FERMO E LUCIA, di Alessandro Manzoni - pagina 11
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Costui si avanzava ritto, colla testa alta, colla bocca composta all'alterigia e allo sprezzo, mostrando di non voler scendere verso il mezzo della via.
Ora bisogna sapere che Ludovico aveva il suo lato destro al muro, e che per conseguenza aveva il diritto (bel diritto!) di passare accanto al muro, e che l'altro doveva dargli il passo, ma come abbiam detto, costui accennava tutt'altro che la voglia di farlo.
Anzi quando furono presso, guardando d'alto in basso Ludovico, gli disse con aria di comando: «Tiratevi a basso».
«A basso voi», rispose Ludovico: «la strada è mia».
«Coi pari vostri, la strada è sempre mia».
«Sì s'ella appartenesse ai soperchiatori».
«A basso, vile plebeo, o ch'io ti dò quella educazione che non ti poteva dare tuo padre».
«Voi mentite ch'io sia vile: ma non è da stupire che siate così prodigo di quello che avete in tanta copia».
«Tu menti ch'io abbia mentito», disse con furia e con disprezzo quel signore: e questa risposta era di prammatica, come ora sarebbe dire: - benissimo - a chi vi domanda della vostra salute: indi soggiunse; «e se tu fossi cavaliere come son io, ti vorrei far vedere con la spada e con la cappa che tu sei il mentitore».
«È buona sorte per voi l'esser cavaliere; così potete essere insolente e dispensarvi di sostenere la vostra insolenza, come vile che siete».
Così dicendo pose mano alla spada.
«Temerario», gridò quel signore, «io spezzerò questa», e la cavò pure così dicendo «dopo che sarà macchiata del tuo sangue».
Così si avventarono l'uno sull'altro.
Cristoforo venne in ajuto del suo padrone e cavò il suo coltello; e due servitori che accompagnavano il signore andarono addosso a lui e a Ludovico.
La gente si ritirava da ogni parte, e giacché nessuno di quelli che s'abbattevano nella via era interessato per amicizia, o per onore a pigliar parte nella disputa, la quale da duello divenne tosto un fatto generale.
Ludovico aveva già toccata in un braccio una pugnalata d'un servitore; e il nemico gli cadeva addosso per finirlo, quando Cristoforo vedendo il suo padrone nell'estremo pericolo s'avventò col pugnale al signore, il quale rivolta tutta la sua ira contro di lui lo passò colla spada.
A quella vista Ludovico scordato ogni ritegno cacciò la sua nel ventre del provocatore, il quale cadde quasi ad un punto col povero Cristoforo: i servitori veduto il padrone sul terreno, si diedero alla fuga: e Ludovico rimase solo e ferito, e circondato dal popolo che accorreva, vedendo finita la guerra.
«Che è? che è? - Come è andata? Son due morti.
- Gli ha fatto un occhiello nel ventre.
- Chi? a chi?» Grida e confusione; e il povero Ludovico, col compagno ucciso, e quel che è peggio col nemico ucciso da lui, si trovava in mezzo ad una folla che lo stringeva d'ogni parte.
Ma, come è facile da supporre, il favore era piuttosto per lui che per l'avversario, e tutti cercavano di salvarlo.
Il caso era avvenuto vicino ad una Chiesa di Capuccini, asilo, come ognun sa, impenetrabile allora ai birri, e a tutto quel complesso di cose e di persone che si chiamava la giustizia.
Il povero ferito fu quivi condotto o portato dalla folla, e quasi fuori di sè pel furore, pel rimorso, e pel dolore i padri lo accolsero dalle mani del popolo, che lo raccomandava ai suoi ospiti, dicendo: «è un uomo dabbene, che ha fatto freddo un birbone».
Ludovico non aveva mai prima d'allora versato sangue; e benché l'omicidio fosse a quei tempi cosa tanto comune che gli orecchi d'ognuno erano avvezzi a sentirlo raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l'impressione che Ludovico ricevette dal veder l'uomo morto per lui, e l'uomo morto da lui, fu nuova e terribile, fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti.
Il cadere del suo nimico, l'alterazione de' suoi tratti che passavano in un momento dalla minaccia e dal furore, all'abbattimento e alla severa debolezza della morte, cangiarono in un punto l'animo dell'uccisore.
Strascinato al convento egli non sapeva quasi dove fosse e che si facesse; e cominciò appena a comprendere la sua situazione, quando si trovò in un letto della infermeria, nelle mani del frate chirurgo (i capuccini ne avevano sempre alcuno) che aggiustava faldelle e bende sopra due ferite leggieri ch'egli aveva ricevute nello scontro.
Un padre che assisteva più frequentemente ai moribondi, e che aveva spesso reso di questi uficj sulla via, fu chiamato tosto sul luogo del combattimento; e tornato pochi momenti dopo, entrò nella infermeria, e fattosi al letto dove Ludovico giaceva: «Consolatevi», gli disse; «almeno è morto bene, e mi ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo».
Questa parola fece rinvenire affatto il povero Ludovico, e gli risvegliò più vivamente e più distintamente i sentimenti che erano confusi e affollati nel suo cuore, dolore per l'amico, pentimento e rimorso di ciò ch'egli aveva fatto, e nello stesso tempo un senso forte e sincero di commiserazione e di amore per l'infelice ch'egli aveva ucciso: Ludovico allora avrebbe volentieri data la sua vita per ricuperare quella del suo nemico.
«E l'altro?» domandò al padre.
L'altro era spirato.
Frattanto le uscite e i contorni del convento erano affollati di popolo curioso: ma giunta la sbirraglia fece smaltire la folla, e si pose in agguato a una certa distanza dalle porte; ma in modo che nessuno potesse uscirne inosservato.
Un fratello del morto, due suoi cugini, e un vecchio zio vennero pure armati da capo a piede; e facevano la ronda intorno, guardando con aria di minaccia gli accorsi del popolo, i quali mostravano nei volti quasi una sorta di trionfo e di contentezza.
Appena Ludovico potè riflettere più pacatamente, chiamato un frate confessore, lo pregò che andasse a casa della moglie di Cristoforo, che l'assicurasse ch'egli non aveva fatto nulla per cagionare la morte del suo amico, e nello stesso tempo le desse parola ch'egli si riguardava come il padre della famiglia.
Quindi pensando ai casi suoi, il pensiero di farsi frate che tante volte come abbiamo detto gli era passato per la mente, gli si presentò allora, e divenne tosto vera risoluzione.
Chiamò il guardiano, e gli aperse il suo cuore, e n'ebbe in risposta, che bisognava guardarsi dalle risoluzioni precipitate, ma che s'egli persisteva, non sarebbe rifiutato.
Allora egli fece chiamare un notajo, e fece in buona forma una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (che era tuttavia un bel patrimonio) alla famiglia di Cristoforo; una somma alla madre, come se le costituisse una contraddote, e il resto ai figli.
Gli ospiti di Ludovico erano impacciati assai.
Consegnarlo alla giustizia, cioè alla vendetta de' suoi nemici, oltreché l'esser cosa vile e crudele (ragione che è più potente quando è accompagnata da altre), sarebbe stato lo stesso che rinunziare al privilegio di asilo, screditare il convento presso tutto il popolo, attirarsi l'animavversione di tutti i capuccini dell'universo per aver lasciato ledere il diritto di tutti, tirarsi contra tutte le autorità ecclesiastiche, le quali allora si consideravano come tutrici di questo diritto.
Per l'altra parte la famiglia dell'ucciso era potentissima, forte di aderenze, irritata, e si faceva un punto d'onore di vendicarsi, e minacciava della sua indegnazione tutti quelli che mettevano un ostacolo alla vendetta.
E quand'anche ai parenti fosse poco importato della morte del loro congiunto (cosa che la storia non dice però) tutti avrebbero esposta la loro vita per avere nelle mani l'uccisore; e come toglierlo dalle mani dei capuccini sarebbe stato un esempio insigne, di cui si sarebbe parlato per più d'una generazione, e che avrebbe renduta sempre più rispettabile la casa, così erano tutti impegnati, accaniti a riuscirvi.
La risoluzione di Ludovico era il miglior ripiego per cavare i frati da questo viluppo.
Vestendo l'abito di capuccino, egli faceva una specie di riparazione, rinunziava a tutte le massime di puntiglio e di vendetta che allora si consideravano come leggi eterne e naturali di onore, rinunziava ad ogni nimicizia, ad ogni gara, era insomma un nemico che depone le armi e si arrende.
I parenti poi potevano anche credere e dire che Ludovico si era indotto a ciò per disperazione e per timore; e ridurre un uomo a rinunziare tutto il fatto suo, a tagliarsi i capelli, a crescersi la barba, a camminare a piedi nudi, a non possedere un quattrino, a dormire sulla paglia, a vivere di elemosina, poteva parere un castigo bastante anche all'offeso il più superbo.
Il Padre Guardiano andò umilmente dal fratello del morto, e dopo mille proteste di rispetto per l'illustrissima casa, e di desiderio di servirla in tutto ciò che non fosse contrario alle leggi della chiesa, parlò del pentimento di Ludovico (che era vero), e della sua risoluzione, come se chiedesse un consiglio o quasi un permesso.
Il fratello diede nelle smanie, che il capuccino lasciò passare, dicendo di tempo in tempo: «è un troppo giusto dolore»: parlò alteramente, e il capuccino raddoppiò di umiltà e di complimenti; fece intendere che in ogni caso la sua famiglia avrebbe saputo pigliarsi una soddisfazione; e il capuccino che non ne era persuaso, non gli contraddisse però; finalmente domandò, impose come una condizione che l'uccisore di suo fratello partirebbe tosto da Cremona.
Il capuccino, che aveva già pensato di far così, mostrò di accordar questo alla deferenza ch'egli e tutti i suoi avevano per l'illustrissima casa, e tutto fu conchiuso.
Contenta la famiglia per le ragioni che abbiam dette, contenti i frati, contenti quelli che avrebbero dovuto punire Ludovico, perché dopo la donazione fatta da lui di tutto il suo avere, la persecuzione che gli si sarebbe fatta non avrebbe portato che impicci e fatiche, contento il popolo il quale vedeva salvo un uomo che amava, dalle persecuzioni di prepotenti che odiava; e che nello stesso tempo ammirava un conversione; contento finalmente ma per motivi diversi e più alti il nostro Ludovico; il quale non desiderava altro che di cominciare una vita di espiazione, di patimenti e di servizio agli altri che potesse compensare il male ch'egli aveva fatto, e raddolcire il sentimento insoffribile del rimorso.
Così Ludovico a trent'anni si avvolse, come si direbbe poeticamente, nelle ruvide lane, diede un eterno addio al mondo ed al barbiere, e fu novizio.
Il sospetto che la sua risoluzione fosse attribuita al timore lo afflisse un momento; ma tosto egli fu lieto di poter sofferire questa ingiustizia.
Ognuno sa che quando uno si affigliava ad una regola, lasciava il nome di battesimo, e ne prendeva un altro; Ludovico assunse quello di Cristoforo.
Appena Fra Cristoforo ebbe assunto l'abito, il guardiano gl'intimò che andrebbe a fare il noviziato a Modena, e partirebbe all'indomani.
Il novizio gli si gettò allora ai piedi, e lo chiese d'una grazia.
«Io parto», diss'egli, «da questa città dove ho sparso il sangue d'un uomo, e vi lascio i congiunti di esso e un fratello, quelli che io ho offesi, senza aver fatta una riparazione.
Permettetemi che io quanto è da me ripari almeno col fratello l'ingiuria, e tolga se si può il rancore dal suo cuore».
Al guardiano parve che questo passo, fatto con tutte le precauzioni, riconcilierebbe al tutto il convento colla famiglia e gli disse che gli darebbe risposta, e andò difilato dal fratello dell'ucciso, esponendogli la richiesta di Fra Cristoforo.
Dopo qualche sbruffo di collera, e qualche esitazione: «venga domani» diss'egli, e indicò l'ora.
Il guardiano si assicurò che il novizio non arrischiava nulla, e gli diede la licenza desiderata.
Il signore superbo pensò tosto che poteva dare molta solennità a questa riparazione, e soddisfare così in un punto la vendetta e l'orgoglio, e crescere la sua importanza presso tutta la parentela, e presso il pubblico: e fece avvertire in fretta tutti i parenti che all'indomani al mezzo giorno restassero serviti (così si diceva allora) di venire da lui per ricevere una soddisfazione comune.
Al mezzogiorno la casa era piena di signori d'ogni età e d'ogni sesso, tutti in grande apparato, con grandi cappe e con durlindane infinite con...
Il cortile e le anticamere e la strada formicolavano di servi, di paggi, e di bravi.
Fra Cristoforo vide tutto l'apparato, ne indovinò il motivo, e dopo un picciolo contrasto fu contento che la riparazione fosse clamorosa.
- L'ho ucciso in pubblico, diss'egli fra sè, alla presenza dei suoi nemici: quello fu lo scandalo; questa è riparazione -.
Così con gli occhi bassi, col padre compagno al fianco, attraversò la folla che lo riguardava con una curiosità poco cerimoniosa, salì le scale, e con una confusione che cercava di vincere giunse di sala in sala alla presenza del fratello il quale era circondato dai parenti più prossimi.
Fra Cristoforo gli si gettò ai piedi e disse: «Io sono l'omicida di vostro fratello.
Sa Iddio se io vorrei restituirvelo a costo del mio sangue; ma non potendo che farvi inutili scuse, vi supplico di accettarle per Dio, e di perdonarmi».
Tutti gli occhi erano rivolti sul povero novizio e sull'uomo a cui egli parlava, e s'intese un mormorio di pietà, e di rispetto.
Il signore che stava in atto di degnazione forzata e d'ira compressa, e si preparava a goder d'un trionfo, fu turbato, e chinandosi verso l'inginocchiato: «Alzatevi», disse; «l'offesa...
ma l'abito che portate...
non solo questo; anche per voi...
Si alzi padre...
Mio fratello...
non lo posso negare; era...
era un po' caldo...
ma, quello che Dio ha voluto...
Non se ne parli più...
Padre si alzi per amor del cielo»; e presolo per le braccia lo sollevò...
Fra Cristoforo alzato quasi a forza, e tenendosi pur chino rispose: «Se quegli che io non oso nominare ha fallato, ha avuto pur troppo un severo castigo, e spero che Dio misericordioso si sarà contentato di questo, e gli avrà dato il suo perdono; ma io son qui, e non ho altro motivo per pretenderlo da lei che la sua bontà, e i meriti del signore».
«Perdono!» disse il signore: «ma padre Ella non ha bisogno...
pure giacché lo vuole: certo, certo io le perdono di cuore, in nome anche di tutti», e qui si guardò intorno, e gli astanti: «sì sì» gridarono ad una voce «tutti tutti».
Allora il signore mosso dall'aspetto del frate, e dal sentimento di tutti gli astanti, gettò le braccia al collo di Cristoforo, il quale stringendolo più basso ricevette da lui e gli rendette il bacio di pace.
Tutti allora furono intorno a Fra Cristoforo, e la conversazione divenne generale.
Il signore che aveva voluto in questa occasione far pompa di tutto, aveva fatto preparare un rinfresco sontuoso, e fatto cenno ad un cameriere, si riavvicinò a Fra Cristoforo il quale stava in atto di accomiatarsi, e gli disse: «Padre mi dia una prova di amicizia col gradire una picciola refezione, e fare un po' di festa con noi».
Intanto giunsero i rinfreschi.
Il signore volle servire pel primo il buon novizio: il quale scusandosi con umiltà cordiale: «Queste cose» disse «non sono più per me; ma tolga il cielo ch'io rifiuti i suoi doni: io sto per pormi in viaggio, si degni di farmi portare un pane, perché io possa dire di aver goduta la sua carità, di aver mangiato il suo pane, di aver questo segno del suo perdono».
Il signore commosso ordinò che così si facesse e tosto giunse un cameriere riccamente vestito, che portando un pane sur un bacile d'argento lo presentò al Padre, il quale presolo e ringraziato, lo pose nella sua bisaccia.
Il signore alzando la voce disse al cameriere: «si mandi pane bianco e vino al convento per tutta la comunità».
Dopo alcuni momenti Fra Cristoforo chiese licenza, ed abbracciato di nuovo il signore, e tutti quelli che lo stringevano e che volevano pure abbracciarlo, si sviluppò da essi a fatica, ebbe a combattere nelle anticamere per isbrigarsi da quelli che gli baciavano il lembo dell'abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò nella via portato come in trionfo, ed accompagnato da una folla di popolo fino alla porta donde uscì cominciando il suo pedestre viaggio verso il luogo del suo noviziato.
Il fratello dell'ucciso e il parentado, che si erano preparati ad assaporare quel giorno la trista gioja dell'orgoglio, si trovarono invece ripieni della gioja serena del perdono e della benevolenza.
La conversazione rimase più pacata, più semplice, senza apparato, cordiale: e invece di trattenersi di riparazione, di puntigli, di ricantare le storie delle soddisfazioni prese, e dei sopramani vendicati, non si parlò che del Padre Cristoforo, e delle virtù dei capuccini; e taluno che per la cinquantesima volta avrebbe raccontato come il Conte Muzio suo avo aveva saputo fare stare quel Marchese Stanislao che ognun sa che Rodomonte era, parlò invece della vita penitente di un Fra Benedetto, morto molti anni prima.
Sciolta la brigata, il signore, ancora tutto commosso si maravigliava di tratto in tratto fra sè di ciò che aveva detto, di ciò che aveva sentito, e borbottava fra i denti: «Gran Frate, Frate singolare! Se rimaneva ancor lì per qualche momento, quasi quasi gli avrei domandato io scusa perch'egli mi abbia ammazzato il fratello!» Però è da notarsi che tutti i convitati partirono di là un po' migliori di quello che vi fossero andati, e ch'egli stesso fu per tutta la sua vita un po' meno superbo e un po' più indulgente.
Il Padre Cristoforo camminava con una consolazione quale non aveva provata mai dopo quel giorno terribile, ad espiare il quale tutta la sua vita doveva essere consacrata.
Ai novizj era imposto silenzio; e Cristoforo serbava senza fatica questa legge, tutto assorto nel pensiero delle fatiche, delle privazioni e delle umiliazioni che avrebbe incontrate per espiazione del suo fallo.
Fermandosi all'ora della refezione presso un benefattore, egli si mangiò con una specie di voluttà il pane del perdono: ma ne risparmiò un tozzo, e lo ripose nella sporta onde serbarlo come un ricordo perpetuo.
Non è nostro disegno di narrare la vita fratesca del nostro buon padre: diremo dunque soltanto ch'egli passò il suo noviziato sostenendo alacremente le dure discipline di quello stadio, e sottomettendosi bravamente alle prove, talvolta assai strane a cui erano posti i novizj; facendo per ragione ciò che gli appariva ragionevole, e pensando pel resto che un omicida non doveva esser trattato con molte cerimonie.
Divenuto frate professo egli si consacrò specialmente in quanto dipendeva dalla sua scelta a tre sorta di servizi: assistere moribondi, comporre dissidj...
e proteggere gli oppressi.
A questa ultima occupazione era egli portato dalla antica abitudine, la quale operava in lui con motivi più puri, e da un resto di spirito guerriero che le umiliazioni e le macerazioni non avevano sopito.
Il suo linguaggio come le sue azioni mostravano a chi l'avesse attentamente considerato i segni di questo spirito indeboliti ad ogni momento da uno sforzo continuo, ma non mai cancellati del tutto.
Era a quei tempi comunissima a tutte le classi di persone l'usanza d'infiorare il discorso di quelle parole delle quali quando si vogliono stampare non si pone che l'iniziale con alcuni puntini, di quelle parole che esprimono o ciò che vi ha di più sozzo o ciò che vi ha di più riverito, di quelle parole le quali quando scappano ad un signorino nella puerizia, fanno fare viso dell'arme alla mamma, e la fanno sclamare: «ohibò! dov'hai tu inteso questo: nella via o dai servitori certamente» (e l'avrà inteso dal signor padre) di quelle parole che non sono sconosciute nelle sale fastose, e che formano la terza parte dei colloquj del popolo, al quale dicono alcuni sapienti che converrebbe abbandonarle; ma questi sapienti non dicono bene, perché comunque gli uomini sieno classificati, non vi ha alcuna classe d'uomini alla quale convenga ciò che è turpe.
Quest'uso era adunque comunissimo in allora, e chi ne vuol la prova dia una occhiata alle leggi che bestemmiavano pene atroci per impedir la bestemmia, guardi alla cura che i vescovi prendevano per togliere questa vergogna dal clero stesso.
Il signor Ludovico aveva fatto un tale uso di queste frasi che la lingua del Padre Cristoforo durava fatica a rimandarle tutte le volte che si presentavano, cioè ad ogni primo impeto di passione di qualunque genere; ma il Padre Cristoforo faceva stare la sua lingua.
Solamente in certi casi rari, nei quali la passione era tanto viva che quasi quasi Cristoforo tornava per un momento Ludovico, veniva ad un componimento.
Si proferivano le parole, ma trasformate: ad alcune consonanti radicali n'erano sostituite altre che toglievano il senso ordinario alla parola, e lasciavano soltanto travedere una lontana intenzione, quasi un bisogno di proferirla.
Così mutato, trasformato, temperato era l'animo, in modo però che riteneva alquanto dell'antica sua natura.
Abbiamo già detto che la Lucia si confessava dal Padre Cristoforo, e che gli aveva confidate le sozze persecuzioni di Don Rodrigo.
È quindi naturale che il Padre accorresse alla chiamata di Lucia con ansia tanto più grande, che avendole egli dato consiglio di non palesar nulla, e di starsene quieta sperando che la burasca passasse, temeva ora che il suo consiglio fosse stato cagione di qualche nuovo pericolo; ed alla sollecitudine di carità che gli era naturale, si aggiungeva quello scrupolo delicato che tormenta i buoni.
Ma frattanto che noi siamo stati a raccontare i fatti del Padre Cristoforo, egli è giunto, si è affacciato alla porta; e le donne lasciando il manico dell'aspo che facevano girare e stridere, si sono alzate, dicendo ad una voce: «Oh Padre guardiano!»
CAPITOLO V
IL TENTATIVO
Il qual padre guardiano si fermò ritto sulla soglia, e vedendo le due donne sole, abbassò gli occhi, e si raccolse un momento, come era uso a fare dacché era divenuto capuccino, tutte le volte che si trovava solo in presenza di qualche persona di quel sesso terribile, che non avesse l'età prescritta alle fantesche dei curati.
Rialzando poi lo sguardo, s'accorse al volto turbato delle due donne che i suoi presentimenti non erano fallaci; e soprastato alquanto sulla soglia come per aspettarne la trista conferma, disse con quel tuono di interrogazione che si risente già di ciò che deve significare una risposta troppo preveduta: «E bene?» Lucia rispose con uno scoppio di pianto.
La madre cominciò dal chiedere scuse infinite al padre guardiano dell'avere ardito incomodarlo, ma egli si avanzò e postosi sur un sedile contesto di alga, troncò tutte le scuse, e dopo aver detto a Lucia: «quetatevi povera figliuola», domandò di essere informato di tutto brevemente.
Il buon Padre ben si accorgeva di mettere una condizione un po' dura e difficile; Agnese gli raccontò tutta la trista storia del giorno antecedente fra le interruzioni del guardiano, che faceva abbreviare le ciarle e che chiedeva schiarimenti, e che di tempo in tempo diceva qualche parola di compassione e di conforto a Lucia che singhiozzava amaramente.
Quando la storia fu terminata; «Dio benedetto!» sclamò il Padre Cristoforo: «fino a quando li lascerai fare costoro?» Indi volgendosi tosto alle donne: «poverette!» disse: «Dio vi ha visitate: povera Lucia! mah! non vi perdete d'animo: Dio vi ajuterà, ve lo prometto io: oh non vi ha mica creata perché foste tormentata da costui: Dio ha i suoi fini, e al termine delle cose si vede la sua mano.
Ascoltate; io vi prometto di non abbandonarvi: oh non vi abbandonerò certo; mah! Dio sa quello che io potrò fare: e chi sa che Dio non voglia servirsi di un uomo da nulla come son io per cambiare un prepotente, e per sollevare dei poverelli.
Lasciate ch'io pensi un momento che cosa si possa fare per andare incontro al pericolo più pressante, e poi Dio provvederà».
Così dicendo appoggiò il gomito sinistro sul ginocchio, e la fronte nella palma, e colla destra strinse il mento barbuto, come per concentrare e tener ferme tutte le forze della sua mente; Lucia stava aspettando con fiducia e con dolore, e la madre mandava giù giù lo sguardo quanto poteva per ispiare qualche cosa dei pensieri del padre, il quale fece mentalmente questo monologo: - Poffare, che quell'uomo dovesse giungere a questo segno! Eh non è il primo pur troppo! Ma non ci sarà chi possa farlo stare? Vediamo.
Quello che più importa sarebbe di far succedere subito il matrimonio.
Per...
dinci: il signor curato fa una gran villania, e io gli parlo fuor dei denti...
ciarle, ciarle: egli sa che io non dò pugnalate, e mi lascerà dire, o mi risponderà bravamente.
Ma posso fargli paura anch'io: se trovassi il modo di fargli venire un comando, ma un comando, e con un buon rabbuffo: Monsignore illustrissimo non vuole di queste infami porcherie, sì ma intanto, che cosa può accadere? No no bisognerebbe mettere in salvo questa povera colomba e mettere un freno a quel birbante.
Il fatto è chiaro: la legge c'è; e la giustizia,...
quando fosse stimolata.
Eh qui non facciamo niente: costui gli spaventa tutti: toccare Don Rodrigo, già! per amor di Dio! chi l'oserebbe? Ma il mondo poi non finisce qui: costui fa il tiranno spaventa questi poveri foresi che lo credono più potente che non è! E il cordone di San Francesco ha legate altre spade che quella di costui: se potessi mettere in moto le mie barbe a Milano...
E intanto? e poi? e poi? E chi sa se non sarei contraddetto da alcuni dei nostri? costui fa il protettore dei cappuccini, l'amico del convento: e i suoi bravi si sono ricoverati talvolta da noi...
e chi sa come si rappresenterebbe la cosa? e quando si vedesse che si tratta di soccorrere una povera figlia che non può compensare con altrettanta protezione! Ah! se fosse una gran signora! Ma se fosse una gran signora non sarebbe in questo caso.
Oh poveretti noi! Oh che tempi! Quando io credeva che facendomi cappuccino sarei fuori di questo mondo infame! Eh non se ne va fuori che quando si muore.
E fare un tentativo presso Don Rodrigo? Ehn! che cosa varranno le parole d'un povero frate su quel diavolo in carne? Eppure non c'è altro da fare.
Chi sa che adoperando preghiere, qualche minaccia lontana: fargli sentire che c'è qualcheduno che sa quel che si può fare contra uno scellerato soperchiatore? Forse non sarà che un infame cappriccio venutogli dall'aver tanto fatto impunemente: e quando vedrà che l'affare può diventar serio...
Sì non c'è altro, non c'è altro.
Se non altro si vedrà come giuoca costui, e si guadagnerà tempo.
Il Padre Cristoforo si fermò in questa determinazione, pei motivi che abbiamo riferiti, e che in verità bastavano se non a farne sperar molto, a renderla almeno preferibile ad ogni altra: ma dietro a tutti questi motivi ve n'era un altro che dava un gran peso a tutti questi, e che quantunque agisse così potentemente non era distintamente avvertito da lui.
Il Padre Cristoforo era portato a cogliere con premura una occasione di trovarsi a fronte d'un soperchiatore, di resistergli se non altro con esortazioni, di confonderlo, e di provargli ch'egli aveva il torto, e di combatterlo e di vincerlo come che fosse.
Mentre il buon frate stava ancor meditando, Fermo il quale per tutte le ragioni che ognuno può indovinare non sapeva star lontano da quella casa, erasi affacciato alla porta, e visto il padre assorto, e le donne che gli facevano cenno di non disturbarlo, sdrucciolò per un angolo della porticella nella stanza, e costeggiando il muro andò a riporsi tacitamente in un angolo della stanza.
Quando il Padre si alzò per comunicare alle donne il suo disegno, s'accorse di Fermo, e gli fece un saluto che esprimeva una affezione resa più intensa dalla pietà, e Fermo ne fu commosso.
«Ha saputo?» disse Fermo.
«Pur troppo ho inteso la vostra disgrazia» rispose il Padre; «ma tu non ti perderai d'animo come queste poverette, e sopra tutto aspetterai che Dio ti ajuti, e Dio ti ajuterà».
«Benedette le sue parole», rispose Fermo: «ella non è di coloro che danno sempre torto ai poverelli, e che rimproverano una disgrazia come se fosse una colpa.
Ma il signor curato e il signor dottore...»
«Non pensare a questo che è inutile: io sono un povero frate, ma ti ripeto quello che ho detto a queste donne: per poco ch'io sia non vi abbandonerò».
«Oh lei non è come gli amici del mondo.
Sciaurati! dopo tante promesse fatte nell'allegria, che darebbero il sangue per me, che mi avrebbero sostenuto sempre, che se avessi avuto briga con qualcuno per cavaliere ch'ei fosse...
e poi: se vedesse come si ritirano: oh nessuno più ne vuol sentire a parlare...»
Mentre Fermo parlava il Padre Cristoforo lo guardava coi suoi occhi scintillanti, e prendeva un'aria severa di modo che Fermo si andava accorgendo che le parole sue non erano gradite, ed ora voleva lasciar cadere il discorso, ora tentando di raggiustare la faccenda, si andava incespicando e pronunziava parole sconnesse...
«voleva dire: cioè Padre, non m'intendo mica...»
«E che Fermo! dunque tu avevi cominciato a guastare l'opera mia, prima ch'ella fosse intrapresa! Tu pensavi a difenderti della violenza colla violenza! Ringrazia il cielo che sei stato disingannato a tempo.
Come! tu speravi soccorso da questi che tu chiami amici? Soccorso per liberarti dalla ingiustizia? Poveretto! non sapevi che ogni uomo ama troppo la sua vita e il suo riposo per sagrificarlo alla giustizia, alla giustizia altrui? Sì; pel denaro, per la vendetta, pel diletto di far male l'uomo disprezza il pericolo; sì allora egli sente qualche cosa che lo porta con gioja ad affrontare il suo simile: ma perché uno non sia oppresso, ma perché non s'impedisca una cosa giusta, ma perché le cose vadano come dovrebbero andare, tranquillamente ordinatamente, tu credevi che troveresti chi si armerebbe con te contra un potente? Gli uomini non provano per questo quella gioja feroce che fa desiderare di affrontarsi coll'uomo: o se ve n'ha di tali sono tanto rari...; e - a queste parole Fra Cristoforo strinse fortemente la mano a Fermo - e anche questi han torto.
Ringrazia il cielo che non ti ha dato il tempo di confidare in questi ajuti tanto da far qualche cosa della quale ti saresti pentito.
Ascolta, Fermo, io son pronto a fare quello che posso per voi; ma vi pongo una condizione».
«Comandi, padre guardiano».
«Tu mi devi promettere che ti fiderai di me, che non affronterai, che non provocherai nessuno...»
«Promettete promettete», dissero le donne.
«Prometto prometto», disse Fermo.
«E bene» continuò il buon frate; «importa assai che di questo affare si parli il meno possibile: perché i discorsi potrebbero rendere inutili i miei sforzi per farlo terminar bene: io spero che quelli che tu chiamavi amici non parleranno, per la stessa ragione che gli ha distolti dall'operare.
Io andrò oggi a parlare con quell'uomo dal quale viene tutto questo male, e non dispero di far tutto finire: in ogni caso, vi prometto di nuovo di non abbandonarvi mai.
Frattanto voi state ritirati, schivate i discorsi, e sopra tutto non vi mostrate; questa sera o domani avrete nuove di me».
Detto questo egli interruppe tutti i ringraziamenti e le benedizioni, e partì inculcando di nuovo la quiete e la prudenza; e s'avviò al suo convento.
Ivi andò in coro a cantare terza e sesta, s'assise alla parca mensa, e allora più parca del solito per la carestia che cominciava a farsi sentire dappertutto, e dopo raccomandati al vicario gli affari del suo picciolo regno, si pose in via verso il covile dell'orso che si trattava di ammansare; senza riporre a dir vero, molta speranza nel suo tentativo.
Il Castellotto di Don Rodrigo era posto sul pendio della montagna discosto due miglia dalla casetta di Lucia, un po' più basso e più verso settentrione, e a tre miglia circa dal convento il quale come abbiam detto era al piano del fiume, e nel paesetto posto sulla riva sinistra.
Questo castellotto posto sulla cima d'uno di quei piccioli promontorj fra i quali si dividono le grandi montagne, era fuori dell'abitato.
Intorno al castellotto erano tre o quattro casette di contadini che lavoravano i fondi di Don Rodrigo, e che gli facevano da servitori e da bravi secondo l'occorrenza: vecchj che parlavano dell'antico onore della casa e delle loro prodezze giovanili, e le proponevano in esempio ai giovani: giovani che cercavano di emulare quei fatti gloriosi, e donne che sentivano pure un nobile orgoglio della loro condizione di suddite ad un cavaliere che sapeva farsi rispettare, e di madri e mogli d'uomini che si facevano temere.
Quando però, il che non era caso raro, alcuno degli uomini loro tornava col capo rotto a casa, o si trovava minacciato della vendetta di qualche offeso furibondo, o in un altro di quegli impiccj in cui doveva farli cader sovente il modo loro di vivere, le donne urlavano allora, mostravano con furore i ragazzi sul volto ai mariti, predicavano la pace e il timor di Dio, e non si mettevano in silenzio che dopo aver toccata qualche bussa.
L'aspetto delle abitazioni di costoro dava un indizio della vita tra il rustico e l'eroico che essi menavano, poiché guardando dalle porte si vedevano nelle loro stanze terrene appesi alla rinfusa gli archibugj e le zappe, la reticella e il berretto piumato col cappello pastorale di paglia.
Quando il Padre giunse dinanzi al Castellotto trovò la porta chiusa, segno che il padrone stava a tavola e non voleva esser frastornato.
Le rade e picciole finestre che davano sulla via erano chiuse da imposte cadenti per vetustà ma difese da grosse ferriate, e quelle del piano terreno tanto elevate che un uomo avrebbe appena potuto affacciarvisi salendo sulle spalle d'un altro.
Tutto al di fuori era silenzio, e un passaggero avrebbe potuto credere che quella casa fosse abbandonata, se quattro creature, che erano poste in euritmia al di fuori, non avessero dato un indizio di abitazione, e nello stesso tempo un simbolo della ospitalità di quei tempi.
Due grandi avoltoj colle ali tese erano inchiodati ciascuno sur una imposta; ed uno già mezzo consumato dal tempo aveva perduta gran parte delle piume, e qualche membro, non aveva quasi più nemmeno la figura d'un bel cadavere: e due bravi (quei due medesimi che avevano messa quella bella paura in corpo al curato) sdraiati ciascuno sur una delle panche di pietra poste al di qua e al di là della porta, facevano guardia oziosa al castello del signore aspettando di godere gli avanzi della sua mensa.
Il Padre stava per ritirarsi ed aspettare in qualche distanza che la porta si aprisse; ma uno de' bravi avendolo veduto: «padre» gli disse: «ella vuol riverire il Signor Don Rodrigo: aspetti aspetti, qui non si mandano indietro i religiosi, noi siamo amici del convento», e così dicendo si alzò, e senza dar retta al frate che voleva ritornarsene, battè due colpi del martello sulla porta; a quel segno giunse borbottando un servo; ma quando ebbe veduto il Padre, lo fece entrare tosto dicendogli che avvertirebbe il padrone, e attraversato un angusto cortile lo condusse per alcuni salotti quasi fino alla porta della sala del convito.
A misura che il frate si avvicinava col suo duca, sentiva un romore crescente di forchette e di coltelli, un sordo fragore di piatti di stagno posti l'uno sull'altro, e sopra tutti un frastuono di voci discordi che tutte volevano coprire le altre.
Il frate desideroso allora più che mai di attendere miglior congiuntura stava litigando sulla porta col servo per ottenere di aspettare in un canto della casa che il pranzo fosse terminato, quando la porta si aperse, e Don Rodrigo che stava di contro veduta la barba e il cappuccio, e accortosi della intenzione modesta del buon Frate: «Ehi ehi» disse «non ci scappi Padre, avanti, avanti».
Il padre, mal suo grado si avanzò, in mezzo ai clamori e alle dispute dei convitati, i quali accorgendosi ad un per volta del sopravvenuto lo salutavano con quell'aria di rispetto ironico ed affettato che gli amici di Don Rodrigo dovevano avere per un cappuccino.
Bisogna confessare che nei romanzi e nelle opere teatrali, generalmente parlando, è un più bel vivere che a questo mondo: ben è vero che vi s'incontrano birboni più feroci, più diabolici, più colossali, vi si scorgono scelleratezze più raffinate, più ingegnose, più recondite, più ardite che non nel corso reale degli avvenimenti; ma vi ha pure dei grandi vantaggi, ed uno che basta a compensare molti mali, uno dei più invidiabili si è, che gli onesti, quelli che difendono la causa giusta, per quanto sieno inferiori di forze, e battuti dalla fortuna, hanno sempre in faccia dell'empio ancor che trionfante una sicurezza, una risoluzione, una superiorità di animo e di linguaggio che dà loro la buona coscienza, e che la buona coscienza non dà sempre agli uomini realmente viventi.
Questi, quando abbiano dalla parte loro la giustizia senza la forza, e vogliano pure ottenere qualche cosa difficile in favore della giustizia sono obbligati a pensare ai mezzi per giungere a questo loro fine, e i mezzi sono tanto scarsi, e per porli in opera senza guastare la faccenda si incontrano tanti ostacoli, fa bisogno di tanti riguardi, che da tutte queste considerazioni si trovano posti necessariamente in uno stato di esitazione, di cautela, e di studio, che gli fa sovente scomparire, in faccia ai loro avversarj risoluti ed incoraggiati dalla forza e dalla abitudine di vincere, e spesse volte, convien dirlo, dal favore o sciocco, o perverso degli spettatori.
L'uomo retto sente, a dir vero con certezza e con ardore la giustizia della sua ragione, ma questa sua idea è un risultato, una conseguenza d'una serie di ragionamenti e di sentimenti, per la quale è trascorso il suo animo: se egli la esprime fa ridere l'avversario, il quale per un'altra serie d'idee è giunto e si è posto in un risultato opposto: e pur troppo, tolti alcuni casi, l'uomo che non ha che sè per testimonio e per approvatore, e che vede negli altri contraddizioni e scherno perde facilmente fiducia, e quasi quasi è disposto a dubitare: o almeno si trova in quello stato di contrasto che fa comparire l'uomo imbarazzato.
Avvien quindi spesse volte che un ribaldo mostra in tutti i suoi atti una disinvoltura, una soddisfazione che si prenderebbe quasi per la serenità della buona coscienza se fosse più placida e più composta, e che l'uomo onesto e nella espressione esteriore, e nell'animo interno mostra e prova talvolta una specie d'angustia e di vergogna che si crederebbe rimorso; dimodoché a poco a poco finisce per essere soperchiato non solo nei fatti ma anche nel discorso, e nel contegno, e sta come un supplichevole e quasi come un reo dinanzi a colui che lo è veramente.
Si è fatta questa riflessione per ispiegare come il buon Padre Cristoforo, il quale veniva per domandare a Don Rodrigo l'adempimento della più stretta giustizia, e la cessazione della più vile iniquità, si rimase come confuso, e vergognoso quando si trovò così solo con tutte le sue buone ragioni in mezzo ad un crocchio romoroso e indisciplinato di amici di Don Rodrigo, e in sua presenza.
Era questi in capo alla tavola: alla sua destra sedeva il giovane Conte Orazio cugino di Don Rodrigo, suo compagno di libertinaggio e di soperchieria, e che villeggiava con lui: alla sinistra il Podestà, che Don Rodrigo aveva invitato non senza perché, potendo trovarsi in un impegno dal quale si sarebbe cavato meglio quando la Giustizia fosse tutta disposta in favor suo.
Il Podestà mostrava di ricevere l'onore di sedere famigliarmente a tavola d'un cavaliere con un rispetto misto però d'una certa libertà che gli dava il suo uficio; accanto a lui, e con un rispetto il più puro e il più sviscerato sedeva il nostro Dottor Duplica, il quale avrebbe voluto essere il protetto di tutti quelli che eran da più di lui, e il protettore di tutti quelli che gli erano inferiori: due o tre altri convitati di ancor minore importanza attendevano a mangiare e a sorridere con una adulazione ancor più passiva di quella del dottore: e quando questi approvava con un argomento o con una lode che voleva esser ragionata, essi non sapevano dire più in là di: «certamente».
«Da sedere al padre», disse Don Rodrigo; e un cameriere avvicinò una scranna sulla quale si pose il Padre Cristoforo facendo qualche scusa al signore di esser venuto in ora inopportuna, a parlargli d'un affare d'importanza.
«Parleremo, quanto Ella vorrà, ma intanto portate da bere al Padre».
Il Padre voleva schermirsi, ma Don Rodrigo in mezzo al trambusto dei litiganti gridava: «No per...
non mi farà questo torto, padre: non sarà mai detto che un cappuccino si parta da questa casa senza aver gustato del mio vino, né un creditore insolente senza avere assaggiato della legna dei miei boschi».
Queste parole produssero un riso universale e interuppero un momento la quistione che si agitava caldamente fra i commensali.
Un servo portando sur un bacile un'ampolla, come allora usava, di vino, e un lungo bicchiero a foggia di calice, lo presentò al Padre, che non volendo resistere ad un invito tanto pressante dell'uomo che voleva farsi propizio, non esitò a mescere, e si pose a sorbire lentamente il vino.
«Le torno a dire, Signor Podestà riverito, che l'autorità del Tasso non serve al suo assunto, che anzi è contro di lei», riprese ad urlare il Conte Orazio: «perché quel grand'uomo che conosceva tutte le regole e tutti i puntigli della cavalleria più soprafina ha fatto che il messo di Argante prima di esporre la sfida ai cavalieri cristiani, domandi licenza a Goffredo...»
«Ma questo», replicava non meno urlando il Podestà, «questo è un sopra più, un mero sopra più: giacché il messo è di sua natura inviolabile per diritto delle genti, jus gentium, e secondo quel proverbio, - ella m'insegna che i proverbi sono voce di Dio secondo quell'altro proverbio che dice: vox populi vox Dei - quel proverbio: ambasciator non porta pena; dico che non avendo il messaggero detto nulla in persona propria, ma solamente presentata la sfida in iscritto, secondo tutte le regole, non doveva mai...»
«Con buona licenza di questi signori», interruppe Don Rodrigo il quale questa volta contra il suo solito aveva voglia di troncare la quistione: «rimettiamola nel Padre Cristoforo, e si stia alla sua sentenza».
«Bene, benissimo», disse il Conte Orazio al quale parve cosa molto graziosa il far decidere una questione di cavalleria da un cappuccino; mentre il Podestà, a cui pareva un po' ostico l'esser sottoposto ad un giudizio mostrava leggermente il suo malcontento con un suono inarticolato accompagnato da una quasi invisibile mossa di spalle.
«Ma, da quel che mi pare d'avere inteso», disse il Padre, «non sono cose di cui io mi debba intendere».
«Solite scuse di modestia di loro Padri», disse Don Rodrigo; «ma non mi scapperà: Eh via! sappiamo bene ch'ella non è venuta al mondo colla barba, e col cappuccio, e il mondo lo ha conosciuto.
Via via.
Ecco il fatto».
«Il fatto è stato...» gridò il Conte Orazio.
«Lasciate pur dire a me che sono neutrale, cugino», riprese Don Rodrigo.
«Il fatto accaduto in Milano è: che un Cavaliere spagnuolo mandò la sfida ad un cavalier milanese: e il portatore non trovando il provocato in casa, consegnò la lettera ad un fratello del cavaliere; il quale, letta che l'ebbe diede alcune bastonate al portatore...»
«Ben date, bene applicate» gridò il Conte Orazio; «fu una vera ispirazione...»
«Del demonio», interruppe il podestà «battere un ambasciatore! persona sacra! anch'Ella padre, mi dirà se questa è azione da cavaliero...»
«In verità signor Podestà ch'io non avrei mai potuto credere che un par suo desse tanta importanza alle spalle di un mascalzone».
«Ma Signor conte, ella mi fa dire dei paradossi ai quali io non ho mai pensato.
Io parlo dell'offesa fatta alla livrea del Cavaliere spagnuolo, e non delle spalle del messo: parlo sopra tutto delle leggi di cavalleria.
Mi dica un po' se i Feciali, che erano quelli che gli antichi romani mandavano ad intimar le sfide ai popoli con cui si mettevano in guerra, domandavano il permesso di esporre l'ambasciata; e mi trovi un po' uno scrittore che faccia menzione che un feciale sia mai stato bastonato».
«Che mi parla di antichi romani, che in queste cose erano rozzi, e principianti?...
non v'erano stati ancora paladini nel vero e stretto senso della parola: ma ora che le cose si sono raffinate, che l'esperienza ha resi gli uomini ben più delicati, e che abbiamo scrittoroni i quali hanno immaginati tutti i casi escogitabili, e hanno scavato coll'acume del loro ingegno fino all'ultimo fondo di queste questioni, ora, io dico e sostengo, che un messo che non domanda la licenza di esporre una ambasciata di sfida è un temerario, violabile, violabilissimo, e che a bastonarlo si acquista indulgenza».
«Ebbene mi risponda un po' a questo.
Il portatore non è disarmato? e offendere un disarmato non è atto proditorio? Dunque il cavaliere milanese...»
«Piano piano, che bell'equivoco mi fa ella Signor podestà?...»
«Come?»
«Ma lasci rispondere.
Atto proditorio è ferire colla spada un cavaliere disarmato.
Confesso che infilzare colla spada un plebeo senza necessità sarebbe azione tanto vile, quanto bastonare un cavaliere: ma qui si tratta di bastonate date ad un plebeo; e lei non mi troverà una regola che imponga di dire guarda che ti bastono, come si dice: mano alla spada...
E lei Signor Dottore riverito, invece di farmi dei sogghigni, per darmi ad intendere che è del mio parere, perché non sostiene le mie ragioni colla sua buona tabella, per ajutarmi a fare entrare la ragione in capo a questo signore?»
«Io...» rispose alquanto sconcertato il dottore, «io godo di questa dotta disputa; e benedico quel grazioso accidente che ha dato occasione ad una guerra di ingegni sottili, e di labbra eloquenti che serve d'istruzione e di diletto agli ascoltatori; di modo ché non vorrei, anche potendo, metter daccordo due combattenti che fanno sì bella mostra delle loro forze.
Ho detto, potendo, giacché io non m'arrogo di fare il giudice...
e se non m'inganno il nobile padrone di casa ha nominato un giudice...
qui il padre...»
«È vero», disse Don Rodrigo, «ma come volete che il giudice parli quando gli avvocati non vogliono tacere!»
«Son muto», rispose il Conte Orazio: il Podestà fece pur cenno che tacerebbe.
«Ah! finalmente! A lei padre», disse Don Rodrigo con una serietà beffarda.
«Ho già fatte le mie scuse col dire che non me ne intendo», rispose Fra Cristoforo dando il bicchiere ad un servo.
«Scuse magre», gridarono tutti: «vogliamo la sentenza».
- Mascalzoni...
cioè poveri traviati; pensava fra sè il Padre Cristoforo, credete voi che starei qui a sentire le vostre pappolate se non si trattasse di cavare una innocente dagli artigli di quel lupo che voi accarezzate vilmente?
Ma come s'insisteva d'ogni parte: «Ebbene», disse, «poiché lor signori non vogliono credermi quand'io dico che non me ne intendo, vedrò di far dire a loro la stessa cosa.
Il mio debole parere dunque in tutto questo si è, che a ben fare non vi dovrebbero essere né sfide, né portatori, né bastonate».
«Nè cavalieri spagnuoli, né cavalieri milanesi, voleva forse dire padre»: rispose il Conte Orazio: «ed io aggiungo: nemmeno padri cappuccini.
Oh vorrebb'essere un bel vivere, padre...
come si chiama il padre?»
«Padre Cristoforo».
«Padre Cristoforo ella ci vorrebbe ricondurre a vivere di ghiande.
Senza sfide e senza bastonate! sarebbe un bel mondo! impunità per tutti i paltonieri, e il punto d'onore andato.
Ma scommetto che il Padre ha voluto scherzare perché sa benissimo che la sua supposizione è impossibile».
Don Rodrigo il quale non vedeva volentieri che il suo schiamazzatore cugino facesse tante questioni col podestà che gli premeva di tenersi amico, approfittò della sentenza del padre Cristoforo per divertire il discorso dalla questione, e rivolto al dottore con aria di protezione e di scherno.
«Oh» disse, «voi dottore che siete famoso per dar ragione a tutti, vediamo un po' come farete per dar ragione in questo al padre Cristoforo».
«In verità», rispose il dottore, rivolgendosi al padre, «io non so intendere come il padre Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e l'uomo di mondo, non abbia posto mente che la sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca: perché ogni cosa è buona a suo luogo: ma credo anch'io che il padre Cristoforo ha voluto terminare con uno scherzo ingegnoso una questione broccardica».
Il Padre Cristoforo non rispose, e perché come è facile indovinarlo era stomacato da lungo tempo della disputa e dei disputanti, e perché sapeva che il dottore non si curava di esser persuaso: e finalmente perché sarebbe stato impacciato a rispondere; giacché quantunque nel suo cuore egli pensasse veramente ciò che avevano espresso le sue parole; le ragioni della sua sentenza erano tanto lontane dalle idee di quel tempo ch'egli stesso avrebbe durato fatica a trovarle.
Il dottore il quale vide che i due litiganti stanchi di avere impiegata la bocca in parole si erano rimessi a guadagnare sul piatto il tempo perduto, e temendo che non si valessero delle forze riacquistate per ricominciare una guerra nella quale egli era già compromesso, pensò di toccare un'altra materia, e disse: «Del resto signori miei giacché si è parlato di cavalieri spagnuoli e di cavalieri milanesi, o viceversa, giacché ho un eguale rispetto per gli uni e per gli altri; credo che presto vedremo anche dei cavalieri alemanni, se le notizie che girano sono fondate, cosa che loro signori sapranno meglio di me».
«Le lettere ch'io ricevo da Milano», rispose Don Rodrigo, «mi danno che è voce comune che gli alemanni ottengono il passaggio per andar contro Mantova, e che pur troppo si crede che il passaggio sarà per di qui, giacché i comaschi muovono cielo e terra per fare a noi questo regalo...»
«Non si sturbi, non si sturbi...» rispose sorridendo il podestà: «non verranno alemanni né a Como, né qui».
«Ed io le dico» ricominciò il Conte Orazio, «che si assicura che sono già in marcia per Lindò, e si nomina il generale che sarà il celebre Conte di Colalto, e che si dà la nota dei reggimenti fra i quali vi è quel rinomatissimo reggimento dei più scelti e forbiti diavoli in carne che abbiano mai portato moschetto, il reggimento del famoso principe di Valdistano, o Vallistai come lo chiamino...»
«Il nome legittimo in lingua alemanna», interruppe il podestà, «è Vagliensteino, come l'ho inteso più volte proferire dal nostro signor comandante spagnuolo».
«Ebbene il reggimento di Vaglien...
quello che è: e oltre di questo vi è il reggimento di Galasso, del Barone Aldringhen ed altri simili, tutta gente che ha combattuto contro i Luterani, e che non ha timor di Dio né degli uomini, e che dove passa non lascia un filo d'erba».
«Per me», riprese Don Rodrigo, «non ho voglia di aspettarli qui, e» continuò sogghignando verso il Conte Orazio, «se non avessi un affaruccio da sbrigare, sarei già a Milano».
«Il vostro affare è già bell'e disperato, e se non avete altro potete partire».
«Voi vorreste aver guadagnata la scommessa; ma piano, caro mio, se gli alemanni non vengono in questi giorni, la scommessa la pagherete».
Queste parole e il sorriso infernale con cui furon dette e risposte furono un lampo pel padre Cristoforo il quale s'accorse fremendo e tremando, che l'oggetto della scommessa doveva essere l'innocente Lucia.
Il dottore intese forse quanto il padre, ma non tremò né fremè, né fece vista di nulla.
«Attenda a tutto bell'agio ai suoi affari, sulla mia parola signor Don Rodrigo e non pensi a privarci della sua rispettabile persona; che già gli alemanni non sognano nemmeno di passare per di qua.
Per mettere il piede sul nostro territorio che ha l'onore di appartenere alla monarchia spagnuola, bisogna ottenere il permesso del re Cattolico Don Filippo Quarto nostro signore che Dio guardi.
Ora il permesso a chi tocca concederlo o negarlo? Niente meno che al Conte Duca, al gran d'Olivares, a quel modello dei politici, a quell'uomo che si può chiamare il favorito dei principi e il principe dei favoriti.
Ora pensino le signorie loro, se un Olivares vuol permettere il passaggio...»
«Ma le dico che si radunano a Lindò...»
«Appunto questo è quello che mi persuade di più che non passeranno in Italia.
Certe cose io le so dal nostro signor comandante spagnuolo, il quale si degna - brav'uomo! - di trattenersi meco con qualche confidenza.
Sapranno ch'egli è un figliuolo d'un creato del Conte Duca, e che sa qualche cosa di questo gran ministro.
Ebbene fra le strepitose doti del Conte Duca la più strepitosa forse è quella di saper nascondere i suoi disegni: di modo che quegli stessi che lo servono più da vicino, quegli che scrivono i suoi dispacci non sanno mai che cosa passi in quella testa, e molte volte anche dopo che un affare è stato conchiuso, nessuno ha potuto indovinare quale era in esso l'intenzione del Conte Duca.
È una volpe, col dovuto rispetto, un furbo che farebbe perder la traccia a chichessia; e quando accenna a destra si può esser certi che batterà a sinistra, ed è perciò che nessuno può mai indovinare quello ch'egli sia per risolvere.
Onde quand'io veggo truppe alemanne venire alla volta d'Italia, tanto più dico, che sono destinate per altra parte; perché chi regola tutto anche fuori della monarchia è il Conte Duca; che ha le mani lunghe quanto la vista».
«Ma per dove crede lei che siano destinate tutte queste truppe?»
«Per dove? non per l'Italia certo.
Potrebbero esser destinate a gettarsi nella duchea di Borgogna per far diversione ai francesi, i quali (tutto per invidia del Cardinal di Riciliù contro il Conte Duca, perché vede benissimo che non può competere con quella testa) i quali francesi dico per invidia soccorrono gli olandesi che si trovano all'assedio di Bolduc.
E questa congettura, per dir tutto, la tengo dal signor comandante spagnuolo».
«Ma sappia signor podestà che le notizie che noi abbiamo da Milano, vengono da personaggi in confronto dei quali...»
«Via via, cugino», interruppe Don Rodrigo «che il signor dottore è impaziente di dare egli una decisione questa volta».
«Io decido e sentenzio», disse il Dottore, «che le cene di Eliogabalo sarebbero vinte al confronto dei pranzi del nobile signor Don Rodrigo, e che la carestia non ardisce approssimarsi a questa casa dove regna la splendidezza sua capitale nemica».
Tutti fecero plauso al dottore e viva a Don Rodrigo; e tutti subito si misero a parlare della carestia.
Qui tutti furono d'una sola opinione; ma il fracasso era forse più grande che se vi fosse stato disparere: giacché tutti esprimevano energicamente la stessa opinione con diverse frasi, ma tutti in una volta.
«Carestia!» diceva uno, «non c'è carestia sono gli accapparratori, birbanti».
«I fornaj, i fornaj» gridava un altro.
«Impiccarli! dei buoni esempj, senza pietà.
E quei birboni impostori che con un'aria pietosa hanno la sfrontatezza di dire che il pane è caro perché il raccolto è stato scarso, e che il grano manca! Impiccarli, impiccarli! sono i peggiori: tutte invenzioni per nascondere gli accapparramenti».
«Hanno detto che non vogliono vendere finché un terzo degli abitanti non sia morto di fame e il frumento non costi cento lire al moggio.
Oh scellerati! impiccarli!»
«Il grano c'è: questo è un fatto innegabile: dunque bisogna farlo saltar fuori: e il mezzo è pronto: impiccare quelli che lo nascondono».
«Dov'è tutto il male? nella carezza del pane: e chi lo vende caro? i fornaj: e per farli mutar vezzo, impiccarne uno o due».
«Eh ci vuol altro che uno o due: sono tutti birbanti, col pelo sul cuore.
Impiccarli, impiccarli!» Chi ha mai intesa e goduta l'armonia che fa in una fiera di campagna, una troppa di cantambanchi, quando prima di spiegare i suoi talenti dinanzi al rispettabile pubblico, ognuno accorda il suo stromento, facendolo stridere più forte che può affine di poterlo sentire in mezzo al romore degli altri, che procura di non ascoltare, s'immagini che tale fosse la conversazione di economia politica dei nostri commensali.
In mezzo a questo trambusto vennero i servi a torre le mense, ricevendo e dando urtoni e gomitate: quindi si pose sul desco molle un gran piatto piramidale di marroni arrostiti, e si portarono fiaschi di vino più prelibato di quello che in Lombardia si chiama vino della chiavetta, e del quale, per un privilegio singolare, ogni proprietario ha sempre il migliore del contorno.
Gli elogj del vino, com'era giusto, ebbero una parte della conversazione, senza però cangiarla del tutto: il gridio continuò per una buona mezz'ora: le parole che si sentivano più spesso erano ambrosia e impiccarli.
Finalmente Don Rodrigo si alzò e con esso tutta la rubiconda brigata: e Don Rodrigo, fatte le sue scuse agli ospiti, si avvicinò al padre Cristoforo, e lo condusse seco in una stanza vicina.
CAPITOLO VI
PEGGIO CHE PEGGIO
Ognuno può avere osservato che, dalla peritosa sposa di contado fino a...
fino all'uomo il più disinvolto e imperturbabile, e per dirla in milanese il più navigato, tutti hanno certi loro gesti famigliari, certi moti insignificanti dei quali fanno uso quasi involontariamente quando, trovandosi con persone colle quali non sieno molto addomesticati, non sanno troppo che dire, o aspettano il momento di dir cosa la quale non è attesa né sarà molto gradevole a chi deve intenderla.
La differenza che passa tra gl'intrigati e i navigati (son costretto a prendere entrambi i vocaboli dal dialetto del mio paese, il quale non manca d'uomini dell'una e dell'altra specie) la differenza è che i primi coi loro moti incerti, e vacillanti e goffi mostrano sempre più il loro imbarazzo, e vi si vanno sempre più affondando, mentre negli altri questo disimpegno è nello stesso tempo un esercizio di eleganza e di superiorità.
Tutte le classi hanno una provvisione particolare, e caratteristica di questi atti, e questa distinzione era più osservabile nei tempi in cui le classi erano più distinte per abitudini, e anche pel costume di vestire, il quale si prestava naturalmente ad usi diversi di questo genere.
Si potrebbe qui fare una erudita enumerazione di questi gesti, cominciando dai personaggi più celebri e dalle condizioni più note degli antichi romani, o anche degli Egizj, ma sarebbe troppo provocare l'impazienza del lettore avido certamente di seguire la nostra interessante storia.
Diremo soltanto che gli atti più usuali dei cappuccini per avere come dicono i francesi une contenance, erano di accarezzarsi la barba, di fare scorrere il berrettino innanzi indietro dal sincipite all'occipite, di porre la mano destra nella larga manica sinistra e viceversa, o di stirarsi il cordone, o di palpare ad uno ad uno i grossi paternostri del rosario che tenevano appeso alla cintola.
Questa ultima operazione appunto faceva il Padre Cristoforo quando si trovò da solo a solo con Don Rodrigo; di modo che si avrebbe creduto che vi ponesse molta occupazione, ma il lettore sa che il buon padre era preoccupato da tutt'altro.
Del contegno di Don Rodrigo non occorre parlare, giacché ognun sa che nessuno è tanto sciolto, franco, sgranchiato, quanto un ribaldo dopo un buon desinare.
Stava egli però con qualche curiosità e con qualche sospetto di quello che il padre fosse per dirgli, sospetto che il contegno un po' irresoluto del padre aveva quasi cangiato in certezza.
Gli accennò con sussiego che sedesse, si pose egli pure a sedere, e ruppe il silenzio con queste parole:
«In che posso obbedirla, padre?»
Questo era il suono delle parole, ma il modo con cui erano proferite voleva dire chiaramente: frate, bada a chi tu parli, e a quello che dirai.
Il tuono insolente di quest'invito servì mirabilmente a togliere ogni imbarazzo al padre Cristoforo; perché risvegliando quell'uomo vecchio che il padre non aveva mai del tutto spogliato, mise in moto quello che v'era in lui di più franco e di più risoluto: cosicché invece di farsi animo dovett'egli frenare l'impeto che lo spingeva a rispondere sullo stesso tuono, per non guastare l'opera delicata che stava per intraprendere.
Onde, con modesta, ma assoluta franchezza, rispose:
«Signor Don Rodrigo il mio sacro ministero mi obbliga a passare un officio con Vossignoria.
Io desidero ardentemente che nessuna mia parola possa spiacerle: e per antivenire ad ogni disgusto debbo assicurarla che in tutto quello ch'io sono per dire io ho di mira il bene di lei, quanto quello di qualunque altra persona».
Don Rodrigo non rispose che allungando il volto, stringendo le labbra, aggrottando le ciglia, e dando ai suoi occhi una espressione ancor più minacciosa e sprezzante.
Il Padre fece le viste di non avvedersene, e continuò, con qualche esitazione, perché le parole ch'egli stava per proferire non esprimevano veramente quello ch'egli sentiva:
«Qualche tristi hanno abusato del nome di Vossignoria illustrissima per minacciare un parroco, ed atterrirlo dal fare il debito suo, e sopraffare indegnamente due poveri innocenti.
Vossignoria può con una parola confondere questi ribaldi, disingannare quelli che potessero aver dato fede alle loro parole, e sollevare quelli che ne patiscono.
Lo può, e ardisco dirle, lo deve.
La sua coscienza, la sua sicurezza, il suo onore sono interessati in questo sciagurato affare».
«Della mia coscienza, padre, non mi si deve parlare che per rispondermi quando mi piaccia di parlarne; la mia sicurezza...
ma non posso credere ch'ella abbia avuta l'intenzione ardita di farmi una minaccia; e suppongo che questa parola le sia sfuggita senza riflessione.
Quanto al mio onore, io potrei esser grato a chi ne sente premura in cuor suo, ma sappia che ne ho la cura io, e che chiunque osa prendersi questa cura per me, io lo riguardo come colui che lo offende».
La fredda ed altiera impudenza di Don Rodrigo avrebbe fatta perder la flemma al Padre, se questi non ne avesse fatta una provvisione per trenta anni, e se non fosse stato compreso dell'importanza del negozio che stava trattando.
Con questo pensiero, riprese: «Signor Don Rodrigo: sa il cielo se io ho disegno di spiacerle: ella pure lo sa: non volga in ingiurie quello che mi detta la carità, sì una umile carità: con me ella non potrà venire a parole, io son disposto ad ingojare tutto quello che le piacesse di dirmi: ma per amor del cielo, per quel Dio innanzi a cui dobbiamo tutti comparire (così dicendo il padre aveva preso fra le mani e poneva dinanzi agli occhi di Don Rodrigo il teschietto di legno che era appeso in capo al suo rosario, e che i cappuccini portavano per un ricordo continuo della morte) per quel Dio, non si ostini a volere una misera, una indegna soddisfazione a spese dell'anima sua, e delle lagrime dei poverelli: pensi che Dio gli ha cari come la pupilla dei suoi occhj, e che le loro imprecazioni sono ascoltate lassù: risparmi l'innocenza e la...»
«Padre Cristoforo», interruppe bruscamente D.
Rodrigo: «il rispetto ch'io porto al suo abito è grande; ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il vederlo in dosso ad uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa».
Questa parola fece salire una fiamma sulle guance del frate: ma fatti tutti i vezzi d'un uomo che tranghiotte in fretta una amarissima medicina, egli rispose: «Lo dica pure, purché non lo creda; e già non lo crede.
Ella sa che le ingiurie che io posso ascoltare per questa causa non mi avviliscono, ella sa che il passo che io faccio ora non è mosso da fini spregevoli: ella non mi disprezza in questo momento.
Faccia Dio che non venga un giorno in cui ella si penta di non avermi ascoltato.
Non metta la sua gloria nel...
Qual gloria, signor Don Rodrigo! Qual gloria dinanzi agli uomini! E dinanzi a Dio! Fare il male è concesso sovente all'ultimo degli uomini: il più vile dei banditi può far tremare.
Non v'è disonore a ritrarsi dalla iniquità: la codardia sta nel fare delle azioni inique per timore di scomparire dinanzi ai tristi.
Signor Don Rodrigo, le parole ch'io proferisco ora dinanzi a lei sono numerate, un giorno le potrebbero esser fatte scontare ad una ad una da Colui che me le ispira».
«Sa ella», disse interrompendo con istizza ma non senza qualche raccapriccio Don Rodrigo, «sa ella che quando mi viene il ghiribizzo di sentire una predica, io so benissimo andare in chiesa come fanno gli altri? Ma in casa mia.
Oh!» e continuò con un sorriso affettato, «io non posso lagnarmi di Dio che m'abbia fatto nascere in basso luogo, ma ella mi tratta per da più che io non sono alla fine.
Il predicatore in casa! non l'hanno che i principi regnanti».
«E quel Dio che domanda conto ai principi della parola che fa loro intendere nelle loro reggie, quel Dio le fa ora un tratto di misericordia mandando un suo ministro, indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregare per una innocente...»
«Insomma, padre», disse alzandosi dispettosamente Don Rodrigo; «io non so quello ch'ella mi voglia dire: io non capisco altro se non che vi debb'essere qualche fanciulla che le preme assai: vada a fare le sue confidenze a chi le piace; e non si permetta di seccare più a lungo un gentiluomo».
Il Padre Cristoforo vedendo Don Rodrigo alzarsi, come perduta la pazienza, temè che questi rompesse affatto il discorso, e levatosi egli pure col maggior garbo che potè, e con aria quasi supplichevole, dissimulando quello che potevano avere di frizzante le parole che aveva intese, rispose: «Sì la mi preme; ma non più di lei: io veggio in entrambi dei fratelli di redenzione, e delle anime che mi sono più care del mio sangue.
Don Rodrigo io sono un nulla dinanzi a lei, ma il mio rispetto, ma la mia riconoscenza potranno forse valere qualche cosa per la intensità loro se non per la mia persona.
Non mi dica di no: salvi una innocente, una sua parola può far tutto».
«Ebbene», disse Don Rodrigo, «giacch'ella crede ch'io possa far molto per questa persona; giacché questa persona le sta tanto a cuore...»
«Ebbene?» riprese ansiosamente il Padre Cristoforo al quale l'atto e il contegno di Don Rodrigo non permettevano di abbandonarsi alla speranza che parevano annunziare le sue parole.
«Ebbene», proseguì Don Rodrigo: «le consigli di venirsi a mettere sotto la mia protezione.
Non le mancherà più nulla, e non son cavaliere, se alcuno ardisce inquietarla».
«La vostra protezione!» riprese il padre Cristoforo, dando indietro due passi, appoggiandosi fieramente sul piede destro, e mettendo la destra sull'anca, levando la manca coll'indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati: «la vostra protezione! bene sta che abbiate parlato così; che abbiate fatta a me una tale proposta.
Avete colma la misura, e non vi temo più».
«Come parli, frate?...»
«Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura.
La vostra protezione! Io sapeva che Lucia era sotto la protezione di Dio: ma voi, voi me lo fate sentire ora con tanta certezza, che non ho più bisogno di riguardi a parlarvene.
Lucia dico: vedete come io pronunzio questo nome colla fronte alta, e con gli occhi immobili».
«In questa casa...»
«Ho compassione di questa casa: ella è segnata dalla maledizione.
State a vedere che la giustizia di Dio avrà rispetto a quattro pietre e a quattro scherani! Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine per darvi il diletto di tormentarla! voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Vi siete giudicato.
Ne ho visti di più potenti, di più temuti di voi; e mentre agguatavano la loro preda, mentre non avevano altro timore che di vederla fuggire, la mano di Dio si allungava in silenzio dietro alle loro spalle per coglierli.
Lucia è sicura di voi, ve lo dico io povero frate, e quanto a voi, ricordatevi che verrà un giorno...»
Don Rodrigo che combattuto tra la rabbia, e il terrore non trovava parole per rispondere, quando sentì che una predizione stava per venirgli addosso, prese la mano tuttavia alzata del padre, e coprendogli la voce gridò:
«Levamiti dinanzi, plebeo incappucciato, poltrone temerario».
Queste parole così chiare acquietarono in un momento il padre Cristoforo.
All'idea di strapazzo e di villania era nella sua mente così bene, e da tanto tempo associata l'idea di sofferenza e di silenzio, che a quel complimento gli cadde ogni spirito d'ira e di entusiasmo, e non gli restò più altro da fare che di udire tranquillamente quello che piacesse a Don Rodrigo di aggiungere.
Onde, ritirata placidamente la mano dagli artigli del gentiluomo, abbassò il capo e rimase immobile, come quando nel forte della burrasca il vento cade, un'antica pianta ricompone naturalmente i suoi rami e riceve la gragnuola come la manda il cielo.
«Villan rifatto!» proseguì Don Rodrigo: «così rimeriti accoglienze alle quali non sei avvezzo, e che non son fatte per te: ma tu adoperi da par tuo.
Ringrazia quel sajo che ti copre quelle spalle di paltoniere, e ti salva dalle carezze che si fanno ai pari tuoi per insegnar loro a parlare.
Esci colle tue gambe per questa volta; e la vedremo».
Così dicendo, accennò una porta opposta a quella per cui erano entrati: il padre Cristoforo chinò il capo, come salutando, e se ne uscì per quella, tranquillamente, lasciando don Rodrigo a misurare a passi concitati il campo di battaglia.
Non è da credere che l'animo del buon frate fosse pacato come il suo aspetto; ma in mezzo al turbamento naturale nelle sue circostanze, egli sentiva più di fiducia che non ne avesse prima di quell'infelice colloquio.
Le parole di sicurezza ch'egli aveva dette a Don Rodrigo, non erano state un'arte per atterrir l'avversario: esprimevano un sentimento sincero e distinto.
Gli pareva che la superbia e l'iniquità di Don Rodrigo fossero salite a quell'altezza, dove la provvidenza le arresta, e le rovina.
Questi calcoli riescono spesse volte fallaci, e l'ingiustizia a questo mondo talvolta sale, sale, sale, quando si crede che giunta al colmo, non possa che precipitare: ma Fra Cristoforo la pensava così come abbiam detto; e sperava più che mai che la cosa si terminerebbe con una uscita inaspettata e favorevole all'innocenza.
Ma quale uscita? Non avrebbe egli saputo dirlo: ma credeva confusamente che una se ne troverebbe.
Quand'ebbe chiusa dietro sè la portiera, vide nella stanza dov'entrava, e che riusciva nel cortile, vide una persona che si andava tirando pian piano dietro la parete come per non esser veduta dalla stanza del colloquio; e s'accorse che era un servo il quale era stato ad origliare, e continuò a camminare senza far vista di nulla, per uscir nel cortile.
Ma il servo fattosigli vicino gli disse sottovoce: «padre, ho inteso tutto, e le vorrei parlare».
«Dite tosto».
«Non posso qui: guai se il padrone o altri mi sorprende.
Ma io so tante cose, e non mi regge la coscienza né il cuore...
Vedrò di venir domani al suo convento».
«Dio vi benedica; ma intanto?»
«Non si farà nulla prima.
Vada vada».
«Dio vi ricompenserà: io non uscirò domani, e mi troverete certamente».
«Vada vada per amor del Cielo, e non mi tradisca».
Il volto del buon frate rispose a queste parole più chiaro che non avrebbe potuto qualunque discorso; il servo rimase, e il padre uscì nel cortile, quindi nella via, e respirò più liberamente quando si vide fuori di quella caverna.
L'inaspettata proposta del servo confermò e crebbe la sua fiducia.
- Ecco, diss'egli tra sè, un filo che la provvidenza mi pone in mano.
- Così pensando guardò in alto e vide che il sole era poco discosto dalla cima del monte; e che non rimaneva che un'ora e mezzo di giorno.
Allora benché affaticato per la via che aveva già fatto, e per quello che aveva detto e inteso, studiò il passo affine di poter riportare un avviso qual ch'e' fosse alle donne, come aveva promesso, e trovarsi al convento prima di sera.
Era questa una delle leggi più severe del codice fratesco: e le trasgressioni erano punite con rigore, e talvolta le recidive con crudeltà, perché oltre la disciplina, l'onore del convento era interessato a prevenire delle assenze che avrebbero fatto dire Dio sa che.
Al qual proposito si può osservare che ogni volta che gli uomini hanno potuto dividersi in classi, in crocchi, in picciole società, e farsi leggi particolari, per lo più invece di approfittare di questa esenzione dalle leggi comuni per istabilire una certa condiscendenza utile a tutti i contraenti, hanno aguzzati gl'ingegni per trovare rigori e pene più raffinate: di modo che parrebbe quasi che tormentare altrui sia più dolce che assicurar se stesso.
Ma nella casetta di Lucia dal momento che il padre ne era partito non si era stati in ozio: si eran messi in campo e ventilati disegni dei quali è necessario informare il lettore.
Partito il padre, Fermo e Lucia stavano in silenzio osando appena di sogguardarsi di tratto in tratto, e non si parlando che con sospiri: poiché le speranze che avevano nella spedizione del buon padre erano tanto leggere e indeterminate, che temevano entrambi di farle svanire col comunicarle.
Lucia andava tristamente ammanendo il desinare, e Fermo stava in tra due, volendo ad ogni momento partire per togliersi dallo spettacolo di Lucia così accorata, e non sapendo staccarsi.
Ma Agnese dopo aver meditato un poco, dopo aver più volte risposto a se stessa di sì col capo, con una voce piena di pensiero ruppe il silenzio e disse: «Sentite, figliuoli.
Se aveste coraggio e destrezza quanto è di mestieri, se vi fidate di vostra madre (quel vostra fece trasalire Lucia) io m'impegnerei a cavarvi di questo impiccio, meglio forse e più presto del padre Cristoforo, con rispetto del suo studio».
Lucia si fermò sui due piedi con più ansia che speranza in una promessa tanto magnifica; e Fermo: «Coraggio!» disse: «destrezza! dite, dite quel che si può fare».
«Non è vero», proseguì Agnese, «che se voi foste maritati, il punto principale sarebbe vinto, che a tutto il rimanente vi sarebbe rimedio?» «Oh maritati» rispose Fermo: «e poi quel che Dio vuole».
Lucia non aperse bocca; ma un rossore che le velò tutta la faccia parve ripetere parola per parola ciò che Fermo aveva detto.
«Maritati che foste», continuò Agnese, «coi pochi risparmi di Fermo, e coi nostri, colla nostra poca abilità, possiamo vivere anche via di qui: per me non ho che questa poveretta al mondo, e grazie al cielo non vi sarei di peso, giacché il pane me lo guadagno.
Lontani dalla persecuzione di questo tiranno senza timor di Dio, noi potremmo far casa, e vivere in santa pace, non è vero, figliuoli?»
«Sicuro», rispose Fermo, «ma tutto sta nell'essere maritati».
«Ebbene, come vi ho detto, coraggio e destrezza; fare quello che vi dirò io, e la cosa è facile».
«Facile!» dissero ad una voce quelli per cui la cosa era divenuta tanto stranamente, e dolorosamente difficile.
«Facile, a saperla fare»; replicò Agnese.
«Bisogna fare un matrimonio gran destino».
- La buona donna voleva dire clandestino.
«Cospetto!», disse Fermo: «mi par bene di avere inteso altre volte questa parola, ma non so che cosa voglia dire.
Ma come fare il matrimonio se il curato non vuole? Senza il curato non si può fare».
«Bisogna che il curato ci sia, e questo è facile, ma non fa bisogno ch'egli voglia, che è il punto».
«Spiegatevi meglio».
«Ecco come si fa.
Bisogna aver due testimoni, destri e ben informati.
Si va dal parroco.
Lo sposo dice: - Signor curato, questa è mia moglie: - la sposa dice: Signor curato, questo è mio marito: - il parroco sente, i testimonj sentono, e il matrimonio è fatto, e sacrosanto come se lo avesse fatto il papa.
Ma bisogna che il curato senta, che non v'interrompa, perché se ha tempo di fuggire prima che tutto sia detto, non si è fatto niente.
Bisogna dire in fretta, ma chiaro, sentite: come faccio io: - questa è mia moglie: questo è mio marito: - (e faceva mostra di una volubilità di lingua che in verità possedeva in un modo singolare).
Quando le parole son proferite, il curato può strillare, strepitare fare quello che vuole, siete marito e moglie».
«Possibile!» sclamò Lucia.
«Oh vedete», disse Agnese «che nei trent'anni che sono stata al mondo prima di voi altri, non avrò imparato niente.
La cosa è certa e una mia amica che voleva pigliar marito contra la volontà dei suoi parenti, ha fatto così.
Poveretta! che arte ha usata per riuscirvi, perché il curato stava sull'avviso, ma ha saputo cogliere il momento, ha pigliato colui che voleva, e se ne è pentita tre giorni dopo».
«Se fosse vero, Lucia!...» disse Fermo, riguardandola con aria di una aspettazione supplichevole.
«Come! se fosse vero», ripigliò Agnese: «Io mi cruccio per voi, e non son creduta.
Bene bene; cavatevi d'impiccio come potete: io me ne lavo le mani».
«Ah no! non ci abbandonate», disse Fermo.
«No no»: riprese Agnese: «me ne lavo le mani: sentite, io son donna che sopporto ogni cosa per quelli a cui voglio bene, ma non voler credere alle mie parole, e non voler fare quello che dico io; questo non lo posso sopportare».
Chi avesse tentato direttamente con preghiere di smuovere Agnese irritata, avrebbe facilmente avuto da fare per molto tempo: ma Lucia ottenne l'effetto in un momento, senza porvi astuzia, facendo una obbiezione:
«Ma, perché dunque», diss'ella, «questa cosa non è venuta in mente al Padre Cristoforo?» Questa interrogazione impegnò la buona Agnese a rispondere, e a giustificare il suo assunto.
«Bisogna saper tutto», diss'ella.
«Al Padre Cristoforo che ne sa molto più di me, la cosa sarà venuta in mente prima che a me: ma io so bene perché non ne avrà voluto parlare».
«Perché?» domandarono i due giovani.
«Perché?...
perché...
i religiosi dicono che è una cosa che non istà bene».
«Come possono dire che non istia bene, quando dicono che non si può disfare», disse Fermo.
«Se non istà bene», disse Lucia, «non bisogna farla».
Per rispondere a Fermo era necessario un ragionamento troppo sottile per Agnese: si volse ella adunque a Lucia, e disse: «Non bisogna dirla prima di farla, perché allora sconsigliano: ma quando sarà fatta, che cosa vuoi che ti dica il Padre Cristoforo? - Ah figliuola è stata una scappata, non me ne tornate a fare una simile! - Tu gli prometterai di non tornarvi: non è vero? non son cose che si facciano due volte.
E allora il Padre Cristoforo ti assolverà».
Lucia non si mostrava convinta di questo raziocinio; ma Fermo tutto rincorato disse: «Ebbene quand'è così la cosa è fatta.
Lucia, voi non mi verrete meno, non mi avete voi promesso d'esser mia? Non abbiamo noi fatto ogni cosa da buoni cristiani? E se non fosse stato questo...
non saremmo noi marito e moglie?»
«Fatta! fatta!» disse Agnese: «adagio.
E i testimonj? E trovare il modo di acchiappare il signor curato, che da due giorni se ne sta rincantucciato in letto, e che quando vi vedesse comparire a un miglio di distanza, scapperebbe come il diavolo dall'acqua santa?»
«Ho trovato il modo; l'ho trovato», disse Fermo, battendo il pugno sulla tavola e facendo trasalire e fremere le stoviglie apparecchiate pel desinare: «l'ho trovato.
Vado, e torno.
Bisogna ch'io parli con Toni; e se posso acconciare la faccenda con lui, l'è fatta; e vengo subito ad informarvene».
«Ma ditemi prima quello che intendete di fare» disse precipitosamente Agnese, alla quale pareva pure di dover esser consultata la prima.
«Non ho un momento da perdere: bisogna ch'io lo colga in casa a quest'ora: altrimenti, chi sa se potrei trovarlo.
Vado e torno, per sentire il vostro parere; senza il vostro parere non si farà nulla.
Cara Agnese, io vi considero come se foste la madre che ha patito: sono nelle vostre mani.
Persuadete Lucia».
Così detto sparì.
Non ci voleva meno di queste parole perché Agnese perdonasse a Fermo di farle aspettare una confidenza e di intraprendere qualche cosa senza il suo consiglio.
«Ragazzo!» diss'ella quando fu partito «purché non me ne faccia una e non mi guasti tutto.
Basta: mi ha promesso di non far nulla senza la mia licenza».
Necessità, come si dice, assottiglia l'ingegno: e Fermo il quale nel sentiero retto e facile di vita che aveva percorso fin allora non aveva mai avuto occasione di far molto uso della sua penetrazione, ne pensò in questo caso una, che avrebbe fatto onore ad un giurisperito.
Corse alla casetta di Tonio, la quale era nel villaggio dove risiedeva il parroco, a forse trecento passi di distanza dalla abitazione di Lucia.
Quando Fermo entrò nella cucina, la moglie, la vecchia madre di Tonio stavano sedute alla mensa, e tre o quattro figli ritti intorno aspettando il desinare che Tonio stava cucinando.
Ma non si vedeva sui volti quell'allegria che ordinariamente anche i poverelli mostrano in quel momento: la carestia aveva costretti i poverelli ad una sobrietà ancor più rigida che per l'ordinario, e tutti cogli occhi fissi sulla pentola nella quale Tonio tramestava accidiosamente una bigia polenta di fraina (o se volete di poligonum fagopyrum ) pareva che invece di rallegrarsi della vista del desinare pensassero tristamente a quella buona parte di appetito che rimarrebbe intatta dopo sparecchiato.
In quel momento Tonio riversò la polenta sulla tafferia di faggio che stava appronta a riceverla, e il largo orlo che rimase vuoto all'intorno fece ancor più chiaramente risaltare la povertà del convito.
Nullameno le donne rivolte cortesemente a Fermo, gli dissero se voleva restar servito: complimento che il contadino di Lombardia non lascia mai di fare quando mangia seduto sulla sua porta a chi s'abbatte a passarvi quand'anche stesse mangiando l'ultimo boccone del suo piatto.
«Vi ringrazio», rispose Fermo: «io vengo per dire qualche cosa a Tonio; e se vuoi Tonio, per non incomodare le tue donne vieni a pranzar meco all'osteria, e parleremo».
La proposta fu per Tonio tanto gradita quanto meno aspettata; e le donne che in un'altra occasione forse avrebbero avuto che dire su questa partita videro con piacere che si scemasse alla polenta un concorrente, e il più formidabile.
Tonio non domandò altro, e partì con Fermo.
Giunti all'osteria del villaggio, seduti a tutto loro agio in una perfetta solitudine giacché la miseria aveva fatti sparire tutti i frequentatori di quel luogo di delizie, fatto recare quel poco che si trovava, vuotato un boccale di vino, Fermo con aria di mistero disse a Tonio: «Se tu vuoi farmi un picciolo servizio; io posso e voglio farne uno grande a te».
«Parla, parla, comandami pure», rispose Tonio, versandosi da bere, «oggi andrei nel fuoco per te».
«Tu sei in debito di venticinque lire col signor curato per fitto del suo campo che lavoravi l'anno passato».
«Tu sei sempre stato un martorello, Fermo: non sai che all'osteria non si fa menzione di debiti? Ecco, io mi sentiva una voglia che sarei andato nel fuoco per te, ma con questo discorso tu mi hai fatto passare tutta l'allegria, e quasi non ti son più obbligato».
«Se ti parlo del debito», rispose Fermo «è per darti il mezzo di soddisfarlo.
Eh! non ti farebbe piacere? saresti contento?»
«Contento? per diana se sarei contento.
Non pel curato vedi: ma per togliermi la seccatura: se la faccenda continua così non potrò più andare alla Chiesa: non mi vede una volta che non me ne gitti un motto, o almeno almeno non mi faccia un cenno con quella sua brutta cera.
E poi e poi, egli si tiene in pegno la collana d'oro di mia moglie; e prevedo che quest'inverno se l'avessi, la cangerei in tanta polenta; non in vino», e qui fece un sospiro, «in polenta.
Ma...»
«Ma, ma; se tu mi vuoi rendere un servizio, io ti darò le venticinque lire».
«Il servizio è fatto» rispose Tonio; «non fa nemmeno bisogno che tu mi dica che cosa è».
Fermo, gli fece promettere sul bicchiere il segreto, e continuò:
«Tu sai che io sono promesso a Lucia Zarella.
Il curato mi va cercando cento scuse magre per tirare in lungo: io vorrei spicciarmi.
Mi hanno mò detto che presentandomi al curato con due testimonj, e dicendo io: questa è mia moglie, e Lucia: questo è mio marito, il matrimonio è bell'e fatto.
M'hai tu inteso?»
«Tu vuoi ch'io venga per testimonio?»
«Appunto».
«Il matrimonio è fatto, è fatto», rispose Tonio baldanzosamente, versandosi un altro bicchiere di vino.
«Così vi fossero molti tribolati come te, e in caso di spendere venticinque lire».
«Ma bisogna che tu mi trovi un altro testimonio».
«Bisogna che lo trovi io ah? io perché son più destro di te.
Bene è trovato.
Quel martoraccio di mio fratello Gervaso, farà quello che gli dirò io: basta che tu mi dia tanto ch'io gli possa pagar da bere; perché, a questo mondo, niente per niente: è un proverbio che lo sa anche Gervaso, lo sanno anche quelli che non sanno dire il Credo».
«Farò di più», disse Fermo, «lo condurremo qui a stare allegro con noi».
«Benone» rispose Tonio.
Fermo pagò lo scotto, ed uscirono quindi entrambi pieni di speranza; Fermo avvisò il compagno che si tenesse pronto per l'indomani sull'imbrunire; gli raccomandò di nuovo il segreto, quindi si avviò alla casa di Lucia, e Tonio alla sua cantando ad alta voce, come non aveva più fatto da molti mesi.
Ma in questo frattempo Agnese aveva penato in vano a persuadere Lucia.
In tutto il tempo del desinare (il quale non era grazie a Dio più scarso dell'ordinario, perché tanto le donne, quanto Fermo erano dei più agiati del contorno) e dopo quando le furono ritornate all'aspo, Agnese pose in opera tutta la sua eloquenza, ma invano.
Lucia rispondeva sempre con un dilemma senza però saperlo presentare in forma: «O si può fare», diceva, «e perché non dirlo al padre Cristoforo? o non si può fare, e non si deve fare».
Non già che questo rifiuto non fosse più amaro a Lucia che lo proferiva che alla madre; ma Lucia non avrebbe voluto per nulla al mondo far contra la sua coscienza.
«Abbiamo bisogno più che mai», diceva ancora, «dell'ajuto di Dio, e se facciamo ciò che non istà bene, come lo potremo sperare?» Così spesero tutto quel tempo in argomentazioni; e uno che le avesse intese disputare, e tornar da capo ognuna a ripetere le stesse ragioni, avrebbe potuto credere che la fosse controversia fra due dotti, piuttosto che disputa fra due donnicciuole.
Fermo giunse che si disputava tuttavia.
Ma Agnese, alla quale allora premeva più di sapere che di parlare, «ebbene Fermo», disse, «avete trovato il bandolo? Dite, vediamo un po'».
Fermo snocciolò tutto il disegno; e terminò con un «ahn!» interiezione milanese la quale significa: sono o non sono un uomo? si poteva trovar di meglio? ve lo sareste aspettato? e cento altre cose simili.
Agnese crollò il capo, e disse: «non avete pensato a tutto».
«Che ci manca?» rispose Fermo, punto, e spaventato nello stesso tempo.
«E Perpetua?» gridò Agnese; «e Perpetua? non avete pensato a Perpetua.
Come volete ch'ella vi lasci entrare dal curato? Pensate s'ella non avrà ordini severissimi di tenervi lontani più che un ragazzo da una pianta di pomi maturi.
Come farete ad ingannare Perpetua?»
«Povero me! non ci ho pensato, io».
«Sentite, se non ci fosse altra difficoltà, a Perpetua ci penso io», rispose Agnese, la quale giacché l'iniziativa gli era stata tolta, era almeno contenta di mostrare che era necessaria la sua sanzione.
«Ecco come la cosa si dovrebbe fare.
Sull'imbrunire, capite bene che quella è l'ora giusta, Tonio va alla porta del curato, picchia, viene Perpetua, Tonio le dice di avvertire il curato ch'egli è lì per pagare.
Voi altri due intanto vi apparecchiate dietro l'angolo della casa a man sinistra.
Quando Perpetua torna per aprire a Tonio, io mi trovo sulla porta, e quando Perpetua ha detto a Tonio: - andate su -, io mi mostro a Perpetua, la chiamo, e le dico queste parole magiche: - ho da parlarvi di quel tale affare.
- Con quest'amo vedete io la tiro con me dalla destra fin dove voglio; ma basterà che io l'allontani tanto che voi possiate pian pianino introdurvi nella porta lasciata aperta da Tonio, e tenergli dietro pian pianino per le scale, e poi fermarvi nella stanza vicina a quella dove sarà il curato, ed essergli addosso poi nel momento opportuno».
Agnese chiuse il discorso alla sua volta con un «ahn?» prolungato in aria di trionfo, levando il mento, ed avanzando la faccia verso Fermo.
«Benedetta voi...!»
«Mah!» interruppe Agnese: «tutto questo serve poco, perché Lucia si ostina a dire che è peccato».
Fermo pos'egli pure in campo la sua eloquenza: fece mille interpellazioni a Lucia, e rispose sempre egli per mostrare che i dubbj di essa erano vani: ma Lucia fu inconcussa.
«Sentite», diss'ella, «fin qui abbiamo fatto tutto col timor di Dio; proseguiamo a questo modo, e Dio ci ajuterà.
Io non capisco tutte queste vostre ragioni: vedo che per far questa cosa bisogna camminare a forza di bugie, di nascondigli.
No no Fermo: io voglio esser vostra, ma colla fronte scoperta, il bandolo lo troverà la provvidenza».
La disputa, come era da supporsi, divenne generale.
Fermo insisteva rimproverando Lucia di poco amore, e ripetendo i suoi argomenti con una forza e una amarezza sempre crescente: Lucia addolorata, tenera, ma ferma li ribatteva singhiozzando, ed Agnese predicava all'una, dava sulla voce all'altro secondo l'occasione.
Tutt'ad un tratto, un calpestio affrettato di sandali, e un romore di tonaca sbattuta, somigliante a quello che produce in una vela allentata il soffio ripetuto del vento, annunziò il Padre Cristoforo.
Si fece silenzio, e Agnese ebbe appena il tempo d'imporre sotto voce a Lucia di non dir parola del disegno contrastato.
CAPITOLO VII
...
Il Padre Cristoforo arrivava nell'attitudine d'un buon generale, il quale, perduta, senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non iscorato, soprappensiero, ma non istordito, a corsa e non in fuga, si porta ove il bisogno lo chiede, a premunire i luoghi che potrebbero esser minacciati, a dare ordini, disposizioni, avvertimenti.
«La pace sia con voi», diss'egli, entrando, tutto ansante, ma con voce ferma.
«Non v'è nulla a sperare dall'uomo: tanto più bisogna confidare in Dio».
Benché nessuno dei tre sperasse molto nel tentativo del Padre Cristoforo, giacché il vedere un potente recedere da una soperchieria per preghiera e senza esser sopraffatto da una forza superiore era cosa più inaudita che rara, nullameno la trista certezza fu un colpo per tutti.
Ma Fermo ne prese più sdegno che accoramento.
Le ripulse replicate di Lucia, i suoi disegni così ben meditati, e le sue speranze al vento, il non saper più come uscire per altra via d'impaccio, un lungo diverbio, avevano cresciuta e riscaldata la stizza che egli covava già da due giorni: l'amore, però, e il rispetto che Lucia gli ispirava anche rifiutando ciò ch'egli bramava sopra ogni cosa, avevan temperata questa stizza, e impedito ch'ella non iscoppiasse in escandescenza.
Ma quando a quella passione compressa si presentò un oggetto odioso per ogni parte, quello che ne era l'oggetto principale, la passione non ebbe più freno.
«Vorrei sapere», gridò Fermo colla bava alla bocca e come non aveva mai gridato in presenza del Padre Cristoforo, «vorrei sapere che ragione ha detto quel cane, per sostenere che Lucia non ha da esser mia moglie».
«Povero Fermo!» rispose il Padre, con un accento di pietà e d'amorevolezza.
«Sai tu che se alcuno potesse costringere quei signori a dire le loro ragioni, le cose non andrebbero a questo modo».
«Dunque ha detto il cane che egli non vuole, perché non vuole?»
«Non ha detto nemmen questo.
Piacesse a Dio che per commettere l'iniquità gli uomini fossero costretti di confessarla apertamente; l'iniquità trionferebbe meno sulla terra».
«Ma che parole ha dette quel tizzone d'inferno?»
«Io le ho intese, Fermo, e non te le saprei ripetere.
Dimmi, se tu dopo un lungo giro uscissi da un sentiero intricato, pieno di oscurità e di spini, sapresti tu descrivere la via che hai percorsa? noverare i tuoi passi, segnare le giravolte e gl'inciampi? Povero Fermo! Le parole della iniquità potente sono come il lampo che abbaglia e fa terrore, e non lascia vestigio.
Essa può minacciarti di vendetta perché tu abbi sospetto di lei, e nello stesso tempo farti intendere che il tuo sospetto è certezza: può dirti: guai a te se non mi comprendi, guai a te se mostri di comprendermi: può insultare, e mostrarsi offesa, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere impudente e irreprensibile.
Non cercar più altro.
Colui non ha proferito il nome di questa innocente, né il tuo, non ha mostrato di sapere che voi viviate, non ha detto di voler nulla; ma...
pur troppo quello che voi mi avete rivelato, quello che io non avrei voluto credere, è vero.
Mah! confidenza in Dio come v'ho detto: questa è l'ora dell'uomo, ma va passando.
Voi, poverette, non vi perdete d'animo, e tu, mio Fermo...
oh! credi ch'io so pormi ne' tuoi panni, ch'io sento quello che passa nel tuo cuore...
ma abbi pazienza: io so che questa parola è amara: ma è la sola che ti possa dire un uomo che non sia tuo nemico.
Dio stesso, che è onnipotente, non te ne vuol dir altra, per ora.
Io parto, e vi lascio nelle mani di Dio...
Oh il sole è caduto e arriverò tardi: ma poco importa.
Fatevi animo: Dio mi ha già dato un segno di volervi ajutare.
Domani non ci vedremo: io rimango al convento; ma per voi.
Mandate, Lucia, un garzoncello fidato, che giri vicino al convento, alla Chiesa, e pel quale io possa farvi sapere quello che occorrerà: io sarò avvertito, e vi farò avvertite: avremo dei mezzi che colui non sospetta, che finora non conosco nemmeno io: in Milano ho qualche protezione, e la vedremo.
Sento una voce che mi dice che tutto finirà presto e bene.
Fede, coraggio, e buona sera».
Detto questo s'avviava frettolosamente, quando udì Fermo dire, mormorare con voce contenuta dal rispetto, e velata dalla collera, ma intelligibilmente: «la finirò io».
La faccia e l'atteggiamento di Fermo non lasciava dubbio sul senso di queste parole.
«Misericordia!» sclamò Agnese.
Lucia si volse supplichevolmente al Padre Cristoforo, come se volesse dire: - ammansatelo -.
«Tu la finirai!» disse rivolgendosi il Padre Cristoforo, ed appostandosi sulla porta: «no Fermo, tu non sei da tanto: non tocca a te.
Dio solo può finirla, e guai a te se tu ardisci di prevenire il suo giudizio».
«Nasca quel che può nascere, ad ogni modo la voglio finire.
Sì la voglio finire.
È di carne finalmente lo scellerato».
«Fermo, in nome di Dio», disse Lucia.
«Dio! Dio!» disse Agnese.
«Voi perdete la testa: non sapete quante braccia egli ha ai suoi comandi? e quand'anche...
oh misericordia! contra i poveri c'è sempre la giustizia».
«Non gli parlate di questo», interruppe il Padre: «egli non se ne cura.
Ascoltami Fermo: voglio che tu mi ascolti.
Io ti leggo in cuore: io so che il tuo pericolo non ti fa terrore; so che in questo momento l'idea della morte non ti spaventa né per gli altri né per te.
Ma ascolta.
Tu eri nella gioja e nella speranza; un uomo ti si è parato sulla via, e ti ha gettato nella angoscia e nella miseria: tu credi che tolto di mezzo quest'uomo, ti ritroverai al posto dove tu eri prima d'incontrarlo.
Povero ingannato! la tua via è cangiata, ti è forza intraprenderne un'altra: guai a te se ti poni in quella dell'omicidio.
Poni che tutto ti riesca a tuo grado: ebbene! che avrai tu fatto? l'odio è dolce ora al tuo cuore: ma sai tu...
sai...» e così dicendo prese la mano di Fermo e la strinse a segno di dargli dolore...
«sai tu come si volge il cuore dell'uomo che ha versato il sangue? Ve n'ha che rimangono quelli di prima; ma tu non sei uno di loro: guai a te! son reprobi.
Io ho perduto degli amici cari, ben cari...
ma se Dio mi concedesse di poter far rivivere un uomo, credi tu ch'io sceglierei uno di essi? Quegli ch'io vorrei poter risuscitare col mio sangue è un uomo a cui io non aveva mai fatto il torto più leggiero, e che mi ha insultato.
Poni che tutto ti riesca, poni che non vi sia giustizia, che tu sposi tranquillamente...
che la colomba si unisca allo sparviero.
Ma sarai tu Fermo? avrai sposato Lucia? Tu non sarai Fermo, te lo dico io: tu non penserai come ora: in ogni tuo pensiero, per quanto importante egli sia per essere, per quanto lieto, oltre quello che ci sarebbe per tutti, per te ci sarà sempre un morto di più.
Avrai tu figli? Guardati dal trovarti in casa quando questa sfortunata farà loro ripetere i comandamenti di Dio, e dirà loro: non fare omicidio.
Potrai tu ricordare con tua moglie, le speranze e le traversie che hanno preceduto il tuo matrimonio: potrete voi dire una volta: ma Dio ci ha ajutati? Quand'ella si sveglierà al tuo fianco, penserà tremando che è coricata con uno che ha ucciso; e quando la collera più leggera, un primo moto d'impazienza apparirà sul tuo volto; ella crederà di scorgervi le prime tracce dell'omicidio.
No Fermo; vedi: è notte; io già son colpevole di avere indugiato a tornare al convento; ma io non mi parto di qui se tu non mi giuri in faccia a quella Vergine» (e accennò una immagine attaccata al muro della stanza) «di aver deposto ogni pensiero di vendetta».
«Io per lei ho tutta la stima, ma colui...»
«Ti parlo io per me? Che hai tu a perdonarmi? A colui, sì a colui tu devi perdonare.
Io te l'ho detto, e tu non hai più scusa: la maledizione del cielo cadrebbe sopra di te.
Tu sei giovane e più robusto di me, ma se tu non vuoi gettare a terra un vecchio che non ti ha fatto mai del male, tu non uscirai di qui prima d'aver fatto quel giuramento».
Fermo esitava; Agnese stava attonita ed in aspettazione colla bocca aperta.
«Ebbene Fermo» disse Lucia, come costretta, ed in modo che il Padre non intendesse tutto il senso delle sue parole: «fate quel che vi dice quest'uomo del Signore, ed io vi prometto che io farò tutto quello che si potrà, tutto quello che vorrete perch'io possa esser vostra moglie».
«Lo giuro», disse Fermo.
«Chiama in testimonio quella Vergine», disse il Padre Cristoforo, «che tu non attenterai alla vita del tuo nemico, che tu farai tutto per evitarlo».
«Così la Vergine non mi abbandoni», disse Fermo, commosso, ma risoluto.
«E non ti abbandonerà»; rispose il Padre gettandogli le braccia al collo.
«Addio: ricordatevi del garzoncello.
Dio sia con voi».
Lucia lo salutò piangendo.
«Padre, padre», gridò Agnese, trattenendolo, «quanto sono mortificata che in grazia nostra Ella torni così tardi al convento».
Il Padre Cristoforo pensò che il miglior modo di corrispondere a questo complimento era di non perder tempo in altre parole, e partì.
«Me lo avete promesso», disse Fermo a Lucia.
«Ve l'ho promesso e lo manterrò»: rispose Lucia colle lagrime agli occhi, «ma vedete, come me lo avete fatto promettere.
Dio non voglia...»
«Perché volete farmi un tristo augurio, Lucia? Dio sa che non facciamo torto a nessuno».
Agnese voleva riparlare della spedizione, e pigliare i concerti, ma Lucia pregò che tutto si rimettesse all'indomani, e Fermo partì agitato lasciando le donne più agitate di lui.
Intanto il Padre Cristoforo, benché fiaccato e frollo delle corse, dei disagi, delle inquietudini, e delle parlate di quel giorno, aveva presa correndo la via per giungere al più presto al convento; e andava saltelloni giù per quel viottolo sassoso torto, e reso ancor più difficile dalla oscurità; andava il povero frate, parte ruminando gli accidenti della giornata, e quello che poteva soprastare, parte pensando all'accoglienza che riceverebbe al convento giungendovi a notte già fitta.
Vi giunse pur finalmente, mezzo sconquassato, e toccò modestamente il campanello, aspettando quel che Dio fosse per mandare.
Il frate portinajo aperse, e accolse il nostro figliuol prodigo con quel maladetto misto di sussiego, di soddisfazione, di clemenza, di commiserazione e di mistero, che gli uomini (tranne l'uno per milione) mostrano sempre in faccia di colui che per qualche suo fallo o anche per qualche sventura sembra loro stare in cattivi panni.
«Il Padre Guardiano le vuol parlare», disse costui al nostro amico, il quale seguì la sua scorta pei lunghi corridoj e per le scale, rassegnato a toccare una buona gridata e in angustia di ricevere una penitenza la quale gl'impedisse di potere all'indomani trovarsi col servo di Don Rodrigo e fare per gl'innocenti suoi protetti ciò che il caso avesse richiesto.
Giunto alla cella del guardiano, bussò sommessamente, e vista la faccia seria del guardiano, si pose le mani al petto, curvò la persona, chinò la testa sul petto e disse: «Padre son balordo».
Era questa, chi nol sapesse, la formola usata dai cappuccini per confessarsi in colpa al loro superiore.
Bisogna sapere che il guardiano era contento in fondo del cuore che il Padre Cristoforo avesse commesso un mancamento.
Un lettore di otto anni potrebbe qui domandare, perché faceva il volto serio, se era contento; e gli si risponderebbe, che appunto era contento perché il Padre Cristoforo gli aveva dato il diritto di fargli il volto serio.
La condotta del nostro amico era tanto irreprensibile che il guardiano non aveva mai avuto occasione di far uso sopra lui della sua autorità, voglio dire della autorità di riprendere e di punire, e alla prima occasione che ne aveva, gli pareva di esser daddovero il padre guardiano.
In oltre il Padre Cristoforo, senza fare il dottore, senza disputare, dava però a divedere chiaramente di non approvare alcuni tratti della condotta e della politica dei suoi confratelli e del suo capo, e più d'una volta aveva ricusato di operare di concerto con gli altri; biasimandoli così indirettamente, ma chiaramente: dal che veniva che i frati e il guardiano avevano per lui più rispetto che amore.
E il rispetto veniva in parte anche dalla fama di santo che il padre Cristoforo aveva al di fuori; e che apportava al convento onore e limosine.
Non è quindi da stupirsi se il guardiano si dilettasse nel vedersi davanti balordo quel padre Cristoforo, e gustasse a lenti sorsi l'umiliazione di lui, e il sentimento della propria autorità.
«È questa l'ora», diss'egli gravemente, «di ritornare al convento?»
«Padre, confesso che dovrei esser rientrato da molto tempo».
«E perché vi siete dunque tanto indugiato? perché avete violata una regola che conoscete così bene?»
«Fui trattenuto da un'opera di misericordia».
Il guardiano sapeva che il reo era incapace di mentire; e vide tosto che se avesse voluto andar più ricercando, avrebbe facilmente fatto rivelare al padre Cristoforo cose che tornerebbero in suo onore: onde gli parve meglio fargli una ammonizione generale sul fallo di cui si era riconosciuto colpevole.
Gli disse che preporre le opere volontarie di misericordia all'obbedienza era segno di orgoglio, e di amore alla propria volontà: che non era bene quel bene che non è fatto secondo le regole: che bisogna prima fare il dovere, e poi attendere alle opere di surerogazione; e altre cose di questo genere.
Aggiunse poi che egli, padre Cristoforo balordo, doveva conoscere di quanta importanza fosse la regola da lui infranta, e per la disciplina, e per evitare ogni scandalo; ma che per l'età sua, e per esser questo il primo suo fallo contro la regola, e perché si teneva certo che non v'era altro che la violazione della regola, si contentava per questa volta ch'egli prima di coricarsi recitasse un miserere colle braccia alzate; e così lo congedò, e si gittò sul duro suo pagliaccio; più soddisfatto però che se si fosse posto sul letto il più delicato: poiché non è da dire quanta consolazione si senta nel far fare agli altri il loro dovere, e nel riprenderli quando se ne allontanano.
Questa fu la mercede che il nostro padre Cristoforo ebbe della sua giornata spesa come abbiam detto.
Tristo chi ne aspetta altre in questo mondo.
Egli recitò il suo buon miserere, e lo concluse dicendo: «Dio, fate misericordia a me, e a quel poveretto che io...
toccate il cuore di Don Rodrigo, tenete la mano in testa al povero Fermo, salvate Lucia, e benedite il Padre guardiano.
Abbiate pietà dei peccatori, dei penitenti, dei giusti, dei fedeli, e degli infedeli, degli oppressi e degli oppressori, dei cappuccini, dei zoccolanti, e di tutti i regolari, di tutti gli ecclesiastici e di tutti i laici, dei popoli e dei principi, dei carcerati, dei giudici, dei banditi, dei ladri, dei birri, delle vedove, dei pupilli, dei bravi, dei zingari, degli indemoniati, dei vivi, e dei morti.
Così sia».
Quindi si gettò anch'egli sul suo canile, dove lo lasceremo dormire; che ne ha bisogno.
Ma i nostri tre altri personaggi passarono la notte come sono tutte le notti che precedono una giornata destinata ad una impresa scabrosa e di incerto esito.
Agnese appena levata cominciò a spiegare a Lucia tutte le parti del disegno, ad istruirla a puntino sul da farsi e da evitarsi in ogni operazione, e a combattere di nuovo le obbiezioni che Lucia aveva fatte nel giorno antecedente.
Ma Lucia ascoltò le istruzioni, promise di eseguirle, e non oppose più nulla.
Data la sua promessa, ella stimava inutile ogni parola che tornasse a mettere in questione ciò ch'era stabilito: e non è senza ragione che noi amiamo Lucia come cosa rara non dirò nel suo sesso, ma nella specie.
Del resto non è ben chiaro se nella rassegnazione di Lucia non entrasse anche un po' il pensiero ch'ella sarebbe stata di Fermo, e se, giacché l'iniquità degli uomini aveva voluto che questa si facesse come per forza, ella non era un po' contenta che forza le si facesse.
La poveretta ad ogni modo era abbattuta, piena d'incertezza, d'angoscia, e di tristi presentimenti: in quella agitazione insomma in cui pone una grande aspettazione, e che è più dolorosa che la prostrazione che nasce dopo la sventura.
Fermo non fu tardo a lasciarsi vedere, e concertò colle donne l'operazioni della giornata, prevedendo ogni contrattempo, parando ogni ostacolo, e ricominciando ad ogni tratto a descrivere la faccenda come si racconterebbe una cosa fatta.
Appena partito Fermo, Agnese andò nella casa vicina a cercare un garzoncello suo nipote, chiedendolo ai parenti per quel giorno per fare un servizio.
Quando l'ebbe ottenuto, lo introdusse nella sua cucina, gli diede da colazione, e gl'impose che ne andasse a Pescarenico, e si stesse un po' in Chiesa, un po' sulla piazza del convento, ma sempre in vicinanza, aspettando che il Padre Cristoforo lo venisse a chiamare.
«Il Padre Cristoforo, quel bel vecchio: tu sai: colla barba bianca: quel che chiamano il santo...»
«Ho capito», disse Menico: «quel che accarezza sempre i ragazzi, e che dà spesso qualche immagine».
«Appunto Menico: tu lo aspetterai, come t'ho detto: ma non ti sviare, ve': bada di non andare cogli altri ragazzi al lago a far saltellare i ciottolini nell'acqua, né a veder pescare, né a giuocare colle reti appese al muro ad asciugare, né...»
«No no, medina mia: non sono poi un ragazzo».
«Bene, abbi giudizio, e quando tornerai vedi, queste due belle parpagliole nuove sono per te».
«Datemele ora, che...»
«No no, tu le giuocheresti.
Va' e portati bene che avrai anche di più».
Nel rimanente di quella lunga mattina, accaddero alcune cose che posero in sospetto ed in agitazione l'animo già conturbato delle donne.
Un mendico più rubesto e di più florido viso che non fossero per l'ordinario i suoi confratelli, con qualche cosa di coperto e di sinistro nell'aspetto, entrò a domandare per Dio, gettando gli occhi qua e là come per ispiare.
Quand'ebbe ricevuto un pezzo di pane, lo ripose con molta indifferenza lasciando quasi travedere che quello non era il suo fine principale.
Si trattenne anzi con una certa impudenza e nello stesso tempo con esitazione, facendo molte inchieste, alle quali Agnese si affrettò di rispondere sempre il contrario di quello che era; e finalmente, congedato se ne andò.
Di tempo in tempo poi passavano figure sospette, come di bravi travestiti, di servi oziosi, di contadini che girandolavano, e giunti dinanzi alla porta allentavano il passo, e sogguardavano nella stanza, come chi vuol guatare, e non dar sospetto.
Le donne socchiusero la porta, per togliersi da questa persecuzione che dava loro molto da pensare.
Ma questa precauzione fu causa che il sospetto divenisse più serio e più nojoso: perché avendo Agnese un tratto visto che tra le due imposte socchiuse s'era fatto un po' di spiraglio, guatò più attentamente, e vide attraverso la picciola fessura un uomo che stava adocchiando nella stanza: ella si alzò, e l'uomo sparì.
Finalmente all'ora del pranzo la persecuzione cessò.
Agnese rincorata non udendo più pedate sospette, si alzava di tempo in tempo, si metteva sull'uscio, guardava nella via, a dritta e sinistra; e non vide più nulla che le desse da pensare.
Nullameno ne rimase alle donne, e particolarmente alla timidetta Lucia, una perturbazione indeterminata, che le tolse una gran parte della risoluzione di che ella aveva bisogno in una tale giornata.
Alle ventitrè ore tornò Fermo, come era stato convenuto, e disse: «Tonio e Gervaso son qua fuori, noi andiamo all'osteria a cenare, come siamo intesi, e al tocco dell'avemmaria, verremo a prendervi.
Coraggio, Lucia, tutto dipende da un momento».
Lucia sospirò, e rispose: «oh sì, coraggio»: con una voce che smentiva la parola.
Fermo e i due suoi compagnoni trovarono questa volta l'osteria più popolata.
Sul limitare stesso, colla schiena appoggiata ad uno stipite, colle mani sotto le ascelle, coll'occhio teso, e con una faccia tra l'annojato e l'agguatante, stavasi un uomo, che non aveva cera né di contadino, né di viaggiatore, né di benestante; non pareva uno sfaccendato, ma non si sarebbe potuto immaginare che faccenda egli s'avesse.
Un uomo più sperimentato di Fermo, guardandolo attentamente l'avrebbe detto un servo travestito.
Questi non si mosse, e mirò fisamente Fermo, il quale si torse entrando per fianco nella picciola apertura lasciata da quella cariatide.
I suoi compagni l'imitarono se vollero entrare.
Ad un deschetto stavano seduti due facce di scherani, giuocando alla mora, gridando quindi tutti e due ad un fiato come si farebbe in una controversia fra due dotti: fra i due giuocatori stava un gran fiasco di vino dal quale andavano essi versando a vicenda.
Questi pure adocchiarono Fermo con una curiosità molto significante.
Finalmente ad un altro desco erano tre vestiti da contadini, ma con un contegno che indicava abitudini più guerresche che casalinghe.
E questi pure gli occhi addosso a Fermo: quindi occhiate da un crocchio all'altro, dai crocchj alla porta.
Fermo insospettito, e incerto guardava ai suoi due compagni come se volesse cercare nei loro aspetti una interpretazione di questo mistero: ma quelli non indicavano altro che un buon appetito.
L'ostiere stava aspettando gli ordini dei sopravvenuti, Fermo lo fece venire con sè in una stanza vicina; e comandò da cena.
«Chi sono quei forastieri?» chiese Fermo a voce bassa all'ostiere che stava stendendo sul desco una tovaglia grossolana.
«Chi sono? Che m'importa chi essi sieno?» rispose l'ostiere.
«Non sapete che la prima regola del nostro mestiere è di non impacciarsi dei fatti altrui? Tanto è vero che fino le nostre donne non son curiose.
Quel che ci preme si è che quelli che frequentano la nostra casa sieno galantuomini; come sono certamente questi di cui mi chiedete».
«Ma se non li conoscete, come sapete che sieno galantuomini?»
«Le azioni, caro mio: l'uomo si conosce alle azioni.
Quegli che bevono il vino e non lo criticano, che mostrano sul banco la faccia del re, senza taccolare, e che non fanno questioni con gli altri avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo aspettano fuori e lontano dall'osteria per non far torto, quelli sono i galantuomini».
Fermo non ne potè cavar altro: la cena fu servita, ma l'umore diverso dei convitati fe' sì ch'ella non fosse molto lieta.
I due fratelli avrebbero voluto assaporarne tranquillamente e prolungarne le delizie; e a Fermo parevano mill'anni di uscirne, e per andare a fare il fatto suo, e perché la presenza e gli sguardi di tutti quegli ospiti gli avevano posta addosso, o per dir meglio, cresciuta l'inquietudine.
«Che bella cosa», disse Gervaso, «che Fermo voglia pigliar moglie, e abbia bisogno...»
«Zitto, zitto», disse tosto Fermo, «per amor del cielo».
La cena divenne somigliante ad un pranzo diplomatico; e ci crediamo dispensati dal farne la descrizione.
Diremo soltanto che Fermo, osservando per sè una rigida sobrietà, largheggiò nel mescere ai suoi convitati, per metter loro addosso del coraggio per ogni evento.
Terminata la cena dovettero i tre compagni passare un'altra volta dinanzi a quelle facce sconosciute, le quali tutte si rivolsero a Fermo come la prima volta.
Quand'egli ebbe fatti pochi passi fuori dell'osteria, si volse addietro, e vide che due lo seguivano: sostette allora coi suoi compagni, piantando gli occhi in faccia a quelle ombre, come se dicesse: - vediamo che cosa vogliono da me costoro.
- Ma i due quando s'accorsero che Fermo si era accorto di essi si fermarono un momento, si parlarono sotto voce, e tornarono indietro.
Se Fermo fosse stato tanto presso da intendere le loro parole, avrebbe inteso che uno di essi diceva al compagno: «s'è addato di qualche cosa: torniamocene per non guastar tutto: è troppo per tempo: non vedi che il paese è pieno di gente? lasciamoli andare tutti al nido».
V'era infatti quel movimento, quell'andare e venire, quel trambusto che si sente in un villaggio al cader della sera, e che dopo pochi momenti dà luogo alla quiete solenne della notte.
Le donne venivano dal campo portandosi in collo i bambini, e traendo per mano i figliuoletti più adulti, ai quali facevano ripetere le preghiere della sera: giungevano gli uomini colle vanghe e colle zappe sulle spalle, si vedevano qua e là fuochi accesi per le povere cene: si udivano saluti di quelli che s'incontravano, e colloqui brevi e tristi sulla scarsezza del ricolto e sulle sventure di quell'anno tristissimo.
Frattanto, si udiva il tocco misurato e solenne della squilla che annunziava la fine della giornata.
Quando Fermo vide che i due indiscreti s'erano ritirati, continuò la sua strada fra le tenebre crescenti, ripetendo a bassa voce ai fratelli gli avvertimenti sul modo di condurre a buon termine l'impresa.
Quando giunsero alla casetta di Lucia, era notte fatta.
Fra il primo concetto di una impresa terribile e l'adempimento, ha detto un barbaro che non era privo d'ingegno, l'intervallo è un sogno pieno di fantasmi, e di paure.
La povera Lucia era da molte ore nelle angosce di questo sogno: Agnese, la stessa Agnese così risoluta, e disposta all'operare, era sopra pensiero, e trovava a stento le parole per rincorare la poveretta.
Ma al momento in cui l'azione comincia, e l'animo che fino allora tollerava i pensieri che gli passavano sopra, cacciandosi a vicenda, e tornando, è costretto a comandare una risoluzione e a dirigere le azioni del corpo, allora egli si trova tutto trasformato: al terrore e al coraggio che lo agitavano succede un altro terrore, e un altro coraggio: l'impresa si affaccia alla mente come una apparizione nuova, inaspettata, si scoprono mezzi e ostacoli non pensati: ciò che sembrava più difficile si trova talvolta fatto quasi da sè, l'immaginazione si ferma spaventata, le membra niegano il loro uficio ad un passo che era sembrato il più agevole: il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza.
Un matrimonio clandestino era per Lucia Zarella quello che l'uccisione di un dittatore per Marco Bruto.
Quando s'intese bussare sommessamente alla porta, Lucia fu presa da tanto terrore, che risolvette in quel momento di soffrire ogni cosa, di esser sempre divisa da Fermo piuttosto che eseguire la risoluzione presa; ma quando Fermo entrato disse: «son qui, andiamo»; quando tutti si mostrarono pronti ad avviarsi senza esitazione, come a cosa già determinata, Lucia non ebbe spazio né cuore di far contrasto e come strascinata, prese tremando un braccio della madre, e un braccio di Fermo, e s'avviò senza far motto colla brigata avventurosa.
Zitti, zitti, nelle tenebre, a passo misurato, giunsero in vicinanza della casa del nostro Don Abbondio il quale era ben lontano, pover'uomo! dal pensare che una tanta burasca si addensasse sul suo capo.
Qui si separarono come erano convenuti: Lucia, Agnese e Fermo presero per un viottolo tortuoso che girava attorno all'orto del curato, e sdrucciolando poi sommessamente dietro il muro di fianco della casa vennero a porsi presso all'angolo di essa, Fermo e Lucia per trovarsi nel luogo più vicino alla porta ed entrare quando il destro verrebbe, Agnese per uscire ad incontrare Perpetua nel momento opportuno.
Toni destro col disutilaccio di Gervaso che non sapeva far nulla da sè, e senza il quale non si poteva far nulla, si affacciarono bravamente alla porta e toccarono il martello.
«Chi è, a quest'ora?» gridò una voce alla finestra che si aperse in quel momento: era la voce di Perpetua.
«Malati non ce n'è: dovrei saperlo: è forse accaduta qualche disgrazia?»
«Son'io», rispose Tonio, «con mio fratello, che abbiamo bisogno di parlare col signor curato».
«È ora da cristiani questa?» rispose agramente Perpetua: «che discrezione? tornate domani».
«Sentite: tornerò o non tornerò: mi trovavo alcuni pochi soldi ed ero venuto per pagare al signor curato quel debituccio che sapete: ma se non si può aspetterò un'altra occasione, questi so come spenderli, e verrò quando ne abbia guadagnati degli altri».
«Aspettate, aspettate: vado e torno: ma perché venire a quest'ora?»
«Se l'ora potete cangiarla, io non m'oppongo: per me son qui; e se non mi volete, me ne vado».
«No no: aspettate un momento; torno con la risposta».
Così dicendo richiuse la finestra: a questo punto Agnese si spiccò dai promessi, e detto sotto voce a Lucia: «coraggio: è un momento; come a far cavare un dente», venne a porsi dinanzi la fronte della casa, aspettando che Perpetua aprisse per far vista di passare.
Perpetua venne infatti tostamente, aperse la porta, e disse: «dove siete?» Quando i due fratelli si mostravano, Agnese passò dinanzi a loro, e salutò Perpetua fermandosi un momento sui due piedi.
«Buona sera, Agnese», disse Perpetua, «donde a quest'ora?»
«Vengo dalla filanda», rispose Agnese, «e se sapeste...
mi sono indugiata appunto in grazia vostra».
«Oh perché?» rispose Perpetua: indi rivolta ai due fratelli: «entrate», disse, «ed aspettate che vengo anch'io».
Quegli entrarono.
«Perché», ripigliò Agnese, «una donna, pettegola! non sanno le cose e voglion parlare...
credereste? si ostinava a dire che non vi siete sposata con Beppo perch'egli non vi ha voluto.
Io sosteneva che voi l'avete rifiutato...»
«Certo sono stata io, ma chi è costei?»
«Questo non fa...
ma non potete credere quanto mi sia spiaciuto di non saper ben bene tutta la storia per confonder colei».
«Bugiarda, bugiarda», disse Perpetua.
«È una bugiarderia, la più nera.
Sentite, come andò la faccenda: e ho testimonj, vedete.
Ehi, Tonio, socchiudete la porta, e salite pure ch'io verrò poi».
Tonio rispose di dentro che sì.
Perpetua cominciò la sua storia, e Agnese si avviò passo passo verso l'angolo della casa opposto a quello dietro cui erano in agguato i due giovani, e quando pur passo passo vi fu giunta, lo voltò seguita da Perpetua: e voltatolo tossì per dar segno.
Il segno fu inteso, e Fermo traendo Lucia la quale correva come un leprotto inseguito, in punta di piè vennero fino alla porta, l'aprirono delicatamente e si trovarono nel vestibolo coi due fratelli che gli stavano aspettando.
Chiusero sommessamente il chiavistello per di dentro e salirono insieme, mentre Agnese moltiplicava le inchieste per trattenere la fante.
I quattro congiurati tutti diversamente commossi ascesero le scale, e posati che furono sul pianerottolo: Toni disse ad alta voce: «Deo gratias», ed entrò col fratello, mentre Don Abbondio che gli aspettava rispose: «Avanti».
Fermo e Lucia ristettero dietro la porta: senza moversi, senza alitare: l'orecchio il più fino non avrebbe potuto ivi intender altro che il battito del cuore di Lucia.
Toni entrato socchiuse la porta dietro di sè.
Don Abbondio convalescente della febbre, e non guarito della paura stava seduto su un vecchio seggiolone, ravvolto in una vecchia zimarra, coperto il capo d'un vecchio camauro, sotto il quale si vedeva uno sguardo sospettoso e teso, un lungo naso, e fra due guance pendenti una bocca quale ognuno l'ha dopo d'aver sorbita una ostica medicina.
Aveva dinanzi a sè una vecchia tavola e sulla tavola una picciola lucerna che mandava una luce scarsa sulla tavola e sui dintorni, e lasciava il resto nelle tenebre.
Presso alla lucerna era il breviale, e aperto dinanzi a Don Abbondio il Quaresimale....
«Ah! ah!» fu il saluto di Don Abbondio.
«Il signor Curato dirà che siamo venuti tardi», disse Toni inchinandosi, come pure fece più goffamente Gervaso.
«Venite tardi in tutti i modi», rispose Don Abbondio.
«Basta, vediamo».
«Sono venticinque buone lire di quelle con Sant'Ambrogio a cavallo», disse Toni cavando un gruppetto di tasca.
«Vediamo», replicò il curato: le prese, le volse e le rivolse e le numerò, e furono trovate irreprensibili.
«Ora signor curato mi darà gli orecchini e la collana della mia povera Tecla».
«È giusto» rispose don Abbondio; e andò ad un armadio e cacciata una chiave, guardandosi intorno come per tener lontani gli spettatori, aperse una parte d'imposta, riempì l'apertura colla persona, introdusse la testa per guardare e un braccio per ritirare il pegno; lo ritirò, chiuse l'armadio, svolse la carta dov'era il pegno, e guardatolo, «c'è tutto?» disse, indi lo consegnò a Toni.
«Ora», disse Toni, «mi favorisca di una riga di quitanza».
«Non vi fidate?» rispose bruscamente Don Abbondio.
«Ecco volete darmi anche quest'incomodo».
«Che dice ella mai? S'io mi fido, Signor Curato: ma dalla vita alla morte...»
«Bene, bene, come volete.
Oh che seccatura! Bisognerà ch'io ponga inchiostro nel calamajo.
Perpetua, dov'è costei? Perpetua!»
«Perpetua era da basso, tutta affacendata a prepararle da cena: la lasci stare, Signor Curato: cerchi il calamajo che farà più presto».
Così brontolando tirò un cassettino del tavolo, ne tolse carta, penna e calamajo, e si pose a scrivere, dettandosi col capo sulla carta ad alta voce la composizione.
Frattanto Toni, e Gervaso com'era convenuto si posero dinanzi allo scrittore in modo da togliergli la veduta della porta; e come per ozio andavano soffregando coi piedi il pavimento, per dar agio ai di fuori di venire avanti senza essere intesi.
Don Abbondio tutto nella sua quitanza non badava ad altro.
Al fruscio dei quattro piedi che era il segno convenuto, Fermo strinse la mano di Lucia per darle risoluzione, la pigliò con sè, e pian piano entrarono nella porta, Lucia più morta che viva, e si collocarono dietro i due fratelli.
Don Abbondio finito ch'ebbe di scrivere rilesse attentamente, da sè, quindi fatta lettura ad alta voce, e prima di alzare gli occhi dalla carta: «sarete contento?» disse, e preso il foglio lo porse a Toni.
Toni allungando la mano per pigliarlo, si ritirò da una parte, Gervaso dall'altra, e i due sposi apparvero in mezzo come all'alzare d'un sipario.
Don Abbondio intravvide, vide, si spaventò, si stupì, s'infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Fermo impiegò a proferire le parole magiche: «Signor curato, in presenza di questi testimonj, questa è mia moglie».
Le labbra di Fermo non erano ancor tornate in riposo, che Don Abbondio aveva già lasciata cadere la quitanza, fatto un salto, afferrata colla manca e sollevata la lucerna, e tirato colla destra a sè un tappeto che copriva il tavolo, gettando a terra il breviale e il quaresimale, e balzando tra la seggiola e il tavolo s'era avvicinato a Lucia; la poveretta con quella sua dolce voce tremante aveva appena potuto dire: «e questo...» che Don Abbondio gli aveva gettato scortesemente il tappeto sulla testa e sul volto e tenendoglielo colle mani ravvolto e stretto sulla bocca perch'ella non potesse proseguire, gridava a testa come un toro ferito: «tradimento! tradimento! ajuto! ajuto!» Il lucignolo della lucerna che Don Abbondio aveva lasciata cadere a terra, si moriva mandando un ultimo chiarore, e la povera Lucia appoggiata a Fermo, coperta così di quel ruvido velo pareva una statua sbozzata in creta, cui un rozzo fattore dell'artefice copre, da testa, con un umido panno.
Cessata ogni luce Don Abbondio lasciò la poveretta la quale già per sè non avrebbe più potuto proseguire, e pratico com'era del luogo, trovò tosto a tentone la porta della stanza vicina, v'entrò, vi si chiuse, e continuò a gridare: «tradimento! Perpetua! accorr'uomo! gente in casa! clandestino: tre anni di sospensione! una schioppettata! fuori di questa casa! fuori di questa casa! Perpetua! dov'è costei!» Nella stanza tutto era confusione: Fermo, inseguendo come poteva il curato, aveva trascinata con sè Lucia alla porta, e bussava gridando: «apra apra, non faccia schiamazzo: apra, o la vedremo»: Toni curvo a terra, girava le mani sul pavimento per trovare la sua quitanza, e Gervaso spiritato gridava, e andava cercando la porta della scala per porsi in salvo.
In mezzo a questo serra serra, non possiamo a meno di fermarci un istante per fare una riflessione.
Fermo il quale strepitava in casa altrui, che vi s'era introdotto frodolentemente, che assediava il padrone in una stanza, pare un soperchiatore, un torbido; e pure gli era un poveretto a cui si negava la ragione la più limpida, la più sacra.
Don Abbondio impaurito, minacciato mentre tranquillamente attendeva ai fatti suoi pare l'oppresso, la vittima, l'uomo onesto, e pure era egli in realtà il soperchiatore.
Così va il mondo; o...
voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.
Don Abbondio, vedendo che il nimico non voleva sgomberare, si fece ad una finestra che dava sul sagrato, a gridare accorr'uomo.
Batteva la più bella luna del mondo, e l'ombra della chiesa e del campanile si disegnava sulle erbe lucenti del sagrato: per quell'ombra veniva tranquillamente con un gran mazzo di chiavi pendente alla mano il sagrista, il quale dopo suonata l'avemaria era rimasto a scopare la chiesa e a governare gli arredi dell'altare.
«Lorenzo!» gridò il curato, «accorrete, gente in casa! ajuto».
Lorenzo si sbigottì, ma con quella rapidità d'ingegno che danno i casi urgenti, pensò tosto al modo di dare al curato più soccorso ch'egli non chiedeva, e di farlo senza suo rischio.
Corse indietro alla porta della chiesa, scelse nel mazzo la grossissima chiave, aperse, entrò, andò difilato al campanile, prese la corda della più grossa campana, e tirò a martello.
CAPITOLO VIII
LA FUGA
- Ton, ton, ton, ton, - i contadini appena corcati balzano a sedere sul letto: - che è? che è? La campana: fuoco? banditi? - Le donne pregano e consigliano i mariti di non si muovere, di lasciar correre gli altri: gli uomini si alzano dicendo: - vado soltanto alla finestra -: i garzoni caccian la testa dal fenile: i più curiosi e bravi sono già nella via colle forche e coi fucili: altri gl'imitano, e i poltroni come se si lasciassero vincere dalle preghiere ritornano al covile.
Frattanto Perpetua che nelle ciarle s'era dimenticata di se stessa, ma che noi non abbiamo dimenticata, aveva inteso come un romore, un gridio, e aveva interrotto il discorso per avviarsi verso casa, cercando invano di rattenerla Agnese, la quale pure stava sulla corda non vedendo tornare nessuno; e all'udire quel gridìo fu pure presa da una grande inquietudine.
Ma quando la campana a martello si fece udire, corsero entrambe verso la porta.
Toni aveva finalmente ricolta la quitanza, e pigliando a tentone Gervaso nelle tenebre, aveva pigliata la porta e scendeva saltelloni dalla scala: Lucia pregava fievolmente Fermo di cavarla da quella caverna; e quando egli udì quel tocco funesto gli parve pure mill'anni d'esserne fuori, e trovò la porta come gli altri.
Perpetua correndo affannata con Agnese, si abbattè in Toni e il fratello che uscivano, e gli assalì d'inchieste alle quali essi non dierono risposta, ed usciti nella via, s'avviarono a casa.
Per buona sorte Fermo e Lucia usciti nella via, presero la strada opposta a quella donde veniva Perpetua, ed ella entrò a furia in casa senza vederli, e vi si chiuse.
Agnese che guardando fiso gli aveva visti uscire, gli raggiunse, e tutti e tre voltarono in fretta, in silenzio, palpitando, il canto, e s'avviarono pure verso casa.
Intanto la gente traeva da tutte le parti alla chiesa: già i più lesti erano entrati nel campanile e avevano inteso da Lorenzo che la gente era in casa del curato.
Ma guardando al di fuori videro le porte chiuse, e tutto quieto: taluni però osservando più per minuto s'accorsero che una finestra era appena socchiusa e intravvidero per lo spiraglio la faccia lunga di Don Abbondio, il quale avendo sentita sgombrata la stanza vicina, e conoscendo cessato il pericolo, cominciava ad essere inquieto e malcontento del troppo soccorso.
«Che cosa è stato?» domandò uno degli accorsi: «Sono fuggiti», rispose il curato, «tornate a casa, vi ringrazio».
«Fuggiti, chi?» «Cattiva gente, cattiva gente, tornate a casa, non c'è più niente».
Qui cominciarono risa di alcuni, rimbrotti di alcuni altri, domande dei sopravvegnenti, discorsi d'ogni genere.
Lorenzo lasciata finalmente la corda uscì dalla Chiesa, e si pose in mezzo ai crocchj a render ragione dell'aver così messo a soqquadro tutto il paese.
Ma in mezzo ai paesani si videro passare in ordine di battaglia alcuni armati e di sinistro aspetto: erano gli amici che abbiam già veduti all'osteria.
A quelli che li vedevano nasceva sospetto che fossero banditi, e che per cagion loro si fosse suonato a stormo: chi si ritirava, chi si univa in crocchio, e già da molti si parlamentava del partito da prendersi.
Ma siccome coloro passavano senza molestare nessuno, e ad ogn'uomo che vedevano parevan dire: - tu non sei quello -, così nessuno volle gittare la prima pietra, e a poco a poco la folla svanì, ognuno si ritirò a casa, e Don Abbondio si rimase a schiamazzare con Perpetua.
Ma i tre personaggi che c'interessano nascondendosi quanto potevano, non rispondendo alle inchieste e fuggendo la folla erano sulla via che conduceva alla casa di Lucia; quando un garzoncello che andava guardando attentamente tutti quelli che passavano, al vederli, mise un sospiro che pareva volesse dire: - gli ho trovati una volta -; si pose dinanzi a loro, pigliò Agnese pel lembo della veste, e disse con voce bassa e affannata: «Tornate indietro per amor del cielo!» Era Menico, e fu tosto riconosciuto.
«Perché?» dissero tutti e tre.
«Indietro, indietro, vi dico non tornate a casa, venite al convento; così mi ha detto il padre Cristoforo».
La proposta parve a tutti strana, e in altri momenti udendola da un Menico non vi avrebbero posto mente; ma nei momenti di confusione e di paura, tutti i consigli pajono buoni.
Quelli ristettero: ma Menico continuava: «Venite con me pei viottoli, vi condurrò io, usciamo di qui, vi dirò tutto per istrada».
«Ma la casa...» disse Agnese.
«Niente niente, venite con me, lo ha detto il Padre Cristoforo: Dio vi liberi dal tornare a casa».
Essi seguirono il ragazzo, il quale in quel punto era più presente a sè che essi non fossero, ed entrati per una callajetta presero un viottolo, il quale, chi non si fosse curato di strada comoda, poteva condurre al convento.
Quantunque il lettore possa aver facilmente indovinato quale fosse il novo pericolo di Lucia, e donde il buon Frate ne avesse avuto l'avviso, pure è dovere dello storico il raccontare per esteso tutta la faccenda.
Per procedere ordinatamente è mestieri tornare a Don Rodrigo che abbiamo lasciato solo, avendo noi preferito di accompagnare il Padre Cristoforo.
Don Rodrigo, come abbiam detto passeggiava a gran passi per la sala, le pareti della quale come ora diciamo erano coperte da grandi ritratti di famiglia.
Quando Don Rodrigo si voltava ad un capo della sala, si mirava in faccia un suo antenato guerriero, terrore dei nemici, colle gambiere, colla corazza, coi bracciali, coi guanti, col cimiero di ferro, avente la mano manca posta sul fianco e la destra sullo spadone a foggia di bastone.
Quando Don Rodrigo era sotto a questo antenato, e voltava, ecco in faccia un altro antenato, magistrato, terrore dei litiganti, seduto sur un'alta seggiola di velluto, con una lunga toga nera, tutto nero fuorché un collare con due ampie facciuole: aveva una faccia squallida, due ciglia aggrottate, teneva in mano una supplica, e pareva dicesse: - vedremo -: di qua una matrona terrore delle sue damigelle, di là un abate terrore dei monaci, tutta gente insomma che spirava terrore.
In presenza di queste memorie, tanto più si rodeva Don Rodrigo che un frate avesse osato prender con lui il tuono di Nathan, e ammonirlo, anzi minacciarlo.
Formava un disegno di vendetta, lo abbandonava, pensava come soddisfare ad un tempo alla passione e all'onore; e talvolta, sentendosi fischiare agli orecchi quella profezia incominciata, rabbrividiva, e quasi stava per deporre il pensiero di soddisfarsi.
Finalmente, per fare qualche cosa, chiamò un servo, e ordinò che faces
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