FERMO E LUCIA, di Alessandro Manzoni - pagina 17
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Ma nella casetta di Lucia dal momento che il padre ne era partito non si era stati in ozio: si eran messi in campo e ventilati disegni dei quali è necessario informare il lettore.
Partito il padre, Fermo e Lucia stavano in silenzio osando appena di sogguardarsi di tratto in tratto, e non si parlando che con sospiri: poiché le speranze che avevano nella spedizione del buon padre erano tanto leggere e indeterminate, che temevano entrambi di farle svanire col comunicarle.
Lucia andava tristamente ammanendo il desinare, e Fermo stava in tra due, volendo ad ogni momento partire per togliersi dallo spettacolo di Lucia così accorata, e non sapendo staccarsi.
Ma Agnese dopo aver meditato un poco, dopo aver più volte risposto a se stessa di sì col capo, con una voce piena di pensiero ruppe il silenzio e disse: «Sentite, figliuoli.
Se aveste coraggio e destrezza quanto è di mestieri, se vi fidate di vostra madre (quel vostra fece trasalire Lucia) io m'impegnerei a cavarvi di questo impiccio, meglio forse e più presto del padre Cristoforo, con rispetto del suo studio».
Lucia si fermò sui due piedi con più ansia che speranza in una promessa tanto magnifica; e Fermo: «Coraggio!» disse: «destrezza! dite, dite quel che si può fare».
«Non è vero», proseguì Agnese, «che se voi foste maritati, il punto principale sarebbe vinto, che a tutto il rimanente vi sarebbe rimedio?» «Oh maritati» rispose Fermo: «e poi quel che Dio vuole».
Lucia non aperse bocca; ma un rossore che le velò tutta la faccia parve ripetere parola per parola ciò che Fermo aveva detto.
«Maritati che foste», continuò Agnese, «coi pochi risparmi di Fermo, e coi nostri, colla nostra poca abilità, possiamo vivere anche via di qui: per me non ho che questa poveretta al mondo, e grazie al cielo non vi sarei di peso, giacché il pane me lo guadagno.
Lontani dalla persecuzione di questo tiranno senza timor di Dio, noi potremmo far casa, e vivere in santa pace, non è vero, figliuoli?»
«Sicuro», rispose Fermo, «ma tutto sta nell'essere maritati».
«Ebbene, come vi ho detto, coraggio e destrezza; fare quello che vi dirò io, e la cosa è facile».
«Facile!» dissero ad una voce quelli per cui la cosa era divenuta tanto stranamente, e dolorosamente difficile.
«Facile, a saperla fare»; replicò Agnese.
«Bisogna fare un matrimonio gran destino».
- La buona donna voleva dire clandestino.
«Cospetto!», disse Fermo: «mi par bene di avere inteso altre volte questa parola, ma non so che cosa voglia dire.
Ma come fare il matrimonio se il curato non vuole? Senza il curato non si può fare».
«Bisogna che il curato ci sia, e questo è facile, ma non fa bisogno ch'egli voglia, che è il punto».
«Spiegatevi meglio».
«Ecco come si fa.
Bisogna aver due testimoni, destri e ben informati.
Si va dal parroco.
Lo sposo dice: - Signor curato, questa è mia moglie: - la sposa dice: Signor curato, questo è mio marito: - il parroco sente, i testimonj sentono, e il matrimonio è fatto, e sacrosanto come se lo avesse fatto il papa.
Ma bisogna che il curato senta, che non v'interrompa, perché se ha tempo di fuggire prima che tutto sia detto, non si è fatto niente.
Bisogna dire in fretta, ma chiaro, sentite: come faccio io: - questa è mia moglie: questo è mio marito: - (e faceva mostra di una volubilità di lingua che in verità possedeva in un modo singolare).
Quando le parole son proferite, il curato può strillare, strepitare fare quello che vuole, siete marito e moglie».
«Possibile!» sclamò Lucia.
«Oh vedete», disse Agnese «che nei trent'anni che sono stata al mondo prima di voi altri, non avrò imparato niente.
La cosa è certa e una mia amica che voleva pigliar marito contra la volontà dei suoi parenti, ha fatto così.
Poveretta! che arte ha usata per riuscirvi, perché il curato stava sull'avviso, ma ha saputo cogliere il momento, ha pigliato colui che voleva, e se ne è pentita tre giorni dopo».
«Se fosse vero, Lucia!...» disse Fermo, riguardandola con aria di una aspettazione supplichevole.
«Come! se fosse vero», ripigliò Agnese: «Io mi cruccio per voi, e non son creduta.
Bene bene; cavatevi d'impiccio come potete: io me ne lavo le mani».
«Ah no! non ci abbandonate», disse Fermo.
«No no»: riprese Agnese: «me ne lavo le mani: sentite, io son donna che sopporto ogni cosa per quelli a cui voglio bene, ma non voler credere alle mie parole, e non voler fare quello che dico io; questo non lo posso sopportare».
Chi avesse tentato direttamente con preghiere di smuovere Agnese irritata, avrebbe facilmente avuto da fare per molto tempo: ma Lucia ottenne l'effetto in un momento, senza porvi astuzia, facendo una obbiezione:
«Ma, perché dunque», diss'ella, «questa cosa non è venuta in mente al Padre Cristoforo?» Questa interrogazione impegnò la buona Agnese a rispondere, e a giustificare il suo assunto.
«Bisogna saper tutto», diss'ella.
«Al Padre Cristoforo che ne sa molto più di me, la cosa sarà venuta in mente prima che a me: ma io so bene perché non ne avrà voluto parlare».
«Perché?» domandarono i due giovani.
«Perché?...
perché...
i religiosi dicono che è una cosa che non istà bene».
«Come possono dire che non istia bene, quando dicono che non si può disfare», disse Fermo.
«Se non istà bene», disse Lucia, «non bisogna farla».
Per rispondere a Fermo era necessario un ragionamento troppo sottile per Agnese: si volse ella adunque a Lucia, e disse: «Non bisogna dirla prima di farla, perché allora sconsigliano: ma quando sarà fatta, che cosa vuoi che ti dica il Padre Cristoforo? - Ah figliuola è stata una scappata, non me ne tornate a fare una simile! - Tu gli prometterai di non tornarvi: non è vero? non son cose che si facciano due volte.
E allora il Padre Cristoforo ti assolverà».
Lucia non si mostrava convinta di questo raziocinio; ma Fermo tutto rincorato disse: «Ebbene quand'è così la cosa è fatta.
Lucia, voi non mi verrete meno, non mi avete voi promesso d'esser mia? Non abbiamo noi fatto ogni cosa da buoni cristiani? E se non fosse stato questo...
non saremmo noi marito e moglie?»
«Fatta! fatta!» disse Agnese: «adagio.
E i testimonj? E trovare il modo di acchiappare il signor curato, che da due giorni se ne sta rincantucciato in letto, e che quando vi vedesse comparire a un miglio di distanza, scapperebbe come il diavolo dall'acqua santa?»
«Ho trovato il modo; l'ho trovato», disse Fermo, battendo il pugno sulla tavola e facendo trasalire e fremere le stoviglie apparecchiate pel desinare: «l'ho trovato.
Vado, e torno.
Bisogna ch'io parli con Toni; e se posso acconciare la faccenda con lui, l'è fatta; e vengo subito ad informarvene».
«Ma ditemi prima quello che intendete di fare» disse precipitosamente Agnese, alla quale pareva pure di dover esser consultata la prima.
«Non ho un momento da perdere: bisogna ch'io lo colga in casa a quest'ora: altrimenti, chi sa se potrei trovarlo.
Vado e torno, per sentire il vostro parere; senza il vostro parere non si farà nulla.
Cara Agnese, io vi considero come se foste la madre che ha patito: sono nelle vostre mani.
Persuadete Lucia».
Così detto sparì.
Non ci voleva meno di queste parole perché Agnese perdonasse a Fermo di farle aspettare una confidenza e di intraprendere qualche cosa senza il suo consiglio.
«Ragazzo!» diss'ella quando fu partito «purché non me ne faccia una e non mi guasti tutto.
Basta: mi ha promesso di non far nulla senza la mia licenza».
Necessità, come si dice, assottiglia l'ingegno: e Fermo il quale nel sentiero retto e facile di vita che aveva percorso fin allora non aveva mai avuto occasione di far molto uso della sua penetrazione, ne pensò in questo caso una, che avrebbe fatto onore ad un giurisperito.
Corse alla casetta di Tonio, la quale era nel villaggio dove risiedeva il parroco, a forse trecento passi di distanza dalla abitazione di Lucia.
Quando Fermo entrò nella cucina, la moglie, la vecchia madre di Tonio stavano sedute alla mensa, e tre o quattro figli ritti intorno aspettando il desinare che Tonio stava cucinando.
Ma non si vedeva sui volti quell'allegria che ordinariamente anche i poverelli mostrano in quel momento: la carestia aveva costretti i poverelli ad una sobrietà ancor più rigida che per l'ordinario, e tutti cogli occhi fissi sulla pentola nella quale Tonio tramestava accidiosamente una bigia polenta di fraina (o se volete di poligonum fagopyrum ) pareva che invece di rallegrarsi della vista del desinare pensassero tristamente a quella buona parte di appetito che rimarrebbe intatta dopo sparecchiato.
In quel momento Tonio riversò la polenta sulla tafferia di faggio che stava appronta a riceverla, e il largo orlo che rimase vuoto all'intorno fece ancor più chiaramente risaltare la povertà del convito.
Nullameno le donne rivolte cortesemente a Fermo, gli dissero se voleva restar servito: complimento che il contadino di Lombardia non lascia mai di fare quando mangia seduto sulla sua porta a chi s'abbatte a passarvi quand'anche stesse mangiando l'ultimo boccone del suo piatto.
«Vi ringrazio», rispose Fermo: «io vengo per dire qualche cosa a Tonio; e se vuoi Tonio, per non incomodare le tue donne vieni a pranzar meco all'osteria, e parleremo».
La proposta fu per Tonio tanto gradita quanto meno aspettata; e le donne che in un'altra occasione forse avrebbero avuto che dire su questa partita videro con piacere che si scemasse alla polenta un concorrente, e il più formidabile.
Tonio non domandò altro, e partì con Fermo.
Giunti all'osteria del villaggio, seduti a tutto loro agio in una perfetta solitudine giacché la miseria aveva fatti sparire tutti i frequentatori di quel luogo di delizie, fatto recare quel poco che si trovava, vuotato un boccale di vino, Fermo con aria di mistero disse a Tonio: «Se tu vuoi farmi un picciolo servizio; io posso e voglio farne uno grande a te».
«Parla, parla, comandami pure», rispose Tonio, versandosi da bere, «oggi andrei nel fuoco per te».
«Tu sei in debito di venticinque lire col signor curato per fitto del suo campo che lavoravi l'anno passato».
«Tu sei sempre stato un martorello, Fermo: non sai che all'osteria non si fa menzione di debiti? Ecco, io mi sentiva una voglia che sarei andato nel fuoco per te, ma con questo discorso tu mi hai fatto passare tutta l'allegria, e quasi non ti son più obbligato».
«Se ti parlo del debito», rispose Fermo «è per darti il mezzo di soddisfarlo.
Eh! non ti farebbe piacere? saresti contento?»
«Contento? per diana se sarei contento.
Non pel curato vedi: ma per togliermi la seccatura: se la faccenda continua così non potrò più andare alla Chiesa: non mi vede una volta che non me ne gitti un motto, o almeno almeno non mi faccia un cenno con quella sua brutta cera.
E poi e poi, egli si tiene in pegno la collana d'oro di mia moglie; e prevedo che quest'inverno se l'avessi, la cangerei in tanta polenta; non in vino», e qui fece un sospiro, «in polenta.
Ma...»
«Ma, ma; se tu mi vuoi rendere un servizio, io ti darò le venticinque lire».
«Il servizio è fatto» rispose Tonio; «non fa nemmeno bisogno che tu mi dica che cosa è».
Fermo, gli fece promettere sul bicchiere il segreto, e continuò:
«Tu sai che io sono promesso a Lucia Zarella.
Il curato mi va cercando cento scuse magre per tirare in lungo: io vorrei spicciarmi.
Mi hanno mò detto che presentandomi al curato con due testimonj, e dicendo io: questa è mia moglie, e Lucia: questo è mio marito, il matrimonio è bell'e fatto.
M'hai tu inteso?»
«Tu vuoi ch'io venga per testimonio?»
«Appunto».
«Il matrimonio è fatto, è fatto», rispose Tonio baldanzosamente, versandosi un altro bicchiere di vino.
«Così vi fossero molti tribolati come te, e in caso di spendere venticinque lire».
«Ma bisogna che tu mi trovi un altro testimonio».
«Bisogna che lo trovi io ah? io perché son più destro di te.
Bene è trovato.
Quel martoraccio di mio fratello Gervaso, farà quello che gli dirò io: basta che tu mi dia tanto ch'io gli possa pagar da bere; perché, a questo mondo, niente per niente: è un proverbio che lo sa anche Gervaso, lo sanno anche quelli che non sanno dire il Credo».
«Farò di più», disse Fermo, «lo condurremo qui a stare allegro con noi».
«Benone» rispose Tonio.
Fermo pagò lo scotto, ed uscirono quindi entrambi pieni di speranza; Fermo avvisò il compagno che si tenesse pronto per l'indomani sull'imbrunire; gli raccomandò di nuovo il segreto, quindi si avviò alla casa di Lucia, e Tonio alla sua cantando ad alta voce, come non aveva più fatto da molti mesi.
Ma in questo frattempo Agnese aveva penato in vano a persuadere Lucia.
In tutto il tempo del desinare (il quale non era grazie a Dio più scarso dell'ordinario, perché tanto le donne, quanto Fermo erano dei più agiati del contorno) e dopo quando le furono ritornate all'aspo, Agnese pose in opera tutta la sua eloquenza, ma invano.
Lucia rispondeva sempre con un dilemma senza però saperlo presentare in forma: «O si può fare», diceva, «e perché non dirlo al padre Cristoforo? o non si può fare, e non si deve fare».
Non già che questo rifiuto non fosse più amaro a Lucia che lo proferiva che alla madre; ma Lucia non avrebbe voluto per nulla al mondo far contra la sua coscienza.
«Abbiamo bisogno più che mai», diceva ancora, «dell'ajuto di Dio, e se facciamo ciò che non istà bene, come lo potremo sperare?» Così spesero tutto quel tempo in argomentazioni; e uno che le avesse intese disputare, e tornar da capo ognuna a ripetere le stesse ragioni, avrebbe potuto credere che la fosse controversia fra due dotti, piuttosto che disputa fra due donnicciuole.
Fermo giunse che si disputava tuttavia.
Ma Agnese, alla quale allora premeva più di sapere che di parlare, «ebbene Fermo», disse, «avete trovato il bandolo? Dite, vediamo un po'».
Fermo snocciolò tutto il disegno; e terminò con un «ahn!» interiezione milanese la quale significa: sono o non sono un uomo? si poteva trovar di meglio? ve lo sareste aspettato? e cento altre cose simili.
Agnese crollò il capo, e disse: «non avete pensato a tutto».
«Che ci manca?» rispose Fermo, punto, e spaventato nello stesso tempo.
«E Perpetua?» gridò Agnese; «e Perpetua? non avete pensato a Perpetua.
Come volete ch'ella vi lasci entrare dal curato? Pensate s'ella non avrà ordini severissimi di tenervi lontani più che un ragazzo da una pianta di pomi maturi.
Come farete ad ingannare Perpetua?»
«Povero me! non ci ho pensato, io».
«Sentite, se non ci fosse altra difficoltà, a Perpetua ci penso io», rispose Agnese, la quale giacché l'iniziativa gli era stata tolta, era almeno contenta di mostrare che era necessaria la sua sanzione.
«Ecco come la cosa si dovrebbe fare.
Sull'imbrunire, capite bene che quella è l'ora giusta, Tonio va alla porta del curato, picchia, viene Perpetua, Tonio le dice di avvertire il curato ch'egli è lì per pagare.
Voi altri due intanto vi apparecchiate dietro l'angolo della casa a man sinistra.
Quando Perpetua torna per aprire a Tonio, io mi trovo sulla porta, e quando Perpetua ha detto a Tonio: - andate su -, io mi mostro a Perpetua, la chiamo, e le dico queste parole magiche: - ho da parlarvi di quel tale affare.
- Con quest'amo vedete io la tiro con me dalla destra fin dove voglio; ma basterà che io l'allontani tanto che voi possiate pian pianino introdurvi nella porta lasciata aperta da Tonio, e tenergli dietro pian pianino per le scale, e poi fermarvi nella stanza vicina a quella dove sarà il curato, ed essergli addosso poi nel momento opportuno».
Agnese chiuse il discorso alla sua volta con un «ahn?» prolungato in aria di trionfo, levando il mento, ed avanzando la faccia verso Fermo.
«Benedetta voi...!»
«Mah!» interruppe Agnese: «tutto questo serve poco, perché Lucia si ostina a dire che è peccato».
Fermo pos'egli pure in campo la sua eloquenza: fece mille interpellazioni a Lucia, e rispose sempre egli per mostrare che i dubbj di essa erano vani: ma Lucia fu inconcussa.
«Sentite», diss'ella, «fin qui abbiamo fatto tutto col timor di Dio; proseguiamo a questo modo, e Dio ci ajuterà.
Io non capisco tutte queste vostre ragioni: vedo che per far questa cosa bisogna camminare a forza di bugie, di nascondigli.
No no Fermo: io voglio esser vostra, ma colla fronte scoperta, il bandolo lo troverà la provvidenza».
La disputa, come era da supporsi, divenne generale.
Fermo insisteva rimproverando Lucia di poco amore, e ripetendo i suoi argomenti con una forza e una amarezza sempre crescente: Lucia addolorata, tenera, ma ferma li ribatteva singhiozzando, ed Agnese predicava all'una, dava sulla voce all'altro secondo l'occasione.
Tutt'ad un tratto, un calpestio affrettato di sandali, e un romore di tonaca sbattuta, somigliante a quello che produce in una vela allentata il soffio ripetuto del vento, annunziò il Padre Cristoforo.
Si fece silenzio, e Agnese ebbe appena il tempo d'imporre sotto voce a Lucia di non dir parola del disegno contrastato.
CAPITOLO VII
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Il Padre Cristoforo arrivava nell'attitudine d'un buon generale, il quale, perduta, senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non iscorato, soprappensiero, ma non istordito, a corsa e non in fuga, si porta ove il bisogno lo chiede, a premunire i luoghi che potrebbero esser minacciati, a dare ordini, disposizioni, avvertimenti.
«La pace sia con voi», diss'egli, entrando, tutto ansante, ma con voce ferma.
«Non v'è nulla a sperare dall'uomo: tanto più bisogna confidare in Dio».
Benché nessuno dei tre sperasse molto nel tentativo del Padre Cristoforo, giacché il vedere un potente recedere da una soperchieria per preghiera e senza esser sopraffatto da una forza superiore era cosa più inaudita che rara, nullameno la trista certezza fu un colpo per tutti.
Ma Fermo ne prese più sdegno che accoramento.
Le ripulse replicate di Lucia, i suoi disegni così ben meditati, e le sue speranze al vento, il non saper più come uscire per altra via d'impaccio, un lungo diverbio, avevano cresciuta e riscaldata la stizza che egli covava già da due giorni: l'amore, però, e il rispetto che Lucia gli ispirava anche rifiutando ciò ch'egli bramava sopra ogni cosa, avevan temperata questa stizza, e impedito ch'ella non iscoppiasse in escandescenza.
Ma quando a quella passione compressa si presentò un oggetto odioso per ogni parte, quello che ne era l'oggetto principale, la passione non ebbe più freno.
«Vorrei sapere», gridò Fermo colla bava alla bocca e come non aveva mai gridato in presenza del Padre Cristoforo, «vorrei sapere che ragione ha detto quel cane, per sostenere che Lucia non ha da esser mia moglie».
«Povero Fermo!» rispose il Padre, con un accento di pietà e d'amorevolezza.
«Sai tu che se alcuno potesse costringere quei signori a dire le loro ragioni, le cose non andrebbero a questo modo».
«Dunque ha detto il cane che egli non vuole, perché non vuole?»
«Non ha detto nemmen questo.
Piacesse a Dio che per commettere l'iniquità gli uomini fossero costretti di confessarla apertamente; l'iniquità trionferebbe meno sulla terra».
«Ma che parole ha dette quel tizzone d'inferno?»
«Io le ho intese, Fermo, e non te le saprei ripetere.
Dimmi, se tu dopo un lungo giro uscissi da un sentiero intricato, pieno di oscurità e di spini, sapresti tu descrivere la via che hai percorsa? noverare i tuoi passi, segnare le giravolte e gl'inciampi? Povero Fermo! Le parole della iniquità potente sono come il lampo che abbaglia e fa terrore, e non lascia vestigio.
Essa può minacciarti di vendetta perché tu abbi sospetto di lei, e nello stesso tempo farti intendere che il tuo sospetto è certezza: può dirti: guai a te se non mi comprendi, guai a te se mostri di comprendermi: può insultare, e mostrarsi offesa, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere impudente e irreprensibile.
Non cercar più altro.
Colui non ha proferito il nome di questa innocente, né il tuo, non ha mostrato di sapere che voi viviate, non ha detto di voler nulla; ma...
pur troppo quello che voi mi avete rivelato, quello che io non avrei voluto credere, è vero.
Mah! confidenza in Dio come v'ho detto: questa è l'ora dell'uomo, ma va passando.
Voi, poverette, non vi perdete d'animo, e tu, mio Fermo...
oh! credi ch'io so pormi ne' tuoi panni, ch'io sento quello che passa nel tuo cuore...
ma abbi pazienza: io so che questa parola è amara: ma è la sola che ti possa dire un uomo che non sia tuo nemico.
Dio stesso, che è onnipotente, non te ne vuol dir altra, per ora.
Io parto, e vi lascio nelle mani di Dio...
Oh il sole è caduto e arriverò tardi: ma poco importa.
Fatevi animo: Dio mi ha già dato un segno di volervi ajutare.
Domani non ci vedremo: io rimango al convento; ma per voi.
Mandate, Lucia, un garzoncello fidato, che giri vicino al convento, alla Chiesa, e pel quale io possa farvi sapere quello che occorrerà: io sarò avvertito, e vi farò avvertite: avremo dei mezzi che colui non sospetta, che finora non conosco nemmeno io: in Milano ho qualche protezione, e la vedremo.
Sento una voce che mi dice che tutto finirà presto e bene.
Fede, coraggio, e buona sera».
Detto questo s'avviava frettolosamente, quando udì Fermo dire, mormorare con voce contenuta dal rispetto, e velata dalla collera, ma intelligibilmente: «la finirò io».
La faccia e l'atteggiamento di Fermo non lasciava dubbio sul senso di queste parole.
«Misericordia!» sclamò Agnese.
Lucia si volse supplichevolmente al Padre Cristoforo, come se volesse dire: - ammansatelo -.
«Tu la finirai!» disse rivolgendosi il Padre Cristoforo, ed appostandosi sulla porta: «no Fermo, tu non sei da tanto: non tocca a te.
Dio solo può finirla, e guai a te se tu ardisci di prevenire il suo giudizio».
«Nasca quel che può nascere, ad ogni modo la voglio finire.
Sì la voglio finire.
È di carne finalmente lo scellerato».
«Fermo, in nome di Dio», disse Lucia.
«Dio! Dio!» disse Agnese.
«Voi perdete la testa: non sapete quante braccia egli ha ai suoi comandi? e quand'anche...
oh misericordia! contra i poveri c'è sempre la giustizia».
«Non gli parlate di questo», interruppe il Padre: «egli non se ne cura.
Ascoltami Fermo: voglio che tu mi ascolti.
Io ti leggo in cuore: io so che il tuo pericolo non ti fa terrore; so che in questo momento l'idea della morte non ti spaventa né per gli altri né per te.
Ma ascolta.
Tu eri nella gioja e nella speranza; un uomo ti si è parato sulla via, e ti ha gettato nella angoscia e nella miseria: tu credi che tolto di mezzo quest'uomo, ti ritroverai al posto dove tu eri prima d'incontrarlo.
Povero ingannato! la tua via è cangiata, ti è forza intraprenderne un'altra: guai a te se ti poni in quella dell'omicidio.
Poni che tutto ti riesca a tuo grado: ebbene! che avrai tu fatto? l'odio è dolce ora al tuo cuore: ma sai tu...
sai...» e così dicendo prese la mano di Fermo e la strinse a segno di dargli dolore...
«sai tu come si volge il cuore dell'uomo che ha versato il sangue? Ve n'ha che rimangono quelli di prima; ma tu non sei uno di loro: guai a te! son reprobi.
Io ho perduto degli amici cari, ben cari...
ma se Dio mi concedesse di poter far rivivere un uomo, credi tu ch'io sceglierei uno di essi? Quegli ch'io vorrei poter risuscitare col mio sangue è un uomo a cui io non aveva mai fatto il torto più leggiero, e che mi ha insultato.
Poni che tutto ti riesca, poni che non vi sia giustizia, che tu sposi tranquillamente...
che la colomba si unisca allo sparviero.
Ma sarai tu Fermo? avrai sposato Lucia? Tu non sarai Fermo, te lo dico io: tu non penserai come ora: in ogni tuo pensiero, per quanto importante egli sia per essere, per quanto lieto, oltre quello che ci sarebbe per tutti, per te ci sarà sempre un morto di più.
Avrai tu figli? Guardati dal trovarti in casa quando questa sfortunata farà loro ripetere i comandamenti di Dio, e dirà loro: non fare omicidio.
Potrai tu ricordare con tua moglie, le speranze e le traversie che hanno preceduto il tuo matrimonio: potrete voi dire una volta: ma Dio ci ha ajutati? Quand'ella si sveglierà al tuo fianco, penserà tremando che è coricata con uno che ha ucciso; e quando la collera più leggera, un primo moto d'impazienza apparirà sul tuo volto; ella crederà di scorgervi le prime tracce dell'omicidio.
No Fermo; vedi: è notte; io già son colpevole di avere indugiato a tornare al convento; ma io non mi parto di qui se tu non mi giuri in faccia a quella Vergine» (e accennò una immagine attaccata al muro della stanza) «di aver deposto ogni pensiero di vendetta».
«Io per lei ho tutta la stima, ma colui...»
«Ti parlo io per me? Che hai tu a perdonarmi? A colui, sì a colui tu devi perdonare.
Io te l'ho detto, e tu non hai più scusa: la maledizione del cielo cadrebbe sopra di te.
Tu sei giovane e più robusto di me, ma se tu non vuoi gettare a terra un vecchio che non ti ha fatto mai del male, tu non uscirai di qui prima d'aver fatto quel giuramento».
Fermo esitava; Agnese stava attonita ed in aspettazione colla bocca aperta.
«Ebbene Fermo» disse Lucia, come costretta, ed in modo che il Padre non intendesse tutto il senso delle sue parole: «fate quel che vi dice quest'uomo del Signore, ed io vi prometto che io farò tutto quello che si potrà, tutto quello che vorrete perch'io possa esser vostra moglie».
«Lo giuro», disse Fermo.
«Chiama in testimonio quella Vergine», disse il Padre Cristoforo, «che tu non attenterai alla vita del tuo nemico, che tu farai tutto per evitarlo».
«Così la Vergine non mi abbandoni», disse Fermo, commosso, ma risoluto.
«E non ti abbandonerà»; rispose il Padre gettandogli le braccia al collo.
«Addio: ricordatevi del garzoncello.
Dio sia con voi».
Lucia lo salutò piangendo.
«Padre, padre», gridò Agnese, trattenendolo, «quanto sono mortificata che in grazia nostra Ella torni così tardi al convento».
Il Padre Cristoforo pensò che il miglior modo di corrispondere a questo complimento era di non perder tempo in altre parole, e partì.
«Me lo avete promesso», disse Fermo a Lucia.
«Ve l'ho promesso e lo manterrò»: rispose Lucia colle lagrime agli occhi, «ma vedete, come me lo avete fatto promettere.
Dio non voglia...»
«Perché volete farmi un tristo augurio, Lucia? Dio sa che non facciamo torto a nessuno».
Agnese voleva riparlare della spedizione, e pigliare i concerti, ma Lucia pregò che tutto si rimettesse all'indomani, e Fermo partì agitato lasciando le donne più agitate di lui.
Intanto il Padre Cristoforo, benché fiaccato e frollo delle corse, dei disagi, delle inquietudini, e delle parlate di quel giorno, aveva presa correndo la via per giungere al più presto al convento; e andava saltelloni giù per quel viottolo sassoso torto, e reso ancor più difficile dalla oscurità; andava il povero frate, parte ruminando gli accidenti della giornata, e quello che poteva soprastare, parte pensando all'accoglienza che riceverebbe al convento giungendovi a notte già fitta.
Vi giunse pur finalmente, mezzo sconquassato, e toccò modestamente il campanello, aspettando quel che Dio fosse per mandare.
Il frate portinajo aperse, e accolse il nostro figliuol prodigo con quel maladetto misto di sussiego, di soddisfazione, di clemenza, di commiserazione e di mistero, che gli uomini (tranne l'uno per milione) mostrano sempre in faccia di colui che per qualche suo fallo o anche per qualche sventura sembra loro stare in cattivi panni.
«Il Padre Guardiano le vuol parlare», disse costui al nostro amico, il quale seguì la sua scorta pei lunghi corridoj e per le scale, rassegnato a toccare una buona gridata e in angustia di ricevere una penitenza la quale gl'impedisse di potere all'indomani trovarsi col servo di Don Rodrigo e fare per gl'innocenti suoi protetti ciò che il caso avesse richiesto.
Giunto alla cella del guardiano, bussò sommessamente, e vista la faccia seria del guardiano, si pose le mani al petto, curvò la persona, chinò la testa sul petto e disse: «Padre son balordo».
Era questa, chi nol sapesse, la formola usata dai cappuccini per confessarsi in colpa al loro superiore.
Bisogna sapere che il guardiano era contento in fondo del cuore che il Padre Cristoforo avesse commesso un mancamento.
Un lettore di otto anni potrebbe qui domandare, perché faceva il volto serio, se era contento; e gli si risponderebbe, che appunto era contento perché il Padre Cristoforo gli aveva dato il diritto di fargli il volto serio.
La condotta del nostro amico era tanto irreprensibile che il guardiano non aveva mai avuto occasione di far uso sopra lui della sua autorità, voglio dire della autorità di riprendere e di punire, e alla prima occasione che ne aveva, gli pareva di esser daddovero il padre guardiano.
In oltre il Padre Cristoforo, senza fare il dottore, senza disputare, dava però a divedere chiaramente di non approvare alcuni tratti della condotta e della politica dei suoi confratelli e del suo capo, e più d'una volta aveva ricusato di operare di concerto con gli altri; biasimandoli così indirettamente, ma chiaramente: dal che veniva che i frati e il guardiano avevano per lui più rispetto che amore.
E il rispetto veniva in parte anche dalla fama di santo che il padre Cristoforo aveva al di fuori; e che apportava al convento onore e limosine.
Non è quindi da stupirsi se il guardiano si dilettasse nel vedersi davanti balordo quel padre Cristoforo, e gustasse a lenti sorsi l'umiliazione di lui, e il sentimento della propria autorità.
«È questa l'ora», diss'egli gravemente, «di ritornare al convento?»
«Padre, confesso che dovrei esser rientrato da molto tempo».
«E perché vi siete dunque tanto indugiato? perché avete violata una regola che conoscete così bene?»
«Fui trattenuto da un'opera di misericordia».
Il guardiano sapeva che il reo era incapace di mentire; e vide tosto che se avesse voluto andar più ricercando, avrebbe facilmente fatto rivelare al padre Cristoforo cose che tornerebbero in suo onore: onde gli parve meglio fargli una ammonizione generale sul fallo di cui si era riconosciuto colpevole.
Gli disse che preporre le opere volontarie di misericordia all'obbedienza era segno di orgoglio, e di amore alla propria volontà: che non era bene quel bene che non è fatto secondo le regole: che bisogna prima fare il dovere, e poi attendere alle opere di surerogazione; e altre cose di questo genere.
Aggiunse poi che egli, padre Cristoforo balordo, doveva conoscere di quanta importanza fosse la regola da lui infranta, e per la disciplina, e per evitare ogni scandalo; ma che per l'età sua, e per esser questo il primo suo fallo contro la regola, e perché si teneva certo che non v'era altro che la violazione della regola, si contentava per questa volta ch'egli prima di coricarsi recitasse un miserere colle braccia alzate; e così lo congedò, e si gittò sul duro suo pagliaccio; più soddisfatto però che se si fosse posto sul letto il più delicato: poiché non è da dire quanta consolazione si senta nel far fare agli altri il loro dovere, e nel riprenderli quando se ne allontanano.
Questa fu la mercede che il nostro padre Cristoforo ebbe della sua giornata spesa come abbiam detto.
Tristo chi ne aspetta altre in questo mondo.
Egli recitò il suo buon miserere, e lo concluse dicendo: «Dio, fate misericordia a me, e a quel poveretto che io...
toccate il cuore di Don Rodrigo, tenete la mano in testa al povero Fermo, salvate Lucia, e benedite il Padre guardiano.
Abbiate pietà dei peccatori, dei penitenti, dei giusti, dei fedeli, e degli infedeli, degli oppressi e degli oppressori, dei cappuccini, dei zoccolanti, e di tutti i regolari, di tutti gli ecclesiastici e di tutti i laici, dei popoli e dei principi, dei carcerati, dei giudici, dei banditi, dei ladri, dei birri, delle vedove, dei pupilli, dei bravi, dei zingari, degli indemoniati, dei vivi, e dei morti.
Così sia».
Quindi si gettò anch'egli sul suo canile, dove lo lasceremo dormire; che ne ha bisogno.
Ma i nostri tre altri personaggi passarono la notte come sono tutte le notti che precedono una giornata destinata ad una impresa scabrosa e di incerto esito.
Agnese appena levata cominciò a spiegare a Lucia tutte le parti del disegno, ad istruirla a puntino sul da farsi e da evitarsi in ogni operazione, e a combattere di nuovo le obbiezioni che Lucia aveva fatte nel giorno antecedente.
Ma Lucia ascoltò le istruzioni, promise di eseguirle, e non oppose più nulla.
Data la sua promessa, ella stimava inutile ogni parola che tornasse a mettere in questione ciò ch'era stabilito: e non è senza ragione che noi amiamo Lucia come cosa rara non dirò nel suo sesso, ma nella specie.
Del resto non è ben chiaro se nella rassegnazione di Lucia non entrasse anche un po' il pensiero ch'ella sarebbe stata di Fermo, e se, giacché l'iniquità degli uomini aveva voluto che questa si facesse come per forza, ella non era un po' contenta che forza le si facesse.
La poveretta ad ogni modo era abbattuta, piena d'incertezza, d'angoscia, e di tristi presentimenti: in quella agitazione insomma in cui pone una grande aspettazione, e che è più dolorosa che la prostrazione che nasce dopo la sventura.
Fermo non fu tardo a lasciarsi vedere, e concertò colle donne l'operazioni della giornata, prevedendo ogni contrattempo, parando ogni ostacolo, e ricominciando ad ogni tratto a descrivere la faccenda come si racconterebbe una cosa fatta.
Appena partito Fermo, Agnese andò nella casa vicina a cercare un garzoncello suo nipote, chiedendolo ai parenti per quel giorno per fare un servizio.
Quando l'ebbe ottenuto, lo introdusse nella sua cucina, gli diede da colazione, e gl'impose che ne andasse a Pescarenico, e si stesse un po' in Chiesa, un po' sulla piazza del convento, ma sempre in vicinanza, aspettando che il Padre Cristoforo lo venisse a chiamare.
«Il Padre Cristoforo, quel bel vecchio: tu sai: colla barba bianca: quel che chiamano il santo...»
«Ho capito», disse Menico: «quel che accarezza sempre i ragazzi, e che dà spesso qualche immagine».
«Appunto Menico: tu lo aspetterai, come t'ho detto: ma non ti sviare, ve': bada di non andare cogli altri ragazzi al lago a far saltellare i ciottolini nell'acqua, né a veder pescare, né a giuocare colle reti appese al muro ad asciugare, né...»
«No no, medina mia: non sono poi un ragazzo».
«Bene, abbi giudizio, e quando tornerai vedi, queste due belle parpagliole nuove sono per te».
«Datemele ora, che...»
«No no, tu le giuocheresti.
Va' e portati bene che avrai anche di più».
Nel rimanente di quella lunga mattina, accaddero alcune cose che posero in sospetto ed in agitazione l'animo già conturbato delle donne.
Un mendico più rubesto e di più florido viso che non fossero per l'ordinario i suoi confratelli, con qualche cosa di coperto e di sinistro nell'aspetto, entrò a domandare per Dio, gettando gli occhi qua e là come per ispiare.
Quand'ebbe ricevuto un pezzo di pane, lo ripose con molta indifferenza lasciando quasi travedere che quello non era il suo fine principale.
Si trattenne anzi con una certa impudenza e nello stesso tempo con esitazione, facendo molte inchieste, alle quali Agnese si affrettò di rispondere sempre il contrario di quello che era; e finalmente, congedato se ne andò.
Di tempo in tempo poi passavano figure sospette, come di bravi travestiti, di servi oziosi, di contadini che girandolavano, e giunti dinanzi alla porta allentavano il passo, e sogguardavano nella stanza, come chi vuol guatare, e non dar sospetto.
Le donne socchiusero la porta, per togliersi da questa persecuzione che dava loro molto da pensare.
Ma questa precauzione fu causa che il sospetto divenisse più serio e più nojoso: perché avendo Agnese un tratto visto che tra le due imposte socchiuse s'era fatto un po' di spiraglio, guatò più attentamente, e vide attraverso la picciola fessura un uomo che stava adocchiando nella stanza: ella si alzò, e l'uomo sparì.
Finalmente all'ora del pranzo la persecuzione cessò.
Agnese rincorata non udendo più pedate sospette, si alzava di tempo in tempo, si metteva sull'uscio, guardava nella via, a dritta e sinistra; e non vide più nulla che le desse da pensare.
Nullameno ne rimase alle donne, e particolarmente alla timidetta Lucia, una perturbazione indeterminata, che le tolse una gran parte della risoluzione di che ella aveva bisogno in una tale giornata.
Alle ventitrè ore tornò Fermo, come era stato convenuto, e disse: «Tonio e Gervaso son qua fuori, noi andiamo all'osteria a cenare, come siamo intesi, e al tocco dell'avemmaria, verremo a prendervi.
Coraggio, Lucia, tutto dipende da un momento».
Lucia sospirò, e rispose: «oh sì, coraggio»: con una voce che smentiva la parola.
Fermo e i due suoi compagnoni trovarono questa volta l'osteria più popolata.
Sul limitare stesso, colla schiena appoggiata ad uno stipite, colle mani sotto le ascelle, coll'occhio teso, e con una faccia tra l'annojato e l'agguatante, stavasi un uomo, che non aveva cera né di contadino, né di viaggiatore, né di benestante; non pareva uno sfaccendato, ma non si sarebbe potuto immaginare che faccenda egli s'avesse.
Un uomo più sperimentato di Fermo, guardandolo attentamente l'avrebbe detto un servo travestito.
Questi non si mosse, e mirò fisamente Fermo, il quale si torse entrando per fianco nella picciola apertura lasciata da quella cariatide.
I suoi compagni l'imitarono se vollero entrare.
Ad un deschetto stavano seduti due facce di scherani, giuocando alla mora, gridando quindi tutti e due ad un fiato come si farebbe in una controversia fra due dotti: fra i due giuocatori stava un gran fiasco di vino dal quale andavano essi versando a vicenda.
Questi pure adocchiarono Fermo con una curiosità molto significante.
Finalmente ad un altro desco erano tre vestiti da contadini, ma con un contegno che indicava abitudini più guerresche che casalinghe.
E questi pure gli occhi addosso a Fermo: quindi occhiate da un crocchio all'altro, dai crocchj alla porta.
Fermo insospettito, e incerto guardava ai suoi due compagni come se volesse cercare nei loro aspetti una interpretazione di questo mistero: ma quelli non indicavano altro che un buon appetito.
L'ostiere stava aspettando gli ordini dei sopravvenuti, Fermo lo fece venire con sè in una stanza vicina; e comandò da cena.
«Chi sono quei forastieri?» chiese Fermo a voce bassa all'ostiere che stava stendendo sul desco una tovaglia grossolana.
«Chi sono? Che m'importa chi essi sieno?» rispose l'ostiere.
«Non sapete che la prima regola del nostro mestiere è di non impacciarsi dei fatti altrui? Tanto è vero che fino le nostre donne non son curiose.
Quel che ci preme si è che quelli che frequentano la nostra casa sieno galantuomini; come sono certamente questi di cui mi chiedete».
«Ma se non li conoscete, come sapete che sieno galantuomini?»
«Le azioni, caro mio: l'uomo si conosce alle azioni.
Quegli che bevono il vino e non lo criticano, che mostrano sul banco la faccia del re, senza taccolare, e che non fanno questioni con gli altri avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo aspettano fuori e lontano dall'osteria per non far torto, quelli sono i galantuomini».
Fermo non ne potè cavar altro: la cena fu servita, ma l'umore diverso dei convitati fe' sì ch'ella non fosse molto lieta.
I due fratelli avrebbero voluto assaporarne tranquillamente e prolungarne le delizie; e a Fermo parevano mill'anni di uscirne, e per andare a fare il fatto suo, e perché la presenza e gli sguardi di tutti quegli ospiti gli avevano posta addosso, o per dir meglio, cresciuta l'inquietudine.
«Che bella cosa», disse Gervaso, «che Fermo voglia pigliar moglie, e abbia bisogno...»
«Zitto, zitto», disse tosto Fermo, «per amor del cielo».
La cena divenne somigliante ad un pranzo diplomatico; e ci crediamo dispensati dal farne la descrizione.
Diremo soltanto che Fermo, osservando per sè una rigida sobrietà, largheggiò nel mescere ai suoi convitati, per metter loro addosso del coraggio per ogni evento.
Terminata la cena dovettero i tre compagni passare un'altra volta dinanzi a quelle facce sconosciute, le quali tutte si rivolsero a Fermo come la prima volta.
Quand'egli ebbe fatti pochi passi fuori dell'osteria, si volse addietro, e vide che due lo seguivano: sostette allora coi suoi compagni, piantando gli occhi in faccia a quelle ombre, come se dicesse: - vediamo che cosa vogliono da me costoro.
- Ma i due quando s'accorsero che Fermo si era accorto di essi si fermarono un momento, si parlarono sotto voce, e tornarono indietro.
Se Fermo fosse stato tanto presso da intendere le loro parole, avrebbe inteso che uno di essi diceva al compagno: «s'è addato di qualche cosa: torniamocene per non guastar tutto: è troppo per tempo: non vedi che il paese è pieno di gente? lasciamoli andare tutti al nido».
V'era infatti quel movimento, quell'andare e venire, quel trambusto che si sente in un villaggio al cader della sera, e che dopo pochi momenti dà luogo alla quiete solenne della notte.
Le donne venivano dal campo portandosi in collo i bambini, e traendo per mano i figliuoletti più adulti, ai quali facevano ripetere le preghiere della sera: giungevano gli uomini colle vanghe e colle zappe sulle spalle, si vedevano qua e là fuochi accesi per le povere cene: si udivano saluti di quelli che s'incontravano, e colloqui brevi e tristi sulla scarsezza del ricolto e sulle sventure di quell'anno tristissimo.
Frattanto, si udiva il tocco misurato e solenne della squilla che annunziava la fine della giornata.
Quando Fermo vide che i due indiscreti s'erano ritirati, continuò la sua strada fra le tenebre crescenti, ripetendo a bassa voce ai fratelli gli avvertimenti sul modo di condurre a buon termine l'impresa.
Quando giunsero alla casetta di Lucia, era notte fatta.
Fra il primo concetto di una impresa terribile e l'adempimento, ha detto un barbaro che non era privo d'ingegno, l'intervallo è un sogno pieno di fantasmi, e di paure.
La povera Lucia era da molte ore nelle angosce di questo sogno: Agnese, la stessa Agnese così risoluta, e disposta all'operare, era sopra pensiero, e trovava a stento le parole per rincorare la poveretta.
Ma al momento in cui l'azione comincia, e l'animo che fino allora tollerava i pensieri che gli passavano sopra, cacciandosi a vicenda, e tornando, è costretto a comandare una risoluzione e a dirigere le azioni del corpo, allora egli si trova tutto trasformato: al terrore e al coraggio che lo agitavano succede un altro terrore, e un altro coraggio: l'impresa si affaccia alla mente come una apparizione nuova, inaspettata, si scoprono mezzi e ostacoli non pensati: ciò che sembrava più difficile si trova talvolta fatto quasi da sè, l'immaginazione si ferma spaventata, le membra niegano il loro uficio ad un passo che era sembrato il più agevole: il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza.
Un matrimonio clandestino era per Lucia Zarella quello che l'uccisione di un dittatore per Marco Bruto.
Quando s'intese bussare sommessamente alla porta, Lucia fu presa da tanto terrore, che risolvette in quel momento di soffrire ogni cosa, di esser sempre divisa da Fermo piuttosto che eseguire la risoluzione presa; ma quando Fermo entrato disse: «son qui, andiamo»; quando tutti si mostrarono pronti ad avviarsi senza esitazione, come a cosa già determinata, Lucia non ebbe spazio né cuore di far contrasto e come strascinata, prese tremando un braccio della madre, e un braccio di Fermo, e s'avviò senza far motto colla brigata avventurosa.
Zitti, zitti, nelle tenebre, a passo misurato, giunsero in vicinanza della casa del nostro Don Abbondio il quale era ben lontano, pover'uomo! dal pensare che una tanta burasca si addensasse sul suo capo.
Qui si separarono come erano convenuti: Lucia, Agnese e Fermo presero per un viottolo tortuoso che girava attorno all'orto del curato, e sdrucciolando poi sommessamente dietro il muro di fianco della casa vennero a porsi presso all'angolo di essa, Fermo e Lucia per trovarsi nel luogo più vicino alla porta ed entrare quando il destro verrebbe, Agnese per uscire ad incontrare Perpetua nel momento opportuno.
Toni destro col disutilaccio di Gervaso che non sapeva far nulla da sè, e senza il quale non si poteva far nulla, si affacciarono bravamente alla porta e toccarono il martello.
«Chi è, a quest'ora?» gridò una voce alla finestra che si aperse in quel momento: era la voce di Perpetua.
«Malati non ce n'è: dovrei saperlo: è forse accaduta qualche disgrazia?»
«Son'io», rispose Tonio, «con mio fratello, che abbiamo bisogno di parlare col signor curato».
«È ora da cristiani questa?» rispose agramente Perpetua: «che discrezione? tornate domani».
«Sentite: tornerò o non tornerò: mi trovavo alcuni pochi soldi ed ero venuto per pagare al signor curato quel debituccio che sapete: ma se non si può aspetterò un'altra occasione, questi so come spenderli, e verrò quando ne abbia guadagnati degli altri».
«Aspettate, aspettate: vado e torno: ma perché venire a quest'ora?»
«Se l'ora potete cangiarla, io non m'oppongo: per me son qui; e se non mi volete, me ne vado».
«No no: aspettate un momento; torno con la risposta».
Così dicendo richiuse la finestra: a questo punto Agnese si spiccò dai promessi, e detto sotto voce a Lucia: «coraggio: è un momento; come a far cavare un dente», venne a porsi dinanzi la fronte della casa, aspettando che Perpetua aprisse per far vista di passare.
Perpetua venne infatti tostamente, aperse la porta, e disse: «dove siete?» Quando i due fratelli si mostravano, Agnese passò dinanzi a loro, e salutò Perpetua fermandosi un momento sui due piedi.
«Buona sera, Agnese», disse Perpetua, «donde a quest'ora?»
«Vengo dalla filanda», rispose Agnese, «e se sapeste...
mi sono indugiata appunto in grazia vostra».
«Oh perché?» rispose Perpetua: indi rivolta ai due fratelli: «entrate», disse, «ed aspettate che vengo anch'io».
Quegli entrarono.
«Perché», ripigliò Agnese, «una donna, pettegola! non sanno le cose e voglion parlare...
credereste? si ostinava a dire che non vi siete sposata con Beppo perch'egli non vi ha voluto.
Io sosteneva che voi l'avete rifiutato...»
«Certo sono stata io, ma chi è costei?»
«Questo non fa...
ma non potete credere quanto mi sia spiaciuto di non saper ben bene tutta la storia per confonder colei».
«Bugiarda, bugiarda», disse Perpetua.
«È una bugiarderia, la più nera.
Sentite, come andò la faccenda: e ho testimonj, vedete.
Ehi, Tonio, socchiudete la porta, e salite pure ch'io verrò poi».
Tonio rispose di dentro che sì.
Perpetua cominciò la sua storia, e Agnese si avviò passo passo verso l'angolo della casa opposto a quello dietro cui erano in agguato i due giovani, e quando pur passo passo vi fu giunta, lo voltò seguita da Perpetua: e voltatolo tossì per dar segno.
Il segno fu inteso, e Fermo traendo Lucia la quale correva come un leprotto inseguito, in punta di piè vennero fino alla porta, l'aprirono delicatamente e si trovarono nel vestibolo coi due fratelli che gli stavano aspettando.
Chiusero sommessamente il chiavistello per di dentro e salirono insieme, mentre Agnese moltiplicava le inchieste per trattenere la fante.
I quattro congiurati tutti diversamente commossi ascesero le scale, e posati che furono sul pianerottolo: Toni disse ad alta voce: «Deo gratias», ed entrò col fratello, mentre Don Abbondio che gli aspettava rispose: «Avanti».
Fermo e Lucia ristettero dietro la porta: senza moversi, senza alitare: l'orecchio il più fino non avrebbe potuto ivi intender altro che il battito del cuore di Lucia.
Toni entrato socchiuse la porta dietro di sè.
Don Abbondio convalescente della febbre, e non guarito della paura stava seduto su un vecchio seggiolone, ravvolto in una vecchia zimarra, coperto il capo d'un vecchio camauro, sotto il quale si vedeva uno sguardo sospettoso e teso, un lungo naso, e fra due guance pendenti una bocca quale ognuno l'ha dopo d'aver sorbita una ostica medicina.
Aveva dinanzi a sè una vecchia tavola e sulla tavola una picciola lucerna che mandava una luce scarsa sulla tavola e sui dintorni, e lasciava il resto nelle tenebre.
Presso alla lucerna era il breviale, e aperto dinanzi a Don Abbondio il Quaresimale....
«Ah! ah!» fu il saluto di Don Abbondio.
«Il signor Curato dirà che siamo venuti tardi», disse Toni inchinandosi, come pure fece più goffamente Gervaso.
«Venite tardi in tutti i modi», rispose Don Abbondio.
«Basta, vediamo».
«Sono venticinque buone lire di quelle con Sant'Ambrogio a cavallo», disse Toni cavando un gruppetto di tasca.
«Vediamo», replicò il curato: le prese, le volse e le rivolse e le numerò, e furono trovate irreprensibili.
«Ora signor curato mi darà gli orecchini e la collana della mia povera Tecla».
«È giusto» rispose don Abbondio; e andò ad un armadio e cacciata una chiave, guardandosi intorno come per tener lontani gli spettatori, aperse una parte d'imposta, riempì l'apertura colla persona, introdusse la testa per guardare e un braccio per ritirare il pegno; lo ritirò, chiuse l'armadio, svolse la carta dov'era il pegno, e guardatolo, «c'è tutto?» disse, indi lo consegnò a Toni.
«Ora», disse Toni, «mi favorisca di una riga di quitanza».
«Non vi fidate?» rispose bruscamente Don Abbondio.
«Ecco volete darmi anche quest'incomodo».
«Che dice ella mai? S'io mi fido, Signor Curato: ma dalla vita alla morte...»
«Bene, bene, come volete.
Oh che seccatura! Bisognerà ch'io ponga inchiostro nel calamajo.
Perpetua, dov'è costei? Perpetua!»
«Perpetua era da basso, tutta affacendata a prepararle da cena: la lasci stare, Signor Curato: cerchi il calamajo che farà più presto».
Così brontolando tirò un cassettino del tavolo, ne tolse carta, penna e calamajo, e si pose a scrivere, dettandosi col capo sulla carta ad alta voce la composizione.
Frattanto Toni, e Gervaso com'era convenuto si posero dinanzi allo scrittore in modo da togliergli la veduta della porta; e come per ozio andavano soffregando coi piedi il pavimento, per dar agio ai di fuori di venire avanti senza essere intesi.
Don Abbondio tutto nella sua quitanza non badava ad altro.
Al fruscio dei quattro piedi che era il segno convenuto, Fermo strinse la mano di Lucia per darle risoluzione, la pigliò con sè, e pian piano entrarono nella porta, Lucia più morta che viva, e si collocarono dietro i due fratelli.
Don Abbondio finito ch'ebbe di scrivere rilesse attentamente, da sè, quindi fatta lettura ad alta voce, e prima di alzare gli occhi dalla carta: «sarete contento?» disse, e preso il foglio lo porse a Toni.
Toni allungando la mano per pigliarlo, si ritirò da una parte, Gervaso dall'altra, e i due sposi apparvero in mezzo come all'alzare d'un sipario.
Don Abbondio intravvide, vide, si spaventò, si stupì, s'infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Fermo impiegò a proferire le parole magiche: «Signor curato, in presenza di questi testimonj, questa è mia moglie».
Le labbra di Fermo non erano ancor tornate in riposo, che Don Abbondio aveva già lasciata cadere la quitanza, fatto un salto, afferrata colla manca e sollevata la lucerna, e tirato colla destra a sè un tappeto che copriva il tavolo, gettando a terra il breviale e il quaresimale, e balzando tra la seggiola e il tavolo s'era avvicinato a Lucia; la poveretta con quella sua dolce voce tremante aveva appena potuto dire: «e questo...» che Don Abbondio gli aveva gettato scortesemente il tappeto sulla testa e sul volto e tenendoglielo colle mani ravvolto e stretto sulla bocca perch'ella non potesse proseguire, gridava a testa come un toro ferito: «tradimento! tradimento! ajuto! ajuto!» Il lucignolo della lucerna che Don Abbondio aveva lasciata cadere a terra, si moriva mandando un ultimo chiarore, e la povera Lucia appoggiata a Fermo, coperta così di quel ruvido velo pareva una statua sbozzata in creta, cui un rozzo fattore dell'artefice copre, da testa, con un umido panno.
Cessata ogni luce Don Abbondio lasciò la poveretta la quale già per sè non avrebbe più potuto proseguire, e pratico com'era del luogo, trovò tosto a tentone la porta della stanza vicina, v'entrò, vi si chiuse, e continuò a gridare: «tradimento! Perpetua! accorr'uomo! gente in casa! clandestino: tre anni di sospensione! una schioppettata! fuori di questa casa! fuori di questa casa! Perpetua! dov'è costei!» Nella stanza tutto era confusione: Fermo, inseguendo come poteva il curato, aveva trascinata con sè Lucia alla porta, e bussava gridando: «apra apra, non faccia schiamazzo: apra, o la vedremo»: Toni curvo a terra, girava le mani sul pavimento per trovare la sua quitanza, e Gervaso spiritato gridava, e andava cercando la porta della scala per porsi in salvo.
In mezzo a questo serra serra, non possiamo a meno di fermarci un istante per fare una riflessione.
Fermo il quale strepitava in casa altrui, che vi s'era introdotto frodolentemente, che assediava il padrone in una stanza, pare un soperchiatore, un torbido; e pure gli era un poveretto a cui si negava la ragione la più limpida, la più sacra.
Don Abbondio impaurito, minacciato mentre tranquillamente attendeva ai fatti suoi pare l'oppresso, la vittima, l'uomo onesto, e pure era egli in realtà il soperchiatore.
Così va il mondo; o...
voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.
Don Abbondio, vedendo che il nimico non voleva sgomberare, si fece ad una finestra che dava sul sagrato, a gridare accorr'uomo.
Batteva la più bella luna del mondo, e l'ombra della chiesa e del campanile si disegnava sulle erbe lucenti del sagrato: per quell'ombra veniva tranquillamente con un gran mazzo di chiavi pendente alla mano il sagrista, il quale dopo suonata l'avemaria era rimasto a scopare la chiesa e a governare gli arredi dell'altare.
«Lorenzo!» gridò il curato, «accorrete, gente in casa! ajuto».
Lorenzo si sbigottì, ma con quella rapidità d'ingegno che danno i casi urgenti, pensò tosto al modo di dare al curato più soccorso ch'egli non chiedeva, e di farlo senza suo rischio.
Corse indietro alla porta della chiesa, scelse nel mazzo la grossissima chiave, aperse, entrò, andò difilato al campanile, prese la corda della più grossa campana, e tirò a martello.
CAPITOLO VIII
LA FUGA
- Ton, ton, ton, ton, - i contadini appena corcati balzano a sedere sul letto: - che è? che è? La campana: fuoco? banditi? - Le donne pregano e consigliano i mariti di non si muovere, di lasciar correre gli altri: gli uomini si alzano dicendo: - vado soltanto alla finestra -: i garzoni caccian la testa dal fenile: i più curiosi e bravi sono già nella via colle forche e coi fucili: altri gl'imitano, e i poltroni come se si lasciassero vincere dalle preghiere ritornano al covile.
Frattanto Perpetua che nelle ciarle s'era dimenticata di se stessa, ma che noi non abbiamo dimenticata, aveva inteso come un romore, un gridio, e aveva interrotto il discorso per avviarsi verso casa, cercando invano di rattenerla Agnese, la quale pure stava sulla corda non vedendo tornare nessuno; e all'udire quel gridìo fu pure presa da una grande inquietudine.
Ma quando la campana a martello si fece udire, corsero entrambe verso la porta.
Toni aveva finalmente ricolta la quitanza, e pigliando a tentone Gervaso nelle tenebre, aveva pigliata la porta e scendeva saltelloni dalla scala: Lucia pregava fievolmente Fermo di cavarla da quella caverna; e quando egli udì quel tocco funesto gli parve pure mill'anni d'esserne fuori, e trovò la porta come gli altri.
Perpetua correndo affannata con Agnese, si abbattè in Toni e il fratello che uscivano, e gli assalì d'inchieste alle quali essi non dierono risposta, ed usciti nella via, s'avviarono a casa.
Per buona sorte Fermo e Lucia usciti nella via, presero la strada opposta a quella donde veniva Perpetua, ed ella entrò a furia in casa senza vederli, e vi si chiuse.
Agnese che guardando fiso gli aveva visti uscire, gli raggiunse, e tutti e tre voltarono in fretta, in silenzio, palpitando, il canto, e s'avviarono pure verso casa.
Intanto la gente traeva da tutte le parti alla chiesa: già i più lesti erano entrati nel campanile e avevano inteso da Lorenzo che la gente era in casa del curato.
Ma guardando al di fuori videro le porte chiuse, e tutto quieto: taluni però osservando più per minuto s'accorsero che una finestra era appena socchiusa e intravvidero per lo spiraglio la faccia lunga di Don Abbondio, il quale avendo sentita sgombrata la stanza vicina, e conoscendo cessato il pericolo, cominciava ad essere inquieto e malcontento del troppo soccorso.
«Che cosa è stato?» domandò uno degli accorsi: «Sono fuggiti», rispose il curato, «tornate a casa, vi ringrazio».
«Fuggiti, chi?» «Cattiva gente, cattiva gente, tornate a casa, non c'è più niente».
Qui cominciarono risa di alcuni, rimbrotti di alcuni altri, domande dei sopravvegnenti, discorsi d'ogni genere.
Lorenzo lasciata finalmente la corda uscì dalla Chiesa, e si pose in mezzo ai crocchj a render ragione dell'aver così messo a soqquadro tutto il paese.
Ma in mezzo ai paesani si videro passare in ordine di battaglia alcuni armati e di sinistro aspetto: erano gli amici che abbiam già veduti all'osteria.
A quelli che li vedevano nasceva sospetto che fossero banditi, e che per cagion loro si fosse suonato a stormo: chi si ritirava, chi si univa in crocchio, e già da molti si parlamentava del partito da prendersi.
Ma siccome coloro passavano senza molestare nessuno, e ad ogn'uomo che vedevano parevan dire: - tu non sei quello -, così nessuno volle gittare la prima pietra, e a poco a poco la folla svanì, ognuno si ritirò a casa, e Don Abbondio si rimase a schiamazzare con Perpetua.
Ma i tre personaggi che c'interessano nascondendosi quanto potevano, non rispondendo alle inchieste e fuggendo la folla erano sulla via che conduceva alla casa di Lucia; quando un garzoncello che andava guardando attentamente tutti quelli che passavano, al vederli, mise un sospiro che pareva volesse dire: - gli ho trovati una volta -; si pose dinanzi a loro, pigliò Agnese pel lembo della veste, e disse con voce bassa e affannata: «Tornate indietro per amor del cielo!» Era Menico, e fu tosto riconosciuto.
«Perché?» dissero tutti e tre.
«Indietro, indietro, vi dico non tornate a casa, venite al convento; così mi ha detto il padre Cristoforo».
La proposta parve a tutti strana, e in altri momenti udendola da un Menico non vi avrebbero posto mente; ma nei momenti di confusione e di paura, tutti i consigli pajono buoni.
Quelli ristettero: ma Menico continuava: «Venite con me pei viottoli, vi condurrò io, usciamo di qui, vi dirò tutto per istrada».
«Ma la casa...» disse Agnese.
«Niente niente, venite con me, lo ha detto il Padre Cristoforo: Dio vi liberi dal tornare a casa».
Essi seguirono il ragazzo, il quale in quel punto era più presente a sè che essi non fossero, ed entrati per una callajetta presero un viottolo, il quale, chi non si fosse curato di strada comoda, poteva condurre al convento.
Quantunque il lettore possa aver facilmente indovinato quale fosse il novo pericolo di Lucia, e donde il buon Frate ne avesse avuto l'avviso, pure è dovere dello storico il raccontare per esteso tutta la faccenda.
Per procedere ordinatamente è mestieri tornare a Don Rodrigo che abbiamo lasciato solo, avendo noi preferito di accompagnare il Padre Cristoforo.
Don Rodrigo, come abbiam detto passeggiava a gran passi per la sala, le pareti della quale come ora diciamo erano coperte da grandi ritratti di famiglia.
Quando Don Rodrigo si voltava ad un capo della sala, si mirava in faccia un suo antenato guerriero, terrore dei nemici, colle gambiere, colla corazza, coi bracciali, coi guanti, col cimiero di ferro, avente la mano manca posta sul fianco e la destra sullo spadone a foggia di bastone.
Quando Don Rodrigo era sotto a questo antenato, e voltava, ecco in faccia un altro antenato, magistrato, terrore dei litiganti, seduto sur un'alta seggiola di velluto, con una lunga toga nera, tutto nero fuorché un collare con due ampie facciuole: aveva una faccia squallida, due ciglia aggrottate, teneva in mano una supplica, e pareva dicesse: - vedremo -: di qua una matrona terrore delle sue damigelle, di là un abate terrore dei monaci, tutta gente insomma che spirava terrore.
In presenza di queste memorie, tanto più si rodeva Don Rodrigo che un frate avesse osato prender con lui il tuono di Nathan, e ammonirlo, anzi minacciarlo.
Formava un disegno di vendetta, lo abbandonava, pensava come soddisfare ad un tempo alla passione e all'onore; e talvolta, sentendosi fischiare agli orecchi quella profezia incominciata, rabbrividiva, e quasi stava per deporre il pensiero di soddisfarsi.
Finalmente, per fare qualche cosa, chiamò un servo, e ordinò che facesse le sue scuse alla brigata, dicendo ch'egli era trattenuto da un affare urgente.
Quando il servo tornò a riferire che quei signori erano partiti lasciando i più umili ossequj e i più vivi ringraziamenti: «E il conte Attilio?» domandò, sempre passeggiando, don Rodrigo.
«È uscito con quei signori».
«Bene: sei persone di seguito pel passeggio: la mia spada; il cappello; il pugnale di gala».
Il servo partì facendo un inchino, e Don Rodrigo, salì nella sua stanza, si cinse una ricca spada, depose il pugnale che aveva in cintura, e ne prese uno di gala col fodero a rilievi d'oro, e con un bel diamante sul pomo, si gettò la cappa sulle spalle, si coperse col cappello a grandi piume, e colla palma lo inchiodò sul capo; e si dispose ad uscire.
A dir vero, egli non andava né per faccenda né per diporto; ma sentiva un bisogno indistinto e confuso di uscire in gran pompa, di circondarsi della sua forza per mostrare agli altri ed a sè stesso ch'egli era pur sempre quel Don Rodrigo.
Al piede della scala trovò i sei seguaci tutti armati, i quali fatta ala ed inchino, gli tennero dietro.
Più burbero, più superbioso, più accigliato del solito uscì egli e si pose a camminare verso Lecco ricevendo inchini profondi, simili a genuflessioni dai contadini in cui s'abbatteva: i bravi che lo seguivano non avrebbero lasciato di punire il contegno poco ossequioso d'uno smemorato, o d'un temerario.
Don Rodrigo rispondeva con una leggera mossa di capo.
I signorotti pure facevano riverenza a colui che, senza contrasto, era il più potente di loro, e Don Rodrigo corrispondeva con una degnazione contegnosa.
Quando però Don Rodrigo s'incontrava nel signor Castellano spagnuolo, l'inchino allora era egualmente profondo dall'una e dall'altra parte; si vedevano come due potentati i quali non hanno fra loro nessuna relazione né di pace né di guerra, ma che per convenienza fanno onore al grado l'uno dell'altro.
Dopo aver passeggiato, Don Rodrigo si presentò in una casa dove si teneva brigata, e dove fu accolto con quella cordialità rispettosa che è riserbata a quelli che fanno paura, e finalmente a notte avanzata tornò al suo castellotto.
Il Conte Attilio era giunto da poco; e fu servita la cena, alla quale Don Rodrigo pareva ancora alquanto sopra pensiero.
Il Conte ruppe il silenzio, dicendo con aria maligna:
«Cugino, quando pagate questa scommessa?»
«Il giorno di San Martino non è venuto».
«Bene; ma tanto fa che la paghiate ora; perché passeranno tutti i santi del paradiso prima che...»
«Questo è quello che si ha da vedere».
«Cugino, voi volete nascondervi da me: ma io ho capito tutto, e tanto son certo di aver vinta la scommessa, che son pronto a farne un'altra».
«Che?...»
«Che il Padre..., il padre...
che so io? quel frate insomma vi ha convertito».
«Questa pensata è veramente una delle vostre».
«Convertito, cugino, convertito, vi dico.
Io per me ne godo: sapete che bella cosa sarebbe vedervi tutto compunto e cogli occhi bassi.
E che gloria per quel padre! Come sarà tornato a casa pettoruto! Non son mica pesci che si pigliano ogni giorno e con ogni rete.
Siate certo che vi citerà per esempio; e quando andrà a far qualche missione un po' lontano, parlerà dei fatti vostri.
Mi par di sentirlo con quella voce nel naso, predicare a questo modo: - In una parte di questo mondo, che per degni rispetti non nomino, viveva, uditori carissimi, un cavaliere dissoluto, amico più delle femine che dei servi di Dio, il quale avvezzo a far d'ogni erba fascio...»
«Basta basta», interruppe Don Rodrigo mezzo sogghignando, e mezzo arrovellato.
«Se volete raddoppiar la scommessa, io son pronto».
«Diavolo! che aveste voi convertito il padre!»
«Non mi parlate di colui: e quanto alla scommessa, aspettate san Martino».
La curiosità del Conte era stuzzicata; egli non fece risparmio d'inchieste, ma Don Rodrigo le deluse tutte, rimettendosi sempre al giorno della prova, e non si arrischiando di comunicare al suo avversario disegni che non erano ancora né incamminati, né assolutamente risoluti.
Ma quando Don Rodrigo si svegliò al mattino susseguente, di tutte le passioni che si erano combattute nel suo animo non vi rimaneva altra che il desiderio di soddisfarsi.
Quel poco di compugnimento, che il colloquio del padre Cristoforo aveva messo addosso, era svanito insieme coi sogni della notte, e la memoria stessa di averlo sentito non serviva che a raddoppiargli la stizza.
Le sensazioni posteriori a quel colloquio, il passeggio coi bravi, gl'inchini, le canzonature del Conte avevano ritornata......................................
e quei tristi credendosi scoverti, si ritirarono in buon ordine come abbiamo detto.
Ma quel buon servo che aveva già promesso al Padre Cristoforo di tenerlo avvertito, seppe quello che si tramava; trovò il modo di correre al convento, informò il Padre, il quale spedì tosto Menico, come abbiamo veduto.
I nostri tre fuggitivi camminarono qualche tempo in silenzio, dietro il loro picciolo guidatore, il quale superbo di andar così di notte, per un affare, come un uomo, superbo di essere nella brigata, quello che dava consiglio, che avvisava al da farsi, che rincorava, che aveva la mente più riposata, guardava attentamente la via, scegliendo i tratti più brevi, e i più fuor di mano, e rivolgendosi alle rivolte con aria d'importanza, a dire: «per di qua».
Avevano fatto un terzo circa della via, ed erano lontani dal paese, tanto che guardando indietro non si vedevano più i radi lumi delle lucerne che le donne sporgevano dalle finestre ponendovi la mano sopra di traverso per non esser vedute e per mandar la luce sulla via per dove tornavano a casa gli uomini a subire un interrogatorio: e nessuno dei tre aveva ancora avuto animo di comunicare agli altri i pensieri che lo agitavano: s'udiva solo di tempo in tempo Agnese sclamare: - poveri morti benedetti, ajutateci -, Lucia invocare la Vergine, e Fermo mormorare qualche esclamazione di sdegno.
Fu la prima Agnese che proferì un periodo compiuto.
«E la casa?» diss'ella: «l'abbiamo lasciata in abbandono, senza nemmeno porvi una custodia: sulla fede di questo ragazzo, che Dio sa come ha inteso».
«Come!» rispose con un poco di stizza e di albagia, Menico: «come! sentirete, sentirete or ora dal Padre Cristoforo.
Buon per voi che io vi abbia saputi trovare.
Guaj se andavate a casa: mi ha detto il Padre, che doveste uscirne subito subito, e temeva ch'io non fossi in tempo».
«Bembè sentiremo», rispose Agnese.
Ma Lucia andava stretta al braccio della madre, rifiutando dolcemente l'appoggio di Fermo, ed arrampicando la prima sui muricciuoli che avevano a superare per non essere ajutata da lui, e in mezzo a tutte le agitazioni tremando pure di trovarsi così di notte per via con lui, per quel pudore che non nasce dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora se stesso, e somiglia al sospetto del fanciullo che trema nelle tenebre senza sapere che cosa ci sia da temere.
Le parole di Agnese furono il principio d'una conversazione generale: addomesticati già un poco alla loro nuova e inaspettata situazione, si posero tutti e tre a favellar sotto voce (il che spiacque assai a Menico, al quale pareva pure di meritar fiducia dopo la sua impresa) a favellare dell'accaduto e di quello che poteva soprastare.
La povera Lucia parlò poco: e quello che me la rende più cara e più pregiata si è ch'ella non si lasciò sfuggire una parola che rinfacciasse alla madre ed a Fermo l'ostinazione loro a volerla tirare a quella impresa ch'era così mal riuscita: non proferì mai quelle parole: «l'aveva detto io».
Finalmente per viottoli di campi, e per selve senza sentiero giunsero i viaggiatori ad un torrente che dal monte chiamato Resegone scende nell'Adda e si chiama Bione, nome che invano altri cercherebbe in un dizionario geografico.
Il torrente era al di là dal convento, ma non è da dir per questo che Menico avesse fallita la strada, giacché era stato mestieri allungarla per ischifare la via comune e battuta.
Scesero alcuni passi col torrente, e quindi volgendo a diritta divennero sulla piazzetta che si apriva dinanzi al convento ed alla chiesicciuola unita a quello.
«Adesso vedrete», disse Menico sottovoce: si affacciò alla porta della chiesa, la sospinse dolcemente, e quella in fatti si aperse, e la luna, entrando per lo spiraglio illuminò la barba d'argento, e la tonaca del Padre Cristoforo, che stava ivi ritto ad aspettare.
Quando egli vide che con Menico v'erano i tre che egli dubbiosamente aspettava, disse a bassa voce: «Dio sia benedetto: siete fuori di pericolo», e gli fece entrare.
A canto del nostro Padre Cristoforo si trovava un altro cappuccino.
Era questi il laico sagrestano che egli con preghiere e con ragioni aveva determinato a vegliar con lui, a lasciare aperta la chiesa, e a starvi in sentinella per accogliere quei poveri minacciati; e non vi voleva meno dell'autorità del padre, e della sua fama di santo per condurre il laico ad una condiscendenza piena non solo d'incomodo, ma di pericolo.
Quando furono entrati: «Chiudete ora la porta senza far fracasso», disse il padre Cristoforo.
Ma il laico al quale pareva già d'aver fatto troppo, crollò la testa, e disse: «Chiudersi di notte in chiesa con donne...! mi pare...» e continuava a crollare la testa.
- Vedete un po', diceva fra sè il padre Cristoforo: se fosse un masnadiero, Fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo, e una innocente che si vuol salvare dagli artigli del lupo...
«Omnia munda mundis» disse impetuosamente volgendosi a Fra Fazio, e dimenticando che Fra Fazio non sapeva il latino.
Ma questa dimenticanza fu appunto quella che ottenne l'intento.
Se il Padre avesse voluto addurre ragioni, Fra Fazio non avrebbe mancato di ragioni da opporre, e la cosa sarebbe andata in lungo, Dio sa anche come sarebbe finita; ma quando egli udì quelle parole d'un suono così pieno e solenne, e dette così risolutamente, gli parve che in esse dovesse essere tutta la soluzione dei suoi dubbj, rispose: «Ha ragione», e volse a bell'agio la chiave nella toppa, e i nostri profughi si trovarono chiusi nel santuario in salvo da ogni pericolo.
Il Padre Cristoforo si pose ginocchioni ad orare un momento; e tutti lo imitarono: quindi levato: «Figliuoli miei», disse, «Iddio non vi vuole ancora in riposo, ma voi avete un segno della sua protezione, e un'arra ch'egli non vi abbandonerà».
E qui raccontò ai poveretti il pericolo a cui erano sfuggiti, e proseguì: «Vedete che per ora è necessario allontanarvi di qua: vi siete nati, è casa vostra, non avete fatto torto a nessuno, ma il serpente talvolta fa disertare l'uomo dalla sua dimora, e gli uomini pure si cacciano su questa terra come se vi fossero posti per divorarsi l'un altro.
È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza rancore; è il mezzo di abbreviarla e di renderla utile.
Per me siate certi che penso a voi, e che troverò più mezzi per ajutarvi che altri forse non crede.
Frattanto io ho pensato a trovarvi per qualche tempo un rifugio ove possiate starvi in sicuro finché si trovi il modo di ritornare sicuri a casa vostra, e di giungere all'adempimento dei vostri giusti e santi desiderj.
Usciti di qui, voi v'incamminerete in silenzio al lago presso allo sbocco del Bione, ivi vedrete un battello: direte: - barca: - vi sarà risposto: - per chi? - replicate - San Francesco -: e la barca vi accoglierà e vi trasporterà all'altra riva, dove troverete un baroccio, il quale vi condurrà a salvamento».
Chi domandasse come il Padre aveva ai suoi comandi tante persone, e le aveva potute così disporre ai servigi dei suoi protetti, mostrerebbe di non sapere che cosa potesse un cappuccino che aveva fama di santo.
Prese quindi in disparte Agnese, le diede una lettera, le disse a chi doveva consegnarla assicurandola che con quella troverebbe assistenza, e le raccomandò, che facesse in modo che Fermo dopo averle accompagnate al luogo della loro dimora proseguisse il suo viaggio.
Quindi consegnò a questo un'altra lettera colle opportune istruzioni.
Rimaneva da pensare alla custodia delle case, le quali erano prive dei loro custodi naturali.
Le chiavi furono consegnate al Padre: quelle di Agnese per esser date in mano d'una sua sorella, e quelle di Fermo per un suo cognato.
Il Padre ricevette le commissioni d'entrambi, procurando di acquietare la sollecitudine di Agnese.
I viaggiatori partivano quasi brulli di denaro: ma avevano dei risparmj in casa; indicarono al Padre il luogo del deposito, ed egli promise di far loro tenere il tutto sicuramente e presto.
Finalmente con voce commossa, e contenendo le lacrime: «Dio sia con voi», disse: «partite senza ritardo: il cuore mi dice che ci rivedremo presto».
Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire.
Ma che sa egli il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto.
Il sagrestano aperse la porta, commosso anch'egli, i viaggiatori partirono dando e ricevendo un addio con voce sommessa e alterata; e la porta si richiuse.
Andarono quegli pian piano com'era stato loro segnato alla riva del lago; quivi mutate le parole, entrarono nel battello, e il barcajuolo puntando il remo alla riva, lo fece staccare, e remigando a due braccia, prese il largo verso la riva opposta.
Il lago era sgombro, non soffiava un respiro di vento, e la superficie dell'acqua, illuminata dalla luna giaceva piana e liscia senza una increspatura, come un immenso specchio.
I remi che tagliando l'onda con tonfo misurato uscivano ad un colpo grondanti, e segnando di infinite stille lo spazio sul quale precorrevano per rituffarsi nell'acqua, rompevano solo la piana superficie del lago; l'onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa segnava una striscia fuggente, che si andava allontanando dal lido.
I viaggiatori silenziosi, volgendosi addietro, guardavano le montagne e il paese che la luna illuminava.
Si distinguevano i villaggi, i campanili, le capanne: il castellotto di Don Rodrigo colla vecchia sua torre, alto sulle capanne, pareva un feroce ritto nelle tenebre che in mezzo ad una folla di coricati nel sonno vegliasse meditando un delitto.
Lucia lo vide, e rabbrividì; discese coll'occhio verso il sito della sua umile casa, e vide un pezzo di muro bianco che usciva da una macchia verde scura, riconobbe la sua casetta, e il fico che ombreggiava la porta: e seduta com'era sul fondo della barca, poggiò il gomito sulla sponda, chinò su quello la fronte come per dormire; e pianse segretamente.
Addio, monti posati sugli abissi dell'acque ed elevati al cielo; cime ineguali, conosciute a colui che fissò sopra di voi i primi suoi sguardi, e che visse fra voi, come egli distingue all'aspetto l'uno dall'altro i suoi famigliari, valli segrete, ville sparse e biancheggianti sul pendio come branco disperso di pecore pascenti, addio! Quanto è tristo il lasciarvi a chi vi conosce dall'infanzia! quanto è nojoso l'aspetto della pianura dove il sito a cui si aggiunge è simile a quello che si è lasciato addietro, dove l'occhio cerca invano nel lungo spazio, dove riposarsi e contemplare, e si ritira fastidito come dal fondo d'un quadro su cui l'artefice non abbia ancor figurata alcuna immagine della creazione.
Che importa che nei piani deserti sorgano città superbe ed affollate? il montanaro che le passeggia avvezzo alle alture di Dio, non sente il diletto della maraviglia nel mirare edificj che il cittadino chiama elevati perché gli ha fatti egli ponendo a fatica pietra sopra pietra.
Le vie, che hanno vanto di ampiezza, gli sembrano valli troppo anguste, l'afa immobile lo opprime, ed egli che nella vita operosa del monte non aveva forse provato altro malore che la fatica, divenuto timido e delicato come il cittadino, si lagna del clima e della temperie, e dice che morrà se non torna ai suoi monti.
Egli che sorto col sole, non riposava che al mezzo giorno e al cessare delle fatiche diurne, passa le ore intere nell'ozio malinconico ripensando alle sue montagne.
Ma questi sono piccioli dolori.
L'uomo sa tormentar l'uomo nel cuore; e amareggiargli il pensiero di modo che anche la memoria dei momenti passati lietamente affacciandosi ad esso perde ogni bellezza, e porta un rancore non temperato da alcuna compiacenza; è tutta dolorosa: reca all'afflitto una certa maraviglia che abbia potuto altre volte godere, e non desidera più quelle contentezze delle quali non gli par più capace la sua mente trasformata.
Dolore speciale: la contemplazione della perversità d'una mente simile alla nostra: idea predominante in chi è afflitto dal suo simile.
Addio, casa natale, casa dei primi passi, dei primi giuochi, delle prime speranze; casa nella quale sedendo con un pensiero s'imparò a distinguere dal romore delle orme comuni il romore d'un'orma desiderata con un misterioso timore.
Addio, addio casa altrui, nella quale la fantasia intenta, e sicura vedeva un soggiorno di sposa, e di compagna.
Addio chiesa dove nella prima puerizia si stette in silenzio e con adulta gravità, dove si cantarono colle compagne le lodi del Signore, dove ognuno esponeva tacitamente le sue preghiere a Colui che tutte le intende e le può tutte esaudire, Chiesa, dove era preparato un rito, dove l'approvazione e la benedizione di Dio doveva aggiungere all'ebbrezza della gioia il gaudio tranquillo e solenne della santità.
Addio! Il serpente nel suo viaggio torto e insidioso, si posta talvolta vicino all'abitazione dell'uomo, e vi pone il suo nido, vi conduce la sua famiglia, riempie il suolo e se ne impadronisce; perché l'uomo il quale ad ogni passo incontra il velenoso vicino pronto ad avventarglisi, che è obbligato di guardarsi e di non dar passo senza sospetto, che trema pei suoi figli, sente venirsi in odio la sua dimora, maledice il rettile usurpatore, e parte.
E l'uomo pure caccia talvolta l'uomo sulla terra come se gli fosse destinato per preda: allora il debole non può che fuggire dalla faccia del potente oltraggioso: ma i passi affannosi del debole sono contati, e un giorno ne sarà chiesta ragione.
La barca giunta alla riva, urtando sull'arena scosse Lucia, la quale dopo avere asciugate in segreto le lagrime, si alzò come dal sonno.
Fermo uscì il primo, porse la mano ad Agnese, questa uscita la porse a Lucia, e tutti e tre resero tristamente grazie al barcajuolo, il quale rispose: «Niente, niente, siamo quaggiù per ajutarci».
Fermo voleva cavare una parte dei pochi quattrinelli che si trovava in tasca; ma il barcajuolo li rifiutò come se gli fosse proposto un furto.
Trovarono il barroccio, v'ascesero, e continuarono silenziosamente la via.
La notte aveva già passato il mezzo, e la luna illuminava tuttavia il cammino che dopo aver seguito, abbandonato, e ripreso più volte il corso dell'Adda, corse per lungo tempo di valle in valle fra monti che andavano sempre diminuendo d'altezza.
L'aurora mostrò loro delle colline, il cui aspetto sarebbe stato lieto per animi lieti.
Ma oltre la sventura che teneva sotto di sè i nostri viaggiatori, la dura condizione dei tempi avrebbe impedita ogni gioja in qualunque viaggiatore: giacché sur una terra ridente non s'incontrava che l'uomo tristo e squallido dalla fame, che usciva per domandare soccorso non dovendo trovare quasi che il suo simile bisognoso di soccorso.
A giorno fatto giunsero al luogo della fermata; e discesero ad una osteria dove li condusse la loro guida, la quale pose a riposare il suo cavallo, per ritornarsene, e ricusò pure ogni pagamento.
Qui Fermo avrebbe voluto sostare almeno tutta la giornata, ma Agnese e Lucia lo persuasero a partire, ed egli partì, tutto incerto dell'avvenire, ma certo almeno che un cuore rispondeva al suo, e viveva delle sue stesse speranze.
TOMO SECONDO
CAPITOLO I
DIGRESSIONE.
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LA SIGNORA
Avendo posto in fronte a questo scritto il titolo di storia, e fatto creder così al lettore ch'egli troverebbe una serie continua di fatti, mi trovo in obbligo di avvertirlo qui, che la narrazione sarà sospesa alquanto da una discussione sopra principj; discussione la quale occuperà probabilmente un buon terzo di questo capitolo.
Il lettore che lo sa potrà saltare alcune pagine per riprendere il filo della storia: e per me lo consiglio di far così: giacché le parole che mi sento sulla punta della penna sono tali da annojarlo, o anche da fargli venir la muffa al naso.
La discussione viene all'occasione della osservazione seguente che mi fa un personaggio ideale.
- I protagonisti di questa storia, - dic'egli, - sono due innamorati; promessi al punto di sposarsi, e quindi separati violentemente dalle circostanze condotte da una volontà perversa.
La loro passione è quindi passata per molti stadj, e per quelli principalmente che le danno occasione di manifestarsi e di svolgersi nel modo più interessante.
E intanto non si vede nulla di tutto ciò: ho taciuto finora ma quando si arriva ad una separazione secca, digiuna, concisa come quella che si trova nella fine del capitolo passato, non posso lasciare di farvi una inchiesta: - Questa vostra storia non ricorda nulla di quello che gl'infelici giovani hanno sentito, non descrive i principj, gli aumenti, le comunicazioni del loro affetto, insomma non li dimostra innamorati?
- Perdonatemi: trabocca invece di queste cose, e deggio confessare che sono anzi la parte la più elaborata dell'opera: ma nel trascrivere, e nel rifare, io salto tutti i passi di questo genere.
- Bella idea! e perché, se v'aggrada?
- Perché io sono del parere di coloro i quali dicono che non si deve scrivere d'amore in modo da far consentire l'animo di chi legge a questa passione.
- Poffare! nel secolo decimonono, ancora simili idee! Ma i vostri riguardi sono tanto più strani, in quanto l'amore dei vostri eroi è il più puro, il più legittimo, il più virtuoso; e se poteste descriverlo in modo di eccitarne il consenso, non fareste che far comunicare altrui ad un sentimento virtuoso.
- Armatevi di pazienza, ed ascoltate.
Se io potessi fare in guisa che questa storia non capitasse in mano ad altri che a sposi innamorati, nel giorno che hanno detto e inteso in presenza del parroco un sì delizioso, allora forse converrebbe mettervi quanto amore si potesse poiché per tali lettori non potrebbe certamente aver nulla di pericoloso.
Penso però, che sarebbe inutile per essi, e che troverebbero tutto questo amore molto freddo, quand'anche fosse trattato da tutt'altri che dal mio autore e da me; perché quale è lo scritto dove sia trasfuso l'amore quale il cuor dell'uomo può sentirlo? Ma ponete il caso, che questa storia venisse alle mani per esempio d'una vergine non più acerba, più saggia che avvenente (non mi direte che non ve n'abbia), e di anguste fortune, la quale perduto già ogni pensiero di nozze, se ne va campucchiando, quietamente, e cerca di tenere occupato il cuor suo coll'idea dei suoi doveri, colle consolazioni della innocenza e della pace, e colle speranze che il mondo non può dare né torre; ditemi un po' che bell'acconcio potrebbe fare a questa creatura una storia che le venisse a rimescolare in cuore quei sentimenti, che molto saggiamente ella vi ha sopiti.
Ponete il caso che un giovane prete il quale coi gravi uficj del suo ministero, colle fatiche della carità, con la preghiera, con lo studio, attende a sdrucciolare sugli anni pericolosi che gli rimangono da trascorrere, ponendo ogni cura di non cadere, e non guardando troppo a dritta né a sinistra per non dar qualche stramazzone in un momento di distrazione, ponete il caso che questo giovane prete si ponga a leggere questa storia: giacché non vorreste che si pubblicasse un libro che un prete non abbia da leggere: e ditemi un po' che vantaggio gli farebbe una descrizione di quei sentimenti ch'egli debbe soffocare ben bene nel suo cuore, se non vuole mancare ad un impegno sacro ed assunto volontariamente, se non vuole porre nella sua vita una contraddizione che tutta la alteri.
Vedete quanti simili casi si potrebber fare.
Concludo che l'amore è necessario a questo mondo: ma ve n'ha quanto basta, e non fa mestieri che altri si dia la briga di coltivarlo; e che col volerlo coltivare non si fa altro che farne nascere dove non fa bisogno.
Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno, e che uno scrittore secondo le sue forze può diffondere un po' più negli animi: come sarebbe la commiserazione, l'affetto al prossimo, la dolcezza, l'indulgenza, il sacrificio di se stesso: oh di questi non v'ha mai eccesso; e lode a quegli scrittori che cercano di metterne un po' più nelle cose di questo mondo: ma dell'amore come vi diceva, ve n'ha, facendo un calcolo moderato, seicento volte più di quello che sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie.
Io stimo dunque opera imprudente l'andarlo fomentando cogli scritti; e ne son tanto persuaso; che se un bel giorno per un prodigio, mi venissero ispirate le pagine più eloquenti d'amore che un uomo abbia mai scritte, non piglierei la penna per metterne una linea sulla carta: tanto son certo che me ne pentirei.
- Ma queste sono idee meschine, pinzocheresche, claustrali, e peggio; idee che tendono a soffocare ogni slancio d'ingegno, e ben diverse dalle idee grandi della vera religione...
- La religione ha avuto scrittori del genio il più ardito ed elevato, pensatori profondi, e pacati ragionatori d'una esattezza scrupolosa, e tutti tutti questi senza una eccezione hanno disapprovate le opere in cui l'amore è trattato nel modo che voi vorreste.
Oh ditemi di grazia come mai io posso persuadermi che tutti questi non han saputo conoscere quel che si voglia la vera religione, e che voi avete trovata senza fatica la verità, dov'essi con uno studio di tutta la vita non hanno saputo pescare che un errore grossolano?
- Così voi condannate tutti gli scritti...?
- Sono i giudici che condannano: per me vi dico solo il perché io abbia esclusi tutti quei bei passi da questa storia.
Ma se volete dei giudizj, e delle condanne, voi ne troverete nei casi in cui è lecito anzi bello il condannare, cioè quando uno giudica se stesso.
Vedete quello che hanno pensato dei loro scritti amorosi quegli scrittori (del cristianesimo intendo) i quali si sono acquistata fama di grandi, e nello stesso tempo di più castigati.
Vedete per esempio, il Petrarca e Racine.
- Il Petrarca viveva in tempi...
- Non parliamo del Petrarca, perché io spero che leggeremo presto intorno a lui il giudizio d'un uomo il quale ne dirà, quello che né voi né io non giungeremmo a trovare.
Vi tratto, come vedete, senza cerimonie, perché siete un personaggio ideale.
- Ebbene, Racine.
Non è ella cosa convenuta fra tutti gli uomini che hanno due dita di cervello, e che non sono un secolo indietro dagli altri, che il pentimento che Racine provò per le sue tragedie è una debolezza degli ultimi suoi anni, debolezza indegna di quel grande intelletto, debolezza che fa compassione?
- Vi sono stati due Giovanni Racine.
Uno per aver la grazia dei potenti, adulò in essi apertamente il vizio, ch'egli conosceva per tale, e per giustificare appunto le sue tragedie, beffò degli uomini pei quali aveva in cuor suo un rispetto sentito, e sostituì gli scherni personali ai ragionamenti per evitare la quistione: punse acerbamente quanto potè ed umiliò con epigrammi stizzosi certi tali, che non la natura certo, ma il giudizio di una gran parte del pubblico aveva fatti suoi emoli; e nello stesso tempo si rose internamente, si accorò, perdette la sua pace ad ogni critica che sentiva fare delle sue opere: tormentato e tormentatore pei meschini interessi della letteratura, e della sua letteratura.
Questi è quel Giovanni Racine che scriveva rime d'amore.
L'altro, viveva ritirato tranquillamente nel seno della sua famiglia: se non si allontanò affatto dai potenti, almeno parlò ad essi (caso raro, quasi unico in quei tempi) delle miserie degli uomini che essi avrebbero dovuto sollevare, o non creare: non solo non cercava più gli applausi, non solo non provocava le lodi degli amici, ma le sentiva con dolore: non solo non si arrovellava ad ogni critica; ma quando un uomo non provocato lo fece segno ad un pubblico insulto, non se ne lagnò, e invece di ricevere scuse, rispose con ringraziamenti.
Egli che era stato cortigiano nella sua giovinezza, rifiutò di sedere alla mensa di un principe per non privare i suoi figli della sua compagnia.
In pace con sè, col genere umano, e coi letterati, egli trascorse vent'anni libero da quelle passioni che avevano agitata la sua prima età, e non si può proprio dire per questo che fosse rimbambito, poiché scrisse «Atalia».
Questi è quel Giovanni Racine, che si pentiva di avere scritte rime d'amore.
Che di questi due uomini il debole fosse il secondo, si può certamente dire, se ne dicono tante! ma per me, non posso persuadermene.
- Dunque secondo voi, aveva ragione di pentirsi: dunque se non fosse rimasto che un esemplare delle tragedie amorose di Racine, se questo esemplare fosse stato in vostra mano, se Racine ve lo avesse chiesto per abbruciarlo, per privare la posterità d'un tale monumento d'ingegno, voi avreste...? non ardisco quasi interrogarvi.
- Io glielo avrei dato subito perché quel brav'uomo potesse aver la soddisfazione di gettarlo sul fuoco.
Come! voi credete che si sarebbe dovuto esitare a togliergli dal cuore questa spina? Gliel avrei dato subito, perché il dispiacere ragionato, serio, riflessivo, nobile di Racine era un sentimento più importante, che non sia stato e non sia per essere il piacere che hanno dato e che sono per dare le sue tragedie fino alla consumazione dei secoli.
- Queste sono ciarle; ma avete pensato che con questi stralci voi vi andate scemando sempre più il numero de' lettori; e che se avrebbero potuto essere centinaja, sa il cielo se li conterete a dozzine?
- Voi mi ci fate pensare; ma, a dir vero, non arrivo a sentire la forza di questo inconveniente.
- Ma voi volete privarvi volontariamente dei mezzi più potenti di dilettare, di quei mezzi che anche in mano della mediocrità possono talvolta produrre un grande effetto?
- Se le lettere dovessero aver per fine di divertire quella classe d'uomini che non fa quasi altro che divertirsi, sarebbero la più frivola, la più servile, l'ultima delle professioni.
E vi confesso che troverei qualche cosa di più ragionevole, di più umano, e di più degno nelle occupazioni di un montambanco che in una fiera trattiene con sue storie una folla di contadini: costui almeno può aver fatti passare qualche momenti gaj a quelli che vivono di stenti e di malinconie; ed è qualche cosa.
Ma, per non ingannarvi, avvertite che in tutte queste ciarle che abbiam fatte finora, non abbiam detto nulla o quasi nulla sul fondo della quistione.
Voi non lo avete toccato; ed io sono rimasto, rispondendovi, in quella sfera dove vi siete posto: abbiam ciarlato di fuori, come si usa.
Che se volete veder qualche cosa sul fondo della quistione, andate di grazia a quegli scrittori di cui abbiam fatto cenno; o pure pensateci un po' seriamente voi stesso.
- Pensarci? Per giungere a queste belle conseguenze? Sappiate che, a porre insieme le idee di un Vandalo e d'una donnicciuola...
- Sparisci; e torniamo alla storia.
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Dove siamo? Il nostro autore non lo dice, anzi protesta di non volerlo dire.
Abbiam già avvertito che delle due classi fra le quali era divisa la società al suo tempo, di circospetti cioè e di facinorosi, d'uomini che avevano, e d'uomini che facevano paura, egli apparteneva alla prima.
La sua timida discrezione raddoppia però a questo punto della narrazione: e il progresso della narrazione stessa ne fa vedere il motivo.
Le avventure di Lucia nel suo novello soggiorno si trovano implicate con intrighi tenebrosi, rematici, misteriosi, terribili, di persone che deggiono essere state potenti, e imparentate assai: e l'autore si scopre impacciato tra il desiderio di raccontare quello che sa, e il terrore di offendere di quelle famiglie il mormorare contra le quali era un peccato punito in questo mondo.
Quindi egli va col calzare del piombo, e narrando i fatti, sopprime tutte le indicazioni che potrebbero servir di filo a trovar le persone, e fra queste indicazioni anche quella del luogo.
Ma in questa parte almeno egli non è stato destro abbastanza, e noi possiamo annunziare senza timore d'ingannarci il luogo dove si è fermata Lucia: poiché l'autore senza avvedersene ci ha dato un filo che condurrebbe alla scoperta anche un ragazzo.
Egli dice in un passo del suo racconto che Lucia giunse ad un borgo nobile e antico al quale di città non mancava che il nome; altrove parla del Lambro che vi scorre: altrove ancora dice che v'era un arciprete: con queste indicazioni non v'ha in Europa uomo che sappia leggere e scrivere, il quale tosto non esclami: Monza.
La madre e la figlia si trovavano dunque, dopo la partenza di Fermo, solette in una osteria di Monza, senza alcuna pratica del paese, senza alcuna conoscenza, non avendo in così alto mare altra bussola che la lettera del Padre Cristoforo.
La lettera era diretta al Padre Guardiano dei Cappuccini.
Agnese chiese conto del convento alla moglie dell'albergatore; la quale non lo diede che dopo aver tentata ogni via per avere un pagamento anticipato di un così picciol servizio, in tante informazioni, sul nome e sulla qualità delle donne, sui motivi del loro viaggio, sugli affari che potevano avere col Padre Guardiano.
Ma le donne, alle quali era stato dal loro protettore raccomandata la discrezione, seppero ingannare le ricerche della ostessa, la quale fu obbligata di insegnar loro gratuitamente la via del convento.
Si mossero quindi tosto benché dovessero risentirsi del travaglio della notte e del giorno antecedente: la lepre cacciata non sente la stanchezza che quando ha trovato un ricovero.
Agnese a cui l'aspetto di Monza non era nuovo perché v'era passata molti anni addietro, né imponente perché aveva soggiornato a Milano, camminava francamente guidando e incoraggiando Lucia, la quale andava rasente il muro tutta sospettosa.
Girando di via in via, e ad ogni rivolta di canto trovando ancora vie e case, era Lucia colpita da una maraviglia mista di non so quale afa, come chi vede una brutta grandiosità.
Ma il sentimento predominante di accoramento e di terrore non le dava campo di esprimere quello che allora provava, né di provarlo distintamente e con forza.
Giunte alla porta del convento, tirarono il campanello, e al portinajo che sopravvenne chiesero del padre guardiano al quale avevano una lettera da consegnare.
Quando Lucia vide una tonaca cappuccinesca le parve di essere in paese conosciuto, e si riebbe alquanto.
Il padre guardiano non si fece aspettare, salutò le donne, prese la lettera dalle mani di Agnese, e veduta la soprascritta, disse con una voce che annunziava la compiacenza: «Oh! il mio Padre Cristoforo».
Il Padre Cristoforo era stato suo collega nel noviziato; e d'allora in poi essi avevano contratta una amicizia da chiostro, voglio dire una amicizia cordiale, intima più che fraterna, simile a quelle che si narrano di qualche pajo d'uomini dell'antichità, di quelle che si formano in tutte le società separate con vincoli particolari dalla società universale degli uomini.
Queste frazioni, questi crocchj creano fra tutti i membri che li compongono un vincolo particolare d'interessi, di amor proprio comune e di benevolenza, vincolo talvolta debole assai e che non basta ad impedire odj accaniti e mortali, ma forte però abbastanza per contenere gli odj nell'interno della picciola società, e per dare a quegli stessi che si odiano una apparenza, e una condotta da amici ogni volta che essi si trovino in contrasto cogli estranei.
Quando poi una conformità di sentimenti e di inclinazioni, crea fra due individui di queste società una benevolenza particolare ella è tanto più forte quanto più essi si sono scelti in un picciol numero già separato dal resto degli uomini.
Il padre guardiano aperse la lettera, e di tempo in tempo alzava gli occhj dal foglio e guardava Lucia e la madre con aria di compassione e d'interessamento.
Quand'ebbe terminato, crollò alquanto il capo, pensò, passò la mano sul mento barbuto, e quindi sulla fronte, e disse, come chi spera di aver trovato quello di che aveva bisogno: «Non c'è altri che la Signora: se la Signora vuol pigliarsi l'impegno...» Fece quindi a bassa voce ad Agnese alcune interrogazioni alle quali ella soddisfece, indi domandò: «Volete seguirmi? Io spero di aver trovato ove collocare in sicuro questa buona ragazza».
Le donne si disser pronte a far tutto ciò che sarebbe da lui suggerito: e il padre: «venite con me» disse; «statemi soltanto alcuni passi addietro; perché, vedete, il paese è maligno, e Dio sa quante storie si farebbero se si vedesse il padre guardiano con una bella giovane, voglio dire con donne per la via».
Lucia arrossì, e con la madre tenne dietro al guardiano alla distanza ch'egli aveva indicata.
Giunti al monastero, il guardiano si fermò sulla soglia, le aspettò, e raccomandatele alla moglie del fattore la quale le introdusse in una stanzetta che dava sulla via, progredì nel cortile promettendo di tornare a momenti.
L'interrogatorio della fattora fu come doveva essere, più imperioso, più astuto, più pressante d'assai che non fosse stato quello dell'albergatrice; e Agnese schermendosi a stento, andava già componendo una filastrocca nella sua mente, perché vedeva di non potersi sbrigare senza raccontar qualche cosa, quando per buona sorte, ritornò il padre guardiano con faccia giuliva ad annunziare alle donne che la Signora si degnava riceverle.
La fattora le lasciò partire guardando con dispetto il guardiano ch'era venuto a farle fuggir di mano una preda che stava per cadere nel laccio.
Attraversando il cortile, il guardiano addottrinò le donne sul modo da tenersi colla Signora: «Siate umili, e riverenti, raccomandatevi alla sua protezione, rispondete con semplicità alle interrogazioni ch'ella sarà per farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me».
Agnese e Lucia stavano in grande aspettazione, mista di speranza, e di pensiero di questa Signora: ma non ardirono nemmeno domandare al padre chi ella fosse: probabilmente un lettore di questi tempi non sarà così modesto, e per prevenire la sua impazienza è forza dirgli chi fosse la Signora; ma, come si usa con chi vuol troppo pressare, si potrà dargli una risposta, la quale sembrando soddisfare a tutta la sua inchiesta, contenga però solo quel tanto che non si potrebbe tacere.
Era la Signora una giovane donna, uscita di sangue principesco che era stata posta dall'adolescenza in quel monistero, e vi aveva assunto il velo, e fatta la professione.
Aveva essa l'incarico di vegliare sulle fanciulle che erano nel monistero per educazione, e il suo titolo sarebbe stato, maestra delle educande; ma per la sua nascita, per le parentele, e per la superiorità che queste le davano sulle altre sorelle, non era chiamata con altro nome che di Signora; ed era da tutte riguardata, come la protettrice, la donna principe del monistero; e con una distinzione unica, due suore erano destinate ai suoi servigi ed abitavano seco lei in un picciolo quartiere ch'ella teneva invece di cella.
La sua protezione e la sua influenza si estendeva fuori delle mura del monistero; e i cappuccini i quali di generazione in generazione, o per meglio dire di vestizione in vestizione, erano ab immemorabili in rapporto di amicizia col monistero, godevano essi pure di questa protezione.
Ecco perché il padre guardiano fece tosto assegnamento su la Signora, ed ecco perché Lucia è condotta ora dinanzi a lei.
Dal cortile si entrò in una stanza terrena, e da questa si passava al parlatorio; prima di porvi il piede il guardiano, accennando la porta aperta disse sottovoce alle donne: «qui è la Signora», come per farle rissovenire di tutti gli avvertimenti che dovevano seguire.
Lucia non aveva mai veduto un monistero: ponendo tutta timorosa il piede sulla soglia del parlatorio, si guardò intorno per vedere dove fosse la Signora a cui si doveva fare l'inchino, e non iscorgendo persona, stava come smemorata, quando osservando il padre che andava ritto verso una parte, e Agnese che lo seguiva, guatò, e vide un pertugio alto la metà d'una finestra, e largo quasi il doppio con una doppia grata la quale togliendo ogni passaggio alla stanza vicina, la lasciava però quasi tutta vedere, e presso alla grata vide la Signora in piedi, e le s'inchinò profondamente come avevano già fatto gli altri due.
L'aspetto della Signora, d'una bellezza sbattuta, sfiorita alquanto, e direi quasi un po' conturbata, ma singolare, poteva mostrare venticinque anni.
Un velo nero teso orizzontalmente sopra la testa scendeva a dritta e a manca dietro il volto, sotto il velo una benda di lino stringeva la fronte, al mezzo; e la parte che si vedeva diversamente ma non meno bianca della benda sembrava un candido avorio posato in un nitido foglio di carta: ma quella fronte liscia ed elevata si corrugava di tratto in tratto quando due nerissimi sopracigli si riavvicinavano per tosto separarsi con un rapido movimento.
Due occhi pur nerissimi si fissavano talvolta nel volto altrui con una investigazione dominatrice, e talvolta si rivolgevano ad un tratto come per fuggire: v'era in quegli occhi un non so che d'inquieto e di erratico, una espressione istantanea che annunziava qualche cosa di più vivo, di più recondito, talvolta di opposto a quello che suonavano le parole che quegli sguardi accompagnavano.
Le guance pallidissime, ma delicate scendevano con una curva dolce ed eguale ad un mento rilevato appena come quello d'una statua greca.
Le labbra regolarissime, dolcemente prominenti, benché colorate appena d'un roseo tenue, spiccavano pure fra quel pallore; e i loro moti erano, come quelli degli occhi, vivi, inaspettati, pieni di espressione e di mistero.
Una gorgiera bianca, increspata lasciava intravedere una striscia di collo bianco e tornito: la nera cocolla copriva il rimanente dell'alta persona, ma un portamento disinvolto, risoluto, rivelava o indicava, ad ogni rivolgimento, forme di alta e regolare proporzione.
Nel vestire stesso v'era qua e là qualche cosa di studiato, o di negletto, di stranio insomma che osservato in uno colla espressione del volto dava alla Signora l'aspetto di una monaca singolare.
La stoffa della cocolla e dei veli era più fine che non s'usasse a monache, il seno era succinto con un certo garbo secolaresco, e dalla benda usciva sulla tempia manca l'estremità d'una ciocchetta di nerissimi capegli; il che mostrava o dimenticanza o trascuraggine di tener secondo la regola, sempre mozze le chiome già recise nella cerimonia solenne della vestizione.
Questa stessa singolarità si faceva osservare nei moti, nel discorso nei gesti della Signora.
S'alzava ella talora con impeto a mezzo il discorso, come se temesse in quel momento di esser tenuta, e passeggiava pel parlatorio; talvolta dava in risa smoderate, talvolta levando gli occhi, senza che se ne intendesse una cagione, prorompeva in sospiri; talvolta dopo una lunga e manifesta distrazione, si risentiva, ed approvava con negligenza ragionamenti che la sua mente non aveva avvertiti.
Queste cose non si facevano scorgere a Lucia non avvezza a scernere monaca da monaca, e neppure ad Agnese: l'occhio del padre guardiano era certamente più esercitato, ma perciò appunto era avvezzo ad osservare senza maraviglia nei grandi sempre qualche cosa di straordinario; e quindi s'era già da molto tempo addomesticato all'abito e ai modi della Signora.
Ma ad un viaggiatore che l'avesse veduta per la prima volta ella avrebbe potuto parere non molto dissimile da una attrice ardimentosa, di quelle che nei paesi separati dalla comunione cattolica facevano le parti di monaca in quelle commedie dove i riti cattolici erano soggetto di beffa e di parodia caricata.
In quel momento ella era, come abbiamo detto, ritta in piedi, presso la grata, appoggiata ad essa mollemente con una mano, intrecciando le bianchissime dita nei fori di quella, e colla faccia alquanto curvata osservando quelli che si presentavano, e specialmente Lucia.
«Reverenda madre, e signora illustrissima», disse il padre guardiano colla fronte bassa, e con la destra tesa sul petto; «ecco quella innocente derelitta, per la quale imploro la valida sua protezione».
E sulle ultime parole accennava alle donne che accompagnassero con atti e con inchini la sua supplicazione; la povera Agnese dopo d'aver fatto al padre un cenno del volto che voleva dire: - so quel che va fatto - raddoppiava gl'inchini, rannicchiandosi, e risorgendo come se una molla interna la facesse muovere, e Lucia s'inchinò pure, da inesperta, ma con una certa grazia che la bellezza, la giovinezza, e la purità dell'animo danno a tutti i movimenti.
La Signora curvò leggermente il capo verso il padre guardiano, fece alle donne cenno della mano che bastava, e ch'ella gradiva i loro complimenti, fece a tutti cenno di sedersi, sedette e sempre rivolta al padre, rispose: «Ho appreso dai miei antenati a non negare la mia protezione a chiunque la meriti: io non ho da essi ereditato che il nome; e son lieta che anche questo possa almeno essere buono a qualche cosa.
È una buona ventura per me il potere render servizio a' nostri buoni amici i padri cappuccini».
Queste parole furono accompagnate da un sorriso che ad altri avrebbe potuto parere di compiacenza, ad altri di scherno.
Il Padre guardiano si faceva a render grazie, ma la Signora lo interruppe: «Non mica complimenti, padre guardiano; i servigj fatti agli amici hanno con sè il loro guiderdone; e del resto ad ogni evento io non dubiterei di far conto sul ricambio dei nostri buoni padri.
Il mondo è pieno di tristi e d'invidiosi: e nessuno può assicurarsi che non venga un momento in cui possa aver bisogno di una buona testimonianza, e d'ajuto».
Il guardiano rispose premurosamente con una frase di gesti: la prima parte della quale significava che la Signora non avrebbe mai bisogno di nessuno, e la seconda che i padri avrebbero tenuta a guadagno ogni occasione di far cosa grata alla Signora.
Questa proseguì: «Ma via; mi dica un po' più particolarmente il caso di questa giovane, e così si vedrà meglio che si possa fare per essa».
Lucia arrossò tutta, e chinò la faccia sul seno.
«Deve sapere, reverenda madre», cominciò Agnese, «che questa mia povera figliuola, perché io sono sua madre...»
Il guardiano le gittò un'occhiata e interruppe.
«Questa giovane, signora illustrissima, mi è raccomandata da un mio confratello: essa ha bisogno per qualche tempo di un asilo nel quale possa stare sconosciuta, o nel quale nessuno ardisca toccarla; e questo per sottrarsi a dei gravi pericoli».
«Pericoli!» disse la Signora.
«Quali pericoli? di grazia, padre guardiano.
Mi dica la cosa per minuto: ella sa che noi altre monache siamo vaghe d'intendere storie».
«Sono», rispose il padre, «pericoli dei quali la reverenda madre, non conosce nemmeno il nome, beata lei! e parlarne più distintamente sarebbe offendere le purissime vostre orecchie, e contristare l'illibatezza dei vostri pensieri, signora illustrissima».
«Oh! certamente!» rispose precipitosamente la signora, senza molto badare all'aggiustatezza della risposta; e si fece tutta di porpora.
Era verecondia? Chi avesse osservata una subitanea ma viva espressione di scherno e di dispetto che accompagnò quel rossore avrebbe potuto dubitarne; e tanto più se lo avesse paragonato con quello che di tratto in tratto saliva sulle guance di Lucia.
La Signora si alzò in fretta, come per avvicinarsi più alle donne, e stava per rivolgere il discorso a Lucia, quando il guardiano, tenendo di non aver mal detto, ripigliò così il discorso: «Non tutti i grandi del mondo, si servono dei doni di Dio a gloria di lui, e a vantaggio del prossimo, come fa la Signora illustrissima.
Un cavaliere prepotente e senza timor di Dio, ha tentato ogni via, giacché deggio pur dirlo, per insidiare la castità di questa creatura, e dopo d'aver veduto che i mezzi di lusinga gli andavano falliti, non temè di ricorrere alla forza aperta, tentando...
insomma di farla rapire.
Ma Dio non l'ha lasciata cadere in quei sozzi artigli, e le ha invece preparato un ricovero sotto le ale incontaminate...»
«Ma voi», disse la Signora rivolta repentinamente a Lucia, «voi che dite di codesto signore? A voi tocca a dirci se egli era un persecutore, e se aveva gli artigli sozzi».
«Signora, madre, illustrissima», balbettò Lucia che sarebbe stata confusa a dover rispondere su questa materia, quando pure l'inchiesta le fosse venuta da una persona sua pari e conosciuta.
Ma Agnese venne in soccorso: «Illustrissima signora», diss'ella, «il suo parlare è troppo alto per questa povera figliuola.
Ma io posso far testimonio che la mia Lucia aveva in orrore colui, come il diavolo l'acqua santa; voglio dire, il diavolo era egli; ma ella mi compatirà se parlo male, perché noi siam gente come Dio vuole; del resto, questa povera ragazza aveva un giovane che le parlava, un nostro pari, timorato di Dio, e bene avviato, e se il Signor curato avesse avuto un po' più di giudizio; so che parlo d'un religioso, ma il padre Cristoforo amico intrinseco qui del padre guardiano, è religioso al pari di lui, e davantaggio, e potrà attestare...»
«Voi siete ben pronta a parlare senz'essere interrogata», disse la Signora, dando sulla voce ad Agnese.
«Non so che fare dei parenti che rispondono pei loro figliuoli».
Agnese voleva aprir bocca, ma la signora con tuono ancor più brusco riprese: «Zitto, zitto; le vostre parole non servono a nulla».
Così dicendo il suo aspetto prendeva sempre più un non so che di sinistro, di feroce che quasi faceva scomparire ogni bellezza, o almeno la alterava di modo che chi avesse osservato quel volto in quel punto ne avrebbe conservata una immagine disgustosa per sempre.
I suoi guardi erano fissi sopra Agnese, torvi e sospettosi, come se cercassero a raffigurare un nemico.
E continuò: «Voi fate conto forse, che perché io son qui rinchiusa, fuori del mondo, senza esperienza, mi si possa dare ad intender qualunque cosa.
Povera donna! appunto perché son qui, sono men facile ad essere ingannata su certe materie.
Certo, lo sposo che i parenti destinano ad una figlia è sempre un uomo compito, e il monastero dove la vogliono rinchiudere è così allegro! in così bella situazione! così tranquillo! è un paradiso! Poveretti! portano invidia alla loro figlia; vorrebbero anch'essi ritirarsi in quel porto di pace, ah! a far vita beata: ma...
pur troppo sono legati nel mondo.
Scusi il mio caldo, padre, ma ella sa meglio di me, almeno ella deve saper troppo bene come vanno queste cose, la menzogna la più imperterrita, la più persistente, la più solenne è quella che sta sul labbro di colui che vuole sagrificare i suoi figli, e far loro violenza.
Questi sono i peccati, contra i quali si dovrebbe predicare: a costoro bisognerebbe minacciare l'inferno».
A queste parole, la Signora, si pose a sedere tutta turbata, ed ognuno si sarebbe avveduto che un pensiero che i discorsi di Agnese avevan fatto nascere, dominava allora la sua mente, e che gli affari di Lucia non erano che un oggetto di considerazione secondaria.
Agnese intanto rimproverava alla figlia che il suo non saper parlare le avesse tirata addosso questa tempesta, il guardiano voleva pure animar Lucia a parlare, ma questa animata già dalla circostanza, si avvicinò alla grata, e in tuono modesto, ma sicuro disse: «reverenda signora, quanto le ha detto la mia buona madre è la pura verità.
Il giovane che mi parlava», e qui arrossò, «lo sposava io...
di mio genio, mi perdoni se parlo da sfacciata, ma è per difendere mia madre: e quanto a quel signore...»
«Buona fanciulla», interruppe la Signora con voce raddolcita, «credo un po' più a voi, ma non vi credo ancora del tutto.
Vi ha due linguaggi che si somigliano; quello che parte dal fondo del cuore, e quello d'una figlia oppressa che dice il falso per terrore, e protesta di amare ciò ch'ella abborre più al mondo.
Voglio sentirvi da sola a sola.
Padre guardiano, se ella conoscesse per testimonianza degli occhi suoi i casi di questa giovane, certo ch'io non istarei ora in dubbio: ma ella non li conosce che per relazione: e per me, piuttosto che servire alla violenza fatta ad una povera giovane...»
«Il Padre Cristoforo», disse il guardiano, «che mi ha posto nelle mani questo affare, è uomo tanto oculato, quanto lontano dal favorire una violenza, ed alla sua asserzione io credo quanto ai miei occhi.
Stimo però cosa molto savia, che la Signora illustrissima, esamini col suo senno consumato questa faccenda, e spero che l'esame mostrandole la verità dell'esposto, la determinerà ad accordare il suo appoggio a questa famiglia perseguitata».
«Lo spero», rispose la Signora con una placidezza garbata, e come desiderosa di far dimenticare il trasporto passato: «lo spero: e quel poco ch'io potrò fare, prego il padre guardiano di attribuirlo in gran parte alla sua intromissione.
Per ora ecco quello che mi sovviene di poter fare.
La fattora del monistero, ha collocata da pochi giorni l'ultima sua figliuola.
Questa giovane potrà occupare la stanza abbandonata da quella, e supplire ai pochi servigj ch'ella faceva.
Ne parlerò colla madre Badessa, ma da quest'ora, le dò la cosa per fatta, sempre che Lucia ne sia contenta».
Il guardiano proruppe in ringraziamenti, che la Signora troncò gentilmente, ma lasciando però capire che ella faceva assegnamento sulla riconoscenza dei cappuccini.
Chiamò quindi una delle monache che le facevano da damigelle, e datele le opportune istruzioni, disse ad Agnese che andasse alla porta del chiostro, per intendersi con la monaca e con la fattora, e per andar quindi a disporre l'alloggio che sarebbe destinato a lei ed a Lucia.
Il Padre si congedò, promettendo di ritornare ad informarsi della decisione: le tre donne furono tosto a consulta; e Lucia rimase sola con la Signora a subire l'esame.
CAPITOLO II
LA SIGNORA, TUTTAVIA
Le parole della Signora nel colloquio che abbiamo trascritto non annunziavano certamente un animo ordinato e tranquillo; eppure ella s'era studiata in tutto quel colloquio per comparire una monaca come le altre.
Ma quando ella si trovò sola con Lucia, ella si studiava tanto meno quanto meno temeva le osservazioni di una giovane forese di quelle d'un vecchio cappuccino.
Quindi i suoi discorsi divennero sì stranj, per una monaca singolarmente, che prima di riferirli è necessario raccontare la storia di questa Signora, e rivelare le passioni e i fatti che rendevano tale il suo linguaggio.
Questi fatti sono tristi e straordinarj, e per quanto a quei tempi di funesta memoria fossero comuni molte cose che sarebbero portentose ai nostri, l'autorità di un anonimo non avrebbe bastato a farci prestar fede a quello che siam per narrare: frugando quindi per vedere se altrove si trovasse qualche traccia di questa storia, ci siamo abbattuti in una testimonianza la quale non ci lascia alcun dubbio.
Giuseppe Ripamonti, Canonico della Scala, Cronista di Milano etc., scrittore di quel tempo, che per le sue circostanze doveva essere informatissimo, e negli scritti del quale si scorge una attenzione di osservatore non comune, e un candore quale non si può simulare, il Ripamonti racconta di questa infelice cose più forti di quelle che sieno nella nostra storia; e noi ci serviremo anzi delle notizie ch'egli ci ha lasciate per render più compiuta la storia particolare della Signora.
Queste cose però, quantunque rese più che probabili da una tale testimonianza, e quantunque essenziali al filo del nostro racconto, noi le avremmo taciute, avremmo anche soppresso tutto il racconto, se non avessimo potuto anche raccontare in progresso un tale mutamento d'animo nella Signora, che non solo tempera e raddolcisce l'impressione sinistra che deggiono fare i primi fatti della Signora, ma deve creare una impressione d'opposto genere, e consolante.
Avremmo, dico, lasciato di pubblicare tutta questa storia, e ciò per non offendere coloro ai quali il rimettere nella memoria degli uomini certe colpe già pubbliche, ma dimenticate, quando non sieno terminate con un grande esempio, o con un gran pentimento, sembra uno scandalo inutile, comunque uno le esponga.
Senza esaminare il valore di questo modo di sentire, noi lo avremmo rispettato, quando ciò non costava altro che di sopprimere un libro.
Che se poi altri volesse censurare queste scuse come inutili, e ci accusasse di cader sempre in digressioni che rompono il filo della matassa, e fermano l'arcolajo ad ogni tratto, egli obbligherebbe chi scrive a fare un'altra digressione, e a rispondergli così: - Il manoscritto unico, in cui è registrata questa bella storia degli sposi promessi, è in mia mano: se la volete sapere, bisogna lasciarmela contare a modo mio: se poi non vi curaste più che tanto di sentirla, se il modo con cui è raccontata vi annojasse, giacché dagli uomini si può aspettar tutto; in questo caso, chiudete il libro, e Dio vi benedica.
Il Padre della infelice di cui siamo per narrare i casi, era per sua sventura, e di altri molti, un ricco signore, avaro, superbo e ignorante.
Avaro, egli non avrebbe mai potuto persuadersi che una figlia dovesse costargli una parte delle sue ricchezze: questo gli sarebbe sembrato un tratto di nemico giurato, e non di figlia sommessa ed amorosa; superbo, non avrebbe creduto che nemmeno il risparmio fosse una ragione bastante per collocare una figlia in luogo men degno della nobiltà della famiglia: ignorante, egli credeva che tutto ciò che potesse mettere in salvo nello stesso tempo i danari e la convenienza fosse lecito, anzi doveroso; giacché riguardava come il primo dovere del suo stato il conservarne l'opulenza, e lo splendore: erano questi nelle sue idee, i talenti che gli erano stati dati da trafficare, e dei quali gli sarebbe un giorno domandato ragione.
Una figlia nata in tali circostanze, e destinata a dover salvare una tal capra e tali cavoli, era ben felice se si sentiva naturalmente inclinata a chiudersi in un chiostro, perché il chiostro non lo poteva fuggire.
Tale fu il destino della Signora dal primo momento della sua vita; e quando una donzella della signora Marchesa venne con l'aria confusa di chi confessa un fallo, a dire al signor Marchese: «è una femmina»; il signor marchese rispose mentalmente: - è una monaca -.
Si pose quindi a frugare il Leggendario per cercarvi alla sua figlia un nome che fosse stato portato da una santa la quale avesse sortito natali nobilissimi e fosse stata monaca; e un nome nello stesso tempo che senza esser volgare richiamasse al solo esser proferito l'idea di chiostro; e quello di Geltrude gli parve fatto apposta per la sua neonata.
Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le furono posti fra le mani; e il padre, facendola saltare talvolta sulle ginocchia la chiamava per vezzo: madre badessa.
A misura ch'ella si avanzava nella puerizia, le sue forme si svolgevano in modo che prometteva una avvenenza non comune agli anni della giovanezza, e nello stesso tempo ne' suoi modi e nelle sue parole si manifestava molta vivacità, una grande avversione all'obbedienza, e una grande inclinazione al comando, un vivo trasporto pei piaceri e pel fasto.
Di tutte queste disposizioni il padre favoriva quelle soltanto che venivano dall'orgoglio, perché come abbiam detto lo considerava come una virtù della sua condizione; egli era superbo della sua figlia come era superbo di tutto ciò che gli apparteneva, e lodava in essa gli alti spiriti, la dignità, il sussiego, qualità tutte che manifestavano un'anima nata a governare qualunque monastero.
Della bellezza né egli, né la madre, né un fratello destinato a mantenere il decoro della famiglia, non parlavano mai; e la Signora ne fu informata dalle donzelle, alle quali prestò fede immediatamente.
Benché la condizione alla quale il padre l'aveva destinata fosse conosciuta da tutta la famiglia, e da tutti approvata, nessuno le disse però mai: - tu devi esser monaca -.
Era questa come una idea innata; e quando veniva il caso di parlare dei destini futuri della fanciulla, questa idea si dava per sottintesa.
Accadde per esempio che alcuno della casa correggendola di qualche aria d'impero troppo oltracotante, gli diceva: «tu sei una ragazzina, questi modi non ti convengono; quando sarai la madre badessa, allora comanderai, farai alto e basso».
Talvolta il padre le diceva: «tu non sarai una monaca come le altre: perché il sangue si porta da per tutto dove si va»; e simili discorsi nei quali la Signora apprendeva implicitamente ch'ella aveva ad esser monaca.
Confusa con questa idea, entrava però a poco a poco nella sua mente un'altra, che per esser monaca era mestieri del suo assenso volontario; e che questa cosa tanto certa non era però fatta, e che il farla o non farla sarebbe dipenduto da una sua determinazione: ma queste due idee un po' ripugnanti si acconciavano nella sua mente come potevano: perché se un uomo non dovesse star tranquillo che dopo d'aver messe d'accordo tutte le sue idee, non vi sarebbe più tranquillità.
A sei anni fu posta in un monistero e per educazione, e per istradamento alla carriera che le era prefissa.
Quale coltura d'ingegno potesse riceversi a quei tempi in un monastero, è facile argomentarlo dalla coltura universale, e questa si può argomentare dai libri che ci rimangono di quell'epoca.
Ora basti il dire che nella prima metà del secolo decimosettimo non uscì ch'io sappia in Milano un libro, non dico insigne di pensiero, ma scritto grammaticalmente: dimodoché dalla ignoranza universale si può francamente supporre che alle giovani di quel tempo non si sarà comunicato nemmeno ciò che v'è di più chiaro, di più certo, di meglio digerito nelle cognizioni umane, la storia romana.
Ma quello che più importa di dire nel caso nostro si è che quella parte di educazione che i fanciulli riuniti in comunità si danno sempre fra di loro, operò nella Signora un effetto contrario direttamente alla intenzione ed ai disegni dei suoi.
Fra le giovanette educande colle quali ella fu posta a vivere, erano alcune destinate a splendidi matrimonj, perché così voleva l'interesse delle famiglie loro.
Geltrudina nutrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente dei suoi destini futuri di badessa, e a quello splendido che la fantasia dei fanciulli vede sempre nella condizione di quelli che comandano loro, la sua fantasia aggiungeva qualche cosa indeterminata di più, perché le era stato detto tante volte: - tu non sarai una monaca come le altre -.
Ma ella s'accorse con maraviglia, e non senza confusione, che alcune delle sue compagne non sentivano punto d'invidia di questo suo avvenire; e alle immagini circoscritte e scarse che può somministrare anche ad una fantasia adolescente il primato in un monastero, opponevano le immagini varie e luccicanti di sposo, di palagi, di conviti, di villeggiature, di veglie, di tornei, di abiti, di carrozze, di livree, di braccieri, di paggi.
Queste immagini produssero nel cervello di Geltrudina quel movimento, quel ronzio, quel bollore che produrrebbe un gran paniere di fiori, appena colti, collocato davanti ad un'arnia.
Sulle prime ella volle competere con le compagne, e sostenere la superiorità della condizione, che le era destinata; ma quanto più ella cercava di magnificare le sue dignità future, tanto più le esponeva ad un terribile genere di offesa, il ridicolo; sentimento che quelle spavalducce applicavano più naturalmente e più saporitamente alle dignità che vantava Geltrude, appunto perché le vedevano esercitate dalle loro superiore; sorta di persone per le quali la puerizia prova così facilmente l'ammirazione, come lo scherno.
E quel che è peggio, Geltrudina non poteva rivolgere le stesse armi contro le avversarie, perché le ricchezze e la voluttà non sono di quelle cose delle quali si ride in questo mondo: si ride bensì di chi le desidera senza poterle ottenere, e di chi ne usa sgraziatamente; e questo ridere mostra l'alta estimazione in cui sono tenute le cose stesse: quei pochi che non le stimano, non esprimono il loro giudizio con la derisione.
Geltrudina quindi per non restare al disotto non aveva altro a rispondere, se non che, ella pure avrebbe potuto pigliarsi uno sposo, abitare un palagio, essere strascinata, servita, corteggiata, che lo avrebbe potuto, se lo avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva infatti.
Quell'idea che le stava rannicchiata in un angolo della mente, che il suo assenso era necessario perch'ella fosse monaca, e che questo assenso dipendeva da lei, si svolse allora, e divenne perspicua e predominante.
Con questo pensiero ella si teneva bastantemente sicura, ma non senza covare un sentimento d'invidia e di rancore contra quelle sue compagne le quali erano ben altrimenti sicure, e ch'ella avrebbe amate se la loro condizione non le fosse stata ad ogni momento un confronto doloroso.
Perché questa sventurata non aveva un animo ostile, non si dilettava naturalmente nell'odio; ma le sue passioni erano tanto violente e tanto delicate, ella le idolatrava tanto, che tutto ciò che poteva essere ad esse di ostacolo, offenderle, contristarle, diveniva per lei oggetto di avversione, e sarebbe stato vittima del suo furore quand'ella avesse potuto impunemente sfogarlo.
In questo stato di guerra mentale giunse Geltrudina a quella età così critica, che separa l'adolescenza dalla giovinezza; a quella età, in cui una potenza misteriosa entra nell'animo, solleva, ingrandisce, adorna, rinvigorisce, raddoppia di forza tutte le inclinazioni e tutte le idee che vi trova.
Assoluta innocenza di pensiero; massime e pratiche di Religione ragionata; occupazioni utili e interessanti, esercizj frequenti e dilettevoli del corpo, confidenza rispettosa e libera nei parenti o negli educatori, sono i mezzi sicuri per trascorrere impunemente quella età perigliosa, e per formare una mente tranquilla, saggia, e forte contra i pericoli della giovinezza e di tutta la vita.
Ma le circostanze della povera Geltrude erano ben diverse: tutto tendeva per essa a realizzare ogni pericolo di quella età e a renderla turbolenta, e funesta per l'avvenire.
Pochissimi lavori, e lo studio del canto sopra parole d'una lingua sconosciuta, non erano esercizj che potessero impadronirsi della mente di Geltrude, e trattenerla dal vagare in un mondo ideale.
Gli esercizj corporali consistevano in un giro quotidiano dell'orto claustrale.
La confidenza e la comunicazione delle idee era quale può trovarsi con persone le quali non pensano a conoscere un animo per dirigerlo nella sua scelta, ma a fissarlo in una scelta già destinata.
E, quanto alla Religione, ciò che è in essa di più essenziale, di più intimo, ciò che fa resistere alle passioni, e vincerle con una dolcezza superiore d'assai a quella che le passioni soddisfatte possono arrecare, ciò che preserva dalla corruttela, e mette in avvertenza anche contra i pericoli non conosciuti, non era stato mai istillato né meno insegnato alla picciola Geltrude; anzi il suo intelletto era stato nodrito di pensieri opposti affatto alla Religione.
Non vogliamo qui parlare di alcuni pregiudizj, che a quei tempi principalmente si ritenevano per verità sacrosante, e s'insegnavano insieme con le verità, pregiudizj non del tutto estirpati, e Dio sa quando lo saranno, pregiudizj dannosi principalmente perché nella mente di molti associano all'idea della Religione quella della credulità e della sciocchezza, e dei quali perciò ogni onesto deve desiderare e promovere la distruzione; ma pregiudizj che in gran parte non tolgono l'essenziale, e si possono combinare con un sentimento di pietà profonda e sincera, e con una vita non solo innocente, ma operosa nel bene, e sagrificata all'utile altrui, del che tanti esempj hanno lasciati i tempi trascorsi, e ne offrono fors'anche i presenti.
Ma, come abbiamo veduto, i parenti di Geltrude l'avevano educata all'orgoglio, a quel sentimento cioè che chiude i primi aditi del cuore ad ogni sentimento cristiano, e gli apre a tutte le passioni.
Il padre principalmente, che aveva destinata questa poveretta al chiostro prima di sapere s'ella sarebbe stata inclinata a chiudervisi, s'aveva talvolta pur fatta tra sè e sè questa obbiezione, che forse Geltrude non vi sarebbe stata inclinata: caso difficile, ma non impossibile; e contra il quale era d'uopo premunirsi.
Supponendo adunque che Geltrude allettata dalla vita del secolo avesse voluto rimanervi, bisognava trovar qualche cosa che la allettasse ad abbandonarlo, per non usare della semplice forza, mezzo di esito incerto, sempre odioso, e che poteva lasciar qualche dispiacere nell'animo del padre, il quale alla fine non desiderava che la sua figlia fosse infelice, ma semplicemente ch'ella fosse monaca.
Il Marchese Matteo non era uomo di teorie metafisiche, di disegni aerei: non aveva perduto il suo tempo sui libri, ma conosceva il mondo, era un uomo di pratica, quel che si chiama un uomo di buon senso; teneva che bisogna prendere gli uomini come sono, e non pretendere da essi gli effetti di una perfezione ideale; e che senza l'interesse l'uomo non si determina a nulla in questo mondo.
Così per prevenire all'interesse che il secolo poteva offrire a Geltrude, egli si era studiato di far nascere nel suo cuore quello della potenza e del dominio claustrale.
Egli aveva pensato ed operato colla dirittura e colla sapienza squisita d'un uomo il quale desse il fuoco alla casa di un nimico posta a canto alla sua, con la intenzione che quella sola dovesse andare in fumo ed in faville.
Ma il fuoco appiccato ch'ei sia non si lascia guidare dalle intenzioni dell'incendiario, va dove il vento lo spinge, e si trattiene a divorare dove trova materia combustibile; e le passioni svegliate una volta non ricevono più la legge di chi le ha ispirate, ma si volgono agli oggetti che la mente apprende come più desiderabili.
L'orgoglio di giovane vagheggiata, adorata, supplicata con umili sospiri, di sposa ricca e fastosa, di padrona che comanda a damigelle ed a paggi ben vestiti, era ben più dolce che l'orgoglio di madre badessa, e in quello tutta s'immerse la fantasia orgogliosa di Geltrudina.
Cominciò dunque a far castelli in aria, a figurarsi un giovane ai piedi, a levarsi spaventata, e fuggire dicendo: - come ha ella ardito di venir qui? - e non ricordava più che il giovane senza una sua chiamata non sarebbe certo venuto a disturbarla.
Ma quella fuga e quell'asprezza non erano a fine di scacciarlo daddovero: il giovane non perdeva coraggio; nascevano nuovi casi, e tutto finiva col matrimonio, come la più parte delle commedie.
Richiamava alla memoria quel poco che aveva veduto dei passeggi della città, e vi girava in carrozza, innanzi indietro; ripensava la casa domestica, le anticamere, le livree, il comando, e rifaceva tutto per suo uso, ma in un modo più splendido.
Questi pensieri l'assediavano nel dormitorio, nel refettorio, nell'orto, nel coro; ella confrontava col brillante di essi, lo squallido che aveva sott'occhio, e si confermava sempre più nel proposito di non dire quel «sì» che si aspettava da lei.
Le monache si accorsero di questa sua risoluzione ch'ella non cercava nemmeno di nascondere affatto; poiché malgrado la fermezza di questa risoluzione, Geltrudina rifuggiva con tremito dall'idea di manifestarla al padre di sua bocca; e desiderava ch'egli ne fosse prevenuto d'altra parte: poiché in quel caso non le restava che di sopportare la collera e le minacce del padre; operazione passiva che le pareva molto più facile, che di pronunziare quelle parole: «non voglio».
La poverina faceva come colui che avendo da dire qualche cosa di spiacevole a qualcheduno, piglia la penna, e gli manda le sue idee in un bel foglio di carta.
Ma se la determinazione traspariva, i motivi erano celati alle monache; Geltrude li nascondeva sotto quell'aspetto di indifferenza che la faccia dei giovanetti presenta quasi sempre all'occhio di chi comanda loro; essa li nascondeva con quella dissimulazione profonda che è data a quella età, e che forse non ritorna più in nessuna altra epoca della vita, e che appena appena potrà aver riconquistata un diplomatico di ottant'anni, se, come si dice, gli uomini di questa professione sono i più esercitati a nascondere i loro pensieri.
Con le compagne Geltrude era manco coperta, e se esse avessero voluto o saputo osservare, dalle materie più frequenti del suo discorso, dall'entusiasmo al quale si abbandonava talvolta, dalla sua picciola stizza se non altro nella quale l'invidia era trasparente, avrebbero potuto conoscere qualche cosa dell'animo suo: qualche cosa, perché nei sogni caldi ed arditi della pubertà v'è una parte di stranio, di fantastico, di individuale che non si confida, né s'indovina, a quel che dice il manoscritto.
Venne finalmente il momento di levare Geltrude dal monastero, e di ritenerla per qualche tempo nella casa e nel mondo.
Il passo era spiacevole assai pel Marchese Matteo, ma inevitabile, perché una ragazza allevata in un monastero non poteva far la domanda di esservi ammessa ai voti se non dopo esserne stata fuori per qualche tempo.
Era questa una formalità destinata ad assicurare alle figlie la libera scelta dello stato; giacché ognun vede che sarebbe stato troppo facile di fare abbracciare il monastico ad una giovane, che rinchiusa nel chiostro dall'infanzia non avesse mai avuta idea di altro modo di vivere.
Nessuno ignora che le formalità sono state inventate dagli uomini per accertare la validità di un atto qualunque; assegnando anticipatamente i caratteri che quell'atto deve avere per essere un atto daddovero.
Invenzione che mostra affè molto ingegno: invenzione utile, anzi necessaria, perché la più parte delle quistioni che si fanno a questo mondo sono appunto per decidere se una cosa sia fatta o non fatta.
Ma tutte le invenzioni dell'ingegno umano partecipando della sua debolezza non sono senza qualche inconveniente: e le formalità ne hanno due.
Accade talvolta che dove gli uomini hanno deciso che una cosa non può esser realmente fatta che nei tali e tali modi, la cosa si fa realmente in modi tutti diversi e che non erano stati preveduti.
In questo caso, la cosa non vale, anzi non è fatta.
E non andate a farvi compatire da un sapiente col volergli dimostrare che la è fatta; egli lo sa quanto voi; ma sa qualche cosa di più, vede nella cosa stessa una distinzione profonda; vede, e vi insegna che la cosa materialmente è fatta, legalmente non è.
Dall'altra parte accade pure, che dopo essere stato dagli uomini predetto, deciso, statuito che, dove si trovino i tali e tali caratteri esiste certamente il tal fatto, si sono trovati altri uomini più accorti dei primi (cosa che pare impossibile eppure è vera) i quali hanno saputo far nascere tutti quei caratteri senza fare la cosa stessa.
In questo secondo caso bisogna riguardare la cosa come fatta; e darebbe segno di mente ben leggiera e non avvezza a riflettere, o di semplicità rustica affatto colui che, ostinandosi ad esaminare il merito, volesse dimostrare che la cosa non è.
Guaj se si desse retta a queste chiacchere, non si finirebbe mai nulla, e si andrebbe a pericolo di turbare il bell'ordine che si ammira in questo mondo.
Ma questi caratteri, se non infallibili, sono almeno stati scelti dopo accurate osservazioni, senza passioni, né secondi fini, in tempi nei quali gli uomini fossero abbastanza esercitati nel riflettere su quello che vedevano per circostanziare i fatti che dovevano essere dopo di loro? Ah! qui è la quistione; ma per trattarla con qualche fondamento converrebbe fare la storia del genere umano; dal che ci asteniamo, e perché a dir vero, non l'abbiamo tutta sulle dita, e perché siamo per ora impegnati a raccontare quella di Geltrude, in quanto ella è necessaria a conoscere la storia ancor più vasta degli sposi promessi.
Per accertare adunque la libera e reale vocazione d'una figlia al chiostro, era prescritto che ella ne stesse assente per qualche tempo; ed era consuetudine che in questo tempo ella dovesse esser condotta a vedere spettacoli, ad assaggiare divertimenti, per conoscere ben bene quello a cui doveva rinunziare per farsi monaca.
E prima di vestir l'abito, doveva essere esaminata da un ecclesiastico, il quale con interrogazioni opportune ricavasse se non le era fatta forza, e se ella non si faceva illusione, se il suo proposito era insomma libero e ragionato.
Queste formalità però avevano certamente il secondo inconveniente di cui abbiamo parlato; tutto poteva andare in regola, e la giovinetta infelice chiudersi contra sua voglia.
La cosa poteva accadere in molti modi: ch'ella sia talvolta accaduta è un fatto troppo noto, e troppo vero: chi volesse ostinatamente negarlo, abbia almeno la discrezione di non affermar mai di quelle verità che sono contrastate, perché la sua affermazione diverrebbe un argomento di più contro di esse.
Benché Geltrudina sapesse benissimo ch'ella andava ad un combattimento, pure il giorno della uscita dal monastero, fu un giorno ben lieto per lei.
Oltrepassare quelle mura, trovarsi in carrozza, veder l'aperta campagna, e quel ch'è più entrare nella città, furono sensazioni più forti che non fosse il pensiero dei contrasti che aveva a sopportare.
Per uscirne vittoriosa aveva la poveretta composto un piano nella sua mente.
- O vorranno ottenere il loro intento colle buone, diceva ella tra sè, o mi parleranno brusco.
Nel primo caso io sarò più buona di essi, pregherò, li moverò a compassione: finalmente non domando altro che di non essere sagrificata.
Nel secondo caso, io starò ferma; il «sì» lo debbo dire io, e non lo dirò.
- Ma, come accade talvolta anche ai comandanti di eserciti, non avvenne né l'una né l'altra cosa ch'ella aveva pensata.
I parenti avvertiti dalle monache delle disposizioni di Geltrude, furono serj, tristi, burberi; e non le fecero per qualche tempo nessuna proposizione né con vezzi, né con minacce.
Solo dal contegno di tutti traspariva che tutti la riguardavano come rea, e da qualche parola sfuggita qua e là s'intravedeva che la riguardavano come rea, non già di ricusarsi al chiostro, delitto che non poteva nemmeno venire in capo ad alcuno della famiglia, ma di non avviarvisi con buona grazia.
Così ella non trovava mai un varco per venire alla dichiarazione che era pure indispensabile; e i modi secchi, laconici, altieri che si usavano con lei non le davano nemmeno il campo di potere avviare un discorso fiduciale ed amichevole il quale di passo in passo la conducesse a toccare il punto sul quale ella ardeva di spiegarsi, o almeno di farsi intendere.
Che s'ella sofferendo pazientemente qualche sgarbo, si ostinava pure a volere famigliarizzarsi con alcuno della famiglia, se senza lamentarsi implorava velatamente un po' di amore, se si abbandonava ad espressioni confidenziali, e affettuose, ella si udiva tosto gittar qualche motto più diretto e più chiaro intorno alla elezione dello stato: le si faceva sentire che l'amore della famiglia non era cessato per lei, ma sospeso, e che da lei dipendeva l'esser trattata come una figlia di predilezione.
Allora ella era costretta a ritirarsi, a schermirsi da quelle tenerezze che aveva tanto ricercate, e si rimaneva con l'apparenza del torto.
Si accorava e si andava sempre più perdendo d'animo: il suo piano era scompaginato, e non sapeva a qual altro appigliarsi, pure aspettava.
Ma il non veder mai un volto amico, ma le immagini tristi, e direi quasi terribili delle quali era circondata la rendevano sempre più inclinata a ritirarsi in quel cantuccio ameno e splendido che ognuno, e i giovani particolarmente, si formano nella fantasia, per fuggire dalla considerazione di oggetti che attristano.
Ritornava ella dunque più che mai a quei suoi sogni del monastero, e si creava fantasmi giocondi coi quali conversare.
Ma i fantasmi non acquistavano forma reale; ella era tenuta ritirata quanto nel monastero perché il tempo dei divertimenti doveva venir dopo quella domanda ch'ella non aveva fatta e che era risoluta di non fare.
Rinchiusa per una gran parte del giorno con le donzelle, allontanata dalla sala ogni volta che una visita vi si presentasse, non mai condotta in altre case, come avrebb'ella mai potuto vedersi ai piedi quel tal giovane del monastero, che, senza contare tutte le altre difficoltà, non era a questo mondo? Era questo il suo maggiore, anzi l'unico suo difetto, giacché del resto, bellezza, grazia, ricchezza, nobiltà, eloquenza, sincerità, costanza, e sopra tutto appassionatezza, nulla gli mancava.
V'era rischio per altro che s'egli tardava troppo ad esistere l'immaginazione di Geltrude, stanca di aggirarsi nel vuoto gli trasferisse la bontà che aveva per lui, al primo ente reale che non fosse troppo diverso da questo immaginato da rendere impossibile lo scambio.
L'occasione si presentò in fatti, e fu fatale a Geltrude.
Noi ommettiamo i particolari di questo sciaurato affare, diremo soltanto che la prima lettera di risposta ch'ella aveva scritta ad un paggio della Marchesa, cadde in mano di questa, fu tosto consegnata al Marchese Matteo, e che il trambusto in casa fu, come era da aspettarsi, strepitoso.
Il paggio fu sfrattato immediatamente, com'era giusto; ma il Marchese Matteo che aveva idee molto larghe sul giusto in ciò che toccava il decoro della sua famiglia, intimando di sua bocca la partenza al ragazzaccio, per non aumentare il numero dei confidenti, gl'intimò nello stesso tempo che se egli si fosse in alcun tempo lasciato sfuggire una paroluzza sulla debolezza di donna Geltrude, la sua vita avrebbe scontato questo secondo delitto, e che non vi sarebbe stato asilo per lui.
Queste minacce erano a quei tempi molto frequenti, e facevano pure colpo assai, perché ognuno era avvezzo a vederne molte ridotte ad effetto.
Ciò non di meno per esser più certo della segretezza del paggio il Marchese Matteo nel forte del rabbuffo gli appoggiò due solennissimi schiaffi, pensando a ragione che il paggio sarebbe stato meno tentato di raccontare un'avventura, la quale per una parte poteva lusingare la sua vanità, quando ella avesse finito con un incidente doloroso e umiliante.
Alla donna di casa che aveva intercettato il corpo del delitto furono date molte lodi, e nello stesso tempo una prescrizione di segretezza, non accompagnata da minacce, ma in termini che le fecero comprendere che questa segretezza era del massimo interesse anche per lei.
Ma il temporale più scuro, più lungo, più terribile venne a scendere sul capo di Geltrude.
Il Marchese Matteo dopo d'averla caricata di strapazzi, ch'ella intese con tanto più di tremore, quanto si sentiva veramente colpevole, le annunziò una prigione indeterminata nella sua stanza, e per sopra più le parlò d'un castigo proporzionato alla colpa, senza specificarlo, e così la lasciò in guardia alla stessa donna che aveva scoperti gli altari.
Geltrude aspreggiata, rinchiusa, minacciata, in una situazione che sarebbe stata dolorosa anche alla coscienza più illibata, si trovava anche la memoria del fallo, che basta a rattristare la situazione la più gioconda, e l'animo suo fu prostrato.
Non sapeva prevedere come né quando, la cosa sarebbe finita, si aspettava ad ogni momento il castigo incognito e per ciò più terribile; l'essere come sbandita dalla famiglia le era un peso insopportabile, e nello stesso tempo l'idea di rivedere il padre, o di vedere la madre, il fratello la prima volta dopo il suo fallo la faceva trasalire di spavento.
In questa agitazione continua si svolse, e si accrebbe nell'animo suo un sentimento nativo in tutti, ma più forte in lei per indole e reso ancor più forte dalla educazione, il timore della vergogna: sentimento non solo onesto, ma bello, ma essenziale; sentimento però che come tutti gli altri può diventare passione violenta e perniciosa quando non sia diretto dalla ragione, ma nutrito di orgoglio.
La sola idea del pericolo che la sua debolezza, la sua debolezza per un paggio, per una persona meccanica, fosse risaputa da alcuna delle sue antiche superiore, da una sua compagna, da un congiunto della casa, questa idea le era più terribile, più odiosa, della prigione, dell'ira dei parenti, del fallo stesso.
Ella sentiva che con la minaccia di svergognarla così, si sarebbe potuto ottener da lei quello che si fosse voluto.
E sentiva nello stesso tempo quanto fosse peggiorata la sua condizione per la scelta dello stato: giacché il primo requisito per poter resistere alle lusinghe e alle violenze era, avrebbe dovuto essere di non aver nulla da rimproverarsi.
La compagnia della sua guardiana non le era certo di alcun sollievo nella sua ritiratezza angosciosa.
Ella vedeva in quella donna il testimonio della sua colpa, e la cagione della sua disgrazia, e la odiava.
E la donna non amava la fumosetta, per cui era costretta a far vita da carceriera poco dissimile da quella di carcerata, e che l'aveva resa depositaria d'un segreto pericoloso.
La conversazione era quindi fra di esse quale può risultare dall'odio reciproco.
Non restava a Geltrude la trista e funesta consolazione dei sogni splendidi della fantasia: perché questi sogni erano tanto in opposizione col suo stato reale, e con l'avvenire il più probabile, e quelle immagini erano tanto legate con la sua sciagura, che la mente li rispingeva con incredula avversione, e ricadeva come un peso abbandonato, nella considerazione delle circostanze reali.
Cominciò quindi a dolersi davvero di ciò che aveva fatto, a paragonare la vita che menava prima del suo fallo con quella che strascinava in allora, e a trovare la prima soave, a rammaricarsi di non averla saputa conoscere.
L'immagine di colui al quale il suo cuore sgraziato e leggiero si era abbandonato un momento gli compariva accompagnata di tanti dispiaceri che aveva perduta ogni forza sulla sua fantasia.
Tanto è vero che all'amore per signoreggiare un animo, bisogna un poco di buon tempo, e che le faccende gravi, e le grandi sciagure gli spennacchiano le ali, e gli spezzano i dardi, se ci si permette una frase, invero troppo poetica, ma che spiega tanto bene ciò che accade realmente nell'animo.
Scacciato dal cuore questo nimico, il quale a dir vero non vi aveva preso gran piede, raffreddata alquanto l'ira dalla tristezza e dal timore di peggio, e dal pensare che al fine il castigo era meritato, il pentimento di Geltrude cominciò ad essere più dolce, divenne un sollievo.
Pensò ella al perdono che si ottiene con quello, e si rallegrò, pensò che ciò ch'ella soffriva poteva essere una espiazione, e tutto le parve più leggiero.
Si diede quindi tutta ad una divozione la quale in parte era un sentimento intimo e retto dell'animo, in parte un fervore della fantasia.
Le tornava allora alla mente il chiostro, e una vita quieta, onorata, lontana dai pericoli, la dignità di monaca, e quella benedetta pompa di badessa, e quella benedetta boria di essere la più nobile del monastero, ultimo rifugio della sua superbiuzza, le parve un zucchero in paragone dello stato di umiliazione, di prigionia, di disprezzo nel quale si trovava.
L'avversione nutrita per tanto tempo a quella condizione le risorgeva pure con tutte le sue immagini, ma ella le pigliava per tentazioni, e le combatteva.
In questa incertezza, ella desiderava di rivedere il padre, di rivederlo con una faccia diversa da quella di cui le rimaneva una immagine terribile, e dolorosa, di avere il suo perdono, di essere riammessa nella famiglia.
Dopo molto combattimento, prese la penna, e scrisse al padre una lettera piena di entusiasmo e di abbattimento, di afflizione e di speranza, nella quale chiedeva istantemente ch'egli la visitasse, e gli lasciava intravedere ch'egli rimarrebbe contento di lei.
Non già ch'ella avesse presa una risoluzione, ma non poteva più reggere alla solitudine e alla proscrizione, e sperava confusamente che in quel colloquio la risoluzione si sarebbe fatta per lo meglio.
CAPITOLO III
V'ha dei momenti in cui l'animo massimamente dei giovani, è, o crede di essere talmente disposto ad ogni più bella e più perfetta cosa che la più picciola spinta basta a rivolgerlo a ciò che abbia una apparenza di bene, di sagrificio, di perfezione; come un fiore appena sbocciato, che s'abbandona sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze all'aura più leggiera che gli asoli punto d'attorno.
L'animo vorrebbe perpetuare questi momenti, e diffidando della sua costanza, corre con alacrità a formar disegni irrevocabili: felice se la tarda riflessione non gli rivela col tempo, che ciò che gli era sembrato una ferma e pura volontà non era altro che una illusione della fantasia.
Questi momenti che si dovrebbero ammirare dagli altri con un timido rispetto, e coltivare dal prudente consiglio in modo che si maturassero colla prova, e col tempo, nei quali tanto più si dovrebbe tremare e vergognarsi di chiedere quanto più grande è la disposizione ad accordare, questi momenti sono quelli appunto, che la speculazione fredda o ardente dell'interesse, agguata e stima preziosi per legare una volontà che non si guarda, e per venire ai vili suoi fini.
Il Marchese Matteo, il quale passato il primo caldo dell'ira, era tosto corso a fantasticare nella sua mente se da quel disordine avesse potuto cavar qualche profitto per vincere la risoluzione di Geltrude, e che non era mai ristato dal ruminarvi sopra da poi, s'accorse al leggere di quella lettera che la figlia gli dava essa stessa l'occasione desiderata, e stabilì tosto di battere il ferro mentre ch'egli era caldo.
Mandò quindi a dire a Geltrude ch'ella dovesse venire nella sua stanza, ov'egli si trovava solo.
Geltrude v'andò di corsa, che innanzi o indietro è il passo della paura, giunse senza alzar gli occhi dinanzi al Marchese, si gittò ai suoi piedi, ed ebbe appena il fiato per dire: «perdono».
Il Marchese con una voce poco atta a rincorare le rispose, che il perdono non bastava desiderarlo, che questo lo sa fare chiunque è colto in fallo e teme il castigo, che bisognava insomma meritarlo.
Geltrude in tanto più turbata ed atterrita in quanto ella era venuta con la speranza di tosto ottenerlo, chiese che dovesse fare per rendersene degna, e si disse pronta a tutto.
Il Marchese non rispose direttamente, ma cominciò a parlare lungamente del fallo di Geltrude e del torto ch'ella s'era posta in pericolo di fare alla famiglia.
Questo discorso era al cuore di Geltrude come lo scorrere di una mano ruvida sur una piaga.
Aggiunse che, quando mai egli avesse avuto alcun pensiero di collocare la sua figlia nel secolo, questo fatto sarebbe stato un ostacolo invincibile, perché egli avrebbe creduto suo dovere di rivelare la debolezza della sua figlia a chi l'avesse richiesta, non essendo tratto da cavalier d'onore il vender gatta in sacco.
Finalmente, raddolcendo alquanto il tuono della voce, e le parole, disse a Geltrude che questi eran falli da piangersi per tutta la vita, e che ella doveva vedere in questo tristo accidente un avviso del cielo, che le dava ad intendere che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei, e che non v'era asilo, riposo, sicurezza...
«Ah! sì», interruppe incautamente Geltrude mossa ad un punto dal timore, dal ravvedimento, e da una certa tenerezza, e sopra tutto dalla corrività della sua fantasia.
Il Marchese, - ci ripugna dargli in questo momento il titolo di padre - la prese in parola, le annunziò il più ampio perdono, si congratulò con lei del partito ch'ella aveva preso, della vita riposata e felice ch'ella avrebbe menata, e la oppresse di quelle lodi che fanno paura, perché lasciano indovinare a quali improperj esporrebbe il cangiar di risoluzione.
Geltrude si stava stordita fra i diversi affetti che si succedevano nel suo cuore, non sapeva che dire, non sapeva che si avesse detto: dubitava di essersi troppo avanzata, o d'essere stata strascinata più innanzi che non avrebbe voluto; questo pensiero era però dubbio e confuso nella sua mente; ma foss'egli stato limpido e spiegato perfettamente, manifestarlo, accennarlo, dire una parola che contraddicesse all'entusiasmo del Marchese, sarebbe stato uno sforzo quasi impossibile.
Il Marchese fece tosto chiamare la madre e il fratello di Geltrude, per metterli, diceva egli, a parte della sua consolazione, per riporre Geltrude nella stima e nell'affetto della famiglia.
L'una e l'altro accorsero immediatamente.
La Marchesa era avvezza dai primi giorni a non avere altra volontà che quella del marito, fuorché in due o tre capi pei quali aveva combattuto, e ne era uscita vittoriosa.
Questa condiscendenza non veniva già da un sentimento del suo dovere né da stima pel Marchese, ma dall'aver veduto chiaramente da principio che il resistergli sarebbe stato un cozzar coi muricciuoli.
S'era ella quindi renduta indifferente su tutto ciò che riguardava il governo della famiglia, contenta di fare a modo suo nei due o tre articoli che abbiamo accennati.
Del resto i disegni del Marchese sul collocamento di Geltrude erano così conformi a quello che si chiamava interesse della famiglia, e alle mire avare e ambiziose in allora tanto universali, che quel poco di opinione che la Marchesa aveva a sua disposizione non poteva non approvarli.
L'affezione materna però le faceva desiderare che Geltrude si facesse monaca di buona voglia, come una buona madre che abbia una figlia tanto scrignuta e contraffatta da non poter esser chiesta da nessuno, desidera ch'ella preferisca il celibato al matrimonio.
Al giovane Marchesino era stato detto fino dall'infanzia che le entrate della casa erano appena appena proporzionate alla nobiltà, e che detrarne anche una picciola parte sarebbe stato un decadere se non nella sostanza almeno nell'esterno; egli riguardava quindi assolutamente come un dovere in Geltrude di chiudersi in un chiostro: modo il più economico di collocarsi: quindi l'aderire ch'egli faceva ai progetti del padre era una docilità poco costosa.
Il Marchese fece cuore a Geltrude, e la presentò con volto lieto alla madre e al fratello.
«Ecco», disse, «la pecora smarrita, e sia questa l'ultima parola che richiami tristi memorie.
Ecco» aggiunse «la consolazione della famiglia: Geltrude ha scelto ella medesima, spontaneamente quello che noi desideravamo per suo bene; e non ha più bisogno di consigli.
È risoluta, ed ha promesso...» qui Geltrude alzò gli occhi tra lo spavento e la preghiera al Padre, come per supplicarlo di sostare un momento, ma egli ripetè francamente: «ha promesso di prendere il velo».
Le lodi e gli abbracciamenti furono senza fine, e Geltrude riceveva le une e gli altri con lagrime che furono credute di consolazione.
Il Marchese Matteo si diffuse allora a magnificare le disposizioni che aveva già fatte di lunga mano per rendere lieta e splendida la sorte della sua figlia.
Parlò delle distinzioni ch'essa avrebbe avute nel monastero, e del desiderio che le madri avevano di possederla, e di osservarla come la prima, la principessa donna del monastero, dal momento in cui vi avrebbe riposto il piede.
La madre e il fratello applaudivano: Geltrude era come posseduta da un sogno.
«Oh!» s'interruppe il Marchese; «noi stiamo qui facendo chiacchere, e si dimentica il principale: bisogna fare una domanda in forma al Vicario delle monache, altrimenti non si conclude nulla».
Detto questo fece chiamare tosto il Segretario.
Questi giunse ritto ritto, intirizzato quanto poteva comportare la fretta di obbedire al Signor Marchese; il quale tosto gli diede ordine di stendere la supplica.
Il Segretario, rivolto a Geltrude disse: «ah! ah!» per pigliar tempo a studiare un complimento di congratulazione: ma il Marchese lo interruppe dicendo: «Presto, presto, scrivete alla buona, senza concetti; già conosciamo la vostra abilità».
Il Segretario scrisse, e il foglio fu dato a Geltrude da ricopiare, la quale ricopiò, e appose il suo nome, come le comandò il Marchese.
Il quale preso il foglio, e consegnatolo al Segretario perché lo portasse addirittura cui era indiritto; comandò che si preparasse per Geltrude il suo appartamento ordinario, che si dicesse ch'ella era guarita dalla sua indisposizione - era il pretesto preso per dar ragione della sua assenza continua -, e che tosto le si facessero apprestare abiti più sontuosi.
Quindi rivolto sorridendo a Geltrude, le chiese quando ella sarebbe stata disposta a fare una trottata a Monza per richiedere alla Badessa di esser ricevuta.
«Anzi...» riprese dopo aver pensato un momento, «perché non v'andiamo oggi stesso? Geltrude ha bisogno di pigliar aria, e sarà ancor più contenta quando il primo passo sia fatto».
«Andiamo, andiamo» rispose la Marchesa.
«La giornata è bellissima».
«Vado a dar gli ordini», disse il Marchesino e stava per partire.
«Ma...» cominciò Geltrude, e non potè continuare.
«Piano, piano, cervellino», ripigliò il Marchese rivolto al figlio: «forse Geltrude è stanca, e vuole aspettare fino a domani.
Volete voi che andiamo domani?» domandò a Geltrude con uno sguardo che nello stesso tempo mostrava il sereno e minacciava il temporale.
«Domani», rispose con debole voce Geltrude, alla quale non parve vero di aver qualche ora di rispitto, e che nel proferire quella parola si sovvenne che finalmente quel passo non era l'ultimo, il decisivo; e che si poteva ancora darne uno indietro.
«Domani», disse solennemente il Marchese: «domani, è il giorno ch'ella ha stabilito».
Il resto della giornata fu occupatissimo.
Geltrude avrebbe voluto raccogliere i suoi pensieri, riposarsi da tante commozioni, rendersi conto di quello che aveva fatto, di quello che era da farsi, sapere distintamente che cosa voleva, trovare il modo di rallentare un po' quella macchina che appena mossa andava con tanta celerità, per vedere almeno come ne era condotta, e per arrestarla affatto se si fosse accorta che la conduceva ad un pentimento; ma non ci fu verso.
Le distrazioni si tenevano dietro senza interruzione, e la mente di Geltrude era come il lavorio d'una povera fante che serva ad una numerosa famiglia e che in un giorno di faccende chiamata di qua di là non può venire a capo di nulla.
Mentre s'apparecchiava il quartiere ch'ella doveva abitare, ella fu condotta nella stanza stessa della Marchesa, per essere acconciata, adornata, vestita del suo più bell'abito; operazione che in quel giorno le recò una noja intollerabile.
La Marchesa presiedeva all'acconciamento, e parte lodando, parte riprendendo, parte consigliando, parte interrogando Geltrude di cose estranie non le lasciò il tempo di raccozzar due idee.
Del resto a misura che l'opera procedeva verso la sua perfezione, Geltrude stessa vi prese un po' d'affetto, e vi occupò quel poco di pensiero che le rimaneva.
L'acconciatura era appena finita che venne l'ora del pranzo.
I servi la inchinavano umilmente sul suo passaggio, accennando di congratularsi per la ricuperata salute; con una serietà che non avrebbe lasciato supporre che essi sapessero qualche cosa del vero motivo della assenza di Geltrude.
A tavola Geltrude fu la regina: servita la prima, trattenuta, corteggiata, ella doveva corrispondere a tante gentilezze, e faceva ogni sforzo per riuscirvi.
Il Marchese aveva fatto avvertire alcuni parenti più prossimi del ristabilimento della figlia, e della sua risoluzione: le due liete nuove si sparsero, e come la famiglia del Marchese spandeva un lustro grande su tutta la parentela, comparvero dopo il pranzo visite di congratulazione.
I complimenti erano per la sposina - così si chiamavano le giovani che erano per farsi monache - e la sposina doveva rispondere a quei complimenti; ed ogni risposta era una conferma.
S'avvedeva ben ella che ad ogni momento andava tessendo ella stessa una maglia di più alla sua rete; ma oltre ch'ella non vedeva ben chiaro se quella era una rete, fare altrimenti le pareva impossibile: poiché come mai in presenza del padre, a chi si rallegrava di una risoluzione presa da lei, ed annunziata da quello, avrebb'ella potuto dare una risposta dubbiosa? Partite le visite Geltrude entrò con la famiglia nel cocchio dal quale era stata esclusa per tanto tempo: e si andò a fare la solenne trottata.
Lo spettacolo e il romore delle carrozze e dei passeggiatori, i discorsi incessanti del padre, della madre, e del fratello che per cortesia rivolgevano sempre la parola a Geltrude, si contendevano l'attenzione della sua mente; e i pensieri sulla sua situazione vi apparivano istantaneamente come lampi in un povero cielo.
Rientrato il cocchio, in casa, e fermato sotto le volte rimbombanti dell'atrio, i servi che scendevano in fretta coi doppieri, annunziarono che gran parte della conversazione era già ragunata.
Si montò con tutta la fretta che poteva conciliarsi con una certa gravità, e di sala in sala si giunse a quella della conversazione.
La sposina ne fu il soggetto, l'idolo, e la vittima.
Chi si faceva prometter da lei, chi prometteva visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della madre tal altra sua conoscente; chi lodava il cielo di Monza, chi la regola del monastero.
Se alcuno non potendo avvicinarsi a Geltrude assediata da altri, o trovandosi distratto a ciarlare in un crocchio, non le aveva detto nulla, si sentiva tutto ad un tratto preso come da un rimorso, temeva di averle fatta una offesa, e studiava il momento di farle il suo complimento.
Finalmente la brigata si sciolse, tutti partirono senza rimorso, e Geltrude stordita, intronata si rimase sola con la famiglia, dalla quale ebbe altri complimenti sui complimenti che aveva ricevuti.
«Ho finalmente», disse il Marchese Matteo «avuta la consolazione di veder mia figlia trattata e distinta da sua pari.
Domani mattina», soggiunse, «converrà esser presti di buon ora per andare a Monza come ha stabilito Geltrude».
Geltrude condotta finalmente dalla Marchesa nella stanza che le era preparata vi rimase con una donna che era stata quel giorno destinata ai suoi servigi, in vece di quella che aveva fatto presso di lei il tristo uficio di carceriera.
Questo cangiamento era stato provocato da Geltrude.
Vedendo ella in quel giorno il padre così disposto a compiacerla in tutto fuor che in una cosa, fu tentata di profittare dell'auge in cui si trovava per soddisfare almeno una delle passioni che si univano a tormentarla.
Si è detto ch'ella vedeva di mal occhio la donna che le era stata spia e guardiana; e che v'era fra esse un ricambio continuo, una gara di sgarbi.
Geltrude in certi momenti di divozione le aveva perdonato, ma cento perdoni non ne vagliono un solo.
Vedersi in quel giorno trattata con tanta importanza quasi con tanto rispetto da tutta la famiglia, le dava un po' di superbia, e nello stesso tempo il sentire che con queste lusinghe le si faceva fare quello che forse ella non avrebbe voluto le dava stizza: mentre il suo animo si trovava fra questi due tristi sentimenti, le sovvenne dei modi rozzi, famigliari, insolenti che quella donna le aveva usati nella sua prigionia, e volendo lamentarsi di qualche cosa, se ne lamentò al padre.
Questi ne fu, o se ne mostrò sdegnato, non istette a domandarle come ella pure avesse trattata la donna; ma promise che darebbe una buona lavata di capo a colei, e fissò immediatamente ai servigi di Geltrude un'altra donna di casa.
Era questa la vecchia governante del Marchesino: e Geltrude faceva poco guadagno nel cambio.
La vecchia alla quale il Marchesino era stato dato in guardia quando fu tolto alla nutrice, aveva per lui una falsa affezione di madre: in lui aveva poste tutte le sue compiacenze, le sue speranze, la sua gloria.
Dopo il Marchese ella era stata la prima a dire che Geltrude aveva ad esser monaca per non rubare una parte d'entrata al Marchesino.
Quel giorno ella era e si mostrava tanto soddisfatta che aveva ricevute le congratulazioni dei suoi conservi, tra i quali era un personaggio d'importanza; e parlava con molta bontà della signorina che aveva conosciuto il suo dovere.
Geltrude, a compimento di quella giornata, dovette sentire le lodi e i consigli della vecchia che spogliandola e ponendola a letto le fece la storia di sue zie, e di sue prozie, le quali s'eran fatte monache per non intaccare il patrimonio della casa, e che se n'erano trovate ben contente perché i monasteri dove s'erano chiuse avevan saputo tener conto dell'onore che arrecava loro l'aver dame di quella casa.
Le raccontò che si era ricorso ad esse per protezione, e che esse dal loro parlatorio avevano ottenuto ciò che era stato invano domandato dalle prime dame nella loro gran sala di ricevimento, parlò degli affari d'onore imbrogliatissimi ch'esse avevano conciliati, delle visite di grandi personaggi forestieri che avevano ricevute, di che tutta la città aveva parlato.
«Ma», soggiungeva, «erano donne che sapevan fare»; e qui intrometteva qualche consiglio sulla condotta da tenersi a Monza.
Prediceva gli onori che Geltrude avrebbe pur ricevuti, le distinzioni, le visite.
Verrebbe poi il Signor Marchesino con la sua sposa, la quale doveva esser certo una gran dama, e allora non solo il monastero, ma tutto il borgo sarebbe in movimento.
Geltrude ascoltava con una noja mista di qualche curiosità, poiché si trattava probabilmente del suo avvenire, e benché stanca e stordita non diceva: «finitela», per quella stessa curiosità che impedisce uno di lasciare a mezzo una storia mal pensata e male scritta.
La vecchia aveva parlato mentre spogliava Geltrude, quando Geltrude era già coricata; parlava ancora che Geltrude dormiva.
Le cure di rado tolgono il sonno alla giovinezza; e sono tutt'altre cure che quelle onde era oppressa Geltrude.
Il suo sonno fu affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce agra della vecchia che venne di buon mattino a riscuoterla perché si preparasse al viaggio di Monza.
«Alto, alto, signora sposina; è giorno fatto; e prima ch'ella sia vestita, rivestita, in pronto, ci vorrà anche un'ora almeno.
La Signora Marchesa si sta alzando, e l'hanno svegliata quattr'ore prima del solito.
Il Marchesino è già disceso alla scuderia e risalito; e si trova in ordine di partire quando che sia.
Vispo come un lepratto quel diavoletto: ma! egli era tale fin da bambino: io posso ben dirlo che l'ho tenuto nelle mie braccia.
Ma quando è all'ordine non bisogna farlo aspettare, perché quantunque sia della miglior pasta del mondo, allora egli strepita, fa il diavolo: e questa volta avrebbe anche un po' di ragione perché egli s'incomoda per accompagnar lei.
Guarda in quei momenti: non ha tema di nessuno, fuorché del Signor Marchese; ma poi finalmente egli non ha sopra di sè che il Signor Marchese, e un giorno il Signor Marchese sarà egli.
Poveretto! con due paroline però s'acqueta subito.
Lesta, lesta, signorina, perché mi sta guardando così come incantata? a quest'ora ella dovrebb'esser fuori del nido».
Geltrude infatti desta per forza, non ancor ben certa di vegliare, assalita ad un punto dalle memorie del giorno trascorso, dal pensiero di ciò che si doveva fare in quello che cominciava, e dal cinguettio della governante, stava cogli occhi socchiusi ed intenti come trasognata: quel destarsi era per la sua mente come il dubbio barlume di un mattino tempestoso, quando un leggero diradamento nelle tenebre appena annunzia che il sole è sull'orizzonte, e a chi guarda più attentamente il sole stesso appare come un disco bianco e leggiero sospeso dietro le nuvole trasparenti.
Quelle esortazioni però fecero colpo assai, perché la vecchia aveva toccato un tasto del quale essa stessa non conosceva tutta la forza.
Il nome del Marchesino aveva già fermata l'attenzione di Geltrude, ma quando dalle parole della governante l'immagine del Marchesino in collera passò nella mente di Geltrude, tutti i pensieri onde questa era affollata, si levarono a volo come uno stormo di passere alla vista d'uno spauracchio, e non restò più a Geltrude che la voglia di sbrigarsi, e di schivare quella collera.
Geltrude, bisogna confessarlo, non amava molto il fratello; e pei suoi modi aspri, sprezzanti, e imperiosi, e perché di tutta la casa il Marchesino era quegli che più sovente aveva il monastero in bocca; e perché le compiacenze e le distinzioni dei parenti sopra di lui, la tenevano in uno stato continuo di paragone umiliante.
Lo temeva essa però, ma fino ad un certo tempo non quanto egli avrebbe voluto: e come di lingua e d'ingegno, ella era meglio fornita di lui, di quando in quando ella si vendicava con un motto di molti giorni di una pesante persecuzione.
Era quindi fra loro come un continuo stato di guerra.
Ma quando dopo la sua prigionia Geltrude comparve davanti al fratello carica d'un fallo e d'un perdono, alzando timidamente gli occhi sulla faccia del fratello, vi scorse una superiorità dalla quale non ebbe pure il pensiero di potersi ribellar mai; si sentì soggiogata per sempre.
Ed ora il solo pensare che il fratello in un momento d'impazienza potesse profittare del vantaggio che ella le aveva dato col suo fallo, per gittarle un motto, un rimprovero che alludesse a quello, la faceva tremare.
Si pose ella quindi a sedere in fretta, e pure in fretta cominciò a vestirsi.
Avrebbe potuto la poverina riflettere che quel pericolo era troppo lontano; che il fratello in un momento in cui sperava da lei un tal sagrificio era ben lontano dal dir cosa che potesse offenderla; e che alla fine per grossolano e sventato ch'egli fosse, non avrebbe scherzato così di leggieri con l'onore di sua sorella, al quale il suo proprio era tanto vicino; ma un effetto dei falli si è appunto di render l'animo più soggetto a timori non ragionevoli.
Geltrude si vestì dunque in fretta, si lasciò acconciare e comparve nella sala dov'era radunata la famiglia ad aspettarla.
Il Marchesino, al quale corsero dapprima i suoi occhj, se ne stava tranquillo, senza dar segno d'impazienza: la Marchesa la quale aveva sagrificate tre ore di letto mostrava nell'aspetto quel misto di sentimenti che nasce dalla consolazione di aver fatta una impresa, e dal dispetto degli incomodi sostenuti per venirne a capo.
Il Marchese con lieto viso si fece incontro a Geltrude, e le disse.
«Avete scelto una bella giornata: buon augurio».
«Buon augurio» ripeterono la Marchesa e il Marchesino.
Era preparata una sedia a bracciuoli, e il Marchese accennò amorevolmente a Geltrude che vi sedesse, e perch'ella confusa stava alquanto in forse: «qui, qui», diss'egli, «certamente: dopo la risoluzione che avete fatta non siete più una ragazzetta: siete come un di noi».
Appena Geltrude si fu seduta, venne un servo che le presentò rispettosamente una tazza di ciocolatte.
Prendere il ciocolatte a quei tempi, era, dice il nostro manoscritto, quello che presso ai romani assumere la veste virile: e tutte queste cerimonie erano piccioli fili, che legavano sempre più la povera Geltrude.
Essa non confermava con parole la risoluzione che tutte quelle dimostrazioni supponevano: non diceva nulla, non faceva nulla, ma tutto ciò che si faceva d'intorno a lei, la poneva in una situazione nella quale il disdirsi, appena il mover dubbio sulla sua risoluzione, il fermarsi un momento avrebbe avuto sempre più apparenza di stranezza scandalosa.
Preso il fatal ciocolatte, il Marchese si alzò, pigliò Geltrude in disparte, e con aria di consiglio amorevole le disse.
«Orsù figlia mia, diportatevi bene: scioltezza, e buon garbo».
E qui le diede le istruzioni su quello che doveva fare e dire, e le fece ripetere la formola della domanda.
«Benissimo, a meraviglia» esclamò quindi e continuò: «Quelle buone suore vi aspettano a braccia aperte; e non sanno nulla, nulla...
Non mi date in fanciullaggini, in pianti, non mi fate la Maddalena penitente, guardatevi da un contegno che lasci sospettar qualche cosa: siate franca, e mostrate di che sangue uscite.
La vostra risoluzione vi ha meritato il perdono della famiglia; il vostro fallo è cancellato e dimenticato».
Quand'anche Geltrude avesse avuto il coraggio, che non aveva, di porre qualche ostacolo, questo discorso, che le faceva sentire dove si sarebbe tosto portata la quistione, l'avrebbe immediatamente disposta ad obbedire senz'altre osservazioni.
Ella arrossò, non rispose nulla, chinò il capo, gli occhi le si gonfiarono; ma un «via via», detto risolutamente dal Marchese e l'apparire d'un servo che annunziava che il cocchio era pronto, la costrinsero a farsi forza, e a ricomporsi.
Nello scender le scale, Geltrude fu servita da un bracciere; si montò in cocchio, e si partì.
Gl'impicci, le noje, e i pericoli del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente per le giovani di sangue nobilissimo furono il tema del discorso durante il tragitto.
All'entrare nel borgo, al vedere la porta del chiostro, Geltrude si sentì stringere il cuore, ma gli occhi della famiglia erano sopra di lei; quando il cocchio si fermò Geltrude guardando alla porta la vide già piena di curiosi; e lo studio di non far nulla di sconvenevole la occupava tanto, ch'ella scese, e s'avviò quasi senz'altro pensiero.
Attraversando il cortile si vide la porta del chiostro aperta, e tutta occupata dalle monache.
In prima fila alcune anziane con la badessa nel mezzo; dietro le altre alla rinfusa, quelle che erano immediatamente dopo le prime cacciavano il volto tra l'una e l'altra, altre dietro ritte sulla punta dei piedi; e per non tacer nulla, le converse in ultimo sollevate sopra sgabelletti.
Si vedevano pure qua e là luccicare più basso qualche paja di occhj avidissimi, come al buco della chiave, ed apparire qua e là un po' di volto mezzo ascoso: erano le più destre e le più animose delle educande che serpendo tra una monaca e l'altra s'eran trovate un cantuccio per vedere anch'esse qualche cosa: il che era in verità troppo giusto.
Geltrude come incantata giunse in faccia a tanto teatro, condotta ed animata dai parenti, e si fermò nel bel mezzo davanti alla madre badessa.
È inutile dire che questa era stata dal Marchese avvertita per un messo straordinario della visita che avrebbe ricevuta e del perché.
Geltrude fu accolta dalla badessa e da tutte le suore con acclamazioni.
Dopo i primi saluti, la badessa nel modo con cui si fa per formalità una domanda della quale è certa la risposta, le domandò che cosa ella desiderava in quel luogo dove non v'era chi potesse nulla rifiutarle.
«Son qui...» cominciò a rispondere Geltrude, ma nel momento in cui ella doveva manifestare con certezza un desiderio che era tutt'altro che certo nel suo cuore, nel momento in cui le sue parole dovevano decidere quasi irrevocabilmente del suo destino, il combattimento interno fu sì forte ch'ella non potè proseguire, e ristette un istante guardando come incantata la badessa, e la folla che la circondava.
Così guatando ella vide distintamente alcune delle sue compagne, e sulla parte che appariva di quelle faccette e più negli occhi un'espressione mista di malizia e di compassione, che diceva chiaramente: «Ah! c'è incappata la brava!» Questa vista le risvegliò in cuore tutta l'avversione al chiostro, l'orrore per la violenza che l'era fatta, e con questi sentimenti un lampo di coraggio.
E già ella stava cercando una risposta diversa da quella che si aspettava da lei, cosa troppo difficile a trovarsi in quella circostanza.
Alzò un momento gli occhi verso il padre che le stava di fianco, per indovinare che effetto avrebbe prodotto la sua resistenza, e come per esperimentare le proprie forze, ma vide negli sguardi del Marchese una espressione sì minacciosa, che tutto il suo coraggio svanì.
Pensò che la resistenza, che il ritardo, l'avrebbero resa innanzi a tanti occhi un oggetto di scandalo, di stupore, e di derisione, pensò al padre, al fratello, al mondo, al paggio; si consolò riflettendo che dopo quella formalità le rimaneva ancora una porta aperta per tornare indietro, che poteva guadagnar tempo, e che avrebbe saputo approfittarne; e il partito il più facile, il più sicuro, il meno terribile in quel momento le parve di dire, come fece: «Son qui a domandare d'essere ammessa a vestir l'abito».
Nel breve momento d'indugio ch'ella aveva posto a finir la sua frase un silenzio solenne aveva regnato fra gli astanti: le parole di Geltrude furono seguite da una acclamazione generale.
Chetato il tumulto, la badessa tutta sorridente, porse a memoria questa risposta che le era stata data in iscritto da un bell'ingegno di Monza, uomo dotto che aveva letti i celebri romanzi del Pasta: «Se il rispetto non ponesse un freno agli affetti, io accuserei in questa circostanza di troppo rigore quelle regole sapientissime che ci proibiscono di dare alcuna risposta a domande di questa natura prima di averne ottenuta la licenza.
Bensì senza riguardi, accuseremo il tempo che coi suoi lenti passi ci ritarda il momento di dare questa risposta desiderosa non meno che desiderata.
E voi, carissima figlia, con l'acume del vostro ingegno potrete intanto, dai segni esterni farvi indovina della decisione che potete aspettarvi da tutte le nostre suore; e da me umilissima superiora».
Le acclamazioni ricominciarono: e le suore sorrisero di compiacenza, e non a torto perché la gloria del capo si diffonde sugli inferiori.
La badessa, alla quale non era spiaciuto di aver molti uditori, pensò allora che la folla poteva essere incomoda, si rivolse ad una suora, e disse: «Ehi suor Eusebia, date un po', una voce alla fattora, perché faccia sparire tutto quel minuto popolo, e chiuda la porta di strada».
L'ordine fu dato ed eseguito: e il minuto popolo partì con dispiacere, ma con ammirazione.
Geltrude passava intanto dalle braccia della badessa a quelle d'una e d'un'altra suora; e ognuna le faceva un complimento, il quale aveva in tutte a un di presso lo stesso senso: - l'avevam sempre detto che sareste nostra -.
Passato quel primo impeto, la badessa pregò Geltrude e la famiglia di passare nel parlatorio.
A questa preghiera, le converse scesero dagli sgabelli, la folla si diradò, e la badessa con alcune delle anziane si avviò al parlatorio per l'interno del chiostro, mentre la famiglia milanese vi andava pel di fuori.
V'ha due modi di scendere il pendio della sventura: l'uno è di capitombolare ad un tratto nel precipizio, l'altro d'andarvi come saltelloni in più riprese: in questo secondo caso, ogni fermata è una specie di riposo; e l'intervallo che passa tra una caduta e l'altra è talvolta tutto occupato dalla speranza.
Geltrude sentì un certo sollievo d'essere uscita di quella stretta comunque ne fosse uscita, e corse tosto col pensiero a proporsi di volere prima di fare un altro passo meditar ben bene se le conveniva o no di progredire, e di non lasciarsi cogliere così alla sprovveduta.
Con questo pensiero ella fu condotta nel parlatorio.
Qui rinnovati i complimenti, la badessa pregò gli ospiti di aggradire alcune cosucce, ch'ella faceva porre nella ruota da una conversa; la quale dette il moto alla ruota, e ne rivolse la bocca verso il parlatorio esteriore.
Due secoli e più sono passati dopo quel giorno memorabile: così che noi crediamo di potere ormai senza indiscrezione manifestare che la ruota, rivolgendosi, offerse agli sguardi, ed alle mani degli ospiti un gran bacile di dolci squisiti, fabbricati di propria mano dalle suore malgrado gli ordini ecclesiastici, in allora recenti, che proibivano loro assolutamente un tale esercizio.
È da credersi che questi ordini non ottenessero un più grande effetto in progresso di tempo, giacché questa fabbricazione durò fino ai nostri giorni; il che non si accenna qui per censurare con indiscreta severità tutte le monache che si succedettero in questi due secoli; una tale censura sarebbe anzi a dir vero non solo indiscreta, ma perfidamente ipocrita, perché chi scrive ha mangiato egli stesso i dolci squisiti di fabbrica monastica, quando ha potuto averne.
Si parla soltanto di questo fatto, perché può dar luogo ad una osservazione piccante: che vi ha talvolta delle leggi che non sono eseguite.
Dopo un «oh!» come di sorpresa, dopo alquanto schermirsi, e lagnarsi d'esser trattati in cerimonia, il bacile fu manomesso, i dolci furono gustati con atti che esprimevano l'ammirazione, somme lodi furon date con sentimento molto, e rispinte con molta modestia.
Mentre la Marchesa e il Marchesino si abbandonavano con alcune suore alle varie riflessioni che può far nascere un bacile di dolci, e Geltrude era costretta di rispondere come poteva ai complimenti che altre suore le facevano, la madre badessa chiamò in disparte il Marchese ad un'altra grata.
«Signor Marchese...
per adempire alle regole...
per una pura formalità...
debbo dirle...
che ogni volta che una figlia domanda d'essere ammessa...
la Superiora, quale io sono indegnamente...
tiene obbligo di avvertire i parenti che se mai essi forzassero la volontà della figlia incorrerebbero nella scomunica...
Mi scuserà...»
«Benissimo, benissimo, reverenda madre; troppo giusto: lodo la sua esattezza.
Ma già ella non può dubitare...»
«Oh! Pensi, Signor Marchese; non sono pur cose da dirsi: ho parlato per mio dovere; ma s'immagini...»
«Certo, certo, madre badessa».
Finito il qual breve dialogo, i due interlocutori si separarono in fretta, come se fosse incomodo ad entrambi il continuarlo, e andarono a mescersi ognuno alla sua brigata.
Dopo alcuni altri complimenti, il Marchese si accomiatò, e Geltrude colle tenere espressioni della badessa, con le istanze delle suore di venir presto, fu rimessa in cocchio più stordita, più incerta, più sopra pensiero di quello che fosse partita la mattina, ma con un anello di più alla sua catena; e che anello!
Ma la badessa aveva ella qualche dubbio sulla libera elezione di Geltrude, o prestava fede intera alle parole materiali ch'erano uscite dalla bocca di lei? Il manoscritto non ne dice nulla; si perde invece a raccontare lunghissimamente dei particolari nojosi che noi ommettiamo, intorno ad alcune brighe del monastero, ad alcune rivalità, ad alcuni impegni, nei quali l'aver fra le suore una figlia di famiglia potentissima poteva essere un gran soccorso.
CAPITOLO IV
Appena cessati gl'inchini che dalla carrozza si dovevano fare in risposta alle riverenze delle suore che stavano sulla soglia a veder partire i signori, e la nuova sorella, appena messo in moto il cigolante carrozzone, Geltrude fu assalita da nuovi complimenti sul modo con cui si era portata, sul suo contegno, sull'ammirazione che aveva eccitato nelle monache, sul giubilo di queste per l'acquisto che facevano, e per conseguenza sulla felicità di che Geltrude avrebbe goduto in loro compagnia.
Ma tutti gli elogi non furono per Geltrude.
La Marchesa sbadigliando parlò con ammirazione della badessa: «Come s'è portata!» diss'ella «non mi aspettava tanto; ah! che contegno! aah! che dignità! aaah! che disinvoltura!»
«Sì, sì»: rispose il Marchese, «ma! Geltrude sarà altra cosa».
Il discorso sarebbe durato fino all'arrivo in città, se il Marchesino che ne era nojato non l'avesse troncato per parlare dei divertimenti che Geltrude doveva godere nell'intervallo fra la domanda e l'accettazione.
E qui come conoscitore espertissimo di tutto ciò che nella città e nei contorni era degno da vedersi, egli ne anticipò a Geltrude larghe e variate descrizioni; e le parlò di molte sposine ch'egli aveva incontrate nelle brigate, senza risparmiare la storia di qualche grossa semplicità di taluna di esse, che aveva molto dato da ridere.
Il Marchese lasciava chiaccherare il figlio, perché in questa faccenda egli aveva più da fare che da dire, e tutto ciò che gli risparmiava una occasione di discorso, lo toglieva da un impaccio: quanto alla Marchesa, malgrado i trabalzi che una carrozza di quei tempi dava in una strada di quei tempi, ella dormiva saporitamente: cosa che non sorprenderà chi sappia che cosa vuol dire essere svegliato tre ore prima del solito, e per occuparsi in cosa indifferente.
La Marchesa fu desta dal rimbombo dell'atrio di casa, e dall'improvviso fermarsi della carozza.
Scesi, e salite le scale, il Marchese intimò alla madre e alla figlia che prima del pranzo dovessero porsi in assetto per andar subito dopo a restituire la visita alle dame che avevano favorito la sera antecedente.
Detto e fatto; l'acconciatura, il pranzo, le visite si succedettero senza interruzione; e la solita conversazione terminò la giornata.
Dopo cena il Marchese pose in campo il discorso dei divertimenti che si dovevano dare a Geltrude, e delle conversazioni dove ella aveva ad esser presentata come sposina.
«Bisognerà pensare senza ritardo», soggiunse egli, «a scegliere per Geltrude una madrina degna della nostra casa».
La madrina, mio giovane lettore, era una dama incaricata di condurre la sposina ai divertimenti, alle conversazioni, di presentarla, e di vegliare sovr'essa.
Siccome il Marchese proferendo quelle ultime parole s'era voltato verso la Marchesa come invitandola a proporre la dama che le fosse paruta più a proposito (atto per parentesi che il Marchese faceva rarissimo) la Marchesa cominciò tosto: «Vi sarebbe...» «No no», interruppe il Marchese, «la prima condizione d'una madrina è ch'ella vada a genio della sposina; e benché l'uso universale e ragionevole dia questa scelta ai parenti, pure Geltrude ha tanto giudizio che merita che si faccia una eccezione per lei».
E qui rivolto a Geltrude col piglio di chi fa una grazia singolare, continuò: «Ognuna delle dame che avete visitate questa mattina, e di quelle che si sono trovate questa sera alla conversazione, ha le condizioni necessarie per esser madrina d'una figlia della nostra casa, e ognuna si terrà onorata di esser preferita: scegliete».
Geltrude incerta com'era, e stanca e indispettita dei passi che le si facevano fare sulla via del chiostro, non avrebbe voluto far nulla: ma la grazia era offerta con tanto apparato ch'ella s'avvide che il rifiuto sarebbe stato preso per un disprezzo; e nello stesso tempo non volle perdere quel qualunque vantaggio che le dava il potere scegliere.
Nominò dunque la dama che in quel giorno le era più dell'altre piaciuta, quella cioè che le aveva fatte più carezze d'ogni altra, che l'aveva lodata più d'ogni altra, che nell'accoglierla e nel conversare con lei le aveva mostrato tutto quell'aggradimento, quella famigliarità, quell'affetto che alle volte in una prima conoscenza imita i modi d'una antica amicizia.
La dama scelta da Geltrude aveva da lungo tempo fatto assegnamento sul fratello di Geltrude per farne il marito d'una sua figlia ch'ella amava assai.
«Ben scelto, ben scelto», disse il Marchese: «e Lei», proseguì verso la Marchesa, «andrà domani a farne la domanda alla dama; e si ricordi di dire che la scelta è stata fatta da Geltrude: che son certo che la dama aggradirà doppiamente la domanda».
Noi non terremo dietro a Geltrude nei divertimenti, e nelle conversazioni a cui fu condotta o strascinata; né racconteremo tutte le impressioni e i sentimenti dell'animo suo in queste spedizioni; poiché dovremmo ripetere tante volte la stessa cosa, quante furono le fluttuazioni, le risoluzioni, i pentimenti, i sì e i no della sua mente, che furono infiniti.
Talvolta la pompa degli addobbi, lo splendore delle feste, la musica che non esprime alcuna idea, e ne fa nascere a migliaja, quella esaltazione di gioja che appare negli uomini radunati per divertirsi, e per dir tutto le qualità auree di qualche giovane cavaliere che s'indovinavano al solo vederlo, le comunicava una certa ebbrezza, una specie di entusiasmo che le faceva proporre di soffrire ogni cosa piuttosto che di tornare all'ombra trista e fredda del chiostro.
Talvolta lo stordimento, la fatica, la seccaggine dell'udire e la contenzione del rispondere le faceva parer dolce quel silenzio e quella pace.
Si destava talvolta piena ancora delle immagini splendide del giorno trascorso; pensava al passo irrevocabile che stava per dare, e diceva tra sè: - Oh che sproposito! - si sentiva un coraggio a tutta prova, e prometteva di tornare indietro.
La presenza del padre, o del Marchesino, una cosa qualunque da farsi raffreddavano quel primo impeto; il quale alla sera si trovava talvolta cangiato in un pieno abbattimento.
Tornavano allora alla mente le difficoltà, si pensava allora che se anche resistendo si avrebbe potuto schivare il chiostro, non era da sperarsi il viver lieto del quale allora si gustava una parte: perché si era in colpa, perché tutta la bonaccia presente non era assicurata che da un perdono, e il perdono dalla risoluzione di pigliare il velo.
Come sarebbero andate le cose, se la risoluzione si fosse ritrattata? e con quali parole ritrattarla? come cominciare? da che? Geltrude ritirava lo sguardo da questo mare in tempesta, e rivolgendolo allora al chiostro, il chiostro le pareva un porto.
Coltivava ella allora i sentimenti pii che potevano far piacere il chiostro a chi l'avesse scelto volontariamente, e in quelli cercava di riposare.
Quando dopo questi momenti ella si trovava con la famiglia, o con altri, diceva spontaneamente e con aria di posata fermezza, parole che dovevano far credere che la sua scelta era liberissima.
Tutte le volte poi ch'ella era posta in una circostanza nella quale ciò ch'ella doveva fare o dire doveva essere un nuovo attestato di questa sua scelta, ella faceva e diceva ciò che lo poteva far credere, ciò che la impegnava sempre più.
Benché alcune volte in quelle circostanze, ella sentisse una manifesta ripugnanza all'impegnarsi davantaggio, quantunque ella vedesse chiaramente che ciò ch'ella stava per fare le rendeva più e più difficile il retrocedere, pure il dire o fare il contrario l'avrebbe posta tutt'ad un tratto in una situazione così dura e così difficile, ch'ella non poteva né pure pensare di farlo.
Ella era come chi trovandosi sur un ripido pendio, vedesse all'ingiù sotto di sè un picciol passo da farsi, e quindi un luogo di riposo, e volgendosi indietro per guardare alla via che bisognerebbe fare per risalire vedesse il principio d'una erta, lunga, dirotta, disastrosa.
E la povera Geltrude non dava passo che per discendere.
Ma siccome chi nuoce a se stesso nell'avvenire per timore di nuocersi nel momento presente, non vuol mai confessare a se stesso tutto il male che si fa, né darsi così tosto per perduto, e ad ogni male che si fa, si consola con l'idea d'un rimedio, così anche Geltrude aveva trovato nella via che le restava da percorrere un momento di più forte speranza.
Questo momento era quello dell'esame che un ecclesiastico deputato dal vicario delle monache doveva fare della sua vocazione; esame nel quale ella si sarebbe trovata sola con lui, e nel quale ella si teneva certa che qualche occasione si sarebbe offerta per potere svilupparsi da quel laccio, se laccio era, e in ogni caso, di conoscere ella stessa più chiaramente il suo animo, di deliberare sulla sua scelta più posatamente, più sicuramente, di quello che potesse fare coi parenti già risoluti senza deliberazione, e coi suoi pensieri troppo agitati, troppo confusi, troppo inesperti per deliberare.
Il momento che Geltrude desiderava non senza qualche terrore, il Marchese lo affrettava con istanze, perché, come si è detto, egli era uomo esperimentato, e sapeva che a volere che un affare sia spicciato, bisogna muoversi; e il momento venne.
Un bel mattino il Marchese annunziò a Geltrude che in quel giorno il Signor...
ecclesiastico mandato dal vicario delle monache, verrebbe ad esaminare la sua vocazione.
Ma come quella conferenza avrebbe avute conseguenze serie, e Geltrude vi doveva esser sola con l'ecclesiastico, così il Marchese stimò che fosse necessario aggiungere all'annunzio qualche avvertimento che lasciasse una impressione nell'animo della figlia, e le servisse di compagnia e di guardia nell'assenza forzata d'ogni altro custode.
«Orsù, Geltrude», diss'egli; «finora voi vi siete diportata da angelo: ora si tratta di coronar l'opera.
Oggi voi dovete fare un gran passo; pensate che da esso dipende l'onore di vostro padre, della famiglia, il vostro, e il vostro destino di tutta la vita.
Tutto quello che si è fatto finora, si è fatto di vostro consenso, anzi a vostra richiesta.
Se in tutto questo frattempo vi fosse nato qualche pentimento, qualche dubbio, avreste dovuto manifestarlo; ma ora, voi ben vedete che non è più tempo di far ragazzate.
Io mi sono impegnato, in faccia al mondo, e mi sono impegnato perché voi mi avete dato motivo di credere, di esser certo che poteva impegnarmi senza rischio di avere una smentita.
Ricordatevi che la più picciola esitazione che voi potreste mostrare oggi, mi porrebbe nella necessità di scegliere fra due partiti dolorosi: o di rinunziare alla mia riputazione, lasciando credere che io ho presa leggermente una leggerezza vostra per una ferma risoluzione, che ho fatte tante pubblicità senza riflessione...
che so io...
che ho preteso far violenza alla vostra vocazione...
o di svelare i veri motivi della richiesta che voi avete fatta, e del vostro pentimento.
Il primo partito non può assolutamente stare con ciò che debbo a me e alla casa.
Astretto di appigliarmi al secondo, dovrei anche poi trattarvi come una figlia colpevole, che avrebbe corrisposto al primo perdono con un'altra gravissima colpa...»
Il tuono solenne e misterioso con cui il Marchese aveva cominciato il suo discorso aveva già messa in apprensione Geltrude: e nella angoscia dell'aspettazione i tratti del suo volto erano immobili, tesi, ravvolti come le foglie d'un fiore nell'afa che precede la burasca: ma la gragnuola assidua e crescente di quelle parole minacciose percotendola, la abbattè affatto, e la fè sciogliere in uno scoppio di pianto.
«Via via...
che è stato?» disse avvedendosene il Marchese, il quale era in quella faccenda tanto occupato delle conseguenze che ella poteva avere per lui che non pensava che ella potesse toccare altri tanto sul vivo.
«Che è stato? io ho parlato in una supposizione impossibile...
pure doveva pensare anche ad un tal caso...
per quanto giudizio abbiate, io doveva mettervi in avviso sull'importanza delle risposte che oggi siete per dare.
Il Signor...
vi domanderà se la vostra risoluzione è libera, se i parenti non vi hanno comandato, consigliato...
che so io?...
ed io doveva avvisare di pesare ben bene la risposta, perché ella sia tale da non pormi nella necessità, di farne un'altra io, e...
ma via, via, le son ciarle; voi farete il vostro dovere da brava, come avete fatto finora; e non si parlerà tra di noi che di consolazioni.
Via non piangete, ricomponetevi, io vi lascio sola: rasserenatevi, non fate che il Signor...
vi trovi in uno stato che possa dare dei sospetti...
mi fido di voi».
Così dicendo partì, lasciando Geltrude a tutta l'agitazione che poteva dare un tal discorso ad una giovane del suo carattere in quella circostanza.
Geltrude pianse amaramente, si sdegnò, volle meditare su quello che aveva a dire; ma questa meditazione era così piena di dolori, di incertezze, e d'angustie, che la poveretta prescelse di divertirne a forza il pensiero, di rivolgerlo a qualche cosa di estraneo, e di aspettare il consiglio dalla cosa stessa e dal momento.
Ma qual si fosse il partito al quale ella dovesse appigliarsi nell'abboccamento, ella stessa sentiva ripugnanza e vergogna a presentarvisi in un aspetto che annunziasse una qualche perturbazione, e risolvette di avere un aspetto tranquillo e decente; e lo ebbe in brevissimo tempo.
Pretendono alcuni che le figlie d'Adamo riescano molto meglio a dominare l'espressione esterna del loro animo che l'animo stesso; e che in questa parte riescano meglio assai che non quegli individui del genere umano che si chiamano di preferenza uomini.
Ma tutte queste quistioni di paragone tra l'un sesso e l'altro, non saranno mai messe in chiaro, e né pure ben poste fin che gli uomini soli ne tratteranno ex professo negli scritti: giacché essi peccano tutti verso le donne o di galanteria adulatoria, o di ostilità grossolana.
Con questa osservazione non s'intende già di sprezzare temerariamente tante opere profonde che sono state scritte sul merito comparativo del bel sesso, e le riflessioni infinite e bellissime su questo argomento che sono sparse in tante altre opere; ma per quanto una materia sia stata egregiamente trattata, è sempre lecito di desiderare qualche cosa di più.
«Il Signor...!» A questo annunzio Geltrude balzò in piedi vergognosa, e agitata, facendogli le accoglienze che usano le persone vergognose e agitate.
Il Marchese lo accompagnava, e dato uno sguardo a Geltrude si ritirò: la madrina passò nella stanza vicina: la porta di comunicazione aperta in modo che ella potesse da quella vedere e non intendere.
I lettori d'una storia hanno il privilegio di conoscere i personaggi prima di vederli operare, di sentirli parlare; ed è questa una delle ragioni per cui la lettura d'una storia è molte volte più chiara e meno difficoltosa che la condotta negli affari della vita.
Per servire a questo privilegio noi diremo qualche cosa del Signor...
Era un buon uomo; e la bontà gli era sì naturale, che gli pareva la cosa la più naturale del mondo: siccome ve n'aveva sempre nelle sue intenzioni e nelle sue azioni, egli ne supponeva sempre nelle intenzioni e nelle azioni degli altri: nel che il buon uomo aveva torto.
Non vogliam dire con questo ch'egli avrebbe dovuto giudicare sfavorevolmente degli altri, supporre il male, attenersi a quell'indegno proverbio che dice, - chi pensa male pensa una volta sola -: ohibò: questo è un eccesso più comune, e peggiore.
Avrebbe dovuto lasciar di giudicare nelle cose che non lo toccavano; e in quelle nelle quali il suo giudizio doveva influire sulla sorte altrui, avrebbe dovuto sospenderlo fino a tanto che da un attento esame egli avesse potuto formarlo, buono o tristo, ma con quella maggior certezza che è data a quello stromento guasto che si chiama ragione umana.
Il caso di Geltrude mostrerà come egli avesse il torto di pensar bene prima di pensare.
Il Marchese parlandogli della figlia ch'egli aveva ad esaminare ne aveva esaltata la pietà, l'amore del ritiro, il desiderio di conservarsi nel chiostro per esser pura e santa.
Il Signor...
aveva creduto con gioja al primo momento tutte queste cose liete; e andava a far l'esame nel quale si trattava di decidere se la vocazione era vera o falsa colla prevenzione dolcissima ch'ella era vera: il buon uomo si consolava di avere a sentire l'espressione di un animo pio e fervente, di godere dello spettacolo di una buona risoluzione, mentre avrebbe dovuto pensare ad accertarsi se la risoluzione esisteva.
- Oh! - dirà taluno, - se egli non avesse creduto al Marchese, avrebbe dovuto supporre così di primo slancio che Geltrude era una finta, o il Marchese un tiranno impostore.
E doveva egli pensar così senza alcun fondamento? - Ohibò, di nuovo: non doveva pensar nulla; vi pare egli cosa tanto difficile? Ma per non averlo saputo fare, il buon uomo preparò l'animo suo nulla più che ad adempiere una cerimonia, una formalità, e faceva tutt'altro; e doveva saperlo.
Il Signor...
pregò Geltrude di riporsi a sedere, sedette, e vedendo in essa quella leggiera perturbazione ch'era da aspettarsi in quel caso, pensò di rincorarla con un modo scherzevole, e le disse: «Signorina, vedo che le fo paura: non me ne maraviglio: io vengo a fare la parte del diavolo; perché ella saprà che io debbo ora mettere in dubbio quella risoluzione che a lei forse pare certa, ferma, irrevocabile; io debbo ora farle guardare attentamente il rovescio della medaglia, al quale ella forse non ha mai pensato; io debbo interrogarla minutamente, per esser certo che ella non pigli qualche illusione per ispirazione».
«Signore», rispose Geltrude, realmente rincorata dalle parole e dal tuono del buon uomo, «io ho desiderato ardentemente questo abboccamento.
Da questo dipende la scelta della mia vita e io spero che da ciò che io sentirò da lei, da ciò che io le risponderò, verrò io stessa a conoscere più chiaramente quale sia la mia vocazione».
«Bene, bene», rispose con gioja e quasi con ammirazione il Signor...
«così mi piace.
Quelle proteste veementi, quelle affermazioni enfatiche alla prima sono talvolta fuochi di paglia; fervori di fantasia.
Per decidere bisogna dubitare, o fare come se si dubitasse.
La prego, per ora, si faccia forza: per quanto ella credesse di aver risoluto, torni da capo e si metta bene in testa che si tratta di risolvere ora.
Il mio dovere è d'interrogarla su molti capi, e si compiaccia di rispondermi con semplicità e con riflessione.
Come le è venuta questa risoluzione di abbandonare il mondo, e di farsi monaca?»
Se il buon ecclesiastico avesse avuta l'intenzione di aflliggere, di umiliare, e di confondere Geltrude, non avrebbe potuto scegliere una interrogazione più opportuna di questa: ma egli era ben lontano dal supporre l'effetto ch'ella doveva produrre, e l'aveva fatta nella semplicità del suo cuore, e per adempire alle regole del suo uficio, che la prescrivevano.
Geltrude rimase come colpita: che rispondere? parlare della cagione vera e primaria, raccontare l'istoria del paggio?...
Dio liberi! Quella storia ella voleva schivarla a tutto costo.
Ma tacendola, come spiegare la sua domanda di farsi monaca, e tutti i passi conformi a quella domanda? Addurre violenze, minacce dei parenti? Ma non ne avevano usate, e questa menzogna (giacché in quel momento Geltrude era disposta a farne una, e pensava solo a scegliere quella che l'avrebbe cavata più presto d'impaccio, e che non sarebbe stata scoperta in seguito) questa menzogna avrebbe certamente cagionata una spiegazione, che sarebbe tutta tornata in disonore di Geltrude.
Che s'ella avesse attribuita la sua risoluzione al desiderio di compiacere ai parenti, ai loro consigli, a leggerezza propria, la spiegazione diventava pure inevitabile; e in quel momento le parole che Geltrude aveva intese poco prima dal padre, le ripassarono in processione nella memoria.
Le parve dunque che il solo mezzo per uscire da quel gineprajo fosse di dare una risposta che piacesse all'interrogante, e al padre, che non lasciasse oscurità né punti da discutere nell'avvenire: sentì che per dare una tal risposta bisognava mostrare che la risoluzione fosse tuttavia ferma; vide le conseguenze, ma ci si risolse.
Avvezza com'era a trarsi dalle circostanze difficili con ripieghi che la ponevano in circostanze più difficili ancora, a consumare per dir così il tempo avvenire per vivere in quel momento, ella cedette all'abitudine, e alla difficoltà, mentì contra se stessa, e disse: «È la mia vocazione: fino dai miei primi anni io mi sono sentita inclinata a servir Dio nel chiostro lontano dai pericoli e dalle cure del mondo».
Queste parole furon porte con l'apparenza della più ferma persuasione; e l'indugio ch'ella aveva posto al rispondere, parve al Signor...
un segno una prova di riflessione posata.
E in quel momento furon contenti ambedue: egli di vedere una così buona disposizione, ella di essere uscita d'impaccio come che fosse.
Da quel momento Geltrude non pensò nelle altre risposte che a confermare la prima; e edificò il Signor...
oltre ogni sua speranza.
Quando egli le chiese se i parenti non avessero usate minacce o troppo instanti preghiere per determinarla alla scelta dello stato religioso...
«No no»; rispose con vivacità Geltrude: «i miei parenti desiderano certo che io sia monaca; ma mi hanno lasciata libera, mi hanno lasciata libera».
Il Signor...
si scusò di averle fatta una simile interrogazione.
«Il Signor Marchese», diss'egli, «quel cavaliere così degno! s'immagini s'io posso pensare di lui una cosa simile! ma, io ho fatto il mio dovere, per quanto strano mi paresse in questa circostanza».
L'esame finì con le giulive congratulazioni del Signor..., il quale come per iscaricarsi la coscienza di aver fatto qualche cosa per distorre un'anima buona da un pio proponimento, le disse tutto ciò che gli suggeriva il suo zelo cordiale per confermarla in quello; e partì con la persuasione di non aver mai trovata un'anima così ben disposta.
Del resto noi siamo ben lontani dal dare l'unica colpa, e nemmeno la primaria della riuscita di quell'esame all'ingegno corrivo del buon uomo.
Coi tristi antecedenti di Geltrude, e col suo carattere, la cosa doveva avere a un di presso quell'esito, qualunque fosse l'esaminatore.
Geltrude, ancor più fortemente compresa dall'idea del pericolo che avea passato, che dal pensiero dell'impegno che avea preso, corse tosto dal Padre.
Questi era in uno stato di aspettazione inquieta: ma Geltrude tutta commossa (le commozioni si scambiano facilmente non solo da chi le osserva, ma da chi le prova) gli raccontò frettolosamente l'esito della conferenza; e il Marchese respirò.
Le fece animo, la colmò di lodi, la s
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