEL.
Signor Dottore, vengo pieno di rossore e di confusione a domandarvi perdono.
DOTT.
Bugiardaccio!
OTT.
(a Lelio) Domani la discorreremo fra voi e me.
LEL.
(ad Ottavio) Voi vi volete batter meco, voi mi volete nemico; ed io son qui ad implorare la vostra amichevole protezione.
OTT.
Presso di chi?
LEL.
Presso il mio amatissimo signor Dottore.
DOTT.
Che vuole dai fatti miei?
LEL.
La vostra figlia in consorte.
DOTT.
Come! Mia figlia in consorte? E siete maritato?
LEL.
Io ammogliato? Non è vero.
Sarei un temerario, un indegno, se a voi facessi una tale richiesta, quando ad altra donna avessi solamente promesso.
DOTT.
Vorreste voi piantarmi un'altra carota?
OTT.
Le vostre bugie hanno perduto il credito.
LEL.
Ma chi vi ha detto che io sono ammogliato?
DOTT.
Vostro padre l'ha detto; m'ha detto che avete sposata la signora Briseide, figlia di Don Policarpio.
LEL.
Ah, signor Dottore, mi dispiace dover smentire mio padre; ma il zelo della mia riputazione, e l'amore che ho concepito per la signora Rosaura, mi violentano a farlo.
No, mio padre non dice il vero.
DOTT.
Tacete; vergognatevi di favellare così.
Vostro padre è un galantuomo: non è capace di mentire.
OTT.
(a Lelio) Quando cesserete d'imposturare?
LEL.
(mostra ad Ottavio le fedi avute da Napoli) Osservate, se io dico il falso.
Mirate quali sono le mie imposture.
Ecco le mie fedi dello stato libero, fatte estrarre da Napoli.
Voi, signor Ottavio, che siete pratico di quel paese, osservate, se sono legittime ed autenticate.
OTT.
È vero; conosco i caratteri, mi sono noti i sigilli.
DOTT.
Poter del mondo! Non siete voi maritato?
LEL.
No certamente.
DOTT.
Ma per qual causa dunque il signor Pantalone mi ha dato intendere che lo siete?
LEL.
Ve lo dirò io il perchè.
DOTT.
Non mi state a raccontar qualche favola.
LEL.
Mio padre si è pentito di aver dato a voi la parola per me di prendere vostra figlia.
DOTT.
Per che causa?
LEL.
Perchè stamane in piazza un sensale, che ha saputo la mia venuta, gli ha offerto una dote di cinquanta mila ducati.
DOTT.
Il signor Pantalone mi fa questo aggravio?
LEL.
L'interesse accieca facilmente.
OTT.
(Io resto maravigliato.
Non so ancor cosa credere.)
DOTT.
Dunque, siete voi innamorato della mia figliuola?
LEL.
Sì, signore, pur troppo.
DOTT.
Come avete fatto ad innamorarvi sì presto?
LEL.
Sì presto? In due mesi, amor bambino si fa gigante.
DOTT.
Come in due mesi, se siete arrivato jer sera?
LEL.
Signor Dottore, ora vi svelo tutta la verità.
OTT.
(da sè) (Qualche altra macchina.)
LEL.
Sapete voi quanto tempo sia, ch'io sono partito da Napoli?
OTT.
Vostro padre mi ha detto, che saranno tre mesi in circa.
LEL.
Ebbene, dove sono stato io questi tre mesi?
DOTT.
Mi ha detto che siete stato in Roma.
LEL.
Questo è quello che non è vero.
Mi fermai a Roma tre o quattro giorni, e venni a dirittura a Venezia.
OTT.
E il signor Pantalone non l'ha saputo?
LEL.
Non l'ha saputo, perchè, quando giunsi, egli era al solito al suo casino alla Mira.
DOTT.
Ma perchè non vi siete fatto vedere da lui? Perchè non siete andato a ritrovarlo in campagna?
LEL.
Perchè, veduto il volto della signora Rosaura, non ho più potuto staccarmi da lei.
OTT.
Signor Lelio, voi le infilzate sempre più grosse.
Sono due mesi ch'io alloggio alla locanda dell'Aquila, e solo jeri voi ci siete arrivato.
LEL.
Il mio alloggio sinora è stato lo Scudo di Francia e per vagheggiare più facilmente la signora Rosaura sono venuto all'Aquila jeri sera.
DOTT.
Perchè, se eravate innamorato di mia figlia, inventare la serenata e la cena in casa?
LEL.
Della serenata è vero, l'ho fat
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