FERMO E LUCIA, di Alessandro Manzoni - pagina 6
...
.
L'accoglimento serio, freddo, misterioso di Don Abbondio fece un contrapposto singolare coi modi gioviali e risoluti di Fermo.
Ecco una parte del dialogo curioso che ebbe luogo fra quei due: «Son venuto, signor Curato», disse il giovane, «per sapere a che ora le convenga che noi veniamo alla Chiesa».
«Di che giorno intendete?»
«Oggi, Signor curato; non siamo intesi così?»
«Oggi?» replicò il curato come se ne sentisse parlare per la prima volta.
«Oggi, non posso».
«Come non può? che cosa è accaduto?»
«Prima di tutto non mi sento bene, vedete».
«Ma grazie al cielo il suo incomodo non è serio, e quello ch'ella ha da fare è cosa di sì poco tempo, e di sì poca fatica...»
«E poi, e poi, e poi...»
«E poi che cosa, Signor curato?»
«E poi ci sono degl'imbrogli».
«Degl'imbrogli? che imbrogli ci ponno essere?»
«Avete buon tempo voi altri, che non vi pigliate briga di niente, e vi fate servire, e non avete conti da rendere.
Ma io sono troppo dolce di cuore, procuro di togliere gli ostacoli, di facilitare tutto, di fare quello che gli altri vogliono, e trascuro il mio dovere, e poi mi toccano dei rimproveri, e peggio».
«Ma per carità, non mi tenga così sulla corda; mi dica che cosa c'è».
«Sapete voi quante e quante formalità sono necessarie per fare un matrimonio che non levi il sonno a chi lo ha fatto?»
«Ma queste formalità non si sono già fatte?»
«Fatte, fatte, pare a voi, perché la bestia son io che trascuro il mio dovere per non far penare la gente.
Ma ora, so io quel che dico, non posso più fare a questo modo».
«Ma via, quale è la formalità com'ella dice, che bisogni fare? La si farà subito».
«Ecco: nessuno è contento a questo mondo: voi stavate bene colla vostra professione, libero, industrioso, col tempo avreste potuto comperarvi un luoghetto vicino al vostro e poi un altro, e a poco a poco vivere d'entrata: ecco che vi salta in capo di ammogliarvi».
«Ma a che serve questo discorso? appunto perché Dio mi dà un poco di bene voglio maritarmi; io non son venuto adesso a domandarle un parere, ma a sapere quando mi vuol maritare».
«Sapete voi quanti sono gl'impedimenti dirimenti?»
«Che vuole che sappia io d'impedimenti? Mi sbrighi, mi dica che cosa manca, ed io farò tutto».
«Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis...»
«Si piglia ella giuoco di me? Ella sa che io non so il latino».
«Dunque se non sapete le cose, rimettetevene a chi le sa».
«Mi rimetterò alla ragione, quando ella me ne dia una, e mi dica quello che vuol da me, perché io non capisco niente».
«Tutti questi che vi ho detti, sono impedimenti, e non son tutti, eh, ce n'è una filza».
«Insomma al mio matrimonio c'è un impedimento?»
«Ve ne possono esser dieci, dodici».
«Voglio sapere quale è l'impedimento a fare il mio matrimonio».
Fermo disse queste parole con voce tranquilla ma con un rovello interno che cercava di contenere.
Don Abbondio non si avvide dello sforzo di Fermo, e tra perché lo conosceva come giovane buono e l'aveva provato sempre rispettoso e quieto, e tra perché il dover sempre arzigogolare pretesti, mentre aveva una buona ragione che non poteva dire, lo aveva messo di mal umore, vi si abbandonò e rispose con tuono di corruccio e d'impazienza.
«Voglio, voglio, tocca a voi dir: voglio?» Queste parole sciolsero l'ultimo freno alla pazienza di Fermo che già aveva voluto scappare più volte, come il lettore avrà veduto nel caldo crescente delle sue risposte.
«Lo voglio per...» gridò con una subita trasformazione, «e s'ella crede di farsi beffe di me perché son povero figliuolo, le farò vedere che quando mi si fa torto, so fare anch'io uno sproposito come qualunque signore».
«Via via», rispose Don Abbondio spaventato, «non siete più quel buon giovane ch'eravate?»
«Mi dia ragione, se non vuol portarmi fuori di me».
«Se volete ch'io possa parlare tranquillatevi».
«Son tranquillo, e parli».
«Sappiate adunque che è nostro dovere, dovere preciso di fare ricerche, ricerche esatte per vedere se non ci sieno impedimenti».
«Ma se ve ne fosse, perché non me li sa indicare?»
«Ma non basta il non saperne, bisogna aver fatte quelle tali ricerche, e poi bisogna informarsi di molte altre cose, altrimenti?...
il testo è chiaro: Antea quam matrimonium denunciet, cognoscet quales sint...»
«Non voglio latino.
Ma perché non le ha fatte prima queste ricerche?»
«Ecco mi rimproverate la mia troppa bontà.
Ma adesso, mi son venute...
basta, so io».
«Insomma quanto tempo ci vuole?»
«Molto, molto».
«Quanto?»
«Almeno un mese».
«Un mese?» sclamò Fermo con volto burbero e sorpreso.
«Via in quindici giorni si procurerà...»
«Signor Curato...»
«Ebbene voi non volete intender ragione, vedrò se in una settimana...»
«Or bene, aspetterò una settimana, mi esporrò alle ciarle, ed ai fastidj di questo ritardo.
Ma la prevengo che questo ritardo non mi renderà di buon umore, né disposto a contentarmi di ciance.
S'ella vuol farmi una ingiustizia, si ricordi che tutto quello che può accadere è sulla sua coscienza.
La riverisco».
E così detto se ne andò facendo un inchino frettoloso, e molto meno riverente del solito, e lasciò Don Abbondio più soprappensiero di prima.
Il povero sposo che, entrato nella casa del Curato per parlare di nozze e di festa, non aveva sentito altro che impedimenti ed imbrogli, in mezzo alla stizza che lo rodeva, andava però riflettendo sui discorsi e sul contegno del Curato, e trovava tutto pieno di mistero...
L'accoglimento freddo e imbarazzato, l'impazienza e quasi la collera, il tuono continuo di rimbrotto senza un perché, quel farsi nuovo del matrimonio che pure era concertato per quel giorno, e non ricusando mai di farlo quando che sia, parlare però come se fosse cosa da più non pensarvi, le insinuazioni fatte a Fermo di metterne il pensiero da un canto: il complesso insomma delle parole di Don Abbondio presentava un senso così incoerente, e poco ragionevole, che a Fermo, ripensandovi così nell'uscire, non rimase più dubbio che non vi fosse di più, anzi tutt'altro di quello che Don Abbondio aveva detto.
Stette Fermo in forse di ritornare al Curato per incalzarlo a parlare, ma sentendosi caldo, temette di non passare i limiti del rispetto, pensò alla fin fine che una settimana non ha più di sette giorni, e si avviò per portare alla sposa questa trista nuova.
Sull'uscio del Curato si abbattè in Vittoria che andava per una sua faccenda, e tosto pensò che forse da essa avrebbe potuto cavar qualche cosa, e salutatala entrò in discorso con lei:
«Sperava che saremmo oggi stati allegri insieme, Vittoria».
«Ma! quel che Dio vuole, povero Fermino».
«Ditemi un poco, quale è la vera ragione del Signor Curato per non celebrare il matrimonio oggi come s'era convenuto».
«Oh! vi pare ch'io sappia i secreti del Signor Curato?» È inutile avvertire che Vittoria pronunziò queste parole come si usa quando non si vuole esser creduto.
«Via, ditemi quel che sapete, ajutate un povero figliuolo».
«Mala cosa nascer povero, il mio Fermino».
Per timore di annojare il lettore non trascriverò tutto il dialogo, dirò soltanto che Vittoria fedele ai suoi giuramenti non disse nulla positivamente, ma trovò un modo per combinare il rigore dei suoi doveri colla voglia di parlare.
Invece di raccontare a Fermo ciò ch'ella sapeva, gli fece tante interrogazioni, e che toccavano talmente il fatto noto a Vittoria, che avrebbero messo sulla via anche un uomo meno svegliato di Fermo, e meno interessato a scoprire la verità.
Gli chiese se non s'era accorto, che qualche signore, qualche prepotente, avesse gettati gli occhi sopra Lucia, etc.,parlò dei rischj che un curato corre a fare il suo dovere, del timore che uno scellerato impunito può incutere ad un galantuomo, fece insomma intender tanto che a Fermo non mancava più che di sapere un nome.
Finalmente per timore come si dice, di cantare, si separò da Fermo raccomandandogli caldamente di non ridir nulla di ciò che le aveva detto.
«Che volete ch'io taccia», disse Fermo, «se non mi avete voluto dir nulla».
«Eh! non è vero che non vi ho detto nulla? Me ne potrete esser testimonio, ma vi raccomando il segreto».
Così dicendo si mise a correre per un viottolo che conduceva al luogo ov'ella era avviata.
Fermo che aveva acquistata tutta la certezza che una trama iniqua era ordita contro di lui, e che il Curato la sapeva, non potè più tenersi, e tornò in fretta alla casa di quello, risoluto di non uscire prima di sapere i fatti suoi che gli altri sapevano così bene.
Entrò dal curato, lo sorprese nello stesso salotto, e gli si avvicinò con aria risoluta: «Eh! eh! che novità è questa», disse Don Abbondio.
«Chi è quel birbante», disse Fermo colla voce d'un uomo che non vuole esser più burlato, «chi è quel birbante che non vuole ch'io sposi Lucia?»
Don Abbondio diede un salto dal suo seggiolone per correre alla porta, Fermo vi balzò prima di lui, come doveva accadere, la chiuse e si pose la chiave in tasca.
«Ah! ah! Signor Curato, adesso, parlerà ella?»
«Fermo, Fermino, per amor di Dio, aprite, guardate quel che fate, pensate all'anima vostra».
«Che pensare? Mi si è coperta la vista», rispose Fermo; un Toscano avrebbe detto: non vedo più lume.
E continuò: «lo voglio sapere subito, subito», e così dicendo pose forse inavvertitamente la mano al coltello che però non si cavò di tasca.
«Jesummaria!» sclamò Don Abbondio.
«Lo voglio sapere», gridò ancor più forte il giovane.
«Volete voi la mia morte?»
«Voglio sapere ciò che ho ragione di sapere».
«Ma se parlo, io son morto.
Non m'ha da premere la mia vita?»
«Ah! le preme dunque la sua vita? Bene la sua vita è in mano mia in questo momento.
Parli».
«Oh povero me! mi promettete, mi giurate di non dir niente?»
«Le prometto di fare uno sproposito se non parla subito».
Di botta in risposta il volto di Fermo diveniva più infocato, il labbro più tremante, e l'occhio più stralunato.
Don Abbondio vide che non poteva cavarsela che col proferire una parola, e articolò: «Don...» «Don», replicò Fermo come per ajutare Don Abbondio a pronunziare il resto: «Don Rodrigo» disse finalmente il Curato.
E non l'ebbe appena proferita, che sentendo cessato il pericolo imminente, e vedendo che Fermo non aveva più pretesto da minacciarlo, la paura si cangiò in collera e cominciò a rimproverarlo.
«Avete fatta una bella azione.
Mi avete reso un bel servizio».
«Signor Curato», interruppe Fermo che provava una gioja trista e feroce di conoscere il suo nemico, «Signor Curato, ho fallato, le domando scusa, ma si metta una mano al petto, e pensi se nel mio caso Ella avrebbe avuto più pazienza».
«Sì sì, voi sarete cagione della morte del vostro Curato: aprite almeno, aprite».
Fermo sentiva un vero rimorso di aver minacciato e trattato a quel modo il Curato, e gli domandò di nuovo perdono sommessamente.
«Aprite, aprite», replicò il Curato.
Fermo si tolse la chiave di tasca, e la presentò al curato col volto confuso d'un uomo che sente d'aver commessa una violenza.
Il Curato la prese, aperse, e andò verso l'uscio della via, mentre Fermo lo seguiva colla testa bassa, e fremendo nello stesso tempo.
Quando furono sulla porta: «Mi promettete ora», disse il curato, «di non dir niente?» Fermo, senza rispondere gli chiese di nuovo perdono e
da lui che molto anco volea
chiedere e udir qual lume al soffio sparve.
Don Abbondio dopo d'averlo invano richiamato, tornò in casa, cercò Vittoria; Vittoria non v'era; egli non sapeva più quello che si facesse.
Spesse volte personaggi assai più importanti di Don Abbondio trovandosi in situazioni imbrogliate a segno di non sapere quale determinazione prendere, e non avendo nulla di opportuno da fare, e non potendo stare senza far nulla senza una buona ragione, trovarono che una febbre è una ragione ottima, e si posero a letto colla febbre.
Questo disimpegno Don Abbondio non ebbe bisogno d'andarlo a cercare perché se lo trovò naturalmente.
Lo spavento del giorno passato, l'agitazione della notte, e lo spavento replicato di quella mattina lo servirono a maraviglia.
Si ripose sul seggiolone tremando del brivido e guardandosi le unghie e sospirando; giunse finalmente Vittoria.
Risparmio al lettore i rimproveri e le scuse.
Basti dire che Don Abbondio ordinò a Vittoria di chiamare due contadini suoi affidati e di tenerli come a guardia della casa, e di far sapere che il curato aveva la febbre.
Dati questi ordini si pose a letto, dove noi lo lasceremo senza più occuparci di lui per un lungo tratto di tempo, nel quale egli cessa d'avere un rapporto diretto colla nostra storia.
Soltanto per prestarmi alla debolezza di quei lettori che non capiscono che l'uomo timido il quale lascia di fare il suo dovere per ispavento merita meno pietà dello scellerato consumato il quale cercando il male, e facendolo spontaneamente mostra almeno di avere una gran forza d'animo, e di sentire le alte passioni, e che potrebbero essere solleciti per quel meschino, credo di doverli informare che Don Abbondio non morì di quella febbre.
Fermo toltosi in fretta dalla vista di Don Abbondio, uscito del villaggio, si avviò a gran passi quasi senza avvedersene da quella parte che conduceva al palazzotto di Don Rodrigo, ch'egli desiderava in quel momento d'incontrare come un amico dopo una lunga assenza.
I provocatori, i soperchianti, tutti quelli che in ogni modo invadono i diritti altrui, sono rei non solo del male che fanno, ma del pervertimento a cui portano gli animi di coloro che offendono.
Fermo era come l'abbiam detto un giovane tranquillo, ed innocuo, ma in quel punto il suo cuore non batteva che per l'omicidio.
Andava dunque per affrontare lo scellerato quando pensò che a quella casa benché discosta alquanto dall'abitato, pure era cosa insensata e piena di pericolo l'avvicinarsi con mire ostili; giacch'ella era una specie di picciol forte con una guarnigione di bravi.
Egli sentì tosto che ad una sola parola irriverente che avesse detta sarebbe stato scacciato, che mostrandosi, anche senza parlare, intorno a quella casa sarebbe stato provocato, e ucciso, e che i suoi uccisori lo avrebbero dipinto come un assassino.
Ma risoluto alla vendetta, pensò che l'unico modo di eseguirla era aspettare un momento in cui per caso Don Rodrigo uscisse scompagnato dai suoi bravi, di aspettarlo dietro una macchia o un muricciuolo.
In questa risoluzione si rivolse quasi macchinalmente per tornare a casa a prendere il suo archibugio.
Andando, egli s'immaginava di starsene appiattato, gli pareva di sentire una pedata, di alzare chetamente la testa, di vedere Don Rodrigo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere, gli lanciava una maledizione, e correva verso il confine per mettersi in salvo.
E mentre tripudiava in questa immaginazione, gli si attraversò un pensiero: - E Lucia...
che ne sarà? - Appena la catena delle idee feroci che lo dominava in quel punto fu interrotta, le migliori idee a cui era avvezzo entrarono in folla.
Si ricordò la consolazione che aveva tante volte provata pensando di esser mondo di sangue, gli avvisi di suo padre, le preghiere ripetute e sollecite di sua madre moribonda, pensò all'inferno, a Dio, alla Beata Vergine, e si risvegliò da quel sogno di sangue con ispavento e con rimorso, e con una specie di gioja di non aver fatto niente.
- Dio mi ajuterà - disse, e deposto ogni pensiero di pigliar l'archibugio, continuò la sua strada per andare ad informare Lucia e la madre del tristo stato delle cose.
In mezzo alla ripugnanza che sentiva a dovere dare una tal novella alla sua sposa, egli ardeva di parlargliene per togliersi un fiero sospetto dal cuore.
La prepotenza di don Rodrigo non poteva venire da altro, che da una sua brutale passione per Lucia.
E Lucia ne era ella informata? Così arrovellato giunse nel cortiletto della casa, e sentì un gridio nella stanza superiore dov'era Lucia e s'immaginò che sarebbero amiche e comari, e non si volle mostrare.
Una fanciulletta che si trovava nel cortile gli corse incontro gridando: «lo sposo, lo sposo!» «Zitto, zitto», disse Fermo, «sali da Lucia, pigliala in disparte e dille all'orecchio, ma all'orecchio ve', che ho da parlarle, e che l'aspetto nella stanza terrena, e non lo dire a nessun altro».
La fanciulletta salì subito le scale, lieta di avere una incombenza segreta da eseguire.
Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre.
Le amiche se la rubavano, e le facevano forza perché si lasciasse vedere, ma ella si schermiva con quella modestia un po' guerriera delle foresi, chinando la faccia sul busto e facendole scudo col gomito.
Aveva i neri capegli spartiti sulla fronte con una dirizzatura ben distinta, e ravvolti col resto delle chiome dietro il capo in una treccia tonda e raggomitolata a foggia di tanti cerchi, e trapunta da grossi spilli d'argento che s'aggiravano intorno alla testa in guisa d'una diadema, come ancora usano le donne del contado milanese.
Al collo una collana di molte fila, di granate alternate con bottoni d'oro a filigrana.
Un bel busto di broccato a fiori, le maniche corte fino al gomito dello stesso colore, allacciate sopra le spalle con nastri di seta, e terminate da due gran manichetti, una gonnella corta di filaticcio di seta terminata all'allacciatura con fitte e spesse pieghe, due calze vermiglie, e due pianelle coperte di seta e ricamate sul piede.
Oltre questo che era l'ornamento particolare di quel giorno, Lucia aveva quello quotidiano di una modesta bellezza, la quale era allora accresciuta e per dir così abbellita dalle varie affezioni dell'animo suo in quel giorno.
Poiché appariva nei suoi tratti una gioja non senza un leggier turbamento, un misto d'impazienza, e di timore e quella specie di accoramento tranquillo che ad ora ad ora si mostra sul volto delle spose, e che temperato dalle emozioni gioconde e liete non turba la bellezza, ma l'accresce, e le dà un carattere particolare.
La picciola Santina entrò nella stanza, non fece vista di nulla, aspettò un momento in cui Lucia si era staccata dalle donne, le disse la sua parolina all'orecchio, e se ne andò, per timore di non lasciarsi scorgere di quello che aveva fatto.
Lucia disse, «torno», e scese in fretta in fretta.
La faccia stravolta e il portamento agitato di Fermo la spaventò.
«Che c'è di nuovo?» gli chiese ansiosamente.
«Lucia», disse Fermo, con una voce nella quale più non si distingueva che la tristezza, «Lucia per oggi è finita, e Dio sa quando saremo marito e moglie».
«Perché perché?» chiese ancor più spaventata Lucia.
Fermo le narrò brevemente tutta la storia di quella mattina, tacendo però il nome di Don Rodrigo.
«Ah! non può essere che quel demonio in carne», sclamò Lucia pallida, e sconfortata.
«Chi?» domandò Fermo.
«Don Rodrigo».
«Dunque voi sapevate?...»
«Pur troppo» interruppe Lucia, «e non ve ne ho parlato per buone ragioni; ora vi dirò il tutto: lasciate che possiamo esser sole con voi».
Così detto salì in fretta le scale, ritornò nella stanza dove le donne erano radunate, e componendo il volto come potè meglio: «Il signor Curato», disse, «è ammalato, e per oggi non si fa nulla».
Detto questo salutò le donne e ripartì.
Quando non ci fosse stata altra cagione di ritardo, la situazione era abbastanza imbarazzante in una sposa per motivare la sua subita scomparsa.
La società si disciolse: la madre seguì la figlia per ansietà e per curiosità di saper tutto, e le donne uscirono per potere verificare il fatto, e far congetture.
Ma la verità del fatto le troncò tutte.
Fermo seppe allora dalle donne gli antecedenti che noi racconteremo nel seguente capitolo.
CAPITOLO III
IL CAUSIDICO
I tre rimasti a consiglio erano agitati, turbati per la stessa causa ma in diverso modo.
Fermo si trovava nello stato di un uomo il quale ad un tratto dalla prosperità e dalla gioja è balzato in una sventura della quale non conosce che una parte; è ansioso di sapere il di più, vuole essere informato di tutto, aspetta, sospira nuove rivelazioni, e non ne può aspettare che non accrescano il suo rammarico, che non peggiorino la sua condizione.
Al dolore, al rancore, alla rabbia, si aggiungeva ora il martello della gelosia.
Egli aveva sempre avuta piena fede in Lucia, ma un mistero di questo genere, un silenzio in questa materia lo tormentava, egli era come spaventato di conoscere che Lucia aveva una cosa sul cuore, e ch'egli non ne aveva saputo nulla.
Agnese, la madre di Lucia era pure stupita, scandalizzata di essere all'oscuro d'una cosa simile: ella che sapeva tante cose che non la toccavano per nulla, ignorare una cosa tanto importante della sua Lucia! Agnese le avrebbe fatto un rabbuffo terribile, se in questo caso il bisogno d'ascoltare non avesse vinto d'assai quello di parlare.
Lucia...
ma dalle sue parole il lettore intenderà lo stato del suo animo.
«Parla! parla! Parlate, parlate!» gridavano in una volta la madre e Fermo.
Lucia atterrita, costernata, vergognosa, singhiozzando, arrossando, sclamò: «Santissima Vergine! Chi avrebbe creduto che le cose sarebbero giunte a questo segno! Quel senza timore di Dio di Don Rodrigo veniva spesso alla filanda a vederci trarre la seta.
Andava da un fornello all'altro facendo a questa e a quella mille vezzi l'uno peggio dell'altro: a chi ne diceva una trista a chi una peggio: e si pigliava tante libertà: chi fuggiva, chi gridava; e purtroppo v'era chi lasciava fare! Se ci lamentavamo al padrone, egli diceva: "badate a fare il fatto vostro, non gli date ansa, sono scherzi", e borbottava poi: "gli è un cavaliere; gli è un uomo che può fare del male; è un uomo che sa mostrare il viso".
Quel tristo veniva talvolta con alcuni suoi amici, gente come lui.
Un giorno mi trovò mentre io usciva e mi volle tirar in disparte, e si prese con me più libertà: io gli sfuggii, ed egli mi disse in collera: "ci vedremo": i suoi amici ridevano di lui, ed egli era ancor più arrabbiato.
Allora io pensai di non andar più alla filanda, feci un po' di baruffa colla Marcellina, per avere un pretesto, e vi ricorderete mamma ch'io vi dissi che non ci andrei.
Ma la filanda era sul finire per grazia di Dio, e per quei pochi giorni io stetti sempre in mezzo alle altre di modo ch'egli non mi potè cogliere.
Ma la persecuzione non finì: colui, mi aspettava quando io andava al mercato, e vi ricorderete mamma ch'io vi dissi che aveva paura d'andar sola e non ci andai più: mi aspettava quand'io andava a lavare, ad ogni passo: io non dissi nulla, forse ho fatto male.
Ma pregai tanto Fermo che affrettasse le nozze: pensava che quando sarei sua moglie colui non ardirebbe più tormentarmi; ed ora...» Qui le parole della povera Lucia furono tronche da un violento scoppio di pianto.
«Birbone! assassino! dannato!» sclamava Fermo, correndo su e giù per la stanza, e mettendo di tratto in tratto la mano sul manico del suo coltello.
«Ma perché non parlarne a tua madre?» disse Agnese: «se io l'avessi saputo prima...» Lucia non rispose perché la risposta che si sentiva in mente non era da dirsi a sua madre: tutto il vicinato ne sarebbe stato informato.
I singulti di Lucia la dispensavano dall'obbligo di parlare.
«Non ne hai tu fatto parola con nessuno?» ridimandò Agnese.
«Sì mamma, l'ho detto al Padre Galdino, in confessione».
«Hai fatto bene; ma dovevi dirlo anche a tua madre.
E che ti ha detto il Padre Galdino?» «Mi ha detto che cercassi di evitare colui; che non vedendomi non si curerebbe più di me; che affrettassi le nozze; e che se durava la persecuzione egli ci penserebbe».
«Oh che imbroglio! che imbroglio!» riprese la madre.
Fermo si arrestò tutt'ad un tratto; guardò Lucia con un atto di tenerezza accorata e rabbiosa, e disse: «Questa è l'ultima che fa quel birbante».
«Ah no Fermo per amor del cielo!», gridò Lucia, gettandogli quasi le braccia al collo: «No no per amor del cielo, Dio c'è anche pei poveri! Come volete ch'egli ci ajuti se facciamo del male?» «No, no per amor del cielo», ripeteva Agnese.
«Fermo!» disse Lucia, «voi avete un mestiere, ed io so lavorare, andiamo lontano tanto che costui non senta più parlare di noi».
«Ah! Lucia! e poi? non siamo ancora marito e moglie: il curato vorrà farci la fede di stato libero? Non saremo pigliati come vagabondi? dove andarci a porre?» Lucia ricadde nel pianto.
«Sentite!» disse Agnese: «sentitemi che son vecchia».
Era questa una confessione che la buona Agnese faceva di rado, in caso di somma necessità, e quando si trattava di dar fede alle sue parole.
«Io ho veduto un poco il mondo: non bisogna spaventarsi troppo: il diavolo non è mai brutto come si dipinge; e a noi povera gente le cose pajono talvolta imbrogliate imbrogliate perché non abbiamo la pratica per uscirne.
Ma, sapete, c'è della gente che si ride degli imbrogli.
Fate a modo mio Fermo.
Pigliate quei quattro capponi, poveretti! che doveva sgozzare io questa mattina pel banchetto: teneteli bene stretti, per le gambe, andate a Lecco: sapete dove abita il dottor Pettola?» «Lo so benissimo».
«Bene andate da lui, presentategli i capponi: perché vedete quando si vede che uno può regalare gli si dà retta.
Contategli tutto il fatto, e domandategli parere.
Eh ne ho visto io della gente che non sapevano dove dar del capo, che andando a consultarsi con lui non trovavano la strada, e dopo d'avergli parlato tornavano a casa vispi come un timollo che saltellando nella barca per disperazione cade nell'acqua, e si trova in casa sua.
Fate così Fermo».
Nelle situazioni molto imbrogliate il parere che piace più è quello di pigliar tempo per avere un altro parere definitivo: ogni consiglio definitivo e determinato presenta ostacoli, difficoltà, nuovi imbrogli: ma questo di consigliarsi di nuovo e meglio è semplice, non nuoce, e nello stesso tempo dà una lusinga indeterminata che per questo mezzo si troverà una uscita.
Fermo adunque abbracciò molto volentieri il parere.
Lucia vi aggiunse la sua approvazione.
Agnese superba di averlo dato pigliò i capponi, riunì le loro otto gambe come se facesse un mazzo di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e consegnò la preda in mano a Fermo, che date e ricevute parole di speranza uscì per una porticella dell'orto, onde non esser veduto dai ragazzi che gli correrebbero dietro gridando: lo sposo, lo sposo.
Così attraversando i campi, o come dicono colà, i luoghi andò a prendere il viottolo che guida a Lecco, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al Dottor Pettola.
Lascio poi pensare al lettore come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie così legate, e tenute per le zampe nella mano d'un uomo agitato da tante passioni, e che di tempo in tempo stendendo con forza il braccio in un momento d'ira o di risoluzione, o di disperazione, dava scosse terribili a quei prigionieri e faceva balzare le loro quattro teste spenzolate le quali si andavano beccando l'una l'altra, come succede troppo sovente fra compagni di sventura.
In poco d'ora Fermo giunse a Lecco, e s'avviò alla casa del dottore.
All'entrare si sentì sorpreso da quella timidità che i poverelli illetterati provano in vicinanza d'un signore e d'un dottore, dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati, ma diede un'occhiata ai capponi, e si rincorò pensando che non veniva colle mani vuote.
Entrato in cucina chiese alla fantesca del signor dottore: la fantesca vide le bestie, e come avvezza a simili doni vi pose le mani sopra, mentre Fermo le andava ritirando, perché voleva che il dottore vedesse e sapesse ch'egli portava qualche cosa.
Il dottore giunse in fatti mentre la fantesca diceva: «date qui, e passate nello studio».
Fermo fece un grande inchino al dottore, che lo accolse umanamente con un: «venite figliuolo», e lo fece entrare con sè nello studio.
Era questo una stanza con un grande scaffale di libri vecchi e polverosi, un tavolo gremito di allegazioni, di suppliche, di papiri, e intorno tre o quattro seggiole, e da un lato un seggiolone a bracciuoli con un appoggio quadrato coperto di vacchetta inchiodatavi con grosse borchie, alcune delle quali cadute da gran tempo lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s'incartocciava qua e là.
Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d'una lurida toga che gli aveva servito molti anni addietro per perorare nei giorni di apparato, quando andava a Milano per qualche gran causa.
Chiuse la porta e rincorò Fermo con queste parole: «Figliuolo, ditemi il vostro caso».
«Vorrei dirle una parola in confidenza», rispose Fermo.
«Son qui per questo», rispose il dottore: «parlate»; e si pose a sedere sul seggiolone.
Fermo stette ritto dinnanzi al tavolo con le mani nel suo cappello.
«Vorrei sapere da lei che ha studiato...» «Già», interruppe il dottore, «già voi altri siete tutti così; invece di contare il fatto spiccio a chi può ajutarvi, cominciate a fare interrogazioni come se doveste esaminare il causidico.
Ma via, qualche minuto di più non fa niente: parlate a modo vostro».
«Ella ha da scusarmi signor dottore: noi altri poveri non abbiamo studio.
Vorrei dunque sapere se a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c'è penale».
- Ho capito (disse fra sè il dottore, che in verità non aveva capito) ho capito, - e pensò subito al modo di cavare partito da quello ch'egli aveva immaginato.
Si fece dunque serio, ma in guisa di chi teme per uno che vuol soccorrere: strinse fortemente le labbra facendone uscire un suono inarticolato che accennava il sentimento che espressero più chiaramente le sue prime parole: «Caso serio, figliuolo, caso contemplato.
Avete fatto bene a venire da me.
Non è mica vedete una di quelle cose che si decidono con leggi vecchie, scritte in latino, nelle quali ci è sempre una decisione per una parte e per l'altra.
È un caso chiaro, deciso in una grida, confermata da una grida, tenete, dell'anno scorso, dell'attuale signor governatore del ducato di Milano.
Vedete, figliuolo», e qui si alzò, pose le mani su un fascio di gride, scartabellò un momento, e subito ne prese una, e segnando col dito, «sapete leggere?», dimandò.
«Qualche cosa, signor dottore».
«Orbene ecco il vostro caso».
«...quel prete non faccia quel che è obbligato per l'officio suo: ecco ci siamo: non è questo il caso vostro».
«Pare che abbiano fatta la grida per me».
«Vedete figliuolo? ora mò sentite la penale...
Mentre il dottore leggeva ad alta voce, pronunziando distintamente le parole che risguardavano il caso, per incutere a Fermo quello spavento salutare di cui il dottore aveva bisogno, Fermo compitando lentamente, seguiva coll'occhio la lettura cercando di cavare il costrutto chiaro, e di vedere proprio quelle benedette parole che gli parevano dover essere il suo ajuto.
Il dottore alzò gli occhi intanto, squadrò Fermo, e gli disse: «Ah! ah! figliuolo vi siete fatto radere il ciuffo: avete avuto prudenza: ma volendo venire da me non faceva bisogno: si vede che non mi conoscete: non sapete quello ch'io sia in caso di fare: vi avrei cavato anche di questo».
Per aver la ragione di questa uscita del dottore, bisogna che l'ignaro apprenda e il dotto si ricordi che a quei tempi coloro che facevano il mestiere di bravi, e che vivevano di soprusi fatti spontaneamente o per mandato, usavano molti ingegni per travisarsi, e non esser riconosciuti, e togliere così una prova materiale del delitto.
L'uso più comune era quello di portare un lungo ciuffo che ordinariamente lasciavano cadere dietro la testa, e si gettavano poi sul volto come una visiera al momento di affrontare qualcheduno, di far qualche impresa che era meglio di poter poi negare.
Per togliere questo abuso si erano fatte gride sopra gride, le quali proibivano che si portassero capelli lunghi, sotto pena...
e discendendo al particolare ordinavano al barbiere come dovesse tosare uno, intimando a chi lasciasse capelli più lunghi dell'ordinario la pena di 100 scudi, o tre tratti di corda colla solita estensione di pena maggiore all'arbitrio di S.E.
Quale effetto producessero queste gride è manifesto dalle diverse date di quelle.
La grida si ristampava di tempo in tempo coll'avvertenza che ciò era necessario perché fino allora non aveva giovato a nulla: e come nella medicina, si cresceva la dose.
Il ciuffo era dunque come un'insegna di bravo, e di scapestrato.
Da questa foggia è nato un termine metaforico tuttavia in uso nel dialetto milanese: e non vi sarà forse alcuno, dei miei lettori milanesi che non si ricordi di aver sentito, nella sua adolescenza, alcuno de' suoi parenti, o il maestro del collegio, o il servo che lo conduceva a scuola, o la fante dare di lui questo giudizio: gli è un ciuffo: gli è un ciuffetto.
Prego il lettore di perdonarmi questa digressione e come necessaria, e in grazia della condizione che gli ho data, e ripiglio il dialogo.
«In verità, da povero figliuolo», rispose Fermo, «ch'io non ho mai portato ciuffo in vita mia».
«Non facciamo niente» riprese il dottore, scotendo il capo, con un sorriso tra maligno e impaziente: «se non avete fede in me, non facciamo niente.
Chi dice bugia al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice.
Io non ho tempo da perdere.
Se volete ch'io v'ajuti, voi dovete contarmi tutto dall'a alla zeta, sinceramente, come al confessore.
Dovete dirmi chi vi ha dato il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; ed allora io andrò da lui a fare un atto di dovere: non gli dirò mica, vedete, ch'io sappia da voi che vi ha mandato egli: fidatevi: gli dirò che vengo ad implorare la sua protezione per un povero giovane calunniato.
E tutto si aggiusterà a vostra soddisfazione: capite bene che salvando sè, salverà anche voi.
Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro, ho cavato altri da peggio imbrogli, e pur ché non abbiate offesa persona di riguardo, intendiamoci, m'impegno a togliervi d'impiccio, con un po' di spesa.
Basta che mi sappiate dire chi è l'avversario, che forse forse troveremo modo di appiccicargli qualche criminale, e forse forse lo metteremo in panni più stretti dei vostri, e lo faremo venire a domandar grazia.
Ma come vi ho detto, se non avete un uomo, un uomo, il caso è serio, la grida canta chiaro, e se la cosa si deve decidere fra la giustizia e voi così a quattr'occhi, state fresco.
Io vi parlo chiaro: le scappate bisogna pagarle: se volete dormir quietamente sopra questa faccenda; denari, e sincerità, parlare col cuore in mano, e poi obbedire, fare quello che vi sarà suggerito».
Mentre il dottore faceva questa cicalata, Fermo lo stava ascoltando coll'attenzione d'un uomo che sognando, s'immagina di cercar qualche cosa, ed ora gli pare d'averla trovata, di mettergli le mani sopra, e poi la vede scomparire, e ne va di nuovo in cerca: tanto era lontano dal sospettare l'equivoco preso dal dottore.
Quando questi ebbe terminato, Fermo ebbe inteso: e tra un poco di collera, però quella collera che un buon uomo di contado può avere contra un signore che sa, e tra un certo orgoglio di farsi vedere libero da quei timori che il dottore supponeva, rispose: «Oh signor dottore: la cosa non è così: io non ho minacciato nessuno: io non faccio di queste azioni, e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che io non ho mai avuto che fare con la giustizia.La bricconeria l'hanno fatta a me; e vengo da lei per informarmi come io possa farmi dar ragione; e son ben contento d'aver veduta quella grida».
«Diavolo!» disse il dottore, «che confusione mi avete fatta? tant'è siete tutti così, possibile che non sappiate farvi intendere?» «Ma signor dottore, mi scusi io non le ho contata la cosa, ora le conterò.
Deve sapere ch'io doveva sposare oggi», e qui il povero Fermo si commosse, «doveva sposare oggi Lucia Zarella, una giovane che non ha mai dato da dire a nessuno, e avevamo fatto tutto da galantuomini, e il curato che doveva sposarci oggi non volle perché...
perché gli fu minacciata la vita.
Quel prepotente di Don Rodrigo...»
Il dottore si fece serio davvero, e dando sulla voce a Fermo: «Eh!» gridò, «che mi venite a contare di queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri che non sapete misurare le parole, e non venite a farli con un galantuomo che sa che cosa vuol dire parlare.
Andate, andate; non sapete quel che vi diciate: io non m'impaccio con ragazzi, non voglio sentire discorsi in aria».
«Lo giuro!» «Andate vi dico, siete un ragazzo, pare che parliate ad un uomo che non abbia mai sentito giurare.
Andate, io non c'entro: imparate a parlare: non si viene così a sorprendere un galantuomo».
Con queste frasi spezzate, il dottore spingeva verso la porta Fermo, il quale andava ripetendo: «ma senta, ma senta».
Il dottore aperta la porta chiamò Felicita, e le disse: «restituite subito a quest'uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente».
Felicita dacché era ai servigi del dottore non aveva mai eseguito un ordine simile; ma era dato con una tale risoluzione, ch'ella non esitò ad obbedire: prese le quattro povere bestie, e le diede a Fermo, guardandolo con un'aria di compassione spregiante che pareva volesse dire: costui deve stare in cattivi panni, ne ha fatta una grossa.
Fermo voleva far cerimonie, ma il dottore fu inespugnabile; e Fermo attonito, e trasognato, e stizzito dovette ripigliarsi le vittime rifiutate, e partirsi di là senza poter riposare il suo pensiero in altra determinazione, che di tornarsene a casa sua, a riferire alle donne il tristo risultato della sua consulta.
Lucia al suo partire era rimasta nel pianto a cangiare la sua veste nuziale coll'umile abito quotidiano, a sentire le consolazioni e i pareri della madre, e a rispondere singhiozzando alle minute interrogazioni ch'ella le andava facendo, mischiandole di qualche rimprovero sul suo aver sempre taciuto.
Fra questi tristi discorsi la madre e la figlia si erano sedute insieme presso il suo arcolajo a dipanar seta.
Ma la povera sposa andava pensando a quello che si potesse fare; il primo ripiego che viene in mente ai poverelli è quello di aver parere ed ajuto, e Lucia si sovvenne del Padre Galdino.
Andare al convento, ch'era distante forse due miglia; ella non ardiva, in questo frangente, e aveva ragione, pensava dunque di cercare qualche garzoncello disinvolto e fidato, per cui potesse fare avvertire il buon Capuccino.
Mentre ella stava per informare la madre del suo disegno s'ode picchiare all'uscio, e nello stesso momento un sommesso ma distinto «Deo gratias...» Lucia, immaginandosi chi poteva essere, corse ad aprire; e allora, fatto un inchino, entrò infatti un laico cercatore cappuccino colla sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e l'imboccatura di essa attorcigliata e stretta nelle due mani sul petto.
«Frà Canziano» dissero le due donne.
«Il Signore sia con voi», disse il frate: «vengo per la cerca delle noci; e come il raccolto è stato buono voi ne darete a Dio la sua parte, affinché ve ne dia un altro eguale o migliore l'anno venturo; se però i nostri peccati non attireranno qualche castigo».
«Lucia, vanne a pigliare le noci pei padri» disse Agnese.
Lucia si alzò, e si avviò all'altra stanza, ma prima di entrarvi ristette dietro le spalle di frà Canziano che rimaneva ritto nella medesima positura, e ponendosi l'indice sulla bocca diede alla madre una occhiata che domandava il segreto con tenerezza, con supplicazione, con fierezza, e anche con una certa autorità.
Partita Lucia, frà Canziano disse ad Agnese: «E questo matrimonio? si doveva pure fare oggi: ho veduto nel paese come una confusione, come qualche cosa che indichi una novità; che c'è?»
«Il Signor curato è ammalato, e bisogna differire», rispose in fretta Agnese, e per cangiare di discorso richiese come andasse la cerca.
«Poco bene, buona donna, poco bene.
Vedete tutto quello che ho.
Son tutte qui», e così dicendo si tolse la bisaccia dalle spalle e la fece saltare agli occhi di Agnese; «son tutte qui, e per raccogliere questo ho mendicato in dieci case».
«Mah! l'anno è scarso, fra Canziano, e i poverelli mancano di pane, quando il pane è caro tutto si misura più per sottile».
«Perché l'anno è scarso, buona donna? pei nostri peccati; e per far tornare l'abbondanza che rimedio c'è? l'elemosina.
Eh! quando io era cercatore in Romagna, la limosina delle noci era tanto abbondante, che bisognò che un benefattore ci facesse la carità d'un asino, perché il cercatore non poteva durare.
E si faceva tant'olio al convento che i poveri venivano a prendere ogni volta che ne avevano bisogno.
Ma in quel paese avevano più carità perché avevano avuta una grande scuola.
Sapete di quel miracolo?» «No in verità: contate contate».
«Oh! dovete dunque sapere che molti anni prima ch'io andassi in quel convento v'era stato un padre che era un santo; il padre Agapito.
Un giorno d'inverno ch'egli passava per un viottolo in un campo d'un nostro benefattore, uomo dabbene anch'egli, dunque il padre Agapito vide il benefattore vicino ad un gran noce, e quattro contadini colle scuri al piede per gettarlo a terra; e avevano già fatta una fossa intorno per iscoprire le radici.
- Che fate a quella povera pianta? disse il nostro religioso.
- Eh padre sono anni che non fa più frutto ed io penso di farne legna.
- Non fate non fate, disse il padre; sappiate che quest'anno la porterà più noci che foglie.
- Il benefattore che sapeva con chi parlava, ordinò subito ai lavoranti che gettassero di nuovo la terra sulle radici, e chiamato di nuovo il padre che continuava la sua strada, - Padre Agapito, gli disse, la metà del raccolto sarà pel convento.
- Si sparse la voce della profezia, e tutti correvano a guardare il noce: infatti a primavera, fiori a furia, e poi noci noci a furia.
Ma, Dio non volle che il benefattore avesse la consolazione di abbachiare quelle noci, e lo chiamò a sè prima del raccolto.
La consolazione toccò al figliuolo, ma fu corta perché era un poco di buono, come sentirete.
Ora dunque, al raccolto il cercatore andò per riscuotere la metà che era dovuta al convento; e colui si fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai inteso dire che i frati sapessero far noci.
Il cercatore fece la sua denunzia al convento.
Sapete ora che cosa avvenne? Un giorno dunque quello scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e così gozzovigliando, egli raccontava la storia del noce, e rideva dei frati.
Quei giovinastri ebbero voglia di andare a vedere quello sterminato mucchio di noci, ed egli li condusse al granajo.
Ma, sentite mò ora; apre la porta, va verso il cantuccio dove era il gran mucchio, e mentre dice: - guardate -, guarda egli stesso e vede, che cosa? un bel mucchio di foglie secche di noce.
Questo fu un castigo, e benché il fatto sia di molti anni addietro, ad ogni raccolto di noci se ne parla tuttavia in quel paese».
Qui ricomparve Lucia col grembiule tanto carico di noci che lo poteva reggere a fatica, tenendo i due capi sospesi colle braccia tese e allungate.
Mentre fra Canziano si tolse la bisaccia dalle spalle, la pose in terra e aprì la bocca di quella per introdurvi l'abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un'occhiata che voleva dire: mi giustificherò.
Fra Canziano proruppe in elogj, in augurj, in promesse, in ringraziamenti; e rimessa la bisaccia si avviò; ma Lucia, fermatolo: «vorrei un servizio da voi», disse.
«Vorrei che diceste al Padre Galdino che ho bisogno di parlargli di somma premura, e che mi faccia la carità di venire da noi poverette, subito subito, perché io non posso venire alla Chiesa».
«Non volete altro? non passerà un'ora che lo dirò al Padre Galdino».
«Non mi fallate».
«State tranquilla»; e così detto partì un po' più curvo e più contento che non quando era arrivato.
Il Padre Galdino era uomo di molta autorità fra i suoi, e in tutto il contorno; eppure fra Canziano non fece nessuna osservazione a questa specie di ordine che gli si mandava da una donnicciuola di venire da lei; la commissione non gli parve strana niente più che se gli si fosse commesso di avvertire il Padre Galdino che il Vicario di provvisione e i sessanta del consiglio generale della Città di Milano lo richiedevano per mandarlo ambasciatore a Don Filippo Quarto Re di Castiglia, di Leone etc.
Non vi era nulla di troppo basso né di troppo elevato per un Cappuccino: servire gl'infimi, ed esser servito dai potenti; entrare nei palazzi e nei tugurii colla stessa aria mista di umiltà, e di padronanza; essere nella stessa casa un soggetto di passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva nulla, cercare la limosina da per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento, a tutto era avvezzo un Cappuccino, faceva tutto a un dipresso colla stessa naturalezza, e non si stupiva di nulla.
Uscendo dal suo convento per qualche affare, non era impossibile che prima di tornarsene si abbattesse o in un principe che gli baciasse umilmente la punta del cordone, o in una mano di ragazzacci che fingendo di essere alle mani fra di loro gli bruttassero la barba di fango.
La parola frate in quei tempi era proferita colla più gran venerazione, e col più profondo disprezzo; era un elogio e un'ingiuria: i cappuccini forse più di tutti gli altri riunivano questi due estremi perché senza ricchezze, facendo più aperta professione di umiliazioni, si esponevano più facilmente al vilipendio, e alla venerazione che possono venire da questa condotta.
La considerazione poi data generalmente al loro ordine li poneva nel caso sovente di giovare e di nuocere ai privati, di essere grandi ajuti e grandi ostacoli, e quindi anche la varietà del sentimento che si aveva per essi, e delle opinioni sul conto loro.
Varj pure e moltiformi erano e dovevano essere i motivi che conducevano gli uomini ad arruolarsi in un esercito così fatto.
Uomini compresi della eccellenza di quello stato che allora era esaltata universalmente, altri per acquistare una considerazione alla quale non sarebbero mai giunti vivendo, come allora si diceva, nel secolo, altri per fuggire una persecuzione, per cavarsi da un impiccio, altri dopo una grande sventura, disgustati del mondo, talvolta principi o fastiditi, o atterriti del loro potere; molti perché di quelli che entrano in una carriera per la sola ragione che la vedono aperta; molti per un sentimento vero di amor di Dio e degli uomini, per l'intenzione di essere virtuosi ed utili; e questa loro intenzione (perché quando si è persuasi d'una verità bisogna dirla; l'adulazione ad una opinione predominante ha tutti i caratteri indegni di quella che si usa verso i potenti) questa loro intenzione non era una pia illusione, l'errore d'un buon cuore e d'una mente leggiera, come potrebbe parere, e come pare talvolta a chi non sa o non considera le circostanze e le idee di quei tempi: era una intenzione ragionata, formata da una osservazione delle cose reali; e in fatti con queste intenzioni molti abbracciando quello stato facevano del bene tutta la loro vita; anzi molti che sarebbero stati uomini pericolosi, che avrebbero accresciuti i mali della società, diventavano utili con quell'abito indosso.
Ho fatta tutta questa tiritèra perché nessuno trovi inverisimile che fra Canziano, senza fare alcuna obbiezione, senza stupirsi, si sia incaricato di dire, nullameno che al Padre Guardiano, che s'incomodasse a portarsi da una donnicciuola che aveva bisogno di parlargli.
Partito Fra' Canziano: «tutte quelle noci!» gridò Agnese; «in questi anni di miseria! e per noi che rimarrà? sei fuor di te per la disgrazia».
«Mamma», rispose Lucia, «perdonatemi; ma voi vedete quanto importi di parlar subito al Padre Galdino che ci può dar parere e soccorso.
Se io avessi fatta una elemosina come gli altri, Fra Canziano avrebbe dovuto girare Dio sa quanto, prima di aver la bisaccia piena, e di tornare al convento; e colle ciarle che avrebbe fatte e sentite, forse avrebbe dimenticata la mia commissione...»
«Via, hai pensato bene, e poi è tutta carità; purché faccia buon frutto».
Mentre le donne stavano in questi ragionamenti, Fermo, si avviava verso il villaggio ripassando nella sua mente gli strani discorsi del dottore, passando d'una passione nell'altra, proponendo ora un disegno or l'altro, e non potendo riposarsi in alcuno.
- Tutti così: siete fatti tutti così: andava dicendo fra sè: oggi me lo sento dire per la seconda volta: siam fatti così: come siamo dunque fatti noi poverelli? che cosa pretendo io da costoro? andava forse a domandare la carità? Pretendo la giustizia, per bacco, (ommettendo molte altre più che esclamazioni, perché Fermo non aveva mai tanto sagrato in tutta la sua vita, come fece in quel giorno).
Pretendo alla fine delle fini di sposare una donna secondo la legge di Dio.
Birbi tutti! tutti ad un modo! tutti d'accordo per mandare gli stracci all'aria! Ma, se mi riducono alla disperazione...
- Con questi pensieri giunse alla casetta delle due donne ed entrando colla faccia adirata, e vergognosa nello stesso tempo per la trista riuscita, gittò i capponi sur un tavolo; e fu questa l'ultima trista vicenda delle povere bestie per quel giorno.
«Bel parere che mi avete dato» diss'egli ad Agnese, «mi avete mandato da un buon galantuomo, da uno che ajuta veramente i poverelli».
E qui raccontò il suo abboccamento col dottore.
Agnese voleva replicare, e sostenere che il parere era buono, e che se non aveva avuto buon effetto la colpa doveva essere di Fermo, ma Lucia, interruppe, narrando a Fermo ch'ella sperava di aver trovato un miglior consigliero.
Il nome del Padre Galdino diede qualche speranza a Fermo; ma Fermo accolse anche questa speranza, come accade a quelli che sono nella sventura e nell'impaccio.
«Ma, se il Padre», diceva, «non vi trova un ripiego, lo troverò io in un modo o nell'altro».
Le donne consigliarono la pace e la pazienza, e la prudenza.
«Domani», disse Lucia, «il Padre Galdino verrà sicuramente, e vedrete che troverà qualche rimedio che noi poveretti non sappiamo nemmeno immaginare».
«Lo spero», disse Fermo; «ma in ogni caso saprò farmi ragione, o farmela fare.
A questo mondo c'è giustizia finalmente».
«Addio Fermo», disse Lucia; «andate a casa, Dio ci ajuterà e non è lontano il tempo che potremo star sempre insieme.
Usate prudenza, non fatevi vedere, non parlate».
Agnese aggiunse altri consigli, e Fermo partì colle lagrime agli occhi, e col cuore in tempesta, ripetendo di tempo in tempo queste portentose parole: «A questo mondo v'è giustizia finalmente».
Tanto è vero che un uomo sopraffatto da grandi dolori non sa più quello che si dica.
CAPITOLO IV
IL PADRE GALDINO
Era un bel mattino di novembre; la luce era diffusa sui monti e sul lago: le più alte cime erano dorate dal sole non ancora comparso sull'orizzonte, ma che stava per ispuntare dietro a quella montagna che dalla sua forma è chiamata il Resegone (segone), quando il Padre Galdino a cui Fra Canziano aveva esposta fedelmente l'ambasciata si avviò dal suo Convento per salire alla casetta di Lucia.
Il cielo era sereno, e un venticello d'autunno staccando le foglie inaridite del gelso le portava qua e là.
Dal viottolo guardando sopra le picciole siepi e sui muricciuoli si vedevano splendere le viti per le foglie colorate di diversi rossi; e i campi già seminati, e lavorati di fresco spiccavano dall'altro terreno come lunghi strati di drappi oscuri stesi sul suolo.
L'aspetto della terra era lieto; ma gli uomini che si vedevano pei campi o sulla via mostravano nel volto l'abbattimento e la cura.
Ad ogni tratto s'incontravano sulla via mendichi laceri e macilenti invecchiati nel mestiere, fra i quali molti si conoscevano per forestieri che la fame aveva cacciati da luoghi più miserabili, dove la carità consueta non aveva mezzi per nutrirli; e che passando a canto ai pitocchi indigeni del cantone gli guardavano con diffidenza e ne erano guardati in cagnesco come usurpatori.
Di tempo in tempo si vedevano alcuni i quali dal volto dal modo e dall'abito mostravano di non aver mai tesa la mano e di essere ora indotti a farlo dalla necessità.
Passavano cheti a canto al Padre Galdino, facendogli umilmente di cappello, senza dirgli nulla, perché la sola parola che indirizzavano ai passaggeri era per chiedere l'elemosina, e un capuccino, come ognun sa non aveva niente.
Ma il buon Padre Galdino si volgeva a quelli che apparivano più estenuati, più avviliti, e diceva loro in aria di compassione: «andate al convento, fratello; finché ci sarà un tozzo per noi, lo divideremo».
I contadini sparsi pei campi non rallegravano più la scena di quello che facessero i poverelli.
Salutavano essi umilmente il Padre Galdino, e quelli a cui egli domandava come l'andasse: «Come vuole padre?» rispondevano: «la va malissimo».
Alcuni, che in tempi ordinarj non avrebbero osato fermare e interrogare il Padre Guardiano, fatti più animosi per la miseria dei tempi gli dicevano: «Come anderà questa faccenda, Padre Galdino?»
«Sperate in Dio che non vi abbandonerà.
Povera gente! il raccolto è proprio andato male?»
«Grano non ne abbiamo per due mesi, le castagne sono fallate e il lavoro cessa da tutte le bande».
Questa vista e questi discorsi crescevano vie più la mestizia del buon Capuccino, il quale camminava col tristo presentimento in cuore di andare ad udire una qualche sventura.
Ma perché aveva egli in cuore questo presentimento? E perché si pigliava tanto a cuore gli affari di Lucia? E perché al primo avviso si era egli mosso come ad una chiamata del Padre Provinciale? E chi era questo Padre Cristoforo?
Se il lettore non fa tutte queste interrogazioni per malevola impazienza né per cavillare il povero narratore, ma per una sincera volontà d'imparare e di essere informato della storia, legga quello che siamo per dirgli intorno al nostro buon frate, e sarà soddisfatto.
Il Padre Cristoforo da Cremona era un uomo di circa sessant'anni; e il suo aspetto come i suoi modi annunziavano un antico e continuo combattimento tra una natura prosperosa, rubesta, un'indole pronta, ardente, avventata, impetuosa, e una legge imposta alla natura e all'indole da una volontà efficace e costante.
Il suo capo calvo e coperto all'intorno secondo il rito capuccinesco di una corona di capelli che l'età aveva renduti bianchi, si alzava di tempo in tempo per un movimento di spiriti inquieti, e tosto si abbassava per riflessione di umiltà.
La barba lunga e canuta che gli copriva il mento e parte delle guance faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali una antica abitudine di astinenza aveva dato più di gravità che tolto di espressione, e due occhj vivi, pronti, che talvolta sfolgoravano con vivacità repentina: come due cavalli bizzarri condotti a mano da un cocchiere col quale sanno per costume che non si può vincerla, pure fanno di tratto in tratto qualche salto, che termina subito con una buona stirata di briglie.
Il signor Ludovico (così fu nominato dal suo padrino quegli che facendosi poi frate prese il nome di Cristoforo) il Signor Ludovico era figlio d'un ricco mercante cremonese, il quale negli ultimi anni suoi, vedovo, e con questo unico figlio rinunziò al commercio, comperò beni stabili si pose a vivere da signore, cercò di far dimenticare che era stato mercante, e avrebbe voluto dimenticarlo egli stesso.
Ma il fondaco, le balle, il braccio gli tornavano sempre alla fantasia come l'ombra di Banco a Macbeth: in mezzo ai conviti, e alle riverenze dei parassiti; e il pover'uomo passò gli ultimi suoi anni nella angustia, parendogli ad ogni tratto di essere schernito, e non riflettendo mai che in verità vendere e comprare non è cosa turpe, e che egli aveva fatta questa professione in presenza di tutto il pubblico senza rimorso.
Fece educare signorilmente il figlio come s'usava in allora, cercando d'imitare, in quanto gli era permesso dalle leggi, dalle consuetudini, e dal timore del ridicolo.
Gli diede maestri di lettere, e di esercizi cavallereschi; e morì lasciandolo ricco e giovanetto.
Ludovico aveva contratte nella sua educazione abitudini signorili, e le ricchezze avevano attirati adulatori che lo avevano avvezzo ad esigere molti riguardi; quando volle mischiarsi coi principali del paese, l'accoglimento o piuttosto le ripulse che n'ebbe fecero un contrasto molto spiacevole colle sue abitudini.
A rendere la sua situazione più angustiosa, e ad accrescere il suo mal umore inquieto contribuiva anche non poco l'indole sua onesta ed iraconda ad un tempo, che gli rendeva insopportabile lo spettacolo delle angherie e dei soprusi che commettevano alla giornata quelli ch'egli non era portato ad amare.
Viveva egli lontano da essi, ma come non poteva non vederli, e non sentirne parlare, ad ogni occasione mostrava apertamente il disprezzo e il rancore che sentiva per essi.
Questo sentimento unito alla bontà e all'amore della giustizia ch'era grande in lui, lo portava ad assumere volentieri le difese degli oppressi; e con molte sconfitte e con qualche riuscita, con molte spese, con molti raggiri, con molta audacia, e con qualche guajo che aveva corso si era fatta una riputazione di protettore, ch'egli era sempre più impegnato a sostenere, e che gli aveva procurato il favore di molti, e l'odio caldo e risoluto di alcuni potenti.
Quando un povero andava a raccontargli un sopruso che gli era stato fatto, ed a raccomandarsi alla sua protezione parlando come se la tenesse per sicura, come se gli fosse dovuta, il signor Ludovico si trovava quasi forzato a pigliare l'impegno, dal timore di perdere ad un tratto tutta la sua riputazione.
Ma non è da domandare se in questa sua carriera aveva avuto impicci, disgusti, e pentimenti.
Oltre i contrasti fortissimi, i pericoli, le inimicizie crescenti, le spese per le quali aveva molto diffalcato del suo patrimonio; egli si trovava poi spesso anche in lite colla sua coscienza, la quale come abbiam detto era sincera e bene intenzionata.
Talvolta colui che veniva a richiamarsi, e che bisognava torre da un impegno, non valeva niente meglio del suo persecutore, ed esaminando ben bene i fatti dell'una e dell'altra parte si sarebbe trovato che se uno meritava la galea l'altro avrebbe dovuto andare a fargli compagnia: talvolta il caso era chiaro, il ricorrente era onesto, e meritava soccorso davvero; ma che? pigliata in mano la sua causa, per opporsi ad una batteria di raggiri, di soprusi, di violenze, di busse, Ludovico aveva dovuto mettere in opera tanti raggiri, tanti soprusi, tante violenze, menar tanto le mani egli stesso che terminato l'affare, ripensando ai casi suoi, egli si rimaneva con un nemico potente di più, con molti quattrini di meno, e con dei rimorsi alla coscienza.
Questo dopo una vittoria, non dico niente poi delle sconfitte: e furono molte.
Era poi tormentato dall'idea del biasimo che gli era dato da molti d'imprudente e di accattabrighe, invece della lode ch'egli si sarebbe aspettata.
Così combattuto sempre tra la sua inclinazione, e gli ostacoli, rispinto sovente, urtato ad ogni passo, stanco ad ogni momento su questa strada ch'egli aveva scelta, più volte gli era passato per la mente il pensiero che nasce dagli imbrogli e dai contrasti, il pensiero di uscirne e di attendere all'anima sua col darsi alla solitudine, cioè col farsi frate, cosa che in quei tempi si chiamava uscire dal secolo.
Ma questo che non sarebbe stato forse che un disegno per tutta la sua vita, divenne una risoluzione per uno di quegli accidenti che nelle sue circostanze non gli potevano mancare.
Andava egli un giorno per una via di Cremona, accompagnato da un antico fattore di bottega che suo padre aveva trasmutato in maggiordomo, e che gli era stato fidato fino dall'infanzia.
Aveva costui nome Cristoforo: era un uomo di circa cinquant'anni, aveva moglie ed otto figli; e tutta la famiglia sussisteva colle paghe del padre, e col di più che vi aggiungeva la liberalità di Ludovico, il quale e per buon cuore e per un po' di boria non avrebbe mai lasciato mancar nulla ad un uomo che gli apparteneva.
Vide Ludovico venir da lontano un signor tale col quale egli non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nimico, e ch'egli pagava della stessa moneta: caso molto comune; perché è uno dei diletti di questo mondo quello di potere odiare ed essere odiato senza conoscersi.
Costui si avanzava ritto, colla testa alta, colla bocca composta all'alterigia e allo sprezzo, mostrando di non voler scendere verso il mezzo della via.
Ora bisogna sapere che Ludovico aveva il suo lato destro al muro, e che per conseguenza aveva il diritto (bel diritto!) di passare accanto al muro, e che l'altro doveva dargli il passo, ma come abbiam detto, costui accennava tutt'altro che la voglia di farlo.
Anzi quando furono presso, guardando d'alto in basso Ludovico, gli disse con aria di comando: «Tiratevi a basso».
«A basso voi», rispose Ludovico: «la strada è mia».
«Coi pari vostri, la strada è sempre mia».
«Sì s'ella appartenesse ai soperchiatori».
«A basso, vile plebeo, o ch'io ti dò quella educazione che non ti poteva dare tuo padre».
«Voi mentite ch'io sia vile: ma non è da stupire che siate così prodigo di quello che avete in tanta copia».
«Tu menti ch'io abbia mentito», disse con furia e con disprezzo quel signore: e questa risposta era di prammatica, come ora sarebbe dire: - benissimo - a chi vi domanda della vostra salute: indi soggiunse; «e se tu fossi cavaliere come son io, ti vorrei far vedere con la spada e con la cappa che tu sei il mentitore».
«È buona sorte per voi l'esser cavaliere; così potete essere insolente e dispensarvi di sostenere la vostra insolenza, come vile che siete».
Così dicendo pose mano alla spada.
«Temerario», gridò quel signore, «io spezzerò questa», e la cavò pure così dicendo «dopo che sarà macchiata del tuo sangue».
Così si avventarono l'uno sull'altro.
Cristoforo venne in ajuto del suo padrone e cavò il suo coltello; e due servitori che accompagnavano il signore andarono addosso a lui e a Ludovico.
La gente si ritirava da ogni parte, e giacché nessuno di quelli che s'abbattevano nella via era interessato per amicizia, o per onore a pigliar parte nella disputa, la quale da duello divenne tosto un fatto generale.
Il signor Ludovico e il suo Cristoforo dovevano difendersi contra tre, e il combattimento era tanto più diseguale che Ludovico mirava piuttosto a scansare i colpi, e a disarmare il nemico che ad ucciderlo; ma il signore voleva la vita dell'avversario.
Ludovico aveva già toccata in un braccio una pugnalata d'un servitore; e il nemico gli cadeva addosso per finirlo, quando Cristoforo vedendo il suo padrone nell'estremo pericolo s'avventò col pugnale al signore, il quale rivolta tutta la sua ira contro di lui lo passò colla spada.
A quella vista Ludovico scordato ogni ritegno cacciò la sua nel ventre del provocatore, il quale cadde quasi ad un punto col povero Cristoforo: i servitori veduto il padrone sul terreno, si diedero alla fuga: e Ludovico rimase solo e ferito, e circondato dal popolo che accorreva, vedendo finita la guerra.
«Che è? che è? - Come è andata? Son due morti.
- Gli ha fatto un occhiello nel ventre.
- Chi? a chi?» Grida e confusione; e il povero Ludovico, col compagno ucciso, e quel che è peggio col nemico ucciso da lui, si trovava in mezzo ad una folla che lo stringeva d'ogni parte.
Ma, come è facile da supporre, il favore era piuttosto per lui che per l'avversario, e tutti cercavano di salvarlo.
Il caso era avvenuto vicino ad una Chiesa di Capuccini, asilo, come ognun sa, impenetrabile allora ai birri, e a tutto quel complesso di cose e di persone che si chiamava la giustizia.
Il povero ferito fu quivi condotto o portato dalla folla, e quasi fuori di sè pel furore, pel rimorso, e pel dolore i padri lo accolsero dalle mani del popolo, che lo raccomandava ai suoi ospiti, dicendo: «è un uomo dabbene, che ha fatto freddo un birbone».
Ludovico non aveva mai prima d'allora versato sangue; e benché l'omicidio fosse a quei tempi cosa tanto comune che gli orecchi d'ognuno erano avvezzi a sentirlo raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l'impressione che Ludovico ricevette dal veder l'uomo morto per lui, e l'uomo morto da lui, fu nuova e terribile, fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti.
Il cadere del suo nimico, l'alterazione de' suoi tratti che passavano in un momento dalla minaccia e dal furore, all'abbattimento e alla severa debolezza della morte, cangiarono in un punto l'animo dell'uccisore.
Strascinato al convento egli non sapeva quasi dove fosse e che si facesse; e cominciò appena a comprendere la sua situazione, quando si trovò in un letto della infermeria, nelle mani del frate chirurgo (i capuccini ne avevano sempre alcuno) che aggiustava faldelle e bende sopra due ferite leggieri ch'egli aveva ricevute nello scontro.
Un padre che assisteva più frequentemente ai moribondi, e che aveva spesso reso di questi uficj sulla via, fu chiamato tosto sul luogo del combattimento; e tornato pochi momenti dopo, entrò nella infermeria, e fattosi al letto dove Ludovico giaceva: «Consolatevi», gli disse; «almeno è morto bene, e mi ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo».
Questa parola fece rinvenire affatto il povero Ludovico, e gli risvegliò più vivamente e più distintamente i sentimenti che erano confusi e affollati nel suo cuore, dolore per l'amico, pentimento e rimorso di ciò ch'egli aveva fatto, e nello stesso tempo un senso forte e sincero di commiserazione e di amore per l'infelice ch'egli aveva ucciso: Ludovico allora avrebbe volentieri data la sua vita per ricuperare quella del suo nemico.
«E l'altro?» domandò al padre.
L'altro era spirato.
Frattanto le uscite e i contorni del convento erano affollati di popolo curioso: ma giunta la sbirraglia fece smaltire la folla, e si pose in agguato a una certa distanza dalle porte; ma in modo che nessuno potesse uscirne inosservato.
Un fratello del morto, due suoi cugini, e un vecchio zio vennero pure armati da capo a piede; e facevano la ronda intorno, guardando con aria di minaccia gli accorsi del popolo, i quali mostravano nei volti quasi una sorta di trionfo e di contentezza.
Appena Ludovico potè riflettere più pacatamente, chiamato un frate confessore, lo pregò che andasse a casa della moglie di Cristoforo, che l'assicurasse ch'egli non aveva fatto nulla per cagionare la morte del suo amico, e nello stesso tempo le desse parola ch'egli si riguardava come il padre della famiglia.
Quindi pensando ai casi suoi, il pensiero di farsi frate che tante volte come abbiamo detto gli era passato per la mente, gli si presentò allora, e divenne tosto vera risoluzione.
Chiamò il guardiano, e gli aperse il suo cuore, e n'ebbe in risposta, che bisognava guardarsi dalle risoluzioni precipitate, ma che s'egli persisteva, non sarebbe rifiutato.
Allora egli fece chiamare un notajo, e fece in buona forma una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (che era tuttavia un bel patrimonio) alla famiglia di Cristoforo; una somma alla madre, come se le costituisse una contraddote, e il resto ai figli.
Gli ospiti di Ludovico erano impacciati assai.
Consegnarlo alla giustizia, cioè alla vendetta de' suoi nemici, oltreché l'esser cosa vile e crudele (ragione che è più potente quando è accompagnata da altre), sarebbe stato lo stesso che rinunziare al privilegio di asilo, screditare il convento presso tutto il popolo, attirarsi l'animavversione di tutti i capuccini dell'universo per aver lasciato ledere il diritto di tutti, tirarsi contra tutte le autorità ecclesiastiche, le quali allora si consideravano come tutrici di questo diritto.
Per l'altra parte la famiglia dell'ucciso era potentissima, forte di aderenze, irritata, e si faceva un punto d'onore di vendicarsi, e minacciava della sua indegnazione tutti quelli che mettevano un ostacolo alla vendetta.
E quand'anche ai parenti fosse poco importato della morte del loro congiunto (cosa che la storia non dice però) tutti avrebbero esposta la loro vita per avere nelle mani l'uccisore; e come toglierlo dalle mani dei capuccini sarebbe stato un esempio insigne, di cui si sarebbe parlato per più d'una generazione, e che avrebbe renduta sempre più rispettabile la casa, così erano tutti impegnati, accaniti a riuscirvi.
La risoluzione di Ludovico era il miglior ripiego per cavare i frati da questo viluppo.
Vestendo l'abito di capuccino, egli faceva una specie di riparazione, rinunziava a tutte le massime di puntiglio e di vendetta che allora si consideravano come leggi eterne e naturali di onore, rinunziava ad ogni nimicizia, ad ogni gara, era insomma un nemico che depone le armi e si arrende.
I parenti poi potevano anche credere e dire che Ludovico si era indotto a ciò per disperazione e per timore; e ridurre un uomo a rinunziare tutto il fatto suo, a tagliarsi i capelli, a crescersi la barba, a camminare a piedi nudi, a non possedere un quattrino, a dormire sulla paglia, a vivere di elemosina, poteva parere un castigo bastante anche all'offeso il più superbo.
Il Padre Guardiano andò umilmente dal fratello del morto, e dopo mille proteste di rispetto per l'illustrissima casa, e di desiderio di servirla in tutto ciò che non fosse contrario alle leggi della chiesa, parlò del pentimento di Ludovico (che era vero), e della sua risoluzione, come se chiedesse un consiglio o quasi un permesso.
Il fratello diede nelle smanie, che il capuccino lasciò passare, dicendo di tempo in tempo: «è un troppo giusto dolore»: parlò alteramente, e il capuccino raddoppiò di umiltà e di complimenti; fece intendere che in ogni caso la sua famiglia avrebbe saputo pigliarsi una soddisfazione; e il capuccino che non ne era persuaso, non gli contraddisse però; finalmente domandò, impose come una condizione che l'uccisore di suo fratello partirebbe tosto da Cremona.
Il capuccino, che aveva già pensato di far così, mostrò di accordar questo alla deferenza ch'egli e tutti i suoi avevano per l'illustrissima casa, e tutto fu conchiuso.
Contenta la famiglia per le ragioni che abbiam dette, contenti i frati, contenti quelli che avrebbero dovuto punire Ludovico, perché dopo la donazione fatta da lui di tutto il suo avere, la persecuzione che gli si sarebbe fatta non avrebbe portato che impicci e fatiche, contento il popolo il quale vedeva salvo un uomo che amava, dalle persecuzioni di prepotenti che odiava; e che nello stesso tempo ammirava un conversione; contento finalmente ma per motivi diversi e più alti il nostro Ludovico; il quale non desiderava altro che di cominciare una vita di espiazione, di patimenti e di servizio agli altri che potesse compensare il male ch'egli aveva fatto, e raddolcire il sentimento insoffribile del rimorso.
Così Ludovico a trent'anni si avvolse, come si direbbe poeticamente, nelle ruvide lane, diede un eterno addio al mondo ed al barbiere, e fu novizio.
Il sospetto che la sua risoluzione fosse attribuita al timore lo afflisse un momento; ma tosto egli fu lieto di poter sofferire questa ingiustizia.
Ognuno sa che quando uno si affigliava ad una regola, lasciava il nome di battesimo, e ne prendeva un altro; Ludovico assunse quello di Cristoforo.
Appena Fra Cristoforo ebbe assunto l'abito, il guardiano gl'intimò che andrebbe a fare il noviziato a Modena, e partirebbe all'indomani.
Il novizio gli si gettò allora ai piedi, e lo chiese d'una grazia.
«Io parto», diss'egli, «da questa città dove ho sparso il sangue d'un uomo, e vi lascio i congiunti di esso e un fratello, quelli che io ho offesi, senza aver fatta una riparazione.
Permettetemi che io quanto è da me ripari almeno col fratello l'ingiuria, e tolga se si può il rancore dal suo cuore».
Al guardiano parve che questo passo, fatto con tutte le precauzioni, riconcilierebbe al tutto il convento colla famiglia e gli disse che gli darebbe risposta, e andò difilato dal fratello dell'ucciso, esponendogli la richiesta di Fra Cristoforo.
Dopo qualche sbruffo di collera, e qualche esitazione: «venga domani» diss'egli, e indicò l'ora.
Il guardiano si assicurò che il novizio non arrischiava nulla, e gli diede la licenza desiderata.
Il signore superbo pensò tosto che poteva dare molta solennità a questa riparazione, e soddisfare così in un punto la vendetta e l'orgoglio, e crescere la sua importanza presso tutta la parentela, e presso il pubblico: e fece avvertire in fretta tutti i parenti che all'indomani al mezzo giorno restassero serviti (così si diceva allora) di venire da lui per ricevere una soddisfazione comune.
Al mezzogiorno la casa era piena di signori d'ogni età e d'ogni sesso, tutti
...
[Pagina successiva]