FERMO E LUCIA, di Alessandro Manzoni - pagina 25
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Il padre guardiano aperse la lettera, e di tempo in tempo alzava gli occhj dal foglio e guardava Lucia e la madre con aria di compassione e d'interessamento.
Quand'ebbe terminato, crollò alquanto il capo, pensò, passò la mano sul mento barbuto, e quindi sulla fronte, e disse, come chi spera di aver trovato quello di che aveva bisogno: «Non c'è altri che la Signora: se la Signora vuol pigliarsi l'impegno...» Fece quindi a bassa voce ad Agnese alcune interrogazioni alle quali ella soddisfece, indi domandò: «Volete seguirmi? Io spero di aver trovato ove collocare in sicuro questa buona ragazza».
Le donne si disser pronte a far tutto ciò che sarebbe da lui suggerito: e il padre: «venite con me» disse; «statemi soltanto alcuni passi addietro; perché, vedete, il paese è maligno, e Dio sa quante storie si farebbero se si vedesse il padre guardiano con una bella giovane, voglio dire con donne per la via».
Lucia arrossì, e con la madre tenne dietro al guardiano alla distanza ch'egli aveva indicata.
Giunti al monastero, il guardiano si fermò sulla soglia, le aspettò, e raccomandatele alla moglie del fattore la quale le introdusse in una stanzetta che dava sulla via, progredì nel cortile promettendo di tornare a momenti.
L'interrogatorio della fattora fu come doveva essere, più imperioso, più astuto, più pressante d'assai che non fosse stato quello dell'albergatrice; e Agnese schermendosi a stento, andava già componendo una filastrocca nella sua mente, perché vedeva di non potersi sbrigare senza raccontar qualche cosa, quando per buona sorte, ritornò il padre guardiano con faccia giuliva ad annunziare alle donne che la Signora si degnava riceverle.
La fattora le lasciò partire guardando con dispetto il guardiano ch'era venuto a farle fuggir di mano una preda che stava per cadere nel laccio.
Attraversando il cortile, il guardiano addottrinò le donne sul modo da tenersi colla Signora: «Siate umili, e riverenti, raccomandatevi alla sua protezione, rispondete con semplicità alle interrogazioni ch'ella sarà per farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me».
Agnese e Lucia stavano in grande aspettazione, mista di speranza, e di pensiero di questa Signora: ma non ardirono nemmeno domandare al padre chi ella fosse: probabilmente un lettore di questi tempi non sarà così modesto, e per prevenire la sua impazienza è forza dirgli chi fosse la Signora; ma, come si usa con chi vuol troppo pressare, si potrà dargli una risposta, la quale sembrando soddisfare a tutta la sua inchiesta, contenga però solo quel tanto che non si potrebbe tacere.
Era la Signora una giovane donna, uscita di sangue principesco che era stata posta dall'adolescenza in quel monistero, e vi aveva assunto il velo, e fatta la professione.
Aveva essa l'incarico di vegliare sulle fanciulle che erano nel monistero per educazione, e il suo titolo sarebbe stato, maestra delle educande; ma per la sua nascita, per le parentele, e per la superiorità che queste le davano sulle altre sorelle, non era chiamata con altro nome che di Signora; ed era da tutte riguardata, come la protettrice, la donna principe del monistero; e con una distinzione unica, due suore erano destinate ai suoi servigi ed abitavano seco lei in un picciolo quartiere ch'ella teneva invece di cella.
La sua protezione e la sua influenza si estendeva fuori delle mura del monistero; e i cappuccini i quali di generazione in generazione, o per meglio dire di vestizione in vestizione, erano ab immemorabili in rapporto di amicizia col monistero, godevano essi pure di questa protezione.
Ecco perché il padre guardiano fece tosto assegnamento su la Signora, ed ecco perché Lucia è condotta ora dinanzi a lei.
Dal cortile si entrò in una stanza terrena, e da questa si passava al parlatorio; prima di porvi il piede il guardiano, accennando la porta aperta disse sottovoce alle donne: «qui è la Signora», come per farle rissovenire di tutti gli avvertimenti che dovevano seguire.
Lucia non aveva mai veduto un monistero: ponendo tutta timorosa il piede sulla soglia del parlatorio, si guardò intorno per vedere dove fosse la Signora a cui si doveva fare l'inchino, e non iscorgendo persona, stava come smemorata, quando osservando il padre che andava ritto verso una parte, e Agnese che lo seguiva, guatò, e vide un pertugio alto la metà d'una finestra, e largo quasi il doppio con una doppia grata la quale togliendo ogni passaggio alla stanza vicina, la lasciava però quasi tutta vedere, e presso alla grata vide la Signora in piedi, e le s'inchinò profondamente come avevano già fatto gli altri due.
L'aspetto della Signora, d'una bellezza sbattuta, sfiorita alquanto, e direi quasi un po' conturbata, ma singolare, poteva mostrare venticinque anni.
Un velo nero teso orizzontalmente sopra la testa scendeva a dritta e a manca dietro il volto, sotto il velo una benda di lino stringeva la fronte, al mezzo; e la parte che si vedeva diversamente ma non meno bianca della benda sembrava un candido avorio posato in un nitido foglio di carta: ma quella fronte liscia ed elevata si corrugava di tratto in tratto quando due nerissimi sopracigli si riavvicinavano per tosto separarsi con un rapido movimento.
Due occhi pur nerissimi si fissavano talvolta nel volto altrui con una investigazione dominatrice, e talvolta si rivolgevano ad un tratto come per fuggire: v'era in quegli occhi un non so che d'inquieto e di erratico, una espressione istantanea che annunziava qualche cosa di più vivo, di più recondito, talvolta di opposto a quello che suonavano le parole che quegli sguardi accompagnavano.
Le guance pallidissime, ma delicate scendevano con una curva dolce ed eguale ad un mento rilevato appena come quello d'una statua greca.
Le labbra regolarissime, dolcemente prominenti, benché colorate appena d'un roseo tenue, spiccavano pure fra quel pallore; e i loro moti erano, come quelli degli occhi, vivi, inaspettati, pieni di espressione e di mistero.
Una gorgiera bianca, increspata lasciava intravedere una striscia di collo bianco e tornito: la nera cocolla copriva il rimanente dell'alta persona, ma un portamento disinvolto, risoluto, rivelava o indicava, ad ogni rivolgimento, forme di alta e regolare proporzione.
Nel vestire stesso v'era qua e là qualche cosa di studiato, o di negletto, di stranio insomma che osservato in uno colla espressione del volto dava alla Signora l'aspetto di una monaca singolare.
La stoffa della cocolla e dei veli era più fine che non s'usasse a monache, il seno era succinto con un certo garbo secolaresco, e dalla benda usciva sulla tempia manca l'estremità d'una ciocchetta di nerissimi capegli; il che mostrava o dimenticanza o trascuraggine di tener secondo la regola, sempre mozze le chiome già recise nella cerimonia solenne della vestizione.
Questa stessa singolarità si faceva osservare nei moti, nel discorso nei gesti della Signora.
S'alzava ella talora con impeto a mezzo il discorso, come se temesse in quel momento di esser tenuta, e passeggiava pel parlatorio; talvolta dava in risa smoderate, talvolta levando gli occhi, senza che se ne intendesse una cagione, prorompeva in sospiri; talvolta dopo una lunga e manifesta distrazione, si risentiva, ed approvava con negligenza ragionamenti che la sua mente non aveva avvertiti.
Queste cose non si facevano scorgere a Lucia non avvezza a scernere monaca da monaca, e neppure ad Agnese: l'occhio del padre guardiano era certamente più esercitato, ma perciò appunto era avvezzo ad osservare senza maraviglia nei grandi sempre qualche cosa di straordinario; e quindi s'era già da molto tempo addomesticato all'abito e ai modi della Signora.
Ma ad un viaggiatore che l'avesse veduta per la prima volta ella avrebbe potuto parere non molto dissimile da una attrice ardimentosa, di quelle che nei paesi separati dalla comunione cattolica facevano le parti di monaca in quelle commedie dove i riti cattolici erano soggetto di beffa e di parodia caricata.
In quel momento ella era, come abbiamo detto, ritta in piedi, presso la grata, appoggiata ad essa mollemente con una mano, intrecciando le bianchissime dita nei fori di quella, e colla faccia alquanto curvata osservando quelli che si presentavano, e specialmente Lucia.
«Reverenda madre, e signora illustrissima», disse il padre guardiano colla fronte bassa, e con la destra tesa sul petto; «ecco quella innocente derelitta, per la quale imploro la valida sua protezione».
E sulle ultime parole accennava alle donne che accompagnassero con atti e con inchini la sua supplicazione; la povera Agnese dopo d'aver fatto al padre un cenno del volto che voleva dire: - so quel che va fatto - raddoppiava gl'inchini, rannicchiandosi, e risorgendo come se una molla interna la facesse muovere, e Lucia s'inchinò pure, da inesperta, ma con una certa grazia che la bellezza, la giovinezza, e la purità dell'animo danno a tutti i movimenti.
La Signora curvò leggermente il capo verso il padre guardiano, fece alle donne cenno della mano che bastava, e ch'ella gradiva i loro complimenti, fece a tutti cenno di sedersi, sedette e sempre rivolta al padre, rispose: «Ho appreso dai miei antenati a non negare la mia protezione a chiunque la meriti: io non ho da essi ereditato che il nome; e son lieta che anche questo possa almeno essere buono a qualche cosa.
È una buona ventura per me il potere render servizio a' nostri buoni amici i padri cappuccini».
Queste parole furono accompagnate da un sorriso che ad altri avrebbe potuto parere di compiacenza, ad altri di scherno.
Il Padre guardiano si faceva a render grazie, ma la Signora lo interruppe: «Non mica complimenti, padre guardiano; i servigj fatti agli amici hanno con sè il loro guiderdone; e del resto ad ogni evento io non dubiterei di far conto sul ricambio dei nostri buoni padri.
Il mondo è pieno di tristi e d'invidiosi: e nessuno può assicurarsi che non venga un momento in cui possa aver bisogno di una buona testimonianza, e d'ajuto».
Il guardiano rispose premurosamente con una frase di gesti: la prima parte della quale significava che la Signora non avrebbe mai bisogno di nessuno, e la seconda che i padri avrebbero tenuta a guadagno ogni occasione di far cosa grata alla Signora.
Questa proseguì: «Ma via; mi dica un po' più particolarmente il caso di questa giovane, e così si vedrà meglio che si possa fare per essa».
Lucia arrossò tutta, e chinò la faccia sul seno.
«Deve sapere, reverenda madre», cominciò Agnese, «che questa mia povera figliuola, perché io sono sua madre...»
Il guardiano le gittò un'occhiata e interruppe.
«Questa giovane, signora illustrissima, mi è raccomandata da un mio confratello: essa ha bisogno per qualche tempo di un asilo nel quale possa stare sconosciuta, o nel quale nessuno ardisca toccarla; e questo per sottrarsi a dei gravi pericoli».
«Pericoli!» disse la Signora.
«Quali pericoli? di grazia, padre guardiano.
Mi dica la cosa per minuto: ella sa che noi altre monache siamo vaghe d'intendere storie».
«Sono», rispose il padre, «pericoli dei quali la reverenda madre, non conosce nemmeno il nome, beata lei! e parlarne più distintamente sarebbe offendere le purissime vostre orecchie, e contristare l'illibatezza dei vostri pensieri, signora illustrissima».
«Oh! certamente!» rispose precipitosamente la signora, senza molto badare all'aggiustatezza della risposta; e si fece tutta di porpora.
Era verecondia? Chi avesse osservata una subitanea ma viva espressione di scherno e di dispetto che accompagnò quel rossore avrebbe potuto dubitarne; e tanto più se lo avesse paragonato con quello che di tratto in tratto saliva sulle guance di Lucia.
La Signora si alzò in fretta, come per avvicinarsi più alle donne, e stava per rivolgere il discorso a Lucia, quando il guardiano, tenendo di non aver mal detto, ripigliò così il discorso: «Non tutti i grandi del mondo, si servono dei doni di Dio a gloria di lui, e a vantaggio del prossimo, come fa la Signora illustrissima.
Un cavaliere prepotente e senza timor di Dio, ha tentato ogni via, giacché deggio pur dirlo, per insidiare la castità di questa creatura, e dopo d'aver veduto che i mezzi di lusinga gli andavano falliti, non temè di ricorrere alla forza aperta, tentando...
insomma di farla rapire.
Ma Dio non l'ha lasciata cadere in quei sozzi artigli, e le ha invece preparato un ricovero sotto le ale incontaminate...»
«Ma voi», disse la Signora rivolta repentinamente a Lucia, «voi che dite di codesto signore? A voi tocca a dirci se egli era un persecutore, e se aveva gli artigli sozzi».
«Signora, madre, illustrissima», balbettò Lucia che sarebbe stata confusa a dover rispondere su questa materia, quando pure l'inchiesta le fosse venuta da una persona sua pari e conosciuta.
Ma Agnese venne in soccorso: «Illustrissima signora», diss'ella, «il suo parlare è troppo alto per questa povera figliuola.
Ma io posso far testimonio che la mia Lucia aveva in orrore colui, come il diavolo l'acqua santa; voglio dire, il diavolo era egli; ma ella mi compatirà se parlo male, perché noi siam gente come Dio vuole; del resto, questa povera ragazza aveva un giovane che le parlava, un nostro pari, timorato di Dio, e bene avviato, e se il Signor curato avesse avuto un po' più di giudizio; so che parlo d'un religioso, ma il padre Cristoforo amico intrinseco qui del padre guardiano, è religioso al pari di lui, e davantaggio, e potrà attestare...»
«Voi siete ben pronta a parlare senz'essere interrogata», disse la Signora, dando sulla voce ad Agnese.
«Non so che fare dei parenti che rispondono pei loro figliuoli».
Agnese voleva aprir bocca, ma la signora con tuono ancor più brusco riprese: «Zitto, zitto; le vostre parole non servono a nulla».
Così dicendo il suo aspetto prendeva sempre più un non so che di sinistro, di feroce che quasi faceva scomparire ogni bellezza, o almeno la alterava di modo che chi avesse osservato quel volto in quel punto ne avrebbe conservata una immagine disgustosa per sempre.
I suoi guardi erano fissi sopra Agnese, torvi e sospettosi, come se cercassero a raffigurare un nemico.
E continuò: «Voi fate conto forse, che perché io son qui rinchiusa, fuori del mondo, senza esperienza, mi si possa dare ad intender qualunque cosa.
Povera donna! appunto perché son qui, sono men facile ad essere ingannata su certe materie.
Certo, lo sposo che i parenti destinano ad una figlia è sempre un uomo compito, e il monastero dove la vogliono rinchiudere è così allegro! in così bella situazione! così tranquillo! è un paradiso! Poveretti! portano invidia alla loro figlia; vorrebbero anch'essi ritirarsi in quel porto di pace, ah! a far vita beata: ma...
pur troppo sono legati nel mondo.
Scusi il mio caldo, padre, ma ella sa meglio di me, almeno ella deve saper troppo bene come vanno queste cose, la menzogna la più imperterrita, la più persistente, la più solenne è quella che sta sul labbro di colui che vuole sagrificare i suoi figli, e far loro violenza.
Questi sono i peccati, contra i quali si dovrebbe predicare: a costoro bisognerebbe minacciare l'inferno».
A queste parole, la Signora, si pose a sedere tutta turbata, ed ognuno si sarebbe avveduto che un pensiero che i discorsi di Agnese avevan fatto nascere, dominava allora la sua mente, e che gli affari di Lucia non erano che un oggetto di considerazione secondaria.
Agnese intanto rimproverava alla figlia che il suo non saper parlare le avesse tirata addosso questa tempesta, il guardiano voleva pure animar Lucia a parlare, ma questa animata già dalla circostanza, si avvicinò alla grata, e in tuono modesto, ma sicuro disse: «reverenda signora, quanto le ha detto la mia buona madre è la pura verità.
Il giovane che mi parlava», e qui arrossò, «lo sposava io...
di mio genio, mi perdoni se parlo da sfacciata, ma è per difendere mia madre: e quanto a quel signore...»
«Buona fanciulla», interruppe la Signora con voce raddolcita, «credo un po' più a voi, ma non vi credo ancora del tutto.
Vi ha due linguaggi che si somigliano; quello che parte dal fondo del cuore, e quello d'una figlia oppressa che dice il falso per terrore, e protesta di amare ciò ch'ella abborre più al mondo.
Voglio sentirvi da sola a sola.
Padre guardiano, se ella conoscesse per testimonianza degli occhi suoi i casi di questa giovane, certo ch'io non istarei ora in dubbio: ma ella non li conosce che per relazione: e per me, piuttosto che servire alla violenza fatta ad una povera giovane...»
«Il Padre Cristoforo», disse il guardiano, «che mi ha posto nelle mani questo affare, è uomo tanto oculato, quanto lontano dal favorire una violenza, ed alla sua asserzione io credo quanto ai miei occhi.
Stimo però cosa molto savia, che la Signora illustrissima, esamini col suo senno consumato questa faccenda, e spero che l'esame mostrandole la verità dell'esposto, la determinerà ad accordare il suo appoggio a questa famiglia perseguitata».
«Lo spero», rispose la Signora con una placidezza garbata, e come desiderosa di far dimenticare il trasporto passato: «lo spero: e quel poco ch'io potrò fare, prego il padre guardiano di attribuirlo in gran parte alla sua intromissione.
Per ora ecco quello che mi sovviene di poter fare.
La fattora del monistero, ha collocata da pochi giorni l'ultima sua figliuola.
Questa giovane potrà occupare la stanza abbandonata da quella, e supplire ai pochi servigj ch'ella faceva.
Ne parlerò colla madre Badessa, ma da quest'ora, le dò la cosa per fatta, sempre che Lucia ne sia contenta».
Il guardiano proruppe in ringraziamenti, che la Signora troncò gentilmente, ma lasciando però capire che ella faceva assegnamento sulla riconoscenza dei cappuccini.
Chiamò quindi una delle monache che le facevano da damigelle, e datele le opportune istruzioni, disse ad Agnese che andasse alla porta del chiostro, per intendersi con la monaca e con la fattora, e per andar quindi a disporre l'alloggio che sarebbe destinato a lei ed a Lucia.
Il Padre si congedò, promettendo di ritornare ad informarsi della decisione: le tre donne furono tosto a consulta; e Lucia rimase sola con la Signora a subire l'esame.
CAPITOLO II
LA SIGNORA, TUTTAVIA
Le parole della Signora nel colloquio che abbiamo trascritto non annunziavano certamente un animo ordinato e tranquillo; eppure ella s'era studiata in tutto quel colloquio per comparire una monaca come le altre.
Ma quando ella si trovò sola con Lucia, ella si studiava tanto meno quanto meno temeva le osservazioni di una giovane forese di quelle d'un vecchio cappuccino.
Quindi i suoi discorsi divennero sì stranj, per una monaca singolarmente, che prima di riferirli è necessario raccontare la storia di questa Signora, e rivelare le passioni e i fatti che rendevano tale il suo linguaggio.
Questi fatti sono tristi e straordinarj, e per quanto a quei tempi di funesta memoria fossero comuni molte cose che sarebbero portentose ai nostri, l'autorità di un anonimo non avrebbe bastato a farci prestar fede a quello che siam per narrare: frugando quindi per vedere se altrove si trovasse qualche traccia di questa storia, ci siamo abbattuti in una testimonianza la quale non ci lascia alcun dubbio.
Giuseppe Ripamonti, Canonico della Scala, Cronista di Milano etc., scrittore di quel tempo, che per le sue circostanze doveva essere informatissimo, e negli scritti del quale si scorge una attenzione di osservatore non comune, e un candore quale non si può simulare, il Ripamonti racconta di questa infelice cose più forti di quelle che sieno nella nostra storia; e noi ci serviremo anzi delle notizie ch'egli ci ha lasciate per render più compiuta la storia particolare della Signora.
Queste cose però, quantunque rese più che probabili da una tale testimonianza, e quantunque essenziali al filo del nostro racconto, noi le avremmo taciute, avremmo anche soppresso tutto il racconto, se non avessimo potuto anche raccontare in progresso un tale mutamento d'animo nella Signora, che non solo tempera e raddolcisce l'impressione sinistra che deggiono fare i primi fatti della Signora, ma deve creare una impressione d'opposto genere, e consolante.
Avremmo, dico, lasciato di pubblicare tutta questa storia, e ciò per non offendere coloro ai quali il rimettere nella memoria degli uomini certe colpe già pubbliche, ma dimenticate, quando non sieno terminate con un grande esempio, o con un gran pentimento, sembra uno scandalo inutile, comunque uno le esponga.
Senza esaminare il valore di questo modo di sentire, noi lo avremmo rispettato, quando ciò non costava altro che di sopprimere un libro.
Che se poi altri volesse censurare queste scuse come inutili, e ci accusasse di cader sempre in digressioni che rompono il filo della matassa, e fermano l'arcolajo ad ogni tratto, egli obbligherebbe chi scrive a fare un'altra digressione, e a rispondergli così: - Il manoscritto unico, in cui è registrata questa bella storia degli sposi promessi, è in mia mano: se la volete sapere, bisogna lasciarmela contare a modo mio: se poi non vi curaste più che tanto di sentirla, se il modo con cui è raccontata vi annojasse, giacché dagli uomini si può aspettar tutto; in questo caso, chiudete il libro, e Dio vi benedica.
Il Padre della infelice di cui siamo per narrare i casi, era per sua sventura, e di altri molti, un ricco signore, avaro, superbo e ignorante.
Avaro, egli non avrebbe mai potuto persuadersi che una figlia dovesse costargli una parte delle sue ricchezze: questo gli sarebbe sembrato un tratto di nemico giurato, e non di figlia sommessa ed amorosa; superbo, non avrebbe creduto che nemmeno il risparmio fosse una ragione bastante per collocare una figlia in luogo men degno della nobiltà della famiglia: ignorante, egli credeva che tutto ciò che potesse mettere in salvo nello stesso tempo i danari e la convenienza fosse lecito, anzi doveroso; giacché riguardava come il primo dovere del suo stato il conservarne l'opulenza, e lo splendore: erano questi nelle sue idee, i talenti che gli erano stati dati da trafficare, e dei quali gli sarebbe un giorno domandato ragione.
Una figlia nata in tali circostanze, e destinata a dover salvare una tal capra e tali cavoli, era ben felice se si sentiva naturalmente inclinata a chiudersi in un chiostro, perché il chiostro non lo poteva fuggire.
Tale fu il destino della Signora dal primo momento della sua vita; e quando una donzella della signora Marchesa venne con l'aria confusa di chi confessa un fallo, a dire al signor Marchese: «è una femmina»; il signor marchese rispose mentalmente: - è una monaca -.
Si pose quindi a frugare il Leggendario per cercarvi alla sua figlia un nome che fosse stato portato da una santa la quale avesse sortito natali nobilissimi e fosse stata monaca; e un nome nello stesso tempo che senza esser volgare richiamasse al solo esser proferito l'idea di chiostro; e quello di Geltrude gli parve fatto apposta per la sua neonata.
Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le furono posti fra le mani; e il padre, facendola saltare talvolta sulle ginocchia la chiamava per vezzo: madre badessa.
A misura ch'ella si avanzava nella puerizia, le sue forme si svolgevano in modo che prometteva una avvenenza non comune agli anni della giovanezza, e nello stesso tempo ne' suoi modi e nelle sue parole si manifestava molta vivacità, una grande avversione all'obbedienza, e una grande inclinazione al comando, un vivo trasporto pei piaceri e pel fasto.
Di tutte queste disposizioni il padre favoriva quelle soltanto che venivano dall'orgoglio, perché come abbiam detto lo considerava come una virtù della sua condizione; egli era superbo della sua figlia come era superbo di tutto ciò che gli apparteneva, e lodava in essa gli alti spiriti, la dignità, il sussiego, qualità tutte che manifestavano un'anima nata a governare qualunque monastero.
Della bellezza né egli, né la madre, né un fratello destinato a mantenere il decoro della famiglia, non parlavano mai; e la Signora ne fu informata dalle donzelle, alle quali prestò fede immediatamente.
Benché la condizione alla quale il padre l'aveva destinata fosse conosciuta da tutta la famiglia, e da tutti approvata, nessuno le disse però mai: - tu devi esser monaca -.
Era questa come una idea innata; e quando veniva il caso di parlare dei destini futuri della fanciulla, questa idea si dava per sottintesa.
Accadde per esempio che alcuno della casa correggendola di qualche aria d'impero troppo oltracotante, gli diceva: «tu sei una ragazzina, questi modi non ti convengono; quando sarai la madre badessa, allora comanderai, farai alto e basso».
Talvolta il padre le diceva: «tu non sarai una monaca come le altre: perché il sangue si porta da per tutto dove si va»; e simili discorsi nei quali la Signora apprendeva implicitamente ch'ella aveva ad esser monaca.
Confusa con questa idea, entrava però a poco a poco nella sua mente un'altra, che per esser monaca era mestieri del suo assenso volontario; e che questa cosa tanto certa non era però fatta, e che il farla o non farla sarebbe dipenduto da una sua determinazione: ma queste due idee un po' ripugnanti si acconciavano nella sua mente come potevano: perché se un uomo non dovesse star tranquillo che dopo d'aver messe d'accordo tutte le sue idee, non vi sarebbe più tranquillità.
A sei anni fu posta in un monistero e per educazione, e per istradamento alla carriera che le era prefissa.
Quale coltura d'ingegno potesse riceversi a quei tempi in un monastero, è facile argomentarlo dalla coltura universale, e questa si può argomentare dai libri che ci rimangono di quell'epoca.
Ora basti il dire che nella prima metà del secolo decimosettimo non uscì ch'io sappia in Milano un libro, non dico insigne di pensiero, ma scritto grammaticalmente: dimodoché dalla ignoranza universale si può francamente supporre che alle giovani di quel tempo non si sarà comunicato nemmeno ciò che v'è di più chiaro, di più certo, di meglio digerito nelle cognizioni umane, la storia romana.
Ma quello che più importa di dire nel caso nostro si è che quella parte di educazione che i fanciulli riuniti in comunità si danno sempre fra di loro, operò nella Signora un effetto contrario direttamente alla intenzione ed ai disegni dei suoi.
Fra le giovanette educande colle quali ella fu posta a vivere, erano alcune destinate a splendidi matrimonj, perché così voleva l'interesse delle famiglie loro.
Geltrudina nutrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente dei suoi destini futuri di badessa, e a quello splendido che la fantasia dei fanciulli vede sempre nella condizione di quelli che comandano loro, la sua fantasia aggiungeva qualche cosa indeterminata di più, perché le era stato detto tante volte: - tu non sarai una monaca come le altre -.
Ma ella s'accorse con maraviglia, e non senza confusione, che alcune delle sue compagne non sentivano punto d'invidia di questo suo avvenire; e alle immagini circoscritte e scarse che può somministrare anche ad una fantasia adolescente il primato in un monastero, opponevano le immagini varie e luccicanti di sposo, di palagi, di conviti, di villeggiature, di veglie, di tornei, di abiti, di carrozze, di livree, di braccieri, di paggi.
Queste immagini produssero nel cervello di Geltrudina quel movimento, quel ronzio, quel bollore che produrrebbe un gran paniere di fiori, appena colti, collocato davanti ad un'arnia.
Sulle prime ella volle competere con le compagne, e sostenere la superiorità della condizione, che le era destinata; ma quanto più ella cercava di magnificare le sue dignità future, tanto più le esponeva ad un terribile genere di offesa, il ridicolo; sentimento che quelle spavalducce applicavano più naturalmente e più saporitamente alle dignità che vantava Geltrude, appunto perché le vedevano esercitate dalle loro superiore; sorta di persone per le quali la puerizia prova così facilmente l'ammirazione, come lo scherno.
E quel che è peggio, Geltrudina non poteva rivolgere le stesse armi contro le avversarie, perché le ricchezze e la voluttà non sono di quelle cose delle quali si ride in questo mondo: si ride bensì di chi le desidera senza poterle ottenere, e di chi ne usa sgraziatamente; e questo ridere mostra l'alta estimazione in cui sono tenute le cose stesse: quei pochi che non le stimano, non esprimono il loro giudizio con la derisione.
Geltrudina quindi per non restare al disotto non aveva altro a rispondere, se non che, ella pure avrebbe potuto pigliarsi uno sposo, abitare un palagio, essere strascinata, servita, corteggiata, che lo avrebbe potuto, se lo avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva infatti.
Quell'idea che le stava rannicchiata in un angolo della mente, che il suo assenso era necessario perch'ella fosse monaca, e che questo assenso dipendeva da lei, si svolse allora, e divenne perspicua e predominante.
Con questo pensiero ella si teneva bastantemente sicura, ma non senza covare un sentimento d'invidia e di rancore contra quelle sue compagne le quali erano ben altrimenti sicure, e ch'ella avrebbe amate se la loro condizione non le fosse stata ad ogni momento un confronto doloroso.
Perché questa sventurata non aveva un animo ostile, non si dilettava naturalmente nell'odio; ma le sue passioni erano tanto violente e tanto delicate, ella le idolatrava tanto, che tutto ciò che poteva essere ad esse di ostacolo, offenderle, contristarle, diveniva per lei oggetto di avversione, e sarebbe stato vittima del suo furore quand'ella avesse potuto impunemente sfogarlo.
In questo stato di guerra mentale giunse Geltrudina a quella età così critica, che separa l'adolescenza dalla giovinezza; a quella età, in cui una potenza misteriosa entra nell'animo, solleva, ingrandisce, adorna, rinvigorisce, raddoppia di forza tutte le inclinazioni e tutte le idee che vi trova.
Assoluta innocenza di pensiero; massime e pratiche di Religione ragionata; occupazioni utili e interessanti, esercizj frequenti e dilettevoli del corpo, confidenza rispettosa e libera nei parenti o negli educatori, sono i mezzi sicuri per trascorrere impunemente quella età perigliosa, e per formare una mente tranquilla, saggia, e forte contra i pericoli della giovinezza e di tutta la vita.
Ma le circostanze della povera Geltrude erano ben diverse: tutto tendeva per essa a realizzare ogni pericolo di quella età e a renderla turbolenta, e funesta per l'avvenire.
Pochissimi lavori, e lo studio del canto sopra parole d'una lingua sconosciuta, non erano esercizj che potessero impadronirsi della mente di Geltrude, e trattenerla dal vagare in un mondo ideale.
Gli esercizj corporali consistevano in un giro quotidiano dell'orto claustrale.
La confidenza e la comunicazione delle idee era quale può trovarsi con persone le quali non pensano a conoscere un animo per dirigerlo nella sua scelta, ma a fissarlo in una scelta già destinata.
E, quanto alla Religione, ciò che è in essa di più essenziale, di più intimo, ciò che fa resistere alle passioni, e vincerle con una dolcezza superiore d'assai a quella che le passioni soddisfatte possono arrecare, ciò che preserva dalla corruttela, e mette in avvertenza anche contra i pericoli non conosciuti, non era stato mai istillato né meno insegnato alla picciola Geltrude; anzi il suo intelletto era stato nodrito di pensieri opposti affatto alla Religione.
Non vogliamo qui parlare di alcuni pregiudizj, che a quei tempi principalmente si ritenevano per verità sacrosante, e s'insegnavano insieme con le verità, pregiudizj non del tutto estirpati, e Dio sa quando lo saranno, pregiudizj dannosi principalmente perché nella mente di molti associano all'idea della Religione quella della credulità e della sciocchezza, e dei quali perciò ogni onesto deve desiderare e promovere la distruzione; ma pregiudizj che in gran parte non tolgono l'essenziale, e si possono combinare con un sentimento di pietà profonda e sincera, e con una vita non solo innocente, ma operosa nel bene, e sagrificata all'utile altrui, del che tanti esempj hanno lasciati i tempi trascorsi, e ne offrono fors'anche i presenti.
Ma, come abbiamo veduto, i parenti di Geltrude l'avevano educata all'orgoglio, a quel sentimento cioè che chiude i primi aditi del cuore ad ogni sentimento cristiano, e gli apre a tutte le passioni.
Il padre principalmente, che aveva destinata questa poveretta al chiostro prima di sapere s'ella sarebbe stata inclinata a chiudervisi, s'aveva talvolta pur fatta tra sè e sè questa obbiezione, che forse Geltrude non vi sarebbe stata inclinata: caso difficile, ma non impossibile; e contra il quale era d'uopo premunirsi.
Supponendo adunque che Geltrude allettata dalla vita del secolo avesse voluto rimanervi, bisognava trovar qualche cosa che la allettasse ad abbandonarlo, per non usare della semplice forza, mezzo di esito incerto, sempre odioso, e che poteva lasciar qualche dispiacere nell'animo del padre, il quale alla fine non desiderava che la sua figlia fosse infelice, ma semplicemente ch'ella fosse monaca.
Il Marchese Matteo non era uomo di teorie metafisiche, di disegni aerei: non aveva perduto il suo tempo sui libri, ma conosceva il mondo, era un uomo di pratica, quel che si chiama un uomo di buon senso; teneva che bisogna prendere gli uomini come sono, e non pretendere da essi gli effetti di una perfezione ideale; e che senza l'interesse l'uomo non si determina a nulla in questo mondo.
Così per prevenire all'interesse che il secolo poteva offrire a Geltrude, egli si era studiato di far nascere nel suo cuore quello della potenza e del dominio claustrale.
Egli aveva pensato ed operato colla dirittura e colla sapienza squisita d'un uomo il quale desse il fuoco alla casa di un nimico posta a canto alla sua, con la intenzione che quella sola dovesse andare in fumo ed in faville.
Ma il fuoco appiccato ch'ei sia non si lascia guidare dalle intenzioni dell'incendiario, va dove il vento lo spinge, e si trattiene a divorare dove trova materia combustibile; e le passioni svegliate una volta non ricevono più la legge di chi le ha ispirate, ma si volgono agli oggetti che la mente apprende come più desiderabili.
L'orgoglio di giovane vagheggiata, adorata, supplicata con umili sospiri, di sposa ricca e fastosa, di padrona che comanda a damigelle ed a paggi ben vestiti, era ben più dolce che l'orgoglio di madre badessa, e in quello tutta s'immerse la fantasia orgogliosa di Geltrudina.
Cominciò dunque a far castelli in aria, a figurarsi un giovane ai piedi, a levarsi spaventata, e fuggire dicendo: - come ha ella ardito di venir qui? - e non ricordava più che il giovane senza una sua chiamata non sarebbe certo venuto a disturbarla.
Ma quella fuga e quell'asprezza non erano a fine di scacciarlo daddovero: il giovane non perdeva coraggio; nascevano nuovi casi, e tutto finiva col matrimonio, come la più parte delle commedie.
Richiamava alla memoria quel poco che aveva veduto dei passeggi della città, e vi girava in carrozza, innanzi indietro; ripensava la casa domestica, le anticamere, le livree, il comando, e rifaceva tutto per suo uso, ma in un modo più splendido.
Questi pensieri l'assediavano nel dormitorio, nel refettorio, nell'orto, nel coro; ella confrontava col brillante di essi, lo squallido che aveva sott'occhio, e si confermava sempre più nel proposito di non dire quel «sì» che si aspettava da lei.
Le monache si accorsero di questa sua risoluzione ch'ella non cercava nemmeno di nascondere affatto; poiché malgrado la fermezza di questa risoluzione, Geltrudina rifuggiva con tremito dall'idea di manifestarla al padre di sua bocca; e desiderava ch'egli ne fosse prevenuto d'altra parte: poiché in quel caso non le restava che di sopportare la collera e le minacce del padre; operazione passiva che le pareva molto più facile, che di pronunziare quelle parole: «non voglio».
La poverina faceva come colui che avendo da dire qualche cosa di spiacevole a qualcheduno, piglia la penna, e gli manda le sue idee in un bel foglio di carta.
Ma se la determinazione traspariva, i motivi erano celati alle monache; Geltrude li nascondeva sotto quell'aspetto di indifferenza che la faccia dei giovanetti presenta quasi sempre all'occhio di chi comanda loro; essa li nascondeva con quella dissimulazione profonda che è data a quella età, e che forse non ritorna più in nessuna altra epoca della vita, e che appena appena potrà aver riconquistata un diplomatico di ottant'anni, se, come si dice, gli uomini di questa professione sono i più esercitati a nascondere i loro pensieri.
Con le compagne Geltrude era manco coperta, e se esse avessero voluto o saputo osservare, dalle materie più frequenti del suo discorso, dall'entusiasmo al quale si abbandonava talvolta, dalla sua picciola stizza se non altro nella quale l'invidia era trasparente, avrebbero potuto conoscere qualche cosa dell'animo suo: qualche cosa, perché nei sogni caldi ed arditi della pubertà v'è una parte di stranio, di fantastico, di individuale che non si confida, né s'indovina, a quel che dice il manoscritto.
Venne finalmente il momento di levare Geltrude dal monastero, e di ritenerla per qualche tempo nella casa e nel mondo.
Il passo era spiacevole assai pel Marchese Matteo, ma inevitabile, perché una ragazza allevata in un monastero non poteva far la domanda di esservi ammessa ai voti se non dopo esserne stata fuori per qualche tempo.
Era questa una formalità destinata ad assicurare alle figlie la libera scelta dello stato; giacché ognun vede che sarebbe stato troppo facile di fare abbracciare il monastico ad una giovane, che rinchiusa nel chiostro dall'infanzia non avesse mai avuta idea di altro modo di vivere.
Nessuno ignora che le formalità sono state inventate dagli uomini per accertare la validità di un atto qualunque; assegnando anticipatamente i caratteri che quell'atto deve avere per essere un atto daddovero.
Invenzione che mostra affè molto ingegno: invenzione utile, anzi necessaria, perché la più parte delle quistioni che si fanno a questo mondo sono appunto per decidere se una cosa sia fatta o non fatta.
Ma tutte le invenzioni dell'ingegno umano partecipando della sua debolezza non sono senza qualche inconveniente: e le formalità ne hanno due.
Accade talvolta che dove gli uomini hanno deciso che una cosa non può esser realmente fatta che nei tali e tali modi, la cosa si fa realmente in modi tutti diversi e che non erano stati preveduti.
In questo caso, la cosa non vale, anzi non è fatta.
E non andate a farvi compatire da un sapiente col volergli dimostrare che la è fatta; egli lo sa quanto voi; ma sa qualche cosa di più, vede nella cosa stessa una distinzione profonda; vede, e vi insegna che la cosa materialmente è fatta, legalmente non è.
Dall'altra parte accade pure, che dopo essere stato dagli uomini predetto, deciso, statuito che, dove si trovino i tali e tali caratteri esiste certamente il tal fatto, si sono trovati altri uomini più accorti dei primi (cosa che pare impossibile eppure è vera) i quali hanno saputo far nascere tutti quei caratteri senza fare la cosa stessa.
In questo secondo caso bisogna riguardare la cosa come fatta; e darebbe segno di mente ben leggiera e non avvezza a riflettere, o di semplicità rustica affatto colui che, ostinandosi ad esaminare il merito, volesse dimostrare che la cosa non è.
Guaj se si desse retta a queste chiacchere, non si finirebbe mai nulla, e si andrebbe a pericolo di turbare il bell'ordine che si ammira in questo mondo.
Ma questi caratteri, se non infallibili, sono almeno stati scelti dopo accurate osservazioni, senza passioni, né secondi fini, in tempi nei quali gli uomini fossero abbastanza esercitati nel riflettere su quello che vedevano per circostanziare i fatti che dovevano essere dopo di loro? Ah! qui è la quistione; ma per trattarla con qualche fondamento converrebbe fare la storia del genere umano; dal che ci asteniamo, e perché a dir vero, non l'abbiamo tutta sulle dita, e perché siamo per ora impegnati a raccontare quella di Geltrude, in quanto ella è necessaria a conoscere la storia ancor più vasta degli sposi promessi.
Per accertare adunque la libera e reale vocazione d'una figlia al chiostro, era prescritto che ella ne stesse assente per qualche tempo; ed era consuetudine che in questo tempo ella dovesse esser condotta a vedere spettacoli, ad assaggiare divertimenti, per conoscere ben bene quello a cui doveva rinunziare per farsi monaca.
E prima di vestir l'abito, doveva essere esaminata da un ecclesiastico, il quale con interrogazioni opportune ricavasse se non le era fatta forza, e se ella non si faceva illusione, se il suo proposito era insomma libero e ragionato.
Queste formalità però avevano certamente il secondo inconveniente di cui abbiamo parlato; tutto poteva andare in regola, e la giovinetta infelice chiudersi contra sua voglia.
La cosa poteva accadere in molti modi: ch'ella sia talvolta accaduta è un fatto troppo noto, e troppo vero: chi volesse ostinatamente negarlo, abbia almeno la discrezione di non affermar mai di quelle verità che sono contrastate, perché la sua affermazione diverrebbe un argomento di più contro di esse.
Benché Geltrudina sapesse benissimo ch'ella andava ad un combattimento, pure il giorno della uscita dal monastero, fu un giorno ben lieto per lei.
Oltrepassare quelle mura, trovarsi in carrozza, veder l'aperta campagna, e quel ch'è più entrare nella città, furono sensazioni più forti che non fosse il pensiero dei contrasti che aveva a sopportare.
Per uscirne vittoriosa aveva la poveretta composto un piano nella sua mente.
- O vorranno ottenere il loro intento colle buone, diceva ella tra sè, o mi parleranno brusco.
Nel primo caso io sarò più buona di essi, pregherò, li moverò a compassione: finalmente non domando altro che di non essere sagrificata.
Nel secondo caso, io starò ferma; il «sì» lo debbo dire io, e non lo dirò.
- Ma, come accade talvolta anche ai comandanti di eserciti, non avvenne né l'una né l'altra cosa ch'ella aveva pensata.
I parenti avvertiti dalle monache delle disposizioni di Geltrude, furono serj, tristi, burberi; e non le fecero per qualche tempo nessuna proposizione né con vezzi, né con minacce.
Solo dal contegno di tutti traspariva che tutti la riguardavano come rea, e da qualche parola sfuggita qua e là s'intravedeva che la riguardavano come rea, non già di ricusarsi al chiostro, delitto che non poteva nemmeno venire in capo ad alcuno della famiglia, ma di non avviarvisi con buona grazia.
Così ella non trovava mai un varco per venire alla dichiarazione che era pure indispensabile; e i modi secchi, laconici, altieri che si usavano con lei non le davano nemmeno il campo di potere avviare un discorso fiduciale ed amichevole il quale di passo in passo la conducesse a toccare il punto sul quale ella ardeva di spiegarsi, o almeno di farsi intendere.
Che s'ella sofferendo pazientemente qualche sgarbo, si ostinava pure a volere famigliarizzarsi con alcuno della famiglia, se senza lamentarsi implorava velatamente un po' di amore, se si abbandonava ad espressioni confidenziali, e affettuose, ella si udiva tosto gittar qualche motto più diretto e più chiaro intorno alla elezione dello stato: le si faceva sentire che l'amore della famiglia non era cessato per lei, ma sospeso, e che da lei dipendeva l'esser trattata come una figlia di predilezione.
Allora ella era costretta a ritirarsi, a schermirsi da quelle tenerezze che aveva tanto ricercate, e si rimaneva con l'apparenza del torto.
Si accorava e si andava sempre più perdendo d'animo: il suo piano era scompaginato, e non sapeva a qual altro appigliarsi, pure aspettava.
Ma il non veder mai un volto amico, ma le immagini tristi, e direi quasi terribili delle quali era circondata la rendevano sempre più inclinata a ritirarsi in quel cantuccio ameno e splendido che ognuno, e i giovani particolarmente, si formano nella fantasia, per fuggire dalla considerazione di oggetti che attristano.
Ritornava ella dunque più che mai a quei suoi sogni del monastero, e si creava fantasmi giocondi coi quali conversare.
Ma i fantasmi non acquistavano forma reale; ella era tenuta ritirata quanto nel monastero perché il tempo dei divertimenti doveva venir dopo quella domanda ch'ella non aveva fatta e che era risoluta di non fare.
Rinchiusa per una gran parte del giorno con le donzelle, allontanata dalla sala ogni volta che una visita vi si presentasse, non mai condotta in altre case, come avrebb'ella mai potuto vedersi ai piedi quel tal giovane del monastero, che, senza contare tutte le altre difficoltà, non era a questo mondo? Era questo il suo maggiore, anzi l'unico suo difetto, giacché del resto, bellezza, grazia, ricchezza, nobiltà, eloquenza, sincerità, costanza, e sopra tutto appassionatezza, nulla gli mancava.
V'era rischio per altro che s'egli tardava troppo ad esistere l'immaginazione di Geltrude, stanca di aggirarsi nel vuoto gli trasferisse la bontà che aveva per lui, al primo ente reale che non fosse troppo diverso da questo immaginato da rendere impossibile lo scambio.
L'occasione si presentò in fatti, e fu fatale a Geltrude.
Noi ommettiamo i particolari di questo sciaurato affare, diremo soltanto che la prima lettera di risposta ch'ella aveva scritta ad un paggio della Marchesa, cadde in mano di questa, fu tosto consegnata al Marchese Matteo, e che il trambusto in casa fu, come era da aspettarsi, strepitoso.
Il paggio fu sfrattato immediatamente, com'era giusto; ma il Marchese Matteo che aveva idee molto larghe sul giusto in ciò che toccava il decoro della sua famiglia, intimando di sua bocca la partenza al ragazzaccio, per non aumentare il numero dei confidenti, gl'intimò nello stesso tempo che se egli si fosse in alcun tempo lasciato sfuggire una paroluzza sulla debolezza di donna Geltrude, la sua vita avrebbe scontato questo secondo delitto, e che non vi sarebbe stato asilo per lui.
Queste minacce erano a quei tempi molto frequenti, e facevano pure colpo assai, perché ognuno era avvezzo a vederne molte ridotte ad effetto.
Ciò non di meno per esser più certo della segretezza del paggio il Marchese Matteo nel forte del rabbuffo gli appoggiò due solennissimi schiaffi, pensando a ragione che il paggio sarebbe stato meno tentato di raccontare un'avventura, la quale per una parte poteva lusingare la sua vanità, quando ella avesse finito con un incidente doloroso e umiliante.
Alla donna di casa che aveva intercettato il corpo del delitto furono date molte lodi, e nello stesso tempo una prescrizione di segretezza, non accompagnata da minacce, ma in termini che le fecero comprendere che questa segretezza era del massimo interesse anche per lei.
Ma il temporale più scuro, più lungo, più terribile venne a scendere sul capo di Geltrude.
Il Marchese Matteo dopo d'averla caricata di strapazzi, ch'ella intese con tanto più di tremore, quanto si sentiva veramente colpevole, le annunziò una prigione indeterminata nella sua stanza, e per sopra più le parlò d'un castigo proporzionato alla colpa, senza specificarlo, e così la lasciò in guardia alla stessa donna che aveva scoperti gli altari.
Geltrude aspreggiata, rinchiusa, minacciata, in una situazione che sarebbe stata dolorosa anche alla coscienza più illibata, si trovava anche la memoria del fallo, che basta a rattristare la situazione la più gioconda, e l'animo suo fu prostrato.
Non sapeva prevedere come né quando, la cosa sarebbe finita, si aspettava ad ogni momento il castigo incognito e per ciò più terribile; l'essere come sbandita dalla famiglia le era un peso insopportabile, e nello stesso tempo l'idea di rivedere il padre, o di vedere la madre, il fratello la prima volta dopo il suo fallo la faceva trasalire di spavento.
In questa agitazione continua si svolse, e si accrebbe nell'animo suo un sentimento nativo in tutti, ma più forte in lei per indole e reso ancor più forte dalla educazione, il timore della vergogna: sentimento non solo onesto, ma bello, ma essenziale; sentimento però che come tutti gli altri può diventare passione violenta e perniciosa quando non sia diretto dalla ragione, ma nutrito di orgoglio.
La sola idea del pericolo che la sua debolezza, la sua debolezza per un paggio, per una persona meccanica, fosse risaputa da alcuna delle sue antiche superiore, da una sua compagna, da un congiunto della casa, questa idea le era più terribile, più odiosa, della prigione, dell'ira dei parenti, del fallo stesso.
Ella sentiva che con la minaccia di svergognarla così, si sarebbe potuto ottener da lei quello che si fosse voluto.
E sentiva nello stesso tempo quanto fosse peggiorata la sua condizione per la scelta dello stato: giacché il primo requisito per poter resistere alle lusinghe e alle violenze era, avrebbe dovuto essere di non aver nulla da rimproverarsi.
La compagnia della sua guardiana non le era certo di alcun sollievo nella sua ritiratezza angosciosa.
Ella vedeva in quella donna il testimonio della sua colpa, e la cagione della sua disgrazia, e la odiava.
E la donna non amava la fumosetta, per cui era costretta a far vita da carceriera poco dissimile da quella di carcerata, e che l'aveva resa depositaria d'un segreto pericoloso.
La conversazione era quindi fra di esse quale può risultare dall'odio reciproco.
Non restava a Geltrude la trista e funesta consolazione dei sogni splendidi della fantasia: perché questi sogni erano tanto in opposizione col suo stato reale, e con l'avvenire il più probabile, e quelle immagini erano tanto legate con la sua sciagura, che la mente li rispingeva con incredula avversione, e ricadeva come un peso abbandonato, nella considerazione delle circostanze reali.
Cominciò quindi a dolersi davvero di ciò che aveva fatto, a paragonare la vita che menava prima del suo fallo con quella che strascinava in allora, e a trovare la prima soave, a rammaricarsi di non averla saputa conoscere.
L'immagine di colui al quale il suo cuore sgraziato e leggiero si era abbandonato un momento gli compariva accompagnata di tanti dispiaceri che aveva perduta ogni forza sulla sua fantasia.
Tanto è vero che all'amore per signoreggiare un animo, bisogna un poco di buon tempo, e che le faccende gravi, e le grandi sciagure gli spennacchiano le ali, e gli spezzano i dardi, se ci si permette una frase, invero troppo poetica, ma che spiega tanto bene ciò che accade realmente nell'animo.
Scacciato dal cuore questo nimico, il quale a dir vero non vi aveva preso gran piede, raffreddata alquanto l'ira dalla tristezza e dal timore di peggio, e dal pensare che al fine il castigo era meritato, il pentimento di Geltrude cominciò ad essere più dolce, divenne un sollievo.
Pensò ella al perdono che si ottiene con quello, e si rallegrò, pensò che ciò ch'ella soffriva poteva essere una espiazione, e tutto le parve più leggiero.
Si diede quindi tutta ad una divozione la quale in parte era un sentimento intimo e retto dell'animo, in parte un fervore della fantasia.
Le tornava allora alla mente il chiostro, e una vita quieta, onorata, lontana dai pericoli, la dignità di monaca, e quella benedetta pompa di badessa, e quella benedetta boria di essere la più nobile del monastero, ultimo rifugio della sua superbiuzza, le parve un zucchero in paragone dello stato di umiliazione, di prigionia, di disprezzo nel quale si trovava.
L'avversione nutrita per tanto tempo a quella condizione le risorgeva pure con tutte le sue immagini, ma ella le pigliava per tentazioni, e le combatteva.
In questa incertezza, ella desiderava di rivedere il padre, di rivederlo con una faccia diversa da quella di cui le rimaneva una immagine terribile, e dolorosa, di avere il suo perdono, di essere riammessa nella famiglia.
Dopo molto combattimento, prese la penna, e scrisse al padre una lettera piena di entusiasmo e di abbattimento, di afflizione e di speranza, nella quale chiedeva istantemente ch'egli la visitasse, e gli lasciava intravedere ch'egli rimarrebbe contento di lei.
Non già ch'ella avesse presa una risoluzione, ma non poteva più reggere alla solitudine e alla proscrizione, e sperava confusamente che in quel colloquio la risoluzione si sarebbe fatta per lo meglio.
CAPITOLO III
V'ha dei momenti in cui l'animo massimamente dei giovani, è, o crede di essere talmente disposto ad ogni più bella e più perfetta cosa che la più picciola spinta basta a rivolgerlo a ciò che abbia una apparenza di bene, di sagrificio, di perfezione; come un fiore appena sbocciato, che s'abbandona sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze all'aura più leggiera che gli asoli punto d'attorno.
L'animo vorrebbe perpetuare questi momenti, e diffidando della sua costanza, corre con alacrità a formar disegni irrevocabili: felice se la tarda riflessione non gli rivela col tempo, che ciò che gli era sembrato una ferma e pura volontà non era altro che una illusione della fantasia.
Questi momenti che si dovrebbero ammirare dagli altri con un timido rispetto, e coltivare dal prudente consiglio in modo che si maturassero colla prova, e col tempo, nei quali tanto più si dovrebbe tremare e vergognarsi di chiedere quanto più grande è la disposizione ad accordare, questi momenti sono quelli appunto, che la speculazione fredda o ardente dell'interesse, agguata e stima preziosi per legare una volontà che non si guarda, e per venire ai vili suoi fini.
Il Marchese Matteo, il quale passato il primo caldo dell'ira, era tosto corso a fantasticare nella sua mente se da quel disordine avesse potuto cavar qualche profitto per vincere la risoluzione di Geltrude, e che non era mai ristato dal ruminarvi sopra da poi, s'accorse al leggere di quella lettera che la figlia gli dava essa stessa l'occasione desiderata, e stabilì tosto di battere il ferro mentre ch'egli era caldo.
Mandò quindi a dire a Geltrude ch'ella dovesse venire nella sua stanza, ov'egli si trovava solo.
Geltrude v'andò di corsa, che innanzi o indietro è il passo della paura, giunse senza alzar gli occhi dinanzi al Marchese, si gittò ai suoi piedi, ed ebbe appena il fiato per dire: «perdono».
Il Marchese con una voce poco atta a rincorare le rispose, che il perdono non bastava desiderarlo, che questo lo sa fare chiunque è colto in fallo e teme il castigo, che bisognava insomma meritarlo.
Geltrude in tanto più turbata ed atterrita in quanto ella era venuta con la speranza di tosto ottenerlo, chiese che dovesse fare per rendersene degna, e si disse pronta a tutto.
Il Marchese non rispose direttamente, ma cominciò a parlare lungamente del fallo di Geltrude e del torto ch'ella s'era posta in pericolo di fare alla famiglia.
Questo discorso era al cuore di Geltrude come lo scorrere di una mano ruvida sur una piaga.
Aggiunse che, quando mai egli avesse avuto alcun pensiero di collocare la sua figlia nel secolo, questo fatto sarebbe stato un ostacolo invincibile, perché egli avrebbe creduto suo dovere di rivelare la debolezza della sua figlia a chi l'avesse richiesta, non essendo tratto da cavalier d'onore il vender gatta in sacco.
Finalmente, raddolcendo alquanto il tuono della voce, e le parole, disse a Geltrude che questi eran falli da piangersi per tutta la vita, e che ella doveva vedere in questo tristo accidente un avviso del cielo, che le dava ad intendere che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei, e che non v'era asilo, riposo, sicurezza...
«Ah! sì», interruppe incautamente Geltrude mossa ad un punto dal timore, dal ravvedimento, e da una certa tenerezza, e sopra tutto dalla corrività della sua fantasia.
Il Marchese, - ci ripugna dargli in questo momento il titolo di padre - la prese in parola, le annunziò il più ampio perdono, si congratulò con lei del partito ch'ella aveva preso, della vita riposata e felice ch'ella avrebbe menata, e la oppresse di quelle lodi che fanno paura, perché lasciano indovinare a quali improperj esporrebbe il cangiar di risoluzione.
Geltrude si stava stordita fra i diversi affetti che si succedevano nel suo cuore, non sapeva che dire, non sapeva che si avesse detto: dubitava di essersi troppo avanzata, o d'essere stata strascinata più innanzi che non avrebbe voluto; questo pensiero era però dubbio e confuso nella sua mente; ma foss'egli stato limpido e spiegato perfettamente, manifestarlo, accennarlo, dire una parola che contraddicesse all'entusiasmo del Marchese, sarebbe stato uno sforzo quasi impossibile.
Il Marchese fece tosto chiamare la madre e il fratello di Geltrude, per metterli, diceva egli, a parte della sua consolazione, per riporre Geltrude nella stima e nell'affetto della famiglia.
L'una e l'altro accorsero immediatamente.
La Marchesa era avvezza dai primi giorni a non avere altra volontà che quella del marito, fuorché in due o tre capi pei quali aveva combattuto, e ne era uscita vittoriosa.
Questa condiscendenza non veniva già da un sentimento del suo dovere né da stima pel Marchese, ma dall'aver veduto chiaramente da principio che il resistergli sarebbe stato un cozzar coi muricciuoli.
S'era ella quindi renduta indifferente su tutto ciò che riguardava il governo della famiglia, contenta di fare a modo suo nei due o tre articoli che abbiamo accennati.
Del resto i disegni del Marchese sul collocamento di Geltrude erano così conformi a quello che si chiamava interesse della famiglia, e alle mire avare e ambiziose in allora tanto universali, che quel poco di opinione che la Marchesa aveva a sua disposizione non poteva non approvarli.
L'affezione materna però le faceva desiderare che Geltrude si facesse monaca di buona voglia, come una buona madre che abbia una figlia tanto scrignuta e contraffatta da non poter esser chiesta da nessuno, desidera ch'ella preferisca il celibato al matrimonio.
Al giovane Marchesino era stato detto fino dall'infanzia che le entrate della casa erano appena appena proporzionate alla nobiltà, e che detrarne anche una picciola parte sarebbe stato un decadere se non nella sostanza almeno nell'esterno; egli riguardava quindi assolutamente come un dovere in Geltrude di chiudersi in un chiostro: modo il più economico di collocarsi: quindi l'aderire ch'egli faceva ai progetti del padre era una docilità poco costosa.
Il Marchese fece cuore a Geltrude, e la presentò con volto lieto alla madre e al fratello.
«Ecco», disse, «la pecora smarrita, e sia questa l'ultima parola che richiami tristi memorie.
Ecco» aggiunse «la consolazione della famiglia: Geltrude ha scelto ella medesima, spontaneamente quello che noi desideravamo per suo bene; e non ha più bisogno di consigli.
È risoluta, ed ha promesso...» qui Geltrude alzò gli occhi tra lo spavento e la preghiera al Padre, come per supplicarlo di sostare un momento, ma egli ripetè francamente: «ha promesso di prendere il velo».
Le lodi e gli abbracciamenti furono senza fine, e Geltrude riceveva le une e gli altri con lagrime che furono credute di consolazione.
Il Marchese Matteo si diffuse allora a magnificare le disposizioni che aveva già fatte di lunga mano per rendere lieta e splendida la sorte della sua figlia.
Parlò delle distinzioni ch'essa avrebbe avute nel monastero, e del desiderio che le madri avevano di possederla, e di osservarla come la prima, la principessa donna del monastero, dal momento in cui vi avrebbe riposto il piede.
La madre e il fratello applaudivano: Geltrude era come posseduta da un sogno.
«Oh!» s'interruppe il Marchese; «noi stiamo qui facendo chiacchere, e si dimentica il principale: bisogna fare una domanda in forma al Vicario delle monache, altrimenti non si conclude nulla».
Detto questo fece chiamare tosto il Segretario.
Questi giunse ritto ritto, intirizzato quanto poteva comportare la fretta di obbedire al Signor Marchese; il quale tosto gli diede ordine di stendere la supplica.
Il Segretario, rivolto a Geltrude disse: «ah! ah!» per pigliar tempo a studiare un complimento di congratulazione: ma il Marchese lo interruppe dicendo: «Presto, presto, scrivete alla buona, senza concetti; già conosciamo la vostra abilità».
Il Segretario scrisse, e il foglio fu dato a Geltrude da ricopiare, la quale ricopiò, e appose il suo nome, come le comandò il Marchese.
Il quale preso il foglio, e consegnatolo al Segretario perché lo portasse addirittura cui era indiritto; comandò che si preparasse per Geltrude il suo appartamento ordinario, che si dicesse ch'ella era guarita dalla sua indisposizione - era il pretesto preso per dar ragione della sua assenza continua -, e che tosto le si facessero apprestare abiti più sontuosi.
Quindi rivolto sorridendo a Geltrude, le chiese quando ella sarebbe stata disposta a fare una trottata a Monza per richiedere alla Badessa di esser ricevuta.
«Anzi...» riprese dopo aver pensato un momento, «perché non v'andiamo oggi stesso? Geltrude ha bisogno di pigliar aria, e sarà ancor più contenta quando il primo passo sia fatto».
«Andiamo, andiamo» rispose la Marchesa.
«La giornata è bellissima».
«Vado a dar gli ordini», disse il Marchesino e stava per partire.
«Ma...» cominciò Geltrude, e non potè continuare.
«Piano, piano, cervellino», ripigliò il Marchese rivolto al figlio: «forse Geltrude è stanca, e vuole aspettare fino a domani.
Volete voi che andiamo domani?» domandò a Geltrude con uno sguardo che nello stesso tempo mostrava il sereno e minacciava il temporale.
«Domani», rispose con debole voce Geltrude, alla quale non parve vero di aver qualche ora di rispitto, e che nel proferire quella parola si sovvenne che finalmente quel passo non era l'ultimo, il decisivo; e che si poteva ancora darne uno indietro.
«Domani», disse solennemente il Marchese: «domani, è il giorno ch'ella ha stabilito».
Il resto della giornata fu occupatissimo.
Geltrude avrebbe voluto raccogliere i suoi pensieri, riposarsi da tante commozioni, rendersi conto di quello che aveva fatto, di quello che era da farsi, sapere distintamente che cosa voleva, trovare il modo di rallentare un po' quella macchina che appena mossa andava con tanta celerità, per vedere almeno come ne era condotta, e per arrestarla affatto se si fosse accorta che la conduceva ad un pentimento; ma non ci fu verso.
Le distrazioni si tenevano dietro senza interruzione, e la mente di Geltrude era come il lavorio d'una povera fante che serva ad una numerosa famiglia e che in un giorno di faccende chiamata di qua di là non può venire a capo di nulla.
Mentre s'apparecchiava il quartiere ch'ella doveva abitare, ella fu condotta nella stanza stessa della Marchesa, per essere acconciata, adornata, vestita del suo più bell'abito; operazione che in quel giorno le recò una noja intollerabile.
La Marchesa presiedeva all'acconciamento, e parte lodando, parte riprendendo, parte consigliando, parte interrogando Geltrude di cose estranie non le lasciò il tempo di raccozzar due idee.
Del resto a misura che l'opera procedeva verso la sua perfezione, Geltrude stessa vi prese un po' d'affetto, e vi occupò quel poco di pensiero che le rimaneva.
L'acconciatura era appena finita che venne l'ora del pranzo.
I servi la inchinavano umilmente sul suo passaggio, accennando di congratularsi per la ricuperata salute; con una serietà che non avrebbe lasciato supporre che essi sapessero qualche cosa del vero motivo della assenza di Geltrude.
A tavola Geltrude fu la regina: servita la prima, trattenuta, corteggiata, ella doveva corrispondere a tante gentilezze, e faceva ogni sforzo per riuscirvi.
Il Marchese aveva fatto avvertire alcuni parenti più prossimi del ristabilimento della figlia, e della sua risoluzione: le due liete nuove si sparsero, e come la famiglia del Marchese spandeva un lustro grande su tutta la parentela, comparvero dopo il pranzo visite di congratulazione.
I complimenti erano per la sposina - così si chiamavano le giovani che erano per farsi monache - e la sposina doveva rispondere a quei complimenti; ed ogni risposta era una conferma.
S'avvedeva ben ella che ad ogni momento andava tessendo ella stessa una maglia di più alla sua rete; ma oltre ch'ella non vedeva ben chiaro se quella era una rete, fare altrimenti le pareva impossibile: poiché come mai in presenza del padre, a chi si rallegrava di una risoluzione presa da lei, ed annunziata da quello, avrebb'ella potuto dare una risposta dubbiosa? Partite le visite Geltrude entrò con la famiglia nel cocchio dal quale era stata esclusa per tanto tempo: e si andò a fare la solenne trottata.
Lo spettacolo e il romore delle carrozze e dei passeggiatori, i discorsi incessanti del padre, della madre, e del fratello che per cortesia rivolgevano sempre la parola a Geltrude, si contendevano l'attenzione della sua mente; e i pensieri sulla sua situazione vi apparivano istantaneamente come lampi in un povero cielo.
Rientrato il cocchio, in casa, e fermato sotto le volte rimbombanti dell'atrio, i servi che scendevano in fretta coi doppieri, annunziarono che gran parte della conversazione era già ragunata.
Si montò con tutta la fretta che poteva conciliarsi con una certa gravità, e di sala in sala si giunse a quella della conversazione.
La sposina ne fu il soggetto, l'idolo, e la vittima.
Chi si faceva prometter da lei, chi prometteva visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della madre tal altra sua conoscente; chi lodava il cielo di Monza, chi la regola del monastero.
Se alcuno non potendo avvicinarsi a Geltrude assediata da altri, o trovandosi distratto a ciarlare in un crocchio, non le aveva detto nulla, si sentiva tutto ad un tratto preso come da un rimorso, temeva di averle fatta una offesa, e studiava il momento di farle il suo complimento.
Finalmente la brigata si sciolse, tutti partirono senza rimorso, e Geltrude stordita, intronata si rimase sola con la famiglia, dalla quale ebbe altri complimenti sui complimenti che aveva ricevuti.
«Ho finalmente», disse il Marchese Matteo «avuta la consolazione di veder mia figlia trattata e distinta da sua pari.
Domani mattina», soggiunse, «converrà esser presti di buon ora per andare a Monza come ha stabilito Geltrude».
Geltrude condotta finalmente dalla Marchesa nella stanza che le era preparata vi rimase con una donna che era stata quel giorno destinata ai suoi servigi, in vece di quella che aveva fatto presso di lei il tristo uficio di carceriera.
Questo cangiamento era stato provocato da Geltrude.
Vedendo ella in quel giorno il padre così disposto a compiacerla in tutto fuor che in una cosa, fu tentata di profittare dell'auge in cui si trovava per soddisfare almeno una delle passioni che si univano a tormentarla.
Si è detto ch'ella vedeva di mal occhio la donna che le era stata spia e guardiana; e che v'era fra esse un ricambio continuo, una gara di sgarbi.
Geltrude in certi momenti di divozione le aveva perdonato, ma cento perdoni non ne vagliono un solo.
Vedersi in quel giorno trattata con tanta importanza quasi con tanto rispetto da tutta la famiglia, le dava un po' di superbia, e nello stesso tempo il sentire che con queste lusinghe le si faceva fare quello che forse ella non avrebbe voluto le dava stizza: mentre il suo animo si trovava fra questi due tristi sentimenti, le sovvenne dei modi rozzi, famigliari, insolenti che quella donna le aveva usati nella sua prigionia, e volendo lamentarsi di qualche cosa, se ne lamentò al padre.
Questi ne fu, o se ne mostrò sdegnato, non istette a domandarle come ella pure avesse trattata la donna; ma promise che darebbe una buona lavata di capo a colei, e fissò immediatamente ai servigi di Geltrude un'altra donna di casa.
Era questa la vecchia governante del Marchesino: e Geltrude faceva poco guadagno nel cambio.
La vecchia alla quale il Marchesino era stato dato in guardia quando fu tolto alla nutrice, aveva per lui una falsa affezione di madre: in lui aveva poste tutte le sue compiacenze, le sue speranze, la sua gloria.
Dopo il Marchese ella era stata la prima a dire che Geltrude aveva ad esser monaca per non rubare una parte d'entrata al Marchesino.
Quel giorno ella era e si mostrava tanto soddisfatta che aveva ricevute le congratulazioni dei suoi conservi, tra i quali era un personaggio d'importanza; e parlava con molta bontà della signorina che aveva conosciuto il suo dovere.
Geltrude, a compimento di quella giornata, dovette sentire le lodi e i consigli della vecchia che spogliandola e ponendola a letto le fece la storia di sue zie, e di sue prozie, le quali s'eran fatte monache per non intaccare il patrimonio della casa, e che se n'erano trovate ben contente perché i monasteri dove s'erano chiuse avevan saputo tener conto dell'onore che arrecava loro l'aver dame di quella casa.
Le raccontò che si era ricorso ad esse per protezione, e che esse dal loro parlatorio avevano ottenuto ciò che era stato invano domandato dalle prime dame nella loro gran sala di ricevimento, parlò degli affari d'onore imbrogliatissimi ch'esse avevano conciliati, delle visite di grandi personaggi forestieri che avevano ricevute, di che tutta la città aveva parlato.
«Ma», soggiungeva, «erano donne che sapevan fare»; e qui intrometteva qualche consiglio sulla condotta da tenersi a Monza.
Prediceva gli onori che Geltrude avrebbe pur ricevuti, le distinzioni, le visite.
Verrebbe poi il Signor Marchesino con la sua sposa, la quale doveva esser certo una gran dama, e allora non solo il monastero, ma tutto il borgo sarebbe in movimento.
Geltrude ascoltava con una noja mista di qualche curiosità, poiché si trattava probabilmente del suo avvenire, e benché stanca e stordita non diceva: «finitela», per quella stessa curiosità che impedisce uno di lasciare a mezzo una storia mal pensata e male scritta.
La vecchia aveva parlato mentre spogliava Geltrude, quando Geltrude era già coricata; parlava ancora che Geltrude dormiva.
Le cure di rado tolgono il sonno alla giovinezza; e sono tutt'altre cure che quelle onde era oppressa Geltrude.
Il suo sonno fu affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce agra della vecchia che venne di buon mattino a riscuoterla perché si preparasse al viaggio di Monza.
«Alto, alto, signora sposina; è giorno fatto; e prima ch'ella sia vestita, rivestita, in pronto, ci vorrà anche un'ora almeno.
La Signora Marchesa si sta alzando, e l'hanno svegliata quattr'ore prima del solito.
Il Marchesino è già disceso alla scuderia e risalito; e si trova in ordine di partire quando che sia.
Vispo come un lepratto quel diavoletto: ma! egli era tale fin da bambino: io posso ben dirlo che l'ho tenuto nelle mie braccia.
Ma quando è all'ordine non bisogna farlo aspettare, perché quantunque sia della miglior pasta del mondo, allora egli strepita, fa il diavolo: e questa volta avrebbe anche un po' di ragione perché egli s'incomoda per accompagnar lei.
Guarda in quei momenti: non ha tema di nessuno, fuorché del Signor Marchese; ma poi finalmente egli non ha sopra di sè che il Signor Marchese, e un giorno il Signor Marchese sarà egli.
Poveretto! con due paroline però s'acqueta subito.
Lesta, lesta, signorina, perché mi sta guardando così come incantata? a quest'ora ella dovrebb'esser fuori del nido».
Geltrude infatti desta per forza, non ancor ben certa di vegliare, assalita ad un punto dalle memorie del giorno trascorso, dal pensiero di ciò che si doveva fare in quello che cominciava, e dal cinguettio della governante, stava cogli occhi socchiusi ed intenti come trasognata: quel destarsi era per la sua mente come il dubbio barlume di un mattino tempestoso, quando un leggero diradamento nelle tenebre appena annunzia che il sole è sull'orizzonte, e a chi guarda più attentamente il sole stesso appare come un disco bianco e leggiero sospeso dietro le nuvole trasparenti.
Quelle esortazioni però fecero colpo assai, perché la vecchia aveva toccato un tasto del quale essa stessa non conosceva tutta la forza.
Il nome del Marchesino aveva già fermata l'attenzione di Geltrude, ma quando dalle parole della governante l'immagine del Marchesino in collera passò nella mente di Geltrude, tutti i pensieri onde questa era affollata, si levarono a volo come uno stormo di passere alla vista d'uno spauracchio, e non restò più a Geltrude che la voglia di sbrigarsi, e di schivare quella collera.
Geltrude, bisogna confessarlo, non amava molto il fratello; e pei suoi modi aspri, sprezzanti, e imperiosi, e perché di tutta la casa il Marchesino era quegli che più sovente aveva il monastero in bocca; e perché le compiacenze e le distinzioni dei parenti sopra di lui, la tenevano in uno stato continuo di paragone umiliante.
Lo temeva essa però, ma fino ad un certo tempo non quanto egli avrebbe voluto: e come di lingua e d'ingegno, ella era meglio fornita di lui, di quando in quando ella si vendicava con un motto di molti giorni di una pesante persecuzione.
Era quindi fra loro come un continuo stato di guerra.
Ma quando dopo la sua prigionia Geltrude comparve davanti al fratello carica d'un fallo e d'un perdono, alzando timidamente gli occhi sulla faccia del fratello, vi scorse una superiorità dalla quale non ebbe pure il pensiero di potersi ribellar mai; si sentì soggiogata per sempre.
Ed ora il solo pensare che il fratello in un momento d'impazienza potesse profittare del vantaggio che ella le aveva dato col suo fallo, per gittarle un motto, un rimprovero che alludesse a quello, la faceva tremare.
Si pose ella quindi a sedere in fretta, e pure in fretta cominciò a vestirsi.
Avrebbe potuto la poverina riflettere che quel pericolo era troppo lontano; che il fratello in un momento in cui sperava da lei un tal sagrificio era ben lontano dal dir cosa che potesse offenderla; e che alla fine per grossolano e sventato ch'egli fosse, non avrebbe scherzato così di leggieri con l'onore di sua sorella, al quale il suo proprio era tanto vicino; ma un effetto dei falli si è appunto di render l'animo più soggetto a timori non ragionevoli.
Geltrude si vestì dunque in fretta, si lasciò acconciare e comparve nella sala dov'era radunata la famiglia ad aspettarla.
Il Marchesino, al quale corsero dapprima i suoi occhj, se ne stava tranquillo, senza dar segno d'impazienza: la Marchesa la quale aveva sagrificate tre ore di letto mostrava nell'aspetto quel misto di sentimenti che nasce dalla consolazione di aver fatta una impresa, e dal dispetto degli incomodi sostenuti per venirne a capo.
Il Marchese con lieto viso si fece incontro a Geltrude, e le disse.
«Avete scelto una bella giornata: buon augurio».
«Buon augurio» ripeterono la Marchesa e il Marchesino.
Era preparata una sedia a bracciuoli, e il Marchese accennò amorevolmente a Geltrude che vi sedesse, e perch'ella confusa stava alquanto in forse: «qui, qui», diss'egli, «certamente: dopo la risoluzione che avete fatta non siete più una ragazzetta: siete come un di noi».
Appena Geltrude si fu seduta, venne un servo che le presentò rispettosamente una tazza di ciocolatte.
Prendere il ciocolatte a quei tempi, era, dice il nostro manoscritto, quello che presso ai romani assumere la veste virile: e tutte queste cerimonie erano piccioli fili, che legavano sempre più la povera Geltrude.
Essa non confermava con parole la risoluzione che tutte quelle dimostrazioni supponevano: non diceva nulla, non faceva nulla, ma tutto ciò che si faceva d'intorno a lei, la poneva in una situazione nella quale il disdirsi, appena il mover dubbio sulla sua risoluzione, il fermarsi un momento avrebbe avuto sempre più apparenza di stranezza scandalosa.
Preso il fatal ciocolatte, il Marchese si alzò, pigliò Geltrude in disparte, e con aria di consiglio amorevole le disse.
«Orsù figlia mia, diportatevi bene: scioltezza, e buon garbo».
E qui le diede le istruzioni su quello che doveva fare e dire, e le fece ripetere la formola della domanda.
«Benissimo, a meraviglia» esclamò quindi e continuò: «Quelle buone suore vi aspettano a braccia aperte; e non sanno nulla, nulla...
Non mi date in fanciullaggini, in pianti, non mi fate la Maddalena penitente, guardatevi da un contegno che lasci sospettar qualche cosa: siate franca, e mostrate di che sangue uscite.
La vostra risoluzione vi ha meritato il perdono della famiglia; il vostro fallo è cancellato e dimenticato».
Quand'anche Geltrude avesse avuto il coraggio, che non aveva, di porre qualche ostacolo, questo discorso, che le faceva sentire dove si sarebbe tosto portata la quistione, l'avrebbe immediatamente disposta ad obbedire senz'altre osservazioni.
Ella arrossò, non rispose nulla, chinò il capo, gli occhi le si gonfiarono; ma un «via via», detto risolutamente dal Marchese e l'apparire d'un servo che annunziava che il cocchio era pronto, la costrinsero a farsi forza, e a ricomporsi.
Nello scender le scale, Geltrude fu servita da un bracciere; si montò in cocchio, e si partì.
Gl'impicci, le noje, e i pericoli del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente per le giovani di sangue nobilissimo furono il tema del discorso durante il tragitto.
All'entrare nel borgo, al vedere la porta del chiostro, Geltrude si sentì stringere il cuore, ma gli occhi della famiglia erano sopra di lei; quando il cocchio si fermò Geltrude guardando alla porta la vide già piena di curiosi; e lo studio di non far nulla di sconvenevole la occupava tanto, ch'ella scese, e s'avviò quasi senz'altro pensiero.
Attraversando il cortile si vide la porta del chiostro aperta, e tutta occupata dalle monache.
In prima fila alcune anziane con la badessa nel mezzo; dietro le altre alla rinfusa, quelle che erano immediatamente dopo le prime cacciavano il volto tra l'una e l'altra, altre dietro ritte sulla punta dei piedi; e per non tacer nulla, le converse in ultimo sollevate sopra sgabelletti.
Si vedevano pure qua e là luccicare più basso qualche paja di occhj avidissimi, come al buco della chiave, ed apparire qua e là un po' di volto mezzo ascoso: erano le più destre e le più animose delle educande che serpendo tra una monaca e l'altra s'eran trovate un cantuccio per vedere anch'esse qualche cosa: il che era in verità troppo giusto.
Geltrude come incantata giunse in faccia a tanto teatro, condotta ed animata dai parenti, e si fermò nel bel mezzo davanti alla madre badessa.
È inutile dire che questa era stata dal Marchese avvertita per un messo straordinario della visita che avrebbe ricevuta e del perché.
Geltrude fu accolta dalla badessa e da tutte le suore con acclamazioni.
Dopo i primi saluti, la badessa nel modo con cui si fa per formalità una domanda della quale è certa la risposta, le domandò che cosa ella desiderava in quel luogo dove non v'era chi potesse nulla rifiutarle.
«Son qui...» cominciò a rispondere Geltrude, ma nel momento in cui ella doveva manifestare con certezza un desiderio che era tutt'altro che certo nel suo cuore, nel momento in cui le sue parole dovevano decidere quasi irrevocabilmente del suo destino, il combattimento interno fu sì forte ch'ella non potè proseguire, e ristette un istante guardando come incantata la badessa, e la folla che la circondava.
Così guatando ella vide distintamente alcune delle sue compagne, e sulla parte che appariva di quelle faccette e più negli occhi un'espressione mista di malizia e di compassione, che diceva chiaramente: «Ah! c'è incappata la brava!» Questa vista le risvegliò in cuore tutta l'avversione al chiostro, l'orrore per la violenza che l'era fatta, e con questi sentimenti un lampo di coraggio.
E già ella stava cercando una risposta diversa da quella che si aspettava da lei, cosa troppo difficile a trovarsi in quella circostanza.
Alzò un momento gli occhi verso il padre che le stava di fianco, per indovinare che effetto avrebbe prodotto la sua resistenza, e come per esperimentare le proprie forze, ma vide negli sguardi del Marchese una espressione sì minacciosa, che tutto il suo coraggio svanì.
Pensò che la resistenza, che il ritardo, l'avrebbero resa innanzi a tanti occhi un oggetto di scandalo, di stupore, e di derisione, pensò al padre, al fratello, al mondo, al paggio; si consolò riflettendo che dopo quella formalità le rimaneva ancora una porta aperta per tornare indietro, che poteva guadagnar tempo, e che avrebbe saputo approfittarne; e il partito il più facile, il più sicuro, il meno terribile in quel momento le parve di dire, come fece: «Son qui a domandare d'essere ammessa a vestir l'abito».
Nel breve momento d'indugio ch'ella aveva posto a finir la sua frase un silenzio solenne aveva regnato fra gli astanti: le parole di Geltrude furono seguite da una acclamazione generale.
Chetato il tumulto, la badessa tutta sorridente, porse a memoria questa risposta che le era stata data in iscritto da un bell'ingegno di Monza, uomo dotto che aveva letti i celebri romanzi del Pasta: «Se il rispetto non ponesse un freno agli affetti, io accuserei in questa circostanza di troppo rigore quelle regole sapientissime che ci proibiscono di dare alcuna risposta a domande di questa natura prima di averne ottenuta la licenza.
Bensì senza riguardi, accuseremo il tempo che coi suoi lenti passi ci ritarda il momento di dare questa risposta desiderosa non meno che desiderata.
E voi, carissima figlia, con l'acume del vostro ingegno potrete intanto, dai segni esterni farvi indovina della decisione che potete aspettarvi da tutte le nostre suore; e da me umilissima superiora».
Le acclamazioni ricominciarono: e le suore sorrisero di compiacenza, e non a torto perché la gloria del capo si diffonde sugli inferiori.
La badessa, alla quale non era spiaciuto di aver molti uditori, pensò allora che la folla poteva essere incomoda, si rivolse ad una suora, e disse: «Ehi suor Eusebia, date un po', una voce alla fattora, perché faccia sparire tutto quel minuto popolo, e chiuda la porta di strada».
L'ordine fu dato ed eseguito: e il minuto popolo partì con dispiacere, ma con ammirazione.
Geltrude passava intanto dalle braccia della badessa a quelle d'una e d'un'altra suora; e ognuna le faceva un complimento, il quale aveva in tutte a un di presso lo stesso senso: - l'avevam sempre detto che sareste nostra -.
Passato quel primo impeto, la badessa pregò Geltrude e la famiglia di passare nel parlatorio.
A questa preghiera, le converse scesero dagli sgabelli, la folla si diradò, e la badessa con alcune delle anziane si avviò al parlatorio per l'interno del chiostro, mentre la famiglia milanese vi andava pel di fuori.
V'ha due modi di scendere il pendio della sventura: l'uno è di capitombolare ad un tratto nel precipizio, l'altro d'andarvi come saltelloni in più riprese: in questo secondo caso, ogni fermata è una specie di riposo; e l'intervallo che passa tra una caduta e l'altra è talvolta tutto occupato dalla speranza.
Geltrude sentì un certo sollievo d'essere uscita di quella stretta comunque ne fosse uscita, e corse tosto col pensiero a proporsi di volere prima di fare un altro passo meditar ben bene se le conveniva o no di progredire, e di non lasciarsi cogliere così alla sprovveduta.
Con questo pensiero ella fu condotta nel parlatorio.
Qui rinnovati i complimenti, la badessa pregò gli ospiti di aggradire alcune cosucce, ch'ella faceva porre nella ruota da una conversa; la quale dette il moto alla ruota, e ne rivolse la bocca verso il parlatorio esteriore.
Due secoli e più sono passati dopo quel giorno memorabile: così che noi crediamo di potere ormai senza indiscrezione manifestare che la ruota, rivolgendosi, offerse agli sguardi, ed alle mani degli ospiti un gran bacile di dolci squisiti, fabbricati di propria mano dalle suore malgrado gli ordini ecclesiastici, in allora recenti, che proibivano loro assolutamente un tale esercizio.
È da credersi che questi ordini non ottenessero un più grande effetto in progresso di tempo, giacché questa fabbricazione durò fino ai nostri giorni; il che non si accenna qui per censurare con indiscreta severità tutte le monache che si succedettero in questi due secoli; una tale censura sarebbe anzi a dir vero non solo indiscreta, ma perfidamente ipocrita, perché chi scrive ha mangiato egli stesso i dolci squisiti di fabbrica monastica, quando ha potuto averne.
Si parla soltanto di questo fatto, perché può dar luogo ad una osservazione piccante: che vi ha talvolta delle leggi che non sono eseguite.
Dopo un «oh!» come di sorpresa, dopo alquanto schermirsi, e lagnarsi d'esser trattati in cerimonia, il bacile fu manomesso, i dolci furono gustati con atti che esprimevano l'ammirazione, somme lodi furon date con sentimento molto, e rispinte con molta modestia.
Mentre la Marchesa e il Marchesino si abbandonavano con alcune suore alle varie riflessioni che può far nascere un bacile di dolci, e Geltrude era costretta di rispondere come poteva ai complimenti che altre suore le facevano, la madre badessa chiamò in disparte il Marchese ad un'altra grata.
«Signor Marchese...
per adempire alle regole...
per una pura formalità...
debbo dirle...
che ogni volta che una figlia domanda d'essere ammessa...
la Superiora, quale io sono indegnamente...
tiene obbligo di avvertire i parenti che se mai essi forzassero la volontà della figlia incorrerebbero nella scomunica...
Mi scuserà...»
«Benissimo, benissimo, reverenda madre; troppo giusto: lodo la sua esattezza.
Ma già ella non può dubitare...»
«Oh! Pensi, Signor Marchese; non sono pur cose da dirsi: ho parlato per mio dovere; ma s'immagini...»
«Certo, certo, madre badessa».
Finito il qual breve dialogo, i due interlocutori si separarono in fretta, come se fosse incomodo ad entrambi il continuarlo, e andarono a mescersi ognuno alla sua brigata.
Dopo alcuni altri complimenti, il Marchese si accomiatò, e Geltrude colle tenere espressioni della badessa, con le istanze delle suore di venir presto, fu rimessa in cocchio più stordita, più incerta, più sopra pensiero di quello che fosse partita la mattina, ma con un anello di più alla sua catena; e che anello!
Ma la badessa aveva ella qualche dubbio sulla libera elezione di Geltrude, o prestava fede intera alle parole materiali ch'erano uscite dalla bocca di lei? Il manoscritto non ne dice nulla; si perde invece a raccontare lunghissimamente dei particolari nojosi che noi ommettiamo, intorno ad alcune brighe del monastero, ad alcune rivalità, ad alcuni impegni, nei quali l'aver fra le suore una figlia di famiglia potentissima poteva essere un gran soccorso.
CAPITOLO IV
Appena cessati gl'inchini che dalla carrozza si dovevano fare in risposta alle riverenze delle suore che stavano sulla soglia a veder partire i signori, e la nuova sorella, appena messo in moto il cigolante carrozzone, Geltrude fu assalita da nuovi complimenti sul modo con cui si era portata, sul suo contegno, sull'ammirazione che aveva eccitato nelle monache, sul giubilo di queste per l'acquisto che facevano, e per conseguenza sulla felicità di che Geltrude avrebbe goduto in loro compagnia.
Ma tutti gli elogi non furono per Geltrude.
La Marchesa sbadigliando parlò con ammirazione della badessa: «Come s'è portata!» diss'ella «non mi aspettava tanto; ah! che contegno! aah! che dignità! aaah! che disinvoltura!»
«Sì, sì»: rispose il Marchese, «ma! Geltrude sarà altra cosa».
Il discorso sarebbe durato fino all'arrivo in città, se il Marchesino che ne era nojato non l'avesse troncato per parlare dei divertimenti che Geltrude doveva godere nell'intervallo fra la domanda e l'accettazione.
E qui come conoscitore espertissimo di tutto ciò che nella città e nei contorni era degno da vedersi, egli ne anticipò a Geltrude larghe e variate descrizioni; e le parlò di molte sposine ch'egli aveva incontrate nelle brigate, senza risparmiare la storia di qualche grossa semplicità di taluna di esse, che aveva molto dato da ridere.
Il Marchese lasciava chiaccherare il figlio, perché in questa faccenda egli aveva più da fare che da dire, e tutto ciò che gli risparmiava una occasione di discorso, lo toglieva da un impaccio: quanto alla Marchesa, malgrado i trabalzi che una carrozza di quei tempi dava in una strada di quei tempi, ella dormiva saporitamente: cosa che non sorprenderà chi sappia che cosa vuol dire essere svegliato tre ore prima del solito, e per occuparsi in cosa indifferente.
La Marchesa fu desta dal rimbombo dell'atrio di casa, e dall'improvviso fermarsi della carozza.
Scesi, e salite le scale, il Marchese intimò alla madre e alla figlia che prima del pranzo dovessero porsi in assetto per andar subito dopo a restituire la visita alle dame che avevano favorito la sera antecedente.
Detto e fatto; l'acconciatura, il pranzo, le visite si succedettero senza interruzione; e la solita conversazione terminò la giornata.
Dopo cena il Marchese pose in campo il discorso dei divertimenti che si dovevano dare a Geltrude, e delle conversazioni dove ella aveva ad esser presentata come sposina.
«Bisognerà pensare senza ritardo», soggiunse egli, «a scegliere per Geltrude una madrina degna della nostra casa».
La madrina, mio giovane lettore, era una dama incaricata di condurre la sposina ai divertimenti, alle conversazioni, di presentarla, e di vegliare sovr'essa.
Siccome il Marchese proferendo quelle ultime parole s'era voltato verso la Marchesa come invitandola a proporre la dama che le fosse paruta più a proposito (atto per parentesi che il Marchese faceva rarissimo) la Marchesa cominciò tosto: «Vi sarebbe...» «No no», interruppe il Marchese, «la prima condizione d'una madrina è ch'ella vada a genio della sposina; e benché l'uso universale e ragionevole dia questa scelta ai parenti, pure Geltrude ha tanto giudizio che merita che si faccia una eccezione per lei».
E qui rivolto a Geltrude col piglio di chi fa una grazia singolare, continuò: «Ognuna delle dame che avete visitate questa mattina, e di quelle che si sono trovate questa sera alla conversazione, ha le condizioni necessarie per esser madrina d'una figlia della nostra casa, e ognuna si terrà onorata di esser preferita: scegliete».
Geltrude incerta com'era, e stanca e indispettita dei passi che le si facevano fare sulla via del chiostro, non avrebbe voluto far nulla: ma la grazia era offerta con tanto apparato ch'ella s'avvide che il rifiuto sarebbe stato preso per un disprezzo; e nello stesso tempo non volle perdere quel qualunque vantaggio che le dava il potere scegliere.
Nominò dunque la dama che in quel giorno le era più dell'altre piaciuta, quella cioè che le aveva fatte più carezze d'ogni altra, che l'aveva lodata più d'ogni altra, che nell'accoglierla e nel conversare con lei le aveva mostrato tutto quell'aggradimento, quella famigliarità, quell'affetto che alle volte in una prima conoscenza imita i modi d'una antica amicizia.
La dama scelta da Geltrude aveva da lungo tempo fatto assegnamento sul fratello di Geltrude per farne il marito d'una sua figlia ch'ella amava assai.
«Ben scelto, ben scelto», disse il Marchese: «e Lei», proseguì verso la Marchesa, «andrà domani a farne la domanda alla dama; e si ricordi di dire che la scelta è stata fatta da Geltrude: che son certo che la dama aggradirà doppiamente la domanda».
Noi non terremo dietro a Geltrude nei divertimenti, e nelle conversazioni a cui fu condotta o strascinata; né racconteremo tutte le impressioni e i sentimenti dell'animo suo in queste spedizioni; poiché dovremmo ripetere tante volte la stessa cosa, quante furono le fluttuazioni, le risoluzioni, i pentimenti, i sì e i no della sua mente, che furono infiniti.
Talvolta la pompa degli addobbi, lo splendore delle feste, la musica che non esprime alcuna idea, e ne fa nascere a migliaja, quella esaltazione di gioja che appare negli uomini radunati per divertirsi, e per dir tutto le qualità auree di qualche giovane cavaliere che s'indovinavano al solo vederlo, le comunicava una certa ebbrezza, una specie di entusiasmo che le faceva proporre di soffrire ogni cosa piuttosto che di tornare all'ombra trista e fredda del chiostro.
Talvolta lo stordimento, la fatica, la seccaggine dell'udire e la contenzione del rispondere le faceva parer dolce quel silenzio e quella pace.
Si destava talvolta piena ancora delle immagini splendide del giorno trascorso; pensava al passo irrevocabile che stava per dare, e diceva tra sè: - Oh che sproposito! - si sentiva un coraggio a tutta prova, e prometteva di tornare indietro.
La presenza del padre, o del Marchesino, una cosa qualunque da farsi raffreddavano quel primo impeto; il quale alla sera si trovava talvolta cangiato in un pieno abbattimento.
Tornavano allora alla mente le difficoltà, si pensava allora che se anche resistendo si avrebbe potuto schivare il chiostro, non era da sperarsi il viver lieto del quale allora si gustava una parte: perché si era in colpa, perché tutta la bonaccia presente non era assicurata che da un perdono, e il perdono dalla risoluzione di pigliare il velo.
Come sarebbero andate le cose, se la risoluzione si fosse ritrattata? e con quali parole ritrattarla? come cominciare? da che? Geltrude ritirava lo sguardo da questo mare in tempesta, e rivolgendolo allora al chiostro, il chiostro le pareva un porto.
Coltivava ella allora i sentimenti pii che potevano far piacere il chiostro a chi l'avesse scelto volontariamente, e in quelli cercava di riposare.
Quando dopo questi momenti ella si trovava con la famiglia, o con altri, diceva spontaneamente e con aria di posata fermezza, parole che dovevano far credere che la sua scelta era liberissima.
Tutte le volte poi ch'ella era posta in una circostanza nella quale ciò ch'ella doveva fare o dire doveva essere un nuovo attestato di questa sua scelta, ella faceva e diceva ciò che lo poteva far credere, ciò che la impegnava sempre più.
Benché alcune volte in quelle circostanze, ella sentisse una manifesta ripugnanza all'impegnarsi davantaggio, quantunque ella vedesse chiaramente che ciò ch'ella stava per fare le rendeva più e più difficile il retrocedere, pure il dire o fare il contrario l'avrebbe posta tutt'ad un tratto in una situazione così dura e così difficile, ch'ella non poteva né pure pensare di farlo.
Ella era come chi trovandosi sur un ripido pendio, vedesse all'ingiù sotto di sè un picciol passo da farsi, e quindi un luogo di riposo, e volgendosi indietro per guardare alla via che bisognerebbe fare per risalire vedesse il principio d'una erta, lunga, dirotta, disastrosa.
E la povera Geltrude non dava passo che per discendere.
Ma siccome chi nuoce a se stesso nell'avvenire per timore di nuocersi nel momento presente, non vuol mai confessare a se stesso tutto il male che si fa, né darsi così tosto per perduto, e ad ogni male che si fa, si consola con l'idea d'un rimedio, così anche Geltrude aveva trovato nella via che le restava da percorrere un momento di più forte speranza.
Questo momento era quello dell'esame che un ecclesiastico deputato dal vicario delle monache doveva fare della sua vocazione; esame nel quale ella si sarebbe trovata sola con lui, e nel quale ella si teneva certa che qualche occasione si sarebbe offerta per potere svilupparsi da quel laccio, se laccio era, e in ogni caso, di conoscere ella stessa più chiaramente il suo animo, di deliberare sulla sua scelta più posatamente, più sicuramente, di quello che potesse fare coi parenti già risoluti senza deliberazione, e coi suoi pensieri troppo agitati, troppo confusi, troppo inesperti per deliberare.
Il momento che Geltrude desiderava non senza qualche terrore, il Marchese lo affrettava con istanze, perché, come si è detto, egli era uomo esperimentato, e sapeva che a volere che un affare sia spicciato, bisogna muoversi; e il momento venne.
Un bel mattino il Marchese annunziò a Geltrude che in quel giorno il Signor...
ecclesiastico mandato dal vicario delle monache, verrebbe ad esaminare la sua vocazione.
Ma come quella conferenza avrebbe avute conseguenze serie, e Geltrude vi doveva esser sola con l'ecclesiastico, così il Marchese stimò che fosse necessario aggiungere all'annunzio qualche avvertimento che lasciasse una impressione nell'animo della figlia, e le servisse di compagnia e di guardia nell'assenza forzata d'ogni altro custode.
«Orsù, Geltrude», diss'egli; «finora voi vi siete diportata da angelo: ora si tratta di coronar l'opera.
Oggi voi dovete fare un gran passo; pensate che da esso dipende l'onore di vostro padre, della famiglia, il vostro, e il vostro destino di tutta la vita.
Tutto quello che si è fatto finora, si è fatto di vostro consenso, anzi a vostra richiesta.
Se in tutto questo frattempo vi fosse nato qualche pentimento, qualche dubbio, avreste dovuto manifestarlo; ma ora, voi ben vedete che non è più tempo di far ragazzate.
Io mi sono impegnato, in faccia al mondo, e mi sono impegnato perché voi mi avete dato motivo di credere, di esser certo che poteva impegnarmi senza rischio di avere una smentita.
Ricordatevi che la più picciola esitazione che voi potreste mostrare oggi, mi porrebbe nella necessità di scegliere fra due partiti dolorosi: o di rinunziare alla mia riputazione, lasciando credere che io ho presa leggermente una leggerezza vostra per una ferma risoluzione, che ho fatte tante pubblicità senza riflessione...
che so io...
che ho preteso far violenza alla vostra vocazione...
o di svelare i veri motivi della richiesta che voi avete fatta, e del vostro pentimento.
Il primo partito non può assolutamente stare con ciò che debbo a me e alla casa.
Astretto di appigliarmi al secondo, dovrei anche poi trattarvi come una figlia colpevole, che avrebbe corrisposto al primo perdono con un'altra gravissima colpa...»
Il tuono solenne e misterioso con cui il Marchese aveva cominciato il suo discorso aveva già messa in apprensione Geltrude: e nella angoscia dell'aspettazione i tratti del suo volto erano immobili, tesi, ravvolti come le foglie d'un fiore nell'afa che precede la burasca: ma la gragnuola assidua e crescente di quelle parole minacciose percotendola, la abbattè affatto, e la fè sciogliere in uno scoppio di pianto.
«Via via...
che è stato?» disse avvedendosene il Marchese, il quale era in quella faccenda tanto occupato delle conseguenze che ella poteva avere per lui che non pensava che ella potesse toccare altri tanto sul vivo.
«Che è stato? io ho parlato in una supposizione impossibile...
pure doveva pensare anche ad un tal caso...
per quanto giudizio abbiate, io doveva mettervi in avviso sull'importanza delle risposte che oggi siete per dare.
Il Signor...
vi domanderà se la vostra risoluzione è libera, se i parenti non vi hanno comandato, consigliato...
che so io?...
ed io doveva avvisare di pesare ben bene la risposta, perché ella sia tale da non pormi nella necessità, di farne un'altra io, e...
ma via, via, le son ciarle; voi farete il vostro dovere da brava, come avete fatto finora; e non si parlerà tra di noi che di consolazioni.
Via non piangete, ricomponetevi, io vi lascio sola: rasserenatevi, non fate che il Signor...
vi trovi in uno stato che possa dare dei sospetti...
mi fido di voi».
Così dicendo partì, lasciando Geltrude a tutta l'agitazione che poteva dare un tal discorso ad una giovane del suo carattere in quella circostanza.
Geltrude pianse amaramente, si sdegnò, volle meditare su quello che aveva a dire; ma questa meditazione era così piena di dolori, di incertezze, e d'angustie, che la poveretta prescelse di divertirne a forza il pensiero, di rivolgerlo a qualche cosa di estraneo, e di aspettare il consiglio dalla cosa stessa e dal momento.
Ma qual si fosse il partito al quale ella dovesse appigliarsi nell'abboccamento, ella stessa sentiva ripugnanza e vergogna a presentarvisi in un aspetto che annunziasse una qualche perturbazione, e risolvette di avere un aspetto tranquillo e decente; e lo ebbe in brevissimo tempo.
Pretendono alcuni che le figlie d'Adamo riescano molto meglio a dominare l'espressione esterna del loro animo che l'animo stesso; e che in questa parte riescano meglio assai che non quegli individui del genere umano che si chiamano di preferenza uomini.
Ma tutte queste quistioni di paragone tra l'un sesso e l'altro, non saranno mai messe in chiaro, e né pure ben poste fin che gli uomini soli ne tratteranno ex professo negli scritti: giacché essi peccano tutti verso le donne o di galanteria adulatoria, o di ostilità grossolana.
Con questa osservazione non s'intende già di sprezzare temerariamente tante opere profonde che sono state scritte sul merito comparativo del bel sesso, e le riflessioni infinite e bellissime su questo argomento che sono sparse in tante altre opere; ma per quanto una materia sia stata egregiamente trattata, è sempre lecito di desiderare qualche cosa di più.
«Il Signor...!» A questo annunzio Geltrude balzò in piedi vergognosa, e agitata, facendogli le accoglienze che usano le persone vergognose e agitate.
Il Marchese lo accompagnava, e dato uno sguardo a Geltrude si ritirò: la madrina passò nella stanza vicina: la porta di comunicazione aperta in modo che ella potesse da quella vedere e non intendere.
I lettori d'una storia hanno il privilegio di conoscere i personaggi prima di vederli operare, di sentirli parlare; ed è questa una delle ragioni per cui la lettura d'una storia è molte volte più chiara e meno difficoltosa che la condotta negli affari della vita.
Per servire a questo privilegio noi diremo qualche cosa del Signor...
Era un buon uomo; e la bontà gli era sì naturale, che gli pareva la cosa la più naturale del mondo: siccome ve n'aveva sempre nelle sue intenzioni e nelle sue azioni, egli ne supponeva sempre nelle intenzioni e nelle azioni degli altri: nel che il buon uomo aveva torto.
Non vogliam dire con questo ch'egli avrebbe dovuto giudicare sfavorevolmente degli altri, supporre il male, attenersi a quell'indegno proverbio che dice, - chi pensa male pensa una volta sola -: ohibò: questo è un eccesso più comune, e peggiore.
Avrebbe dovuto lasciar di giudicare nelle cose che non lo toccavano; e in quelle nelle quali il suo giudizio doveva influire sulla sorte altrui, avrebbe dovuto sospenderlo fino a tanto che da un attento esame egli avesse potuto formarlo, buono o tristo, ma con quella maggior certezza che è data a quello stromento guasto che si chiama ragione umana.
Il caso di Geltrude mostrerà come egli avesse il torto di pensar bene prima di pensare.
Il Marchese parlandogli della figlia ch'egli aveva ad esaminare ne aveva esaltata la pietà, l'amore del ritiro, il desiderio di conservarsi nel chiostro per esser pura e santa.
Il Signor...
aveva creduto con gioja al primo momento tutte queste cose liete; e andava a far l'esame nel quale si trattava di decidere se la vocazione era vera o falsa colla prevenzione dolcissima ch'ella era vera: il buon uomo si consolava di avere a sentire l'espressione di un animo pio e fervente, di godere dello spettacolo di una buona risoluzione, mentre avrebbe dovuto pensare ad accertarsi se la risoluzione esisteva.
- Oh! - dirà taluno, - se egli non avesse creduto al Marchese, avrebbe dovuto supporre così di primo slancio che Geltrude era una finta, o il Marchese un tiranno impostore.
E doveva egli pensar così senza alcun fondamento? - Ohibò, di nuovo: non doveva pensar nulla; vi pare egli cosa tanto difficile? Ma per non averlo saputo fare, il buon uomo preparò l'animo suo nulla più che ad adempiere una cerimonia, una formalità, e faceva tutt'altro; e doveva saperlo.
Il Signor...
pregò Geltrude di riporsi a sedere, sedette, e vedendo in essa quella leggiera perturbazione ch'era da aspettarsi in quel caso, pensò di rincorarla con un modo scherzevole, e le disse: «Signorina, vedo che le fo paura: non me ne maraviglio: io vengo a fare la parte del diavolo; perché ella saprà che io debbo ora mettere in dubbio quella risoluzione che a lei forse pare certa, ferma, irrevocabile; io debbo ora farle guardare attentamente il rovescio della medaglia, al quale ella forse non ha mai pensato; io debbo interrogarla minutamente, per esser certo che ella non pigli qualche illusione per ispirazione».
«Signore», rispose Geltrude, realmente rincorata dalle parole e dal tuono del buon uomo, «io ho desiderato ardentemente questo abboccamento.
Da questo dipende la scelta della mia vita e io spero che da ciò che io sentirò da lei, da ciò che io le risponderò, verrò io stessa a conoscere più chiaramente quale sia la mia vocazione».
«Bene, bene», rispose con gioja e quasi con ammirazione il Signor...
«così mi piace.
Quelle proteste veementi, quelle affermazioni enfatiche alla prima sono talvolta fuochi di paglia; fervori di fantasia.
Per decidere bisogna dubitare, o fare come se si dubitasse.
La prego, per ora, si faccia forza: per quanto ella credesse di aver risoluto, torni da capo e si metta bene in testa che si tratta di risolvere ora.
Il mio dovere è d'interrogarla su molti capi, e si compiaccia di rispondermi con semplicità e con riflessione.
Come le è venuta questa risoluzione di abbandonare il mondo, e di farsi monaca?»
Se il buon ecclesiastico avesse avuta l'intenzione di aflliggere, di umiliare, e di confondere Geltrude, non avrebbe potuto scegliere una interrogazione più opportuna di questa: ma egli era ben lontano dal supporre l'effetto ch'ella doveva produrre, e l'aveva fatta nella semplicità del suo cuore, e per adempire alle regole del suo uficio, che la prescrivevano.
Geltrude rimase come colpita: che rispondere? parlare della cagione vera e primaria, raccontare l'istoria del paggio?...
Dio liberi! Quella storia ella voleva schivarla a tutto costo.
Ma tacendola, come spiegare la sua domanda di farsi monaca, e tutti i passi conformi a quella domanda? Addurre violenze, minacce dei parenti? Ma non ne avevano usate, e questa menzogna (giacché in quel momento Geltrude era disposta a farne una, e pensava solo a scegliere quella che l'avrebbe cavata più presto d'impaccio, e che non sarebbe stata scoperta in seguito) questa menzogna avrebbe certamente cagionata una spiegazione, che sarebbe tutta tornata in disonore di Geltrude.
Che s'ella avesse attribuita la sua risoluzione al desiderio di compiacere ai parenti, ai loro consigli, a leggerezza propria, la spiegazione diventava pure inevitabile; e in quel momento le parole che Geltrude aveva intese poco prima dal padre, le ripassarono in processione nella memoria.
Le parve dunque che il solo mezzo per uscire da quel gineprajo fosse di dare una risposta che piacesse all'interrogante, e al padre, che non lasciasse oscurità né punti da discutere nell'avvenire: sentì che per dare una tal risposta bisognava mostrare che la risoluzione fosse tuttavia ferma; vide le conseguenze, ma ci si risolse.
Avvezza com'era a trarsi dalle circostanze difficili con ripieghi che la ponevano in circostanze più difficili ancora, a consumare per dir così il tempo avvenire per vivere in quel momento, ella cedette all'abitudine, e alla difficoltà, mentì contra se stessa, e disse: «È la mia vocazione: fino dai miei primi anni io mi sono sentita inclinata a servir Dio nel chiostro lontano dai pericoli e dalle cure del mondo».
Queste parole furon porte con l'apparenza della più ferma persuasione; e l'indugio ch'ella aveva posto al rispondere, parve al Signor...
un segno una prova di riflessione posata.
E in quel momento furon contenti ambedue: egli di vedere una così buona disposizione, ella di essere uscita d'impaccio come che fosse.
Da quel momento Geltrude non pensò nelle altre risposte che a confermare la prima; e edificò il Signor...
oltre ogni sua speranza.
Quando egli le chiese se i parenti non avessero usate minacce o troppo instanti preghiere per determinarla alla scelta dello stato religioso...
«No no»; rispose con vivacità Geltrude: «i miei parenti desiderano certo che io sia monaca; ma mi hanno lasciata libera, mi hanno lasciata libera».
Il Signor...
si scusò di averle fatta una simile interrogazione.
«Il Signor Marchese», diss'egli, «quel cavaliere così degno! s'immagini s'io posso pensare di lui una cosa simile! ma, io ho fatto il mio dovere, per quanto strano mi paresse in questa circostanza».
L'esame finì con le giulive congratulazioni del Signor..., il quale come per iscaricarsi la coscienza di aver fatto qualche cosa per distorre un'anima buona da un pio proponimento, le disse tutto ciò che gli suggeriva il suo zelo cordiale per confermarla in quello; e partì con la persuasione di non aver mai trovata un'anima così ben disposta.
Del resto noi siamo ben lontani dal dare l'unica colpa, e nemmeno la primaria della riuscita di quell'esame all'ingegno corrivo del buon uomo.
Coi tristi antecedenti di Geltrude, e col suo carattere, la cosa doveva avere a un di presso quell'esito, qualunque fosse l'esaminatore.
Geltrude, ancor più fortemente compresa dall'idea del pericolo che avea passato, che dal pensiero dell'impegno che avea preso, corse tosto dal Padre.
Questi era in uno stato di aspettazione inquieta: ma Geltrude tutta commossa (le commozioni si scambiano facilmente non solo da chi le osserva, ma da chi le prova) gli raccontò frettolosamente l'esito della conferenza; e il Marchese respirò.
Le fece animo, la colmò di lodi, la soffocò di promesse; tutto questo con una eloquenza di tenerezza sentita; giacché in quel punto egli era lieto non solo di avere ottenuto il suo fine; ma le parole di Geltrude sembravano di chi ha liberamente scelto, ed è contento della sua scelta; e la benevolenza per chi fa quello che uno desidera, in modo da togliergli ogni inquietudine ed ogni rimorso, è una virtù concessa a tutto il genere umano.
Da quel giorno in poi Geltrude non ebbe più che due occupazioni; l'una interiore, ed era di persuadere a se stessa ch'ella era contenta della sua scelta, di fermarsi quanto più poteva su le immaginazioni che potevano renderle gradevole il monastero, di cercare un po' nella divozione, un po' nel pensiero delle distinzioni che vi avrebbe avute, consolazioni, celesti o mondane, tutto purché fosse consolazioni.
L'altra occupazione era di accelerare quanto più si poteva tutte le operazioni preliminari alla vestizione, per uscir di casa, per esser chiusa una volta, per precludersi ogni strada al tornare addietro, per non sentirsi più nascere in cuore quell'intollerabile: - potrei forse ancora -.
Questo suo desiderio s'accordava troppo con quelli del Marchese perch'egli non cercasse ogni via di soddisfarlo; e in fatti egli sollecitò a tempo e a contrattempo tutte le dispense per far presto.
Così mi sembra che sarà bene che facciamo pur noi in questo racconto.
Diremo dunque che Geltrude entrò nel monastero di Monza, e che assunse l'abito; che scorso il tempo del noviziato nel quale la sua risoluzione parve sempre più spontanea e ferma, perché ella mostrava tutto ciò che poteva farlo credere, e divorava nel suo cuore tutto ciò che avrebbe potuto far credere il contrario, trascorso questo tempo, ella fece la solenne professione, con una pompa straordinaria, e quale si conveniva alla casa.
Il sacrificio fu consumato, il dono fu posto su l'altare, ma era di frutti della terra; la mano che ve lo aveva posto non era monda; il cuore non lo offriva; e lo sguardo del cielo non discese sovr'esso.
È uno dei caratteri più ammirabili e più divini della religione cristiana, di potere in qualunque circostanza dare all'uomo che ricorra ad essa, un rimedio, una norma, e il riposo dell'animo.
Quegli stesso, che per violenza altrui o per suo fallo, o per sua malizia s'è posto in una via falsa può ad ogni momento approfittare di questi beneficj.
Poiché, se la via ch'egli ha intrapresa è iniqua, la religione glielo fa conoscere, gli dà l'idea chiara ed assoluta del dovere ch'egli ha di ritrarsene, e la forza di farlo, che che ne possa conseguire; e se la via è soltanto difficile, pericolosa, spiacevole, ma senza adito al ritorno, da questa stessa dura necessità di proseguire in essa, la religione cava un motivo e dei mezzi per renderla regolare, praticabile, sicura, diciamolo pure arditamente, soave e deliziosa.
Disapprovando i motivi che l'hanno fatta intraprendere, perché erano falsi, essa ne somministra un altro nuovo ed inconcusso per continuarla, e dà ad una scelta temeraria o infelice ma irrevocabile, tutta la santità, tutti i conforti, tutta la sapienza della vocazione.
Con quest'ajuto Geltrude a malgrado della perfidia altrui, e dei suoi errori d'ogni genere avrebbe potuto divenire una monaca santa, e contenta: e il secolo stesso anzi l'età in cui ella visse ha dato esempj dei quali si è conservata la memoria, di donne che strascinate al chiostro con l'arte e con la forza, e dopo d'essersi per alcun tempo dibattute come vittime sotto la scure, vi trovarono la rassegnazione e la pace; una pace quale si trova di rado negli stati eletti più liberamente.
Che dico? Geltrude stessa fu uno di questi esempj, e insigne; ma ben tardi e dopo aver commessi ben altri errori anzi delitti, dopo sofferta ben altra forza che quella di cui abbiamo parlato.
Ma per non precorrere ora agli eventi col racconto, diremo che Geltrude dopo la sua professione, continuava ad opporre nel suo cuore un ostacolo ai rimedj e alle consolazioni che la religione avrebbe date alla sua sciagurata condizione: e questo ostacolo erano le consolazioni ch'ella andava cercando altrove, e particolarmente nelle cose che potevano lusingare il suo orgoglio.
Il lettore non avrà forse dimenticato che la famiglia onde usciva Geltrude era molto potente, e che questa era la cagione principale per cui ella era stata tanto desiderata nel monastero.
In fatti il monastero aveva acquistato nel marchese Matteo un protettore dichiarato il quale risguardava ormai come parte del suo onore l'onore del luogo dove si trovava una sua figlia.
Ma questo vantaggio le suore lo pagavano, e per verità la cosa era giusta.
Lo pagavano in tanti sgarbi, in tanti scherni, in tante fantasticaggini che avevano a sopportare da Geltrude, la quale, ricordandosi di tempo in tempo delle arti usate da quelle per ajutare a tirarla in quel luogo dove di tempo in tempo ella non si poteva patire, si sfogava avventando beccate agli uccelli che avevano cantato per farla venire nella loro gabbia.
E queste beccatelle le suore le toccavano senza risentirsene, per non perdere tutto il frutto del loro acquisto.
Geltrude vedendosi così distinta, così sopportata, tanto più libera delle altre provava talvolta un certo conforto iracondo nel valersi di questi vantaggi, e nell'esercitare in tal modo la sua superiorità.
Una superiorità d'un altro genere era pure per essa una occasione continua di cercare consolazioni nell'amor proprio, ed era la sua bellezza: ma quali consolazioni, per amor del cielo! pari a quelle che provava Robinson nella sua isola in contemplare le monete ch'egli aveva trovate nei frantumi del vascello sul quale era naufragato.
Anzi non pari, perché quel solitario le gettò in disparte con disprezzo, dopo d'aver fatto ad esse un'apostrofe su la loro inutilità, e non vi pensò più; ma la bellezza era per Geltrude un rodimento continuo, una occasione di regressi affannosi nel passato, e di sguardi disperati nell'avvenire.
Ben è vero che ella si andava paragonando con le altre, e si trovava più bella, ch'ella rideva di tratto in tratto, e si sarebbe creduto ch'ella ridesse di voglia, degli occhi sciarpellati della madre badessa, e del mento incartocciato della madre celleraria, ma in verità che quel riso non lasciava alla poveretta il dolce in bocca.
Spendeva una parte del suo tempo nell'adornarsi come poteva, e così ingannava alcun poco la sua noja; cercava di ridurre l'abbigliamento monastico alle fogge secolaresche, o di accordarlo all'aria del suo volto, e a dir vero questo le riusciva facilmente perché la natura le aveva dato un volto che per poco che gli si lavorasse attorno stava bene.
Per far questo aveva Geltrude trovato un mezzo molto ingegnoso.
Gli specchj come ognun sa erano proibiti nei chiostri come i lumi nelle polveriere, e Geltrude nei primi tempi non osava ancora, come fece in appresso, conculcare tutte le regole; ma la infelice scaltrita aveva fatta porre dietro ad un quadretto ch'ella teneva appeso nella sua camera una lastra di latta levigatissima, e a quella si consultava segretamente.
Ma quando dalle sue consulte ella aveva conchiuso che anche in quell'abito ella era avvenente assai, quand'anche ella se lo udiva ripetere dalle più mondane o dalle più adulatrici fra le sue compagne, il suo cuore ne rimaneva tutt'altro che soddisfatto.
E quando poi il suo cuore le rinfacciava anche quella poca parte di piacere così mescolato e corrotto ch'ella aveva gustato, ella sentiva più rabbia che pentimento.
Così la meschina si precludeva l'adito alle consolazioni reali di cui il suo stato era ancora capace, perché per giungere a quelle la prima condizione è di non curare il resto; come il naufrago, che vuole afferrare la tavola galleggiante che può condurlo in salvamento sulla riva, deve pure sciogliere il pugno e abbandonare le alghe e gli sterpi nuotanti che aveva abbrancati, per una rabbia d'istinto.
Ad essere badessa si richiedeva l'età di quarant'anni; e quest'erba, per magra che fosse, era pure anco ben lunge dal becco di Geltrude.
Ma oltre le distinzioni e le franchigie per così dire ch'ella godeva per la condiscendenza delle suore, e delle superiore, le era tosto stato conferito il grado più elevato che fosse compatibile con la sua giovinezza: era stata eletta Maestra delle educande.
E per una distinzione singolare le erano state assegnate due giovani suore converse, le quali erano come ai suoi servizj, quasi damigelle.
Quel posto era per Geltrude una occasione continua di esercitare le passioni più pericolose ch'ella covava.
Fra le educande che le erano state affidate si trovavano ancora alcune di quelle che le erano state compagne, e Geltrude così vicina ad esse di età non aveva ancora dimenticati i risentimenti e le rivalità puerili del sodalizio: ed ora gli sfogava talvolta con tutta la forza che le dava la sua autorità.
Nei momenti spesso assai lunghi di tristezza e di pentimento dello stato che aveva abbracciato, ella provava un certo rancore contra quelle giovanette destinate per la più parte ad una vita libera e splendida che non era più per lei; le risguardava come nemiche, le spiaceva di vederle liete d'una letizia che non era sperabile per essa, e faceva di tutto per toglierla loro, cosa assai facile ad una superiora.
Sentiva ella bene la pazza ingiustizia di questa sua passione, ma vi si abbandonava.
E in quei momenti, poverette quelle educande! Talvolta dopo d'aver lasciato tornare indietro il suo pensiero nei diletti del mondo, dopo avervelo lasciato riposare per lungo tempo, ella ne sorprendeva alcune che parlavano fra di loro di ciò ch'ella aveva pensato, e allora chi l'avesse udita sgridarle ferocemente, l'avrebbe creduta invasa d'uno zelo inconsiderato, e d'una staccatezza indiscreta e antisociale.
Talvolta invece predominava nell'animo suo l'orrore al chiostro, alle regole, alla disciplina, all'obbedienza, alla solitudine, a tutte quelle cose in mezzo delle quali ella si trovava per forza, e allora non solo ella sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma la animava; si mesceva ai loro giuochi, e gli rendeva più liberi; entrava nei loro discorsi, e gli portava al di là delle intenzioni con le quali esse gli avevano incominciati.
In queste agitazioni, in questo stato di guerra continua con se stessa, e con ogni cosa circostante ella passò i primi anni del chiostro, non senza qualche ritorno di divozione, e di regolarità temporaria, dal quale ricadeva ben presto nelle sue abitudini predominanti.
Questa vita di noja e di contrasto era tanto penosa, che, senza forse esserne ben conscia a se stessa, ella si trovava disposta ad abbracciare qualunque distrazione, qualunque cangiamento di sensazioni fosse stato possibile.
Ma la clausura, le grate, le regole, la facevano camminare con una regolarità esteriore; i suoi pensieri soltanto vagavano in piena licenza; ma non v'era una occasione per concedere impunemente, o con lusinga d'impunità una simile licenza alle sue azioni.
Finalmente la sventura di Geltrude volle che l'occasione si presentasse; e Geltrude si portò in quella come era da temersi, e come diremo nel seguente capitolo.
CAPITOLO V
Il quartiere dove abitavano le educande e con esse Geltrude e le sue damigelle, era annesso al monastero, ma appartato, e comunicava con esso per mezzo d'un corridojo.
Era un cortiletto quadrato, ricinto a terreno da un porticato continuo, sul quale per tutti e quattro i lati girava un basso ed unico piano di abitazione.
Il lato appoggiato a quella parte del chiostro ove dimoravano le suore, era un lungo stanzone, che serviva alla scuola ed alla ricreazione delle educande; un altro lato era occupato pure da un lungo stanzone che serviva di dormitorio: il terzo diviso in varie camere era l'appartamento della Signora e delle sue damigelle; il quarto finalmente più stretto degli altri era tenuto dal corridojo che conduceva nell'interno del chiostro, il quale abbracciava il cortiletto da tre lati.
L'altro, e appunto quello occupato dall'appartamento di Geltrude, era contiguo ad una casa privata e signorile, o per meglio dire ad una parte rustica e non finita di quella casa.
Era dessa elevata al di sopra del quartiere delle educande, ma quello che se ne poteva vedere da quindi pareva piuttosto una catapecchia, un casolaraccio, che una parte di casa civile: erano tetti e tettucci diseguali di altezza e di forma soprapposti l'uno all'altro come a caso.
Ma in uno di quei tetti v'era un pertugio, un abbaino, che dava luce ad un solajo, e adito a passare su quei tetti, e dal quale si poteva guardare nel cortiletto delle educande.
Era severamente prescritto alle monache dagli ordini ecclesiastici, che dovessero togliere ai vicini ogni vista nel loro chiostro; ma o fosse che, per essere quella parte di casa disabitata, le monache non avessero mai badato a quel pertugio, o fosse che la spesa per liberarsi da quella servitù eccedesse la possibilità del monastero, o che non si potesse venirne a capo senza quistioni, il fatto è che da quel pertugio si guardava nel cortiletto delle educande; e un altro fatto assai tristo si è che il padrone di quella casa era un giovane scellerato: e questa parola applicata ad un uomo di quei tempi ha un senso molto più forte di quello che generalmente vi s'intende nei nostri; perché a quei tempi tante cagioni favorivano la scelleratezza, che in coloro i quali vi si distinguevano, ella giungeva ad un segno del quale grazie a Dio, non si può avere una idea dalla esperienza comune del vivere presente.
I mezzi d'impunità erano allora varj ed infiniti; la frequenza dei delitti ne aveva diminuito il ribrezzo e la vergogna: gli animi erano avvezzi ed allevati per dir così nel sangue: da questi fatti era nato un pervertimento quasi generale nelle idee, e allo stesso tempo la perversità delle idee rendeva quei fatti più comuni, e più tollerati.
La vendetta, per esempio, era comunemente stimata non solo lecita, ma onorevole, ma comandata in alcuni casi; e benché i ministri della religione non l'avessero mai fatta piegare nelle istruzioni pubbliche a questa massima perversa, benché non avessero anzi cessato giammai di inveire contra la vendetta e contra le massime che la autorizzavano, pure l'opinione quasi generale del mondo sussisteva col favore di una distinzione che a malgrado della sua assurdità, o forse a cagione della sua assurdità non è ancora del tutto caduta in disuso: si diceva che i preti facevano il loro dovere, che dicevano benissimo, che la vendetta secondo la religione era viziosa, ma ch'ella era un dovere secondo le leggi dell'onore: così si diceva e non dai più perversi, né dai più stolti.
Ora queste leggi dell'onore erano in allora molto draconiane; e domandavano sangue per molti casi; senza che questo onore così delicato si stimasse poi offeso, se per necessità, il sangue si fosse dovuto versare a tradimento, o per mano di sicarj.
Ne veniva di conseguenza che gli omicidj erano molto frequenti, che uno commesso diveniva causa di un altro, e così all'infinito, e che l'orrore al sangue si diminuiva con l'abitudine, anche negli uomini che non erano sanguinari, e che si era formato come un sentimento universale che una certa misura di animosità, di crudeltà e di delitti fosse una condizione necessaria inevitabile della società; chi avesse detto che quello era un male temporario, e speciale sarebbe stato deriso come un ottimista, un utopista, un sognatore metafisico: appena uno si sarebbe degnato di rispondergli: «gli uomini sono sempre stati e saranno sempre così».
Portate le idee comuni a questo punto di licenza in molti, e di tolleranza e di rassegnazione in quasi tutti gli altri, egli è chiaro che gli uomini i quali avevano una tendenza distinta alla perversità, per giungere al colmo di essa, pigliavano le mosse da un punto ben più avanzato, ben più vicino al termine che non sieno le idee comuni dei nostri giorni; trovavano meno ostacoli e più incitamenti che ai nostri giorni a giungervi, e vi giungevano.
L'omicida ai nostri giorni, quand'anche fosse impunito sarebbe un oggetto di orrore, oggetto forse di più profondo orrore sarebbe chi senza commettere l'omicidio di propria mano ne avesse dato l'ordine ed il prezzo; e tali rei, oltre le pene legali, dovrebbero temere di perdere tutte le dolcezze della comune società.
Quindi l'uomo, che in qualunque condizione, aspira a goderle, ha pure da questo lato un freno potente.
Ma allora v'erano molti casi in cui l'avere ucciso, o fatto uccidere non toglieva alla riputazione d'un uomo: l'omicida volontario era ammesso a giustificarsi e a render ragione dinanzi alla opinione pubblica: non si trattava che di provare che il caso richiedeva l'omicidio, che il delitto era una azione tollerata, o prescritta dalle leggi della opinione stessa.
La speranza di poter fare questa giustificazione, dinanzi ad una opinione già tanto perversamente indulgente, e di farla accettare col terrore doveva essere, ed era uno stimolo ai tristi potenti per correre allegramente la loro via.
Bastava quindi un leggero interesse, una picciola passione a spingere anche i meno tristi fra i tristi ad attentati, ai quali ora si risolverebbero a fatica gli uomini i più avvezzi al delitto, benché vi fossero tratti da un interesse molto maggiore, da una passione molto più violenta.
Sarebbe un soggetto degno di curiosità, la ricerca delle cagioni per cui quelle idee e quei costumi, dopo aver regnato per troppe età in quasi tutte le nazioni d'Europa, sieno poi stati da migliaia di scrittori, e da milioni di parlanti attribuite poi esclusivamente agli Italiani.
Ma noi invece di avviarci in una nuova digressione, ne abbiamo ora una, e anzi lunghetta che no, da farci perdonare: torniamo quindi alla storia.
Il padrone della casa contigua al quartiere delle educande, era dunque un giovane scellerato: e si chiamava il signor Egidio: perché di cognomi, come abbiam detto, l'autor nostro è molto sparagnatore.
Suo padre, uomo dovizioso bastantemente non aveva avuta altra mira nell'educarlo, che di renderlo somigliante a se stesso: ora egli era un solenne accattabrighe: Egidio non aveva quindi sentito dall'infanzia a parlar d'altro che di soddisfazioni e di fare stare, non aveva veduto quasi altro che schioppi e pugnali; e dalle braccia della nutrice era passato in quelle degli scherani.
La madre, ch'era di un carattere mansueto e pio, avrebbe potuto forse temperare in parte questa educazione ma ella era morta lasciando Egidio nella infanzia, dopo una lenta malattia cagionata dai continui spaventi.
Il padre fu ucciso dopo una brevissima quistione da un suo emolo membro di una famiglia emola della sua da generazioni; ed Egidio restò solo e padrone nella giovinezza.
La prima sua impresa fu di risarcire l'onore della famiglia, con una schioppettata nelle spalle dell'uccisore di suo padre.
Questa impresa però lo pose da quel momento in un continuo pericolo; e per assicurarsi, egli dovette crescere il numero de' suoi bravi, e non camminar mai che in mezzo ad un drappello.
Suo padre aveva non solo nel paese, ma altrove amici assai, e conformi a lui di massime e di condotta: Egidio gli ereditò tutti, e gli coltivò, tanto più che aveva bisogno della loro assistenza.
Ma i garbugli e il macello non piacevano a lui, come al padre, per se medesimi: l'educazione lo aveva addestrato a non temerli, e a corrervi anzi ogni volta che un qualche fine ve lo spingesse: ma non erano un fine, un divertimento, un bisogno per lui.
La sua passione predominante era l'amoreggiare; a questa si abbandonava con quelle precauzioni però che esigeva lo stato di guerra in cui egli si trovava, e per questa egli veniva ai garbugli ed al macello, quando non si poteva fare altrimenti.
L'abbaino che guardava nel cortiletto del chiostro non era frequentato da nessuno tanto che visse il padre, il quale non si curava di spiare i fatti delle educande.
Soltanto egli vi aveva condotto una volta Egidio adolescente, per fargli osservare che quello era un dominio sul chiostro; e quivi stendendo la mano sui tetti sotto posti, come Amilcare sull'ara, aveva fatto promettere a quel picciolo Annibale che mai in nessun tempo egli non avrebbe sofferto che le monache si togliessero quella servitù.
Egidio divenuto padrone, si risovvenne dell'abbaino, e gli parve un dominio assai più importante che suo padre non lo aveva creduto.
Un consorzio di donzellette, le quali non eran tutte bambine, parve a colui uno spettacolo da non trasandarsi quando lo aveva così a portata; e la santità del luogo, il riserbo con cui eran tenute, l'innocenza loro, tutto ciò che avrebbe dovuto essere freno, fu incentivo alla sua sfacciata curiosità, la quale non aveva disegni già determinati, ma era pronta a cogliere e a far nascere tutte le occasioni.
Si affacciava egli dunque all'abbaino con quella frequenza e con quella libertà, che non bastasse a farlo scoprire da chi non avrebbe voluto.
Nelle ore in cui Geltrude non faceva guardia alle educande, e queste ore tornavano sovente, gettò egli gli occhi sopra una delle più adulte, e trovato il terreno dolce, si diede a chiaccherellare con essa: ma pochi giorni trascorsero, che quella, fidanzata dai suoi parenti ad un tale, fu tolta dal monastero, e così la tresca finì, senza che nessuno l'avesse avvertita.
Egidio animato da quel primo successo, ed allettato più che atterrito dalla empietà del secondo pensiero, ardì di rivolgere e di fermare gli occhi e i disegni sopra la Signora; e si diede ad agguatarla.
Un giorno mentre le educande erano tutte congregate nella stanza del lavoro con le due suore addette ai servigi della Signora, passeggiava essa sola innanzi e indietro nel cortiletto lontana le mille miglia da ogni sospetto d'insidie, come il pettirosso sbadato saltella di ramo in ramo senza pure immaginarsi che in quella macchia vi sia dei panioni, e nascosto dietro a quella il cacciatore che gli ha disposti.
Tutt'ad un tratto sentì ella venire dai tetti come un romore di voce non articolata la quale voleva farsi e non farsi intendere, e macchinalmente levò la faccia verso quella parte; e mentre andava errando con l'occhio per quegli alti e bassi, quasi cercando il punto preciso donde il romore era partito, un secondo romore simile al primo, e che manifestamente le apparve una chiamata misteriosa e cauta, le colpì l'orecchio, e la fece avvertire il punto ch'ella cercava.
Guardò ella allora più fissamente per conoscere che fosse; e i cenni che vide non le lasciarono dubbio sulla intenzione di quella chiamata.
Bisogna qui render giustizia a quella infelice: qual che fosse fin'allora stata la licenza dei suoi pensieri, il sentimento ch'ella provò in quel punto fu un terrore schietto e forte: chinò tosto lo sguardo, fece un cipiglio severo e sprezzante, e corse come a rifuggirsi sotto quel lato del porticato che toccava la casa del vicino, e dove per conseguenza ella era riparata dall'occhio temerario di quello: quivi tirando lunghesso il muro, rannicchiata e ristretta come se fosse inseguita, si avviò all'angolo dov'era una scaletta che conduceva alle sue stanze, vi salse, e vi si chiuse, quasi per porsi in sicuro.
Posta a sedere tutta ansante, fu assalita da una folla di pensieri: cominciò prima di tutto a ripensare se mai ella avesse dato ansa in alcun modo alla arditezza di colui, e trovatasi innocente, si rallegrò: quindi detestando ancora sinceramente ciò che aveva veduto, se lo andava raffigurando e rimettendo nella immaginazione per venire più chiaramente a comprendere come, perché ciò fosse avvenuto.
Forse era equivoco? forse l'aveva egli presa in iscambio? Forse aveva voluto accennare qualche cosa d'indifferente? Ma più ella esaminava, più le pareva di non avere errato alla prima, e questo esame aumentando la sua certezza, la andava famigliarizzando con quella immagine, e diminuiva quel primo orrore e quella prima sorpresa.
Cosa strana e trista! il sentimento stesso della sua innocenza le dava un certa sicurtà a tornare su quelle immagini: ella compiaceva liberamente ad una curiosità di cui non conosceva ancora tutta l'estensione, e guardava senza rimorso e senza precauzione una colpa che non era la sua.
Finalmente dopo lunga pezza ella si levò come stanca di tanti pensieri che finivano in uno, e desiderò di trovarsi con le sue educande, con le suore, di non esser sola.
Esitò alquanto su la strada che doveva fare: ripassando pel cortiletto, ella avrebbe potuto lanciare un guardo alla sfuggita dietro le spalle su quei tetti per vedere se colui era tanto ardito da trattenervisi, e così saper meglio come regolarsi..., ma s'accorse tosto ella stessa che questo era un sofisma della curiosità, o di qualche cosa di peggio, e senza più esitare, s'avviò pel dormitorio alla stanza dove erano le educande: qui, o fosse caso o un resto di quella esitazione ella si affacciò ad una finestra che aveva dirimpetto appunto quei tetti, vi guardò, vide il temerario che non si era mosso, partì tosto dalla finestra, la chiuse, e uscì da quella stanza dicendo in fretta alle educande con voce commossa: «lavorate da brave»; e se ne andò difilato a passeggiare nel giardino del chiostro.
L'atto repentino, e la commozione della voce non diedero nulla da pensare né alle educande né alle suore, avvezze le une e le altre agli sbalzi frequenti dell'umore della Signora.
Ma ella stava peggio nel giardino che già non fosse nelle sue stanze.
Le venne un pensiero, che avrebbe dovuto avvertire dell'accaduto chi poteva opporsi a tanta temerità.
- Ma; e se mi fossi ingannata? - Questo dubbio non le veniva che allor quando la manifestazione di ciò che aveva veduto le si presentava alla mente come un dovere.
- Prima di parlare - diceva fra sè - voglio esser certa; troverò il modo di farlo con prudenza.
E finalmente - concluse fra sè in un accesso di passioni diverse - finalmente che colpa ci ho io? questo monastero non l'ho piantato io qui vicino a questa casa.
Così non foss'egli stato piantato in nessun angolo della terra! Dovevano pensarvi quelle che sono venute a chiudervisi di loro voglia.
Vada come sa andare.
Io non voglio pensarci.
Queste parole volevano dire, forse senza che Geltrude stessa lo scorgesse ben chiaro, che d'allora in poi ella non avrebbe pensato ad altro.
Il nostro manoscritto, segue qui con lunghi particolari il progresso dei falli di Geltrude; noi saltiamo tutti questi particolari, e diremo soltanto ciò che è necessario a fare intendere in che abisso ella fosse caduta, e a motivare gli orribili eccessi d'un altro genere, ai quali la strascinò la sua caduta.
L'assedio dello scellerato Egidio non si rallentò, e Geltrude cominciò a mettersi sovente nella occasione di mostrargli ch'ella disapprovava le sue istanze, quindi passando gradatamente dalle dimostrazioni della disapprovazione a quelle della non curanza, da questa alla tolleranza, finalmente dopo un doloroso combattimento si diede per vinta in cuor suo, e con quei mezzi che lo scellerato aveva saputi trovare e additarle lo fece certo della sua infame vittoria.
Cessato il combattimento, la sventurata provò per un istante una falsa gioja.
Alla noja, alla svogliatezza, al rancore continuo, succedeva tutt'ad un tratto nel suo animo una occupazione forte, gradita, continua, una vita potente si trasfondeva nel vuoto dei suoi affetti; Geltrude ne fu come inebbriata; ma era la coppa ristorante che la crudeltà ingegnosa degli antichi porgeva al condannato per invigorirlo a sostenere il martirio.
L'avvenire gli apparì come pieno e delizioso.
Alcuni momenti della giornata spesi a quel modo, e il resto impiegato a pensare a quelli, ad aspettarli, a prepararli gli sembrò una esistenza beata, che, non lascerebbe né cure, né desiderj; ma le consolazioni della mala coscienza, dice il manoscritto, profittano altrui come al figliuolo di famiglia le somme ch'egli tocca dall'usurajo.
L'accecamento di Geltrude e le insidie di Egidio s'avanzavano di pari passo, e giunsero al punto che il muro divisorio non lo fu più che di nome.
Già prima di arrivare a questo estremo, nel carattere di Geltrude era accaduto un gran cangiamento, tutte le inclinazioni viziose che vi erano come addormentate si risvegliarono più forti e più adulte, e a tutte queste si aggiunse l'ipocrisia.
Cominciò ella nei primi momenti a divenire più attenta nell'esteriore, più regolare, più tranquilla; cessò dagli scherni, e dal rammarichio; di modo che le suore si congratulavano a vicenda della mutazione felice.
Ma quando all'effetto naturale del fallo si aggiunse la scuola viva e diretta dello scellerato giovane, ognuno può immaginarsi quali diventassero le idee di Geltrude.
Tutto ciò che era dovere, pietà, morigeratezza era già da gran tempo associato nella sua mente alla violenza ed alla perfidia, ed aveva un lato odioso e sospetto: i ragionamenti che tendevano a mostrare che tutto ciò era una invenzione dell'astuzia, un'arte per godere a spese altrui, accolti dal cuore e presentati all'intelletto, furono ricevuti in esso come amici savj e sinceri.
Vi ha nelle teorie del vizio qualche cosa di più pensato, di più profondo, di più verosimile che non appaja nelle massime del dovere espresse in un modo volgare e talvolta inesatto: di modo che il pervertimento può parere facilmente un progresso di ragione.
Ben è vero che al di là di quelle teorie ve n'ha una più profonda e vera che mostra la loro fallacia; ma questa non è dato trovarla se non ad una meditazione potente, o ad un sentimento retto; ma Geltrude non aveva né l'uno né l'altro di questi ajuti.
Ella fu dunque una docile e cieca discepola, e conobbe e ricevè tutte quelle idee generali di perversità a cui l'ignoranza e la irriflessione di quei tempi permetteva di arrivare.
Ma non andò molto che il maestro ebbe a domandarle, o ad imporle nuovi passi nella carriera ch'ella aveva intrapresa.
Geltrude aveva a poco a poco trasandate quelle cure di apparente regolarità che si era prescritte; la licenza a cui si era abbandonata le rendeva più insopportabile ogni contegno; e così si rilasciò tanto che negli atti e nei discorsi divenne più libera e più irregolare di prima.
Insieme a quelle cure cominciò senza avvedersene a trascurare anche le precauzioni che aveva da prima messe in opera per nascondere quello che tanto le importava di nascondere; e le trascurò tanto che ella s'accorse chiaramente un giorno che le due damigelle, che le stavano più vicine avevano qualche sospetto.
Tutta atterrita ella comunicò la sua scoperta a colui che era il suo solo consigliere.
Questi ne fu pure atterrito, ma a mille miglia meno di Geltrude, e per la diversità delle circostanze, e perché tanto era minore il suo pericolo che non quello della donna, e per la diversità dell'animo: perché quello di Egidio era duro e grossolano; e in Geltrude il timore della vergogna era una passione furiosa come si è veduto dalla sua condotta anteriore.
Pensò egli quindi più freddamente al modo di scansare il pericolo, e ne trovò uno che era per lui una nuova occasione di soddisfare alle sue passioni.
Per riuscirvi, egli coltivò il terrore di quella poveretta, le fece tanta paura del male, che nessun rimedio le paresse troppo doloroso: e finalmente propose l'infame rimedio che fu di render partecipi del segreto e di associare alla colpa le due che la sospettavano.
Lo scellerato pose in opera tutta la sua astuzia, si valse di tutto il predominio che aveva sull'animo di Geltrude, adoperò tutte le dottrine che le aveva insegnate e ch'ella aveva ricevute.
L'albero della scienza aveva maturato un frutto amaro e schifoso, ma Geltrude aveva la passione nell'animo e il serpente al fianco; e lo colse.
Con la direzione del serpente, ella trasfuse prudentemente a gradi a gradi nelle menti delle due suore il pervertimento che era necessario per renderle sue complici, e consumò il proprio avvilimento nella loro colpa.
Venuta in questo fondo, la sventurata perdette con ogni dignità ogni ritegno, e agguerrita contra ogni pudore si trovò disposta ad agguerrirsi ad ogni attentato; e l'occasione non tardò a presentarsi.
Una delle due suore addette alla Signora quando cominciò ad avere qualche sospetto, lo confidò ad un'altra suora sua amica, facendosi promettere il segreto: promessa che le fu tenuta perché la Signora era troppo potente, e il segreto troppo pericoloso; e la voglia di ciarlare fu vinta dalla paura.
Non era che un sospetto, e gli indizj eran deboli e potevano anche essere interpretati altrimenti; ma la curiosità della suora fu risvegliata, e non lasciava mai di tempestare quella che le aveva fatta la confidenza, per vederne, come si dice, l'acqua chiara.
Quando però la suora che aveva ciarlato divenne complice, si studiò non solo di eludere le inchieste della curiosa, ma di disdirsi, e di farle credere che il sospetto era ingiurioso e stolto, e ch'ella stessa si era pienamente disingannata.
Ciò non ostante la curiosa ritenne sempre quel sospetto, e non lasciava sfuggire occasione di gettar gli occhi nel quartiere delle educande, e di origliare, per venire a qualche certezza.
Accadde un giorno che la Signora venuta a parole con costei la aspreggiò, e la trattò con tali termini di villania, che la suora dimenticata ogni cautela, si lasciò sfuggire dalla chiostra dei denti: ch'ella sapeva qualche cosa, e che a tempo e luogo l'avrebbe detto a cui si doveva.
La Signora non ebbe più pace.
Che orrenda consulta! le tre sciagurate, e il loro infernale consigliero deliberarono sul modo di imporre silenzio alla suora.
Il modo fu pensato e proposto da lui con indifferenza, e acconsentito dalle altre con difficoltà, con resistenza, ma alla fine acconsentito.
Geltrude fece più resistenza delle altre, protestò più volte che era pronta a tutto soffrire piuttosto che dar mano ad una tanta scelleratezza, ma finalmente vinta dalle istanze di Egidio e delle due, e nello stesso tempo dal suo terrore, venne ad una transazione con la quale ella si sforzò di fingere a se stessa che sarebbe men rea: pattuì ella dunque che non si sarebbe impacciata di nulla, ed avrebbe lasciato fare.
Presi gli orribili concerti, determinato dalle esortazioni di Egidio al sangue l'animo di quella che fu scelta a versarlo; costei si ravvicinò alla suora condannata e le parlò di nuovo di quegli antichi sospetti, in modo da crescerle la curiosità.
E la curiosità era stimolata in essa dal desiderio di vendicarsi della Signora; ma per farlo con sicurezza, aveva essa stessa bisogno di esser sicura.
La traditrice, mostrando che non le convenisse di stare più a lungo assente dalla Signora per darle sospetto, lasciò la suora nel forte della curiosità, e nella speranza di scoprire qualche cosa; e come questa insisteva per trattenerla, le propose di venire la notte al quartiere, dove l'avrebbe potuta nascondere nella sua cella, e dirle il di più, e forse renderla testimonio di qualche cosa.
La meschina cadde nel laccio.
Venuta la notte ella si trovò nel corridojo, dove la suora omicida le venne incontro chetamente, e la condusse nella sua cella: quivi, preso il pretesto dei servigj della Signora per partirsi, promettendo che tornerebbe tosto; la fece nascondersi tra il letticciuolo e la mura, raccomandandole di non muoversi finch'ella non la chiamasse.
Uscì quindi a render conto del fatto all'altra suora e allo scellerato che aspettavano in un'altra stanza, e pigliato da Egidio l'orribile coraggio che le abbisognava, entrò nella cella armata d'uno sgabello con la sua compagna.
Nella cella non v'era lume, ma quello che ardeva nella stanza vicina vi mandava per la porta aperta una dubbia luce.
La scellerata parlando con la compagna, perché la nascosta non si muovesse, e parlando in modo da farle credere ch'ella cercava di rimandare la sua compagna come importuna, andò prima pianamente verso il luogo dove la infelice stavasi rannicchiata, quindi giuntale presso le si avventò, e prima che quella potesse né difendersi né gettare un grido né quasi avvedersi, con un colpo la lasciò senza vita.
CAPITOLO VI
Accorse al romore Egidio che stava alla bada nella stanza vicina, ed incontrò le colpevoli che fuggivano spaventate, come avrebbero fatto se per caso e a mal loro grado si fossero trovate presenti ad un misfatto.
Egidio le fermò, e chiese premurosamente se la cosa era fatta.
«Vedete», rispose tremando l'omicida.
«Ebbene! coraggio», replicò lo scellerato, «ora bisogna fare il resto»; e dava tranquillamente gli ordini all'una e all'altra su le cose da farsi per togliere ogni vestigio del delitto.
Avvezze, come elle erano, ad ubbidire a colui che aveva acquistata una orribile autorità su gli animi loro, a colui che faceva loro sempre paura, e dava loro sempre coraggio; e rianimate, e come illuse dall'aria naturale con la quale egli dava quegli ordini, come se si trattasse di una faccenda ordinaria; raccomandando ora la prestezza, ora il silenzio, elle fecero ciò che era loro comandato.
«E la Signora, perché non viene ad ajutarci?» disse l'omicida: «tocca a lei quanto a noi, e più».
«Andate a chiamarla», rispose Egidio: l'omicida che cercava anche un pretesto per allontanarsi, almeno per qualche momento, da quel luogo e da quell'oggetto che le era insopportabile, si avviò alla stanza di Geltrude.
Questa si stava nelle angosce di chi sente l'orrore del delitto, e lo vuole.
Sedeva, si alzava, andava ad origliare alla porta: intese il colpo, e fuggì ella pure a rannicchiarsi nell'angolo il più lontano della sua stanza, orribilmente agitata tra il terrore del misfatto, e il terrore che non fosse ben consumato.
L'omicida entrò, e disse: «abbiamo fatto ciò ch'era inteso: non resta più che di riporre le cose in ordine: venite ad ajutarci».
«No no, per amor del cielo», rispose Geltrude.
«Che c'entra il cielo?» disse l'omicida.
«Lasciami, lasciami» continuò Geltrude.
«Come!» replicò l'omicida «chi è stata quella...?» «Sì è vero» rispose Geltrude; «ma tu sai ch'io sono una povera sciocca nelle faccende; non son buona da nulla; lasciami stare per amor...» Gli atti e il volto di Geltrude riflettevano in un modo così orribile l'orrore del fatto, che l'omicida non potè sopportare la sua presenza, e tornò in fretta presso a colui, l'aspetto del quale pareva dire: - non è nulla -.
«Non vuol venire», diss'ella, con un moto convulso delle labbra, che avrebbe voluto essere un sorriso di scherno: «non vuol venire: è una dappoca».
«Non importa», rispose Egidio; «non farebbe altro che impacciare; ecco tutto è finito senza di lei».
«Resta ancora...» volle cominciare l'omicida, ma non potè continuare.
«Ebbene» disse Egidio, «questa è mia cura; datemi tosto mano, e poi lasciate fare a me».
Le donne obbedirono: Egidio carico del terribile peso ascese per una scaletta al solajo: e l'omicidio uscì per la porta che era stata aperta al sacrilegio.
Quando lo scellerato fu nelle sue case, cioè in quella parte disabitata che toccava il monastero, discese per bugigattoli e per andirivieni dei quali egli era pratico, ad una cantina abbandonata, o che non aveva forse mai servito; quivi in una buca scavata da lui, il giorno antecedente, depose il testimonio del delitto; lo ricoperse, e pigliati da un mucchio che ivi era, cocci, mattoni e rottami, ve li gettò sopra per ricoprirlo, proponendosi di trasportare poco a poco su quel sito tutto il mucchio, un monte se avesse potuto.
Le due donne rimaste sole, esaminarono in silenzio, se tutto era nello stato di prima; e poi...
che avevano a dirsi? L'omicida, ruppe il silenzio, dicendo: «andiamo a cercare la Signora»; l'altra le tenne dietro senza rispondere.
Bussarono sommessamente alla porta di Geltrude, la quale vi stava in agguato, e disse macchinalmente: «chi è?» «Chi potrebb'essere?» rispose l'omicida: «siam noi, apri e vieni, e vedrai che le cose sono tutte come jeri».
Geltrude aprì, e venne con loro nella più orrenda stanza di quell'orrendo quartiere: volse in giro entrando un'occhiata sospettosa, e disse: «che faremo qui?» «Quel che faremmo altrove», rispose l'omicida.
«Perché non andiamo nella mia stanza?» replicò Geltrude.
«È vero», disse quella che non aveva mai parlato; «è vero; andiamo nella stanza della Signora».
Ognuna delle tre sciagurate sentiva nella sua agitazione come il bisogno di far qualche cosa, di appigliarsi ad un partito che avesse qualche cosa di opportuno; e nessuna sapeva pensare quello che fosse da farsi: quando una faceva una proposta, le altre vi si arrendevano, come ad una risoluzione.
Geltrude si avviò, le altre le tennero dietro, e tutte e tre sedettero nella stanza di Geltrude.
«Accendete un altro lume», disse questa.
«No, no», rispose questa volta l'omicida: «ve n'è anche troppo: abbiamo ristoppate le finestre, è vero, ma se qualche educanda vegliasse...»
«Santissima...!» proruppe con un moto involontario di spavento, Geltrude, e non terminò l'esclamazione, spaventata in un altro modo del nome puro e soave che stava per uscirle dalle labbra.
«E perché dunque», continuò rimessa alquanto, «perché avete lasciato il lume nell'altra stanza?»
«Perché...» rispose l'omicida: «non si ha testa da far tutto».
«Andate a prenderlo».
«Andate, andate...
andiamo insieme».
Le due serventi partirono, Geltrude le seguì fino alla porta aspettando che tornassero col lume.
Lo deposero sur una tavola, lo spensero, e sedettero di nuovo intorno a quello che ardeva da prima.
Stavano così tacite, guardandosi furtivamente di tratto in tratto; quando gli sguardi s'incontravano ognuna abbassava gli occhi come se temesse un giudice, e avesse ribrezzo d'un colpevole.
Ma l'omicida più agitata, e agitata in modo diverso dalle altre, cercava ad ogni momento di cominciare un discorso, voleva parlare del fatto e del da farsi come di cosa comune, parlava sempre in plurale, come per tenere afferrate le compagne nella colpa, per essere nulla più che una loro pari.
Concertarono finalmente la condotta da tenersi quel primo giorno, perché nei concerti presi antecedentemente non avevano preveduti che i pericoli materiali: non avevano pensato che al modo di commettere il delitto segretamente, e di cancellarne ogni traccia esterna; ma il delitto aveva loro appresa un'altra cosa; che il sangue si sarebbe rivelato nei loro atti, nel loro contegno, nel loro volto.
Stabilirono dunque che Geltrude si direbbe indisposta, che avrebbe un forte dolor di capo, che starebbe chiusa all'oscuro nella sua stanza, e le altre si rimarrebbero ad assisterla.
Ma in questo concerto stesso, quante difficoltà, quanti dibattimenti! Il punto più terribile era di decidere a quale delle due serventi sarebbe toccato di avvertire le suore della indisposizione di Geltrude, per evitare che, non vedendola comparire, o la badessa, o qualche suora non venisse nel quartiere a chiederne novella.
Ognuna voleva rigettare su l'altra questo incarico.
L'omicida aveva una buona ragione per esimersi; ma questa ragione, poteva ella parlarne? Dire: - io sarò più confusa, più tremante, perché...
- Cercava ella dunque pretesti come l'altra, ma li sosteneva con più furore.
Geltrude indovinò, anzi sentì quella ragione, e persuase l'altra ad assumersi l'incarico, dicendole che sarebbe stato facile e spedito annunziare la sua indisposizione dalla finestra ad una delle suore che governavano le educande, pregando nello stesso tempo che non si facesse romore per non disturbarla.
Egidio intanto eseguiva gli altri concerti che erano stati presi, o per dir meglio ch'egli aveva proposti; giacché il disegno era tutto suo.
Occultata la vittima, egli uscì di notte fitta, accompagnato da alcuni suoi scherani, come soleva non di rado per qualche spedizione.
Gli dispose in un luogo distante da quello a cui aveva disegnato di portarsi, e gli lasciò come a guardia, lasciando loro credere che andasse ad una delle sue solite avventure.
Quindi per lunghi circuiti si condusse ad un campo disabitato col quale confinava l'orto del monastero, e ne era diviso dal muro.
Ivi, dopo d'aver ben guardato intorno se nessuno vi fosse, si trasse di sotto il mantello gli stromenti da smurare che aveva portati nascosti con le armi; e pian piano in una parte del muro già intaccata dal tempo, e ch'egli aveva fissata di giorno, aperse un pertugio, tanto che una persona potesse passarvi.
Riprese i suoi ferri, si ravvolse nel mantello, e camminando non senza terrore minacciato com'era da più d'un nemico, raggiunse i suoi scherani; si mostrò ad essi lieto, s'avviò con essi, gittò per via qualche motto misterioso di altre avventure, e tornò alla sua casa.
Il mattino vegnente una suora mancò; si corse alla sua cella; non v'era; le monache si sparpagliarono a ricercarla; ed una che andava per frugare nell'orto, vide da lontano...
- Possibile? un pertugio nel muro.
- Chiamò le compagne a tutta voce: si corse al pertugio; «è fuggita; è fuggita».
La badessa venne al romore: lo spavento fu grande; la cosa non poteva nascondersi; la badessa ordinò tosto che il pertugio fosse guardato dall'ortolano, che si mandasse per muratori, onde chiuderlo, e che si spedisse gente per raggiungere la sfuggita.
Il lettore sa che pur troppo ogni ricerca doveva riuscire inutile.
L'occupazione che questo affare diede a tutte le monache fece che le tre che erano la trista cagione di tutto, fossero lasciate in pace, o per meglio dire, sole.
È facile supporre che da quel giorno in poi il carattere di Geltrude (giacché di essa sola esige la nostra storia che ci occupiamo) fu sempre più stravolto.
Combattuta continuamente tra il rimorso e la perversità, tra il terrore d'essere scoverta, e un certo bisogno di lasciare uno sfogo alle sue tante passioni, e tutte tumultuose, dominata più che mai da colui che ella risguardava come l'origine dei suoi più gravi, più veri e più terribili mali, e nello stesso tempo come il suo solo soccorso, l'infelice era nel suo interno ben più conturbata, e confusa che non apparisse nel suo discorso, per quanto poco ordinato egli fosse.
Una immagine la assediava perpetuamente, e non è mestieri dire quale.
Tentava ella di rappresentarsi alla fantasia la sventurata suora, quale l'aveva veduta infocata di collera e con la minaccia sul labbro quell'ultimo giorno.
Ma l'immagine s'impallidiva sempre nella sua mente, invano ella cercava di raffigurarla con la testa alta, con l'occhio acceso, con una mano sul fianco; la vedeva indebolirsi, non poter reggere, abbandonarsi, cadere, se la sentiva pesare addosso.
Per togliere ogni sospetto, e nello stesso tempo per dare un altro corso alle sue idee, procurava ella di toccar materie liete o indifferenti di discorso; ma ora il rimorso, ora la collera contra tutti quelli che le erano stata occasione di cadere in tanto profondo, ora una, ora un'altra memoria si gettavano a traverso alle sue idee, le scompaginavano, e lasciavano nelle sue parole un indizio del disordine che regnava nella sua mente.
E quella regola nei discorsi, quel contegno nei modi ch'ella non poteva avere naturalmente, e per ispirazione dalla pace dell'animo, non aveva i mezzi per trovarlo nella esperienza e per comandarselo.
La sua esperienza non era altro che del chiostro, di quel poco che aveva veduto nel tempo burrascoso passato nella casa paterna, e di ciò che aveva imparato dall'infame suo maestro; le sue idee erano un guazzabuglio composto di questi elementi, ed ella non aveva potuto attingere d'altronde cognizioni per fare almeno una scelta in questi elementi.
Le sue parole e il suo contegno sarebbero state uno scandalo insopportabile in un secolo meno bestiale di quello; ma allora la stranezza universale non lasciava spiccare la sua al punto da farne un oggetto di maraviglia singolare.
Due anni erano già trascorsi da quel giorno funesto al tempo in cui la nostra Lucia le fu raccomandata dal padre cappuccino, il quale, come pure ogni altro del monastero, e di fuori, conosceva bene la Signora per un cervellino, ma era lontano dal sospettare quale in tutto ella fosse.
Siamo stati più volte in dubbio se non convenisse stralciare dalla nostra storia queste turpi ed atroci avventure; ma esaminando l'impressione che ce n'era rimasta, leggendola dal manoscritto, abbiamo trovato che era una impressione d'orrore; e ci è sembrato che la cognizione del male quando ne produce l'orrore sia non solo innocua ma utile.
Abbiamo lasciata, se il lettore se ne ricorda, Lucia sola nel parlatorio con la Signora.
Il dialogo fra quelle due così dissimili creature continuò a questo modo:
«Ora», disse la Signora, «parlate con libertà.
Qui non c'è né madre né padre; e ditemi il vero, perché le bugie che mi potreste dire, le ravviserei tosto come una antica conoscenza: non temete di nulla: qualunque sia il vostro caso, io vi proteggerò, purché siate sincera con me».
Lucia pose la picciola destra sul cuore, e con quell'accento che toglie ogni dubbio, rispose: «Signora, la verità è quello che ha detto mia madre, e che ha scritto il padre Cristoforo: io non ho mai giurato finora, ma se Ella, reverenda signora vuole ch'io giuri in questa occasione, io son pronta a farlo».
«Non dite più, che vi credo», rispose la Signora.
«Ma contatemi dunque tutta questa storia».
E qui cominciò ad affogare Lucia d'inchieste, volendo sapere tutti i particolari della persecuzione di Don Rodrigo, e delle relazioni di Lucia con Fermo.
Questa curiosità era come ognuno può figurarselo assai molesta alla povera Lucia.
All'istinto del pudore ed alla ripugnanza naturale di parlare di se stessa su questa materia, si aggiungeva il timore anche di dire qualche cosa di sconvenevole in presenza della reverenda madre.
Lucia che aveva parlato con un uomo, e che gli aveva dato promessa di sposarlo, che aveva tentato un matrimonio clandestino si riguardava come una donna esperta e più forse che non conveniva, nelle cose del mondo, come una scaltritaccia al paragone di una monaca, velata, rinchiusa, separata dal consorzio degli uomini, e pigliava le inchieste della Signora a un di presso come si fa a quelle talvolta indiscretissime dei ragazzi, dalle quali uno si sbriga alla meglio, cercando di non rispondere direttamente e di mandare in pace l'interrogante.
E quanto le domande erano più avanzate, Lucia le attribuiva ancor più ad una pura e santa ignoranza.
Rispose dunque sopra Fermo, che quel giovane l'aveva chiesta a sua madre e che essendo a lei dalla madre proposto il partito, ella lo aveva accettato volentieri, e che tanto bastava per conchiudere un matrimonio.
Ma per ciò che risguardava Don Rodrigo, per quanto Lucia ponesse cura a schermirsi, le fu pur forza entrare in qualche particolare, per ispiegare alla Signora la persecuzione ch'ella aveva sofferta, e contra la quale cercava un ricovero.
«Egli pativa dunque davvero per voi», domandò la Signora.
«Io non so di patire», rispose Lucia, «so bene che avrebbe fatto meglio per l'anima e per il corpo a lasciarmi attendere ai fatti miei, senza curarsi d'una tapinella che non si curava niente di lui».
«Poveretto!» sclamò la Signora, con una certa aria di compassione, nella quale pareva tralucesse quasi un rimprovero a Lucia.
«Poveretto?» riprese questa, «Poveretto? Oh Madonna del Carmine! Ella lo compatisce, illustrissima!»
«Sì, poveretto», rispose la Signora.
«Convien dire che voi non abbiate mai avuto chi vi volesse male, giacché sentite tanto orrore per chi vi ha voluto bene.
Birbone, cattivo, tiranno! Che parolone, figliuola, per una quietina, come parete! E la carità del prossimo?...
Se gli aveste provati i tiranni davvero...! Vorrei un po' che mi ripeteste le ingiurie che vi diceva, per vedere quanta ragione avete di chiamarlo con questi nomi».
«Le ingiurie dei signori», rispose Lucia con quella sicurezza che non manca mai a chi comincia un discorso con una persuasione viva ed intima, «le ingiurie dei signori, sono tremende pei poverelli; ma se gli era pur destino che quel signore dovesse aver qualche cosa a dirmi, sa il cielo, che io sarei ben contenta che m'avesse detto ogni sorta d'ingiurie piuttosto che quello che mi è toccato sentire da lui.
Io non avrei risposto, le avrei sofferte, è il destino di noi poverelli; e quando egli si fosse stato stanco, l'avrebbe finita; ed ora io non sarei qui lontana dalla mia patria, come una sbandata, a domandare un ricovero per amor di Dio; sarei...
pensi, Signora, s'io posso dir bene di lui.
Non ch'io gli desideri del male, no grazie a Dio, ma quanto al bene ch'egli mi poteva volere...
Santissima Vergine, che razza di bene! Io non vorrei dir cose da non dirsi in sua presenza, signora madre, e, so ben io quel che dico; ella sa molto di cose alte, di quelle che si trovano sui libri, ma le cose del mondo non è obbligata a conoscerle, e certe cose che potrei contare sarà meglio tacerle».
«Vi ho detto di parlare con sincerità: dite pur tutto»; rispose la Signora ridendo, e senza quell'imbarazzo che le aveva cagionata una proposizione somigliante nella bocca del padre guardiano.
«Spero dunque di poter parlare con prudenza», riprese Lucia, «ma di poterle far toccare con mano che cosa poteva essere il bene di quel Signore.
Sappia che io non sono stata la prima, a cui per mala sorte egli abbia badato.
Eh!...
le cose si sanno purtroppo: e d'una poveretta in particolare, io non ho potuto a meno di non saperlo, perché eravamo amiche, e me ne piange il cuore tuttavia.
Questa poveretta - non la nomino - diede retta al bene di quel signore; e sa ella che ne avvenne? Cominciò a disubbidire ai suoi parenti; quando fu ammonita si rivoltò; la casa le venne in odio, non ebbe più amiche, disprezzava tutti, e diceva - puh villani! - come avrebbe potuto fare una gran dama.
Quando i parenti s'avvidero di qualche cosa, sulle prime negò, e poi, rispose in modo da fargli tacere per paura.
Comparve con un vestito troppo bello per una ricca sposa, e credeva la poveretta che tutti avrebbero fatte le maraviglie, e l'avrebbero inchinata, e tutti la sfuggivano: i ragazzi le facevano dietro mille visacci.
Un fior di giovane, mi compatisca se parlo male, che voleva ricercarla in matrimonio, non la guardò più; nessuno le parlava, nessuno voglio dire della gente come si deve, perché i cattivi se le avvicinavano per la via con una famigliarità come se le fossero sempre stati amici, e fino, a parlare con poca riverenza, i birri, la salutavano ridendo, e le gittavano parole da non dire.
Poveretta! di tratto in tratto pareva più lieta che non fosse mai stata, ma le lagrime che spargeva in segreto! e quante volte la vedevamo da lontano piangente, e si nascondeva da noi: e io mi ricordava di quando ell'era allegra come un pesce, di quando ridevamo insieme alla filanda.
Basta: la disgraziata non potè più vivere nel suo paese, e un bel mattino, fece un fagottello, e finì a girare il mondo».
«Girare!» interruppe la Signora, «non è poi la peggior disgrazia».
«E tutto questo», continuò Lucia, «senza parlare dal tetto in su; perché all'altro mondo, Dio sa come andranno le cose.
Ma povera la mia Bettina! oh poveretta me, ho detto il nome...
spero che Dio le farà misericordia; perché poi finalmente è stata tradita.
Ma per me dico davvero, che se per andare in paradiso bisognasse fare la vita di quella povera figlia, la mi parrebbe ancora molto dura».
«Ma quel signore», riprese la monaca, «era egli di stucco? non la sapeva far rispettare? lasciava la briglia sul collo a quei tangheri?»
«Fortunata lei», rispose Lucia, «che non sa come vanno queste cose.
Il signore dopo qualche tempo non si curò più di quella meschina; e si venne a sapere che un giorno ch'ella si lagnava con lui d'essere disprezzata, egli le rispose: - si provino un po' a farvi qualche sgarbo in mia presenza, e vedranno -.
Tutto quello che la poverina doveva patire fuori della sua presenza, non era niente.
Ma tutto questo non bastava a disingannarla: soffriva, ma non sapeva staccarsi da colui.
Finalmente bisognò che fossi tormentata io per farle conoscere il suo stato.
Quando costui, sfacciato!...
cominciò a pormi gli occhi addosso, allora...»
«È un vile birbante», interruppe la signora, «avete ragione: avete fatto bene a voltargli le spalle, e io vi proteggerò».
«Dio gliene renda il merito.
Le diceva ben io che se avesse saputo...»
«Sì sì, è un birbante: son tutti così costoro.
Date loro retta sul principio: voi, voi sola siete la loro vita: che cosa sono le altre? nulla; voi siete la sola donna di questo mondo, e poi;...
Fortunata voi che potete sbrigarvene.
Vi avrebbe voluta vedere amica di Bettina...
amica! e sprezzarvi tutte e due; e vi so dire io come vi avrebbe trattate; peggio che da serve.
Se aveste fatto il primo passo...»
Lucia teneva gli occhi sbarrati addosso alla signora, come stupefatta ch'ella ne sapesse tanto addentro.
Geltrude rinvenne e s'avvide che questo suo modo di disapprovare il seduttore non era più conveniente alla sua condizione di quello che fosse stato quel primo compatimento, e che invece di togliere il sospetto o almeno lo stupore che quello poteva aver fatto nascere, lo avrebbe accresciuto, e si ripigliò dicendo:
«Del resto, son cose che io non posso conoscere; ma già l'avrete inteso anche dai predicatori che quelli che seducono le povere figliuole sono i primi a sprezzarle.
E se da principio, io ho mostrato qualche dispiacere per colui, è perché non vi eravate bene espressa; io credeva che alla fine egli avesse intenzione di sposarvi».
«Sposarmi! sposarlo!» esclamò Lucia, maravigliata di questo pensiero che supponeva l'accordo di due volontà, d'una delle quali ella sentiva, e dell'altra sapeva che ne erano le mille miglia lontane.
Geltrude credette che Lucia non alludesse ad altro ostacolo che alla differenza delle condizioni.
«E perché no?» rispose, e abbandonandosi alla intemperanza della sua fantasia continuò: «Perché no, sposarvi? Se ne vede tante a questo mondo.
Sareste la Signora Donna Lucia: che maraviglia! non sareste la donna più stranamente nominata di questo mondo.
Avete sentito come mi chiamava quel buon uomo con la barba bianca che vi ha condotta qui? - Reverenda madre.- Io, vedete, sono la sua reverenda madre.
Bel bambino davvero ch'io ho».
E a questa idea si pose a ridere sgangheratamente: ma tosto aggrondatasi, e levatasi a passeggiare nel parlatorio...
«madre!...» continuò...
«avrei dovuto sentirmelo dire, non da un vecchio calvo e barbato:...
CAPITOLO VII
Come una troppa di segugi dopo aver tracciata invano una lepre, ritorna sbaldanzita con le code pendenti, verso il padrone; paventosa di lui, ma pronta ad abbajare e a ringhiare per dispetto contra ogni altro in cui si abbatta per via; così in quella notte romorosa tornavano gli scherani con gli artigli vuoti al castello di Don Rodrigo; dove convien tornare a noi pure, messa in salvo alla meglio la bella fera che quel birbone inseguiva.
Don Rodrigo passeggiava inquieto aspettando il ritorno de' suoi bravi, aprendo di tempo in tempo la finestra, e guardando al lume della luna e tendendo l'orecchio.
Fremeva d'impazienza, che la spedizione tornasse, ma in questa impazienza misto al desiderio v'era anche un po' di terrore; perché questa era la più grossa che Don Rodrigo avesse fatta fino allora.
Se allo sparire di Lucia, il rapitore fosse stato conosciuto, se la fama ne fosse giunta a Milano, l'affare poteva esser serio: il governatore avrebbe potuto pubblicare un bando contra il rapitore, come accadeva talvolta in simili casi, promettendo un premio a chi lo desse vivo o morto nelle mani della giustizia.
Veramente Don Rodrigo aveva veduto passeggiare sicuramente più d'uno colpito da un tal bando; e sapeva d'aver egli pure i mezzi di questa sicurezza, perché cinto da scherani, e temuto com'era, nessuno avrebbe voluto per un premio torsi un'impresa come quella di attaccarlo, e porre la vita a certissimo pericolo: pure un bando era almeno una seccatura forte.
Dall'altra parte pensava egli che essendo gli offesi povera gente, nessuno si sarebbe curato di prendere impegno per essi...
Ma c'era di mezzo quel benedetto frate (Don Rodrigo non diceva veramente benedetto) quel frate che era un brigante, un ficcanaso, uno che si dilettava d'impacciarsi nei fatti altrui, e che avrebbe potuto trovare appoggi, far comparire le cose...
Ma anche pel frate v'erano rimedj, e si poteva combatterlo con le stesse sue armi d'impegni, e di brighe.
- Quel che importa per ora, - continuava Don Rodrigo, - è che il Griso faccia il suo dovere, e che questa smorfiosetta non mi faccia uno scandalo che levi a romore il paese.
Diavolo! Ho avuto un pensiero molto ardito; ma quel che è fatto è fatto, e non mi voglio ora ritirare per bacco! Non voglio? non posso: coraggio coraggio Don Rodrigo! bisogna ammansarla con le buone; la madre?...
eh quando vedrà dei bei danari lampanti: e poi osi un po' far chiasso: vorrei vedere!...
Il parroco non fiaterà...
ha già avuta una bella paura, ed ora sarebbe anch'egli in colpa...
eh già colui è un birbone che farebbe di tutto per salvar la pelle...
Non vengono costoro?...
Sta a vedere che si saranno ubbriacati...
No no il Griso non è un ragazzo, e avrà condotte le cose con giudizio: non è mica una bagattella...
non vorrei che me la malmenasse: non è avvezzo a spedizioni di questa sorte: ha sempre avuto che fare con uomini...
basta gli ho fatta una buona ammonizione.
Stà...
per bacco, è la mia gente...
- Così pensando corse alla finestra, e vide i segugj venir quatti quatti, col Griso alla testa: tese l'occhio, per distinguere fra essi la lepre, ma la lepre non v'era.
- Diavolo!...
diavolo! diavolo! Il Griso me ne darà conto.
Aperta ai bravi la porta dal loro compagno che vi stava a guardia, ed entrati e andati a riposare com'era giusto, perché il riposo è dovuto alla fatica tollerata, non all'effetto ottenuto, il Griso come portava la sua carica, che in quel momento nessuno degli altri gl'invidiava, salì in fretta a render conto a Don Rodrigo.
«Ebbene?» disse tosto questi dispettoso: «ebbene? signor bravo, signor capitano, signor spaccone...»
«È dura», rispose il Griso con rispetto, ma non senza rancore, «è dura di sentir rimproveri dopo aver faticato fedelmente, e cercato di fare il suo dovere...»
«Ma dunque?...»
Il Griso si fece da capo, e raccontò tutti i preparativi, come la spedizione era ben condotta, e come la casa fu trovata vuota, e come sonò a stormo senza ch'egli potesse ben saperne il perché, e come si era tornati senza aver fatto nulla, ma senza aver lasciato traccia.
«Mancomale» rispose Don Rodrigo; e si posero a far congetture senza potersi fermare ad una che li accontentasse.
«Basta», conchiuse Don Rodrigo: «domani piglia informazioni; sarà meglio che mandi uno dei contadini fidati, nella bettola più vicina alla casa di Lucia, tanto che domani io vegga la cosa chiara».
Così congedò il Griso che se ne andò anch'egli a dormire.
Dormi, povero Griso, dormi che tu devi averne bisogno.
Povero Griso! Correre qua e là tutto il giorno, stare all'agguato, dirigere una mano di zotici mal disciplinati, pigliar sopra di te tutto il pensiero, e tanta parte della fatica; porti a rischio di aver qualche nuovo disparere con la giustizia, e di veder questa volta messo a prezzo il tuo capo, per rapto di donna honesta; stare al caldo e al gelo; e poi, e poi raccoglier rimbrotti.
Ma tu non cominci oggi a vivere, e devi sapere che il mondo è tristo, che gli uomini sono ingrati.
Va a riposarti, povero Griso: un giorno poi, quando ti porrai a letto per morire, se a letto morrai; forse questa giornata ti verrà in mente; forse il pensiero di non aver potuto oggi farti onore, e di essere stato sgridato per ricompensa, sarà quello che ti darà meno di gravezza.
Ma non pensare ora a questo, perché forse non dormiresti.
All'aurora il Griso fu in campo, tutto desideroso di venire in chiaro di ciò che fosse avvenuto di Lucia, per soddisfare alla curiosità del padrone e alla sua propria, e per avvisare i mezzi di riparare alla mala riuscita del giorno antecedente.
Non era la sola vanità né il dispetto che stimolavano il Griso; ma v'entrava la riconoscenza per Don Rodrigo che lo aveva posto, e lo teneva sotto le sue ali in salvo dalla giustizia, e che gli dava facoltà di camminare francamente, e di farsi temere; da questa riconoscenza era nato nel suo cuore un affetto, un attaccamento per Don Rodrigo, che i rimproveri, e le asprezze di questo potevano affliggere, ma non distruggere; né rendere inoperoso.
Scelse adunque il Griso gli uomini più opportuni a raccogliere notizie, e gli spedì attorno, ed egli stesso andò, per ispiare schiarimenti sui fatti misteriosi della notte trascorsa.
Ma gli abitanti del villaggio che s'erano trovati in quel trambusto, non ne sapevano essi stessi la cagione, e quello che avevano veduto non era per essi che una sorgente di curiosità, o al più un motivo di congetture e di fandonie.
Quando il mattino rivelò la fuga di Lucia e di sua madre e di Fermo, i sospetti divennero ancor più complicati, e la curiosità più animata: ognuno domandava a tutti quelli in cui si abbatteva, e se ne formarono come accade molte storie, perché s'ignorava la vera.
Quei pochi che la sapevano o tutta o in parte, e che avrebbero potuto soddisfare o almeno metter sulla via la curiosità degli altri, quei pochi se ne stavano zitti, e si facevano più nuovi degli altri.
Toni fece un severo precetto a Gervaso e alle sue donne di non parlare, e fu egli stesso molto fedele a questo suo precetto di cui sentiva l'importanza; appena uno sperimentato osservatore avrebbe potuto arguire ch'egli sapeva qualche cosa più degli altri dal poco chiedere ch'egli faceva, e dal suo ristringersi nelle spalle protestando di non saper nulla quando altri ne lo chiedeva.
«Io attendo ai fatti miei», rispondeva Toni, «che volete ch'io sappia?» Don Abbondio era ricorso al suo ripiego diplomatico di porsi a letto e di sviare così i curiosi.
Se ne stava egli ora cheto cheto, maladicendo la mala ventura, che negli ultimi suoi giorni gli faceva scontare quel poco di bene che aveva goduto negli anni passati, e rendeva inutili tutte le cure della sua prudenza.
Di tempo in tempo rimbrottava Perpetua e accagionava della sua disgrazia la cervellinaggine di quella.
Ma Perpetua non penuriava di argomenti per provare al padrone che la colpa doveva ricadere tutta sopra di lui; e il combattimento finiva per stanchezza d'ambe le parti.
Questi piati però non uscivano dalle mura di Don Abbondio, perché era interesse troppo evidente d'ambe le parti di sopire l'affare e di stornare i sospetti dalla verità.
Ma tra coloro che erano stati in parte testimonj ed attori di tutta quella scena ve n'era uno a cui l'esperienza non aveva potuto ancora dare le profonde idee di prudenza che il tempo e i casi avevano apprese a Toni e a Don Abbondio.
Sa il cielo se il lettore si ricorda di quel garzoncello spedito da Agnese al Padre Cristoforo, e mandato da questo ad avvertire Lucia del pericolo che le soprastava, di quel picciolo Menico che era stato nelle tenebre guida dei fuggitivi.
Menico il quale era pur dolente della fuga delle sue parenti, ma che almeno in questa sventura aveva avuta la felice occasione di far qualche cosa, non ebbe pace finché non confidò quello che aveva fatto a dei ragazzi suoi coetanei, i quali venivano a contargli le congetture che avevano intese, e ai quali egli aveva da raccontare qualche cosa di più fondato.
I ragazzi corsero a casa, e si seppe tosto che Lucia, Agnese e Fermo erano andati la notte al convento.
Le congetture divennero allora un po' più uniformi e più fondate, giacché tutti avevano qualche sentore della turpe caccia che Don Rodrigo dava a Lucia.
Gli spioni del Griso riseppero tosto con gli altri queste particolarità; e il Griso gli spedì tosto a Pescarenico per cavare più sicure notizie.
I barcajuoli avevano detto qualche cosa.
Povera gente! avevano cooperato ad un'opera buona, e l'assoluto silenzio era un peso troppo difficile da portarsi.
Si riseppe dunque che i fuggitivi avevano attraversato il lago, e che avevano continuato il loro viaggio per terra.
Queste cose vennero pure agli orecchi del Griso, il quale potè annunziare a Don Rodrigo che poco mancava a sapere su che albero l'uccello fosse andato a posarsi.
Don Rodrigo era uscito quella mattina col conte Attilio e col solito seguito di bravi, e s'erano aggirati pei campi e per le ville con l'apparenza d'andare a caccia ma con l'intenzione di scoprire quello che si facesse, e di stornare i sospetti mostrandosi, o almeno di ostentare sicurezza, e d'incutere spavento.
I sospetti erano già molto sparsi, e Don Rodrigo sotto l'apparente rispetto, e sui visi inchinati dei contadini in cui si abbatteva, potè scorgere qualche cosa di misterioso che annunziava un pensiero celato di cognizione, e una gioja compressa per la trista riuscita del suo infame tentativo.
Don Rodrigo faceva osservare quelle facce al suo compagno, e si rodeva; ma non ardiva né poteva fare alcun risentimento perché all'oscurarsi del suo sguardo gl'inchini diventavano più umili, e gli aspetti più sommessi, e non ci sarebbe stato verso di appiccare una lite senza troppo scoprirsi.
Giunti a casa i due cacciatori leggiadri trovarono il Griso che gli aspettava con le notizie.
Quand'egli ebbe fatta la sua relazione, Don Rodrigo si volse al cugino, come per chiedergli consiglio.
Il Conte Attilio era uno sventato, ma l'affare era tanto serio ch'egli stesso lo era divenuto, e disse: «Se mi aveste chiesto parere quando avete cominciato a divagarvi con questa smorfiosa, da buon amico vi avrei detto di levarne il pensiero, perché era cosa da cavarne poco costrutto; ma ora l'impegno è contratto, c'entra il vostro onore, e quello della parentela: ora si direbbe che vi siete lasciato metter paura, e che non l'avete saputa spuntare.
Dal modo con cui vi conterrete in questa occasione dipenderà la vostra riputazione e il rispetto che vi si porterà nell'avvenire».
«Avete ragione».
«E», continuò il Conte Attilio; «fate pur conto sopra di me come sopra un buon parente ed amico: non si tratta ora più di scommesse e di scherzi».
«Avete ragione.
Griso, che cosa dicono questi villani?»
«Il signor padrone può ben credere che in faccia mia nessuno avrebbe osato proferire una parola poco rispettosa; ma so che parlano, e si mostrano contenti».
«Ah! contenti» rispose Don Rodrigo, «vedranno, vedranno.
Il Podestà è tutto mio...
ma nulladimeno...
che ne dite cugino?...
sarà bene di prevenirlo favorevolmente».
«Certo», rispose il Conte Attilio, «non bisogna tralasciare nessuna precauzione».
«E poi», continuò Don Rodrigo, «non bisogna metterlo in impaccio.
Siccome si parlerà della fuga di costoro, e la giustizia forse non potrà schivare di far qualche ricerca, bisognerebbe trovare una storia che spiegasse la fuga, e che rivolgesse i sospetti in tutt'altra parte».
«Si potrebbe per esempio», disse il Conte Attilio, «sparger voce che quel villano ha rapita la ragazza e fargli mettere un bando, in modo che non ardisse più di comparire in paese».
«Non va male», rispose Don Rodrigo, «ma...»
«Se mi permettono questi signori», disse umilmente il Griso, «avrei anch'io un debole parere».
«Sentiamo», dissero entrambi.
«Fermo», rispose il Griso, «è lavoratore di seta; e questa è una gran bella cosa».
«Come c'entra la seta?» domandò il Conte Attilio.
«I lavoratori di seta», continuò il Griso, «non possono abbandonare il paese, è un criminale grosso.
Ecco che il signor Podestà quando voglia, come è giusto, servire l'illustrissima casa, potrà fare un ordine di cattura contra Fermo come lavoratore fuggitivo; poi si dirà che se Fermo ritorna, guai a lui; e Fermo non sarà tanto gonzo da venire a giustificarsi in prigione».
«Ma bravo il mio Griso», proruppe Don Rodrigo, mentre lo stesso Conte Attilio faceva un sorriso di approvazione.
«Ma bravo: va che ti voglio fare aiutante del dottor Duplica.
Per bacco, ch'egli non l'avrebbe trovata più a proposito».
«Eh Signore», rispose il Griso, con affettata modestia, «ho avuto tanto che fare con la giustizia, che qualche cosa devo saperne».
«Del resto», continuò Don Rodrigo, «per quanto grande sia l'abilità legale del Griso, non voglio ch'egli balzi di scanno il nostro dottore.
Fa ch'egli venga oggi a pranzo da me e m'intenderò con lui.
Tu intanto abbi cura di vedere il bargello e di dirgli che questa volta venga più presto del solito a ricever la mancia consueta, e che mi troverà di buon umore, e avrà un regalo di più...
Così si potrà andare innanzi a fare tutto quello che sarà necessario...
Purché la cosa non si risappia a Milano...»
«Che diavolo di paura vi nasce ora», interruppe il Conte.
«Caro cugino, la cosa non è finita; costei la voglio...»
«Va bene».
«E non so dove bisognerà andare a cercarla, che passi bisognerà fare...»
«E bene, a Milano hanno altro da pensare che a questi pettegolezzi.
C'è la carestia, c'è il passaggio delle truppe, c'è mille diavoli.
E poi quand'anche se ne parlasse a Milano, sarebbe la prima che avremmo spuntata?»
«Va bene, ma quel frate, quel frate vedete, chi sa quali protezioni potrà avere; e vi assicuro che non istarà quieto fin ché...
Quel frate è il mio demonio, e...
non posso farlo ammazzare».
«Il frate lo piglio sotto alla mia protezione», rispose sorridendo il Conte Attilio.
«Non pensate a lui: me ne incarico io».
«Eh se sapeste!...»
«Via, via, che ora non saprò fare stare un cappuccino.
Vi dico che, se avete in me la più picciola fede, non prendiate pensiero di lui, che non ve ne potrà dare.
Domani a sera sono a Milano; e dopo due o tre giorni udrete novelle del frate».
«Non mi state a fare un guajo che mi ponga in maggiore impiccio...»
«Quando vi dico di fidarvi di me, fidatevi; ma se volete vi dirò prima il modo semplicissimo che ho pensato per torvelo d'attorno, modo tanto semplice che l'avreste immaginato anche voi se non foste un po' conturbato».
Infatti Don Rodrigo combattuto, trainato da sentimenti diversi, e tutti rei, tutti vili, tutti faticosi, era un oggetto di pietà senza stima agli occhi stessi del Griso e del Conte Attilio, e avrebbe eccitato orrore e stomaco nell'animo di chiunque gli avesse meno somigliato che quei due signori.
La passione di Don Rodrigo per Lucia, nata per ozio, irritata e cresciuta da poi dalle ripulse e dal disdegno, era diventata violenta quando conobbe un rivale.
La fantasia ardente e feroce di Don Rodrigo si andava allora raffigurando quella Lucia contegnosa, ingrugnata, severa, se l'andava raffigurando umana, soave, affabile con un altro, egli immaginava gli atti e le parole, indovinava i movimenti di quel cuore che non erano per lui, che erano per un villano; e la vanità, la stizza, la gelosia aumentavano in lui quella passione che per qualche tempo riceve nuova forza da tutte le passioni che non la distruggono, o ch'ella non distrugge, da tutte quelle che possono vivere con essa.
Tutte queste passioni lo avevano allora spinto ad impedire con minacce il matrimonio di Lucia, senza ch'egli avesse risoluto quel che farebbe da poi, ma per impedirlo a buon conto, perché ella non fosse d'un altro, per guadagnar tempo, per isfogare in qualche modo la rabbia e l'amore, se amore si può dire quel suo.
Quindi allorché egli riseppe dalla narrazione del Griso che Lucia e Fermo erano partiti insieme, i dolori della gelosia e della rabbia lo colpirono più acutamente che mai.
Egli pensava qual prova Lucia aveva data di amore per Fermo e di orrore per lui, abbandonando così timida, così inesperta la sua casa paterna, i luoghi conosciuti, andando forse alla ventura; pensava che in quel momento essi erano in cerca d'un asilo per essere riuniti tranquillamente, e risolveva di fare, di sagrificare ogni cosa per impedirlo.
Dall'altra parte avvezzo bensì a non rifiutarsi mai una soddisfazione quando non gli doveva costare altro che una bricconeria, ma avvezzo a commetterne in un campo ristretto e conosciuto, si atterriva al pensiero di uscirne, di dovere intraprendere una ricerca difficile e pericolosa per porsi poi ad una impresa chi sa quanto vasta, chi sa quanto difficile e pericolosa.
Tanta era l'agitazione di Don Rodrigo, ch'egli pensava in quel momento non senza terrore alle Gride contra i Tiranni.
(Così chiamavano le Gride coloro che sopraffacevano come che fosse i deboli, quasi con questa espressione querula e paurosa volessero confessare l'impotenza di contenere quelli e di difender questi.) Ben è vero che quelle gride erano per lo più inoperose, e Don Rodrigo lo sapeva per esperienza, come noi lo sappiamo ora dal trovare ad ogni nuova pubblicazione di esse la dichiarazione espressa che le antecedenti non avevano prodotto alcun effetto.
Ma però queste gride stesse potevano essere un'arme potente, quando una mano potente le afferrasse contra chi le avesse violate; e v'era di mezzo un frate, un personaggio cioè alla influenza ed alla attività del quale nessuno poteva anticipatamente prevedere un limite: e questo frate pareva risoluto a proteggere ad ogni costo gli innocenti.
In questa tempesta di pensieri Don Rodrigo passeggiava per la stanza, facendo ad ogni momento nuove interrogazioni al Griso, e affettando sicurezza dinanzi al Conte Attilio; finalmente conchiuse col dire: «Per ora non c'è altro da fare che di sapere precisamente dove sono andati: tocca a te Griso; e poi, e poi...
non son chi sono se...
non è vero cugino?»
«Senza dubbio», rispose il Conte, al quale alla fine non premeva realmente in tutta questa faccenda che di far pensare che nello stesso caso egli avrebbe saputo giungere ai suoi fini senza esitazione e senza fallo.
Così fu sciolta la conferenza, e il Griso partì.
Don Rodrigo pensò che in quel giorno sarebbe stata cosa molto utile l'avere il podestà a pranzo, per mostrare sicurezza, e per far vedere ai malevoli che la giustizia era per lui; e lo fece invitare, pregando il Conte Attilio di non disgustargli quel brav'uomo con tante contraddizioni.
Venne il podestà, e il dottore; si stette allegri, si parlò ancora della marcia delle truppe, e della carestia: ma degli affari del paese, della campana a martello, della fuga, né una parola.
Soltanto Don Rodrigo accennò indirettamente questa faccenda nel modo il più gentile ed ingegnoso, come si vedrà.
Fece egli in modo che il podestà lodasse particolarmente il vino della tavola: cosa non difficile ad ottenersi, perché il vino era buono, e il podestà conoscitore.
Allora Don Rodrigo: «Oh, signor podestà, giacché ho la buona sorte di posseder cosa di suo aggradimento mi permetterà...»
«Non mai, non mai, Signor Don Rodrigo, se avessi saputo ch'ella sarebbe venuta a questi termini, avrei dissimulata la mia ammirazione per questo incomparabile...»
«Bene bene, signor Podestà, ella non mi farà il torto...»
«Don Rodrigo conosce la stima...»
Il Conte Attilio interruppe la gara, la quale era già realmente composta: Don Rodrigo parlò all'orecchio ad un servo, e il podestà tornando poi a casa, trovò sei tarchiati contadini che erano venuti a deporre nella sua cantina le grazie di Don Rodrigo.
Dato l'ordine segreto, Don Rodrigo ritornò al discorso incominciato, benché sembrasse mutarlo affatto, e passare dal vino all'economia politica; ma chi appena osservi la serie delle sue idee, scorgerà il filo recondito che le tiene.
«Che dice», continuò adunque Don Rodrigo, «che dice il signor podestà di questo spatriare che fanno i nostri operaj?»
«Che vuole ch'io le dica?» rispose il podestà: «è cosa da non potersi comprendere.
Quanto più si moltiplicano le gride per trattenerli, tanto più se ne vanno.
Non si sa capire: è una pazzia che gli ha presi: sono pecore, una va dietro all'altra».
«Eppure», continuò Don Rodrigo «pare che questa cosa stia molto a cuore di Sua Eccellenza».
«Capperi! veda con che sentimento ne parla nelle gride.
Ma costoro, parte per ignoranza, parte per malizia non danno retta, armano mille pretesti, ma la vera ragione si è la poca volontà di lavorare, e il disprezzo temerario delle leggi divine ed umane».
«Ma per buona sorte», disse il dottor Duplica, a cui Don Rodrigo aveva detto non tutto ma quanto bastava a fargli intendere come Don Rodrigo desiderava di esser servito, «per buona sorte abbiamo un signor podestà che non si lascerà illudere da pretesti, e saprà tenere mano ferma...»
«Mano ferma, signor podestà», riprese Don Rodrigo: «mano ferma: il primo che c'incappa, farne un esempio».
«Io so», disse con gravità misteriosa il Conte Attilio, «che Sua Eccellenza tiene gli occhi aperti su questo sviamento degli artefici, e sulla esecuzione delle gride che lo proibiscono perché il Conte mio zio del Consiglio segreto, qualche volta in confidenza si è spiegato con me...
basta non voglio ciarlare; ma son certo che quando tornato a Milano andrò a fare il mio dovere dal Conte mio zio, egli non lascerà di farmi mille interrogazioni...
In verità avere dei parenti in alto è un onore, ma un onore un po' pesante.
Non si può parlare con loro che non vogliano ricavare qualche notizia: non si sa come sbrigarsene».
«Mi raccomando ai buoni uficj del signor Conte», disse umilmente il Podestà: «una buona parola trasmessa da una bocca tanto garbata in orecchie tanto rispettabili...»
«È pura giustizia renduta al merito, Signor podestà: però se la parola ha da ottenere il suo effetto, da far colpo, sarà bene che si vegga qualche dimostrazione esemplare dello zelo del Signor podestà in questa materia».
«È mio dovere, e starò sull'avviso».
«Oh le occasioni non mancheranno», disse il dottore; «perché come diceva sapientemente il signor podestà, è una pazzia universale in costoro».
Quindi prendendo l'aria grave e pensosa di chi passa dai fatti ad una idea generale, continuò: «Vedano un po' le signorie loro come son fatti gli uomini, e particolarmente la gente meccanica che non sa riflettere.
Comincia a mettersi fra gli artefici questa smania di sviarsi, di cambiar cielo.
La sapienza di chi governa vede il male, e tosto applica il rimedio della proibizione e delle pene.
Si può far di più? eppure costoro, presa una volta quella dirittura di andarsene a processione, proseguono ad andarsene come se nessuno avesse parlato.
Come si spiega questo? Col dire che sono pazzi.
Ma coi pazzi come bisogna fare? Castigarli».
È facile supporre che con questi ragionamenti il signor podestà si trovò disposto a credere poi, o a fingere di credere alle insinuazioni incessanti del dottor Duplica, e alle deposizioni degli onorevoli suoi ministri, che Fermo si era spatriato in contravvenzione alle gride.
Il signor podestà non si lasciò scappare una occasione, che gli si era tanto raccomandato di afferrare, e nel giorno susseguente fatte fare ricerche di Fermo, le quali riuscirono inutili, lo notò come fuggitivo, gli fece intimare alla casa l'ordine di ritornare, e nello stesso tempo rilasciò l'ordine di catturarlo s'egli ritornava.
Non importa di accordare quei due ordini: basta che con questi si ottenesse l'effetto desiderato, che era di toglier la volontà a Fermo di ritornare.
Intanto il Griso non ommetteva cura per iscoprire il covo dei fuggitivi; ed ecco come vi riuscì.
Mandava egli esploratori qua e là per le piazze e per le taverne per raccogliere i discorsi che potevano dar qualche lume su questo avvenimento.
Colui che aveva condotto il baroccio dei profughi, non tacque, e di confidenza in confidenza, il Griso venne a risapere, e potè riferire a Don Rodrigo: che i fuggitivi erano andati a Monza, che Fermo aveva proseguito il viaggio fino a Milano, che Lucia ed Agnese erano state raccomandate al guardiano dei cappuccini.
Parve a Don Rodrigo che la matassa non fosse tanto imbrogliata com'egli aveva temuto, e che il bandolo si potrebbe ravviare senza troppa difficoltà.
Monza non era più lontana che venti miglia; Fermo era separato dalle donne; quando si prendessero buoni alleati, senza dei quali Don Rodrigo sentiva di non poter far nulla a quattro miglia del suo castellotto, l'impresa non era disperata.
V'era però ancora di mezzo un cappuccino; ma si sarebbe veduto fino a che segno egli era da temersi.
«Ora mio bravo e fedel Griso», disse Don Rodrigo, «non bisogna metter tempo in mezzo.
Ho bisogno di sapere al più presto presso a chi, in qual parte di Monza costei è andata a posarsi; e tu devi andare sul luogo a pigliarne informazioni sicure».
«Signore...»
«Che è, Griso? non ho io parlato chiaro?»
«Signore illustrissimo,...
io son pronto a dar la vita pel mio padrone, ma so anche ch'ella non vuole arrischiar troppo i suoi sudditi»
«Ebbene, non sei tu sotto la mia protezione?»
«Qui sono sicuro, qui Vossignoria illustrissima è conosciuta, e tutti mi portano rispetto; ma in Monza, s'io fossi riconosciuto...
Sa Vostra signoria che, non dico per vantarmi; ma sa che chi mi potesse consegnare alla giustizia, crederebbe di aver fatto un gran colpo?»
Don Rodrigo stette un momento sopra pensiero.
È una certa consolazione per chi considera lo stato insopportabile di angoscia e di terrore in cui a quei tempi gli uomini arditi e perversi tenevano i deboli, il vedere che i perversi pure erano in continua angoscia, e dovevano starsi sempre come si dice con l'olio santo in saccoccia.
Ma Don Rodrigo dopo un breve silenzio, fece con buone ragioni vergognar il Griso della sua pusillanimità.
«Che diavolo!» disse Don Rodrigo, «tu mi riesci ora un can da pagliajo, che non sa che abbajare sulla porta, guardandosi indietro se quei di casa lo spalleggiano, e non ardisce di allontanarsi quattro passi? Ebbene, piglia con te un pajo di compagni...
il Pelato, e...
il Saltafossi...
e va.
Io non ho nimicizia con nessuno in Monza: chi dunque ti vorrebbe toccare? La faccia di bravo non ti manca, e cospetto non incontrerai nessuno che non sia contento di lasciarti passare.
Quanto alla giustizia, dovresti vergognarti di avervi pensato un momento.
Bisognerebbe che i birri di Monza fossero bene stanchi di vivere per azzuffarsi con tre malandrini che vanno tranquillamente pei fatti loro».
«Sia per non detto, illustrissimo signore: io parto immediatamente».
«Bravo: hai amici in Monza?»
«Eh Signore io ho amici e nemici per tutto il mondo.
Sono stato in prigione con uno che sta per bravo dal Signor Egidio...
e abbiamo fatta una amicizia da spartire colle pertiche, conosco...»
«Bene tu avrai da questi informazioni, e ajuti al caso.
Una mano lava l'altra, e le due il viso.
Coraggio, e prudenza: comprare e non vendere; andare e tornare».
«Vado e torno; e se osassi...»
«Che?»
«Pregar Vossignoria illustrissima di non dire ad alcuno che il Griso ha dubitato un momento.
Vede bene, ognuno nel suo mestiere ha a cuore la sua riputazione».
«Va, va, balocco che sei: credi tu che io abbia bisogno di essere pregato per tenere in credito la mia gente?»
Il Griso partì coi due compagni, spiò, e raccolse che Lucia era nel monastero, sotto la protezione della Signora, che però la Signora l'aveva ricevuta per compiacere al padre guardiano, che nessuno pensava che altrimenti ella si sarebbe pigliata a petto questa faccenda giacché Lucia non le apparteneva per nulla, che Lucia abitava nel monastero, ma fuori del chiostro, che si lasciava poco vedere, e sempre di chiaro giorno: che la madre aveva disegnato di tornarsene a casa lasciando Lucia così bene appoggiata.
Tutte queste cose riferì il Griso a Don Rodrigo, il quale lodatolo, e ricompensatolo, si pose seriamente a pensare quale risoluzione fosse da prendersi.
Tentare un ratto a forza aperta, in Monza, su un terreno che egli non conosceva bene, in un monastero, a rischio di tirarsi addosso la signora, e tutto il suo parentado, del quale Don Rodrigo conosceva molto bene la potenza, e la ferocia in sostenere le protezioni una volta abbracciate, era impresa da non porvi nemmeno il pensiero.
Pure Lucia fra pochi giorni sarebbe rimasta sola senza la madre, e a chi avesse avuta pratica del paese, aderenze, notizie per conoscere le occasioni e per approfittarsene, per evitare i pericoli, l'impresa poteva forse essere agevole non che possibile.
Bisognava dunque ricorrere ad un alleato potente e destro, ad un uomo avvezzo a condurre a termine spedizioni di questo genere; e Don Rodrigo si determinò in un pensiero, che gli era passato più volte per la mente, che non aveva mai abbandonato, il pensiero di raccomandare i suoi affari al Conte del Sagrato.
Le ricerche che abbiamo fatte per trovare il vero nome di costui giacché quello che abbiamo trascritto era un soprannome, sono state infruttuose.
Al prudentissimo nostro autore è sembrato di avere ecceduto in libertà e in coraggio col solo indicare con un soprannome quest'uomo.
Due scrittori contemporanei, degnissimi di fede, il Rivola e il Ripamonti, biografi entrambi del Cardinale Federigo Borromeo, fanno menzione di quel personaggio misterioso, ma lo dipingono succintamente come uno dei più sicuri e imperturbabili scellerati che la terra abbia portato, ma non ne danno il nome, e né meno il soprannome che noi abbiamo ricavato dal nostro manoscritto insieme con la narrazione del fatto che glielo fece acquistare, e che basterà a dare una idea del carattere di quest'uomo.
Abitava egli in un castello posto al confine degli stati veneti, sur un monte; e quivi menava una vita sciolta da ogni riguardo di legge, comandando a tutti gli abitatori del contorno, non riconoscendo superiore a sè, arbitro violento dei negozj altrui come di quelli nei quali era parte, raccettatore di tutti i banditi, di tutti i fuggitivi per delitti quando fossero abili a commetterne di nuovi, appaltatore di delitti per professione.
«La sua casa» per servirci della descrizione che ne fa il Ripamonti «era come una officina di commessioni d'ammazzamento: servì condannati nella testa, e troncatori di teste: né cuoco né guattero dispensati dall'omicidio; le mani dei valletti insanguinate».
E la confidenza di costui, nutrita dal sentimento della forza e da una lunga esperienza d'impunità era venuta a tanto, che dovendo egli un giorno passar vicino a Milano, vi entrò senza rispetto, benché capitalmente bandito, cavalcò per la città coi suoi cani, e a suon di tromba, passò sulla porta del palazzo ove abitava il governatore, e lasciò alle guardie una imbasciata di villanie da essergli riferita in suo nome.
Avvenne un giorno che a costui come a protettore noto di tutte le cause spallate si presentò un debitore svogliato di pagare, e si richiamò a lui della molestia che gli era recata dal suo creditore, raccontando il negozio a modo suo, e protestando ch'egli non doveva nulla, e che non aveva al mondo altra speranza che nella protezione onnipotente del signor Conte.
Il creditore, un benestante d'un paese vicino, non era sul calendario del Conte, perché senza provocarlo giammai, né usargli il menomo atto di disprezzo, pure mostrava di non volere stare come gli altri alla suggezione di lui, come chi vive pei fatti suoi e non ha bisogno né timore di prepotenti.
Al Conte fu molto gradita l'opportunità di dare una scuola a questo signore: trovò irrepugnabili le ragioni del debitore, lo prese nella sua protezione, chiamò un servo, e gli disse: «Accompagnerai questo pover uomo dal signor tale, a cui dirai in mio nome che non gli rechi più molestia alcuna per quel debito preteso, perché io ho riconosciuto che costui non gli deve nulla: ascolterai la sua risposta: non replicherai nulla quale ch'ella sia, e quale ch'ella sia, tornerai tosto a riferirmela».
Il lupo e la volpe s'avviarono tosto dal creditore, al quale il lupo espose l'imbasciata, mentre la volpe stava tutta modesta a sentire.
Il creditore avrebbe volentieri fatto senza un tale intromettitore; ma punto dalla insolenza di quel procedere, animato dal sentimento della sua buona ragione, e atterrito dalla idea di comparire allora allora un vigliacco, e di perdere per sempre ogni credito; rispose ch'egli non riconosceva il signor Conte per suo giudice.
Il lupo e la volpe partirono senza nulla replicare, e la risposta fu tosto riferita al Conte, il quale udendola disse: «benissimo».
Il primo giorno di festa la chiesa del paese dove abitava il creditore era ancora tutta piena di popolo che assisteva agli uficj divini, che il Conte si trovava sul sagrato alla testa di una troppa di bravi.
Terminati gli uficj, i più vicini alla porta uscendo i primi e guardando macchinalmente sul sagrato videro quell'esercito e quel generale, e ognun d'essi spaventato, senza ben sapere che cagione di timore potesse avere si rivolsero tutti dalla parte opposta, studiando il passo quanto si poteva senza darla a gambe.
Il Conte, al primo apparire di persone sulla porta si era tolto dalla spalla l'archibugio, e lo teneva con le due mani in apparecchio di spianarlo.
Al muro esteriore della chiesa stavano appoggiati in fila molti archibugj secondo l'uso di quei tempi nei quali gli uomini camminavano per lo più armati, ma non osavano entrar con armi nella chiesa, e le deponevano al di fuori senza custodia per ripigliarle all'uscita.
Tanta era la fede publica in quella antica semplicità! Ma i primi che uscirono non si curarono di pigliare le armi loro in presenza di quel drappello: anche i più risoluti svignavano dritto dritto dinanzi a un pericolo oscuro, impreveduto, e che non avrebbe dato tempo a ripararsi e a porsi in difesa.
I sopravvegnenti giungevano sbadatamente sulla soglia, e si rivolgevano ciascuno al lato che gli era più comodo per uscire, ma alla vista di quell'apparato tutti si volgevano dalla parte opposta e la folla usciva come acqua da un vaso che altri tenga inclinato a sbieco, che manda un filo solo da un canto dell'apertura.
Si affacciò finalmente alla porta con gli altri il creditore aspettato, e il Conte al vederlo gli spianò lo schioppo addosso, accennando nello stesso punto col movimento del capo agli altri di far largo.
Lo sventurato colpito dallo spavento, si pose a fuggire dall'altro lato, e la folla non meno, ma l'archibugio del Conte lo seguiva, cercando di coglierlo separato.
Quegli che gli erano più lontani s'avvidero che quell'infelice era il segno, e il suo nome fu proferito in un punto da cento bocche.
Allora nacque al momento una gara fra quel misero, e la turba tutta compresa da quell'amore della vita, da quell'orrore di un pericolo impensato che occupando alla sprovveduta gli animi non lascia luogo ad alcun altro più degno pensiero.
Cercava egli di ficcarsi e di perdersi nella folla, e la folla lo sfuggiva pur troppo s'allontanava da lui per ogni parte, tanto ch'egli scorrazzava solo di qua di là, in un picciolo spazio vuoto, cercando il nascondiglio il più vicino.
Il Conte lo prese di mira in questo spazio, lo colse, e lo stese a terra.
Tutto questo fu l'affare di un momento.
La folla continuò a sbandarsi, nessuno si fermò, e il Conte senza scomporsi, ritornò per la sua via, col suo accompagnamento.
Se quel fatto crescesse in tutto il contorno il terrore che già ognuno aveva del Conte, non è da domandare; e l'impressione comune di stupore, e di sgomento fu tale che nessuno poteva pensare al Conte senza che il fatto non gli ricorresse al pensiero; e così fu associata al nome quella idea, che tutti avevano associata alla persona.
Il Conte sapeva che lo disegnavano con questo soprannome, ma lo sofferiva tranquillamente, non gli spiacendo che ognuno, avendo a parlare di lui si ricordasse di quello ch'egli sapeva fare; o forse che avendo in qualche romanzo di quei tempi veduta qualche menzione di Scipione l'Africano, o di Metello il Numidico, amasse di aver com'essi il nome dal luogo illustrato da una grande impresa.
Teneva egli dispersi o appostati assai bravi nello Stato milanese e nel veneto, e dal suo castello posto a cavaliere ai due confini dirigeva gli uni e gli altri, facendo ajutare o perseguitare quegli che si rifuggivano da uno Stato nell'altro, secondo l'occorrenza, tramutandone alcuno talvolta, quando qualche operazione lo domandasse, o anche quando alcuno avesse in uno stato commessa qualche iniquità tanto clamorosa che la giustizia per averlo nelle mani facesse sforzi straordinarj, che esigessero sforzi straordinarj per difenderlo.
Allora la fuga del reo era una buona scusa ai ministri della giustizia del non far nulla contra di lui, e la cosa finiva quietamente, tanto che dopo qualche tempo non se ne parlava più, né meno sommessamente, e il reo ricompariva con faccia più tosta che mai.
Questo maneggio serviva non poco ad agevolare tutte le operazioni del Conte, perché le si compivano tutte senza molto impaccio dei ministri della giustizia, i quali potevano sempre allegare l'impossibilità di porvi un riparo.
Quanto alle operazioni che il Conte eseguiva di propria mano, la giustizia non se ne mostrava accorta; ed era regola ricevuta di prudenza, che erano di quelle cose in cui ogni dimostrazione avrebbe prodotti più inconvenienti che non il dissimularle.
Le sue corrispondenze erano varie, estese, sempre crescenti.
Pochi erano i tiranni della città, e di una gran parte dello stato che non avessero qualche volta fatto capo a lui per condurre a termine qualche vendetta o qualche soperchieria rematica, massimamente se la persona da colpirsi, o il fatto da eseguirsi era nelle sue vicinanze.
E non basta, fino ad alcuni principi stranieri tenevano comunicazione con lui, e a lui avevano ricorso tal volta per qualche uccisione d'importanza, e quando il caso lo richiedesse gli mandavano rinforzi: fatto attestato dal Ripamonti, e strano certamente per chi misura la probabilità degli avvenimenti e dei costumi dalla sola esperienza dei suoi tempi; ma fatto che cammina benissimo con tutto l'andamento di quel secolo.
Nella sua professione d'intraprenditore di scelleratezze, era egli pieno di affabilità nel contrattare, e nell'eseguire metteva, ed esigeva una somma puntualità.
Accoglieva con molta riserva certamente per non incorrere nel pericolo al quale era sempre esposto, ma con molta piacevolezza, quelli che venivano a domandare l'opera sua, deponeva con essi il sopracciglio, stipulava con parole spicce, ma pacate, non andava in furia contra chi non avesse voluto stare alle sue condizioni, ma rompeva pacificamente il trattato, non volendo né disgustare alcuno senza utilità, né atterrire coloro, i quali avevano per la scelleragine più inclinazione nella volontà, che determinazione di coraggio.
Ma stretti i patti, colui che non gli avesse ben fedelmente serbati con lui, doveva esser bene in alto per tenersi sicuro dalla sua vendetta.
Don Rodrigo conosceva il Conte non solo di fama (chi non lo conosceva di fama?) ma di persona, per essersi talvolta avvenuto in lui.
In tutti questi incontri Don Rodrigo sentendo la sua inferiorità, aveva deposto ogni orgoglio e aveva cercato con molte espressioni di rispetto di porsi in grazia al Conte; non ch'egli pensasse allora che un giorno avrebbe cercato il suo ajuto, ma soltanto per non farsi un tale nemico.
Confermato nel suo perverso proposto di attingere la innocente Lucia, e convinto che le sue mani non erano abbastanza lunghe, si risolvette Don Rodrigo di andare in cerca di chi volesse prestargli le sue; fatta questa risoluzione, non v'era da titubare sulla scelta del personaggio, perché il Conte era appunto per lui quel che il diavolo fece.
CAPITOLO VIII
Il mattino vegnente, senza por tempo in mezzo, Don Rodrigo a cavallo, in abito da caccia, col fedel Griso che camminava a fianco del palafreno, e con una quadriglia di bravi, si mosse verso il castello del Conte, come altre volte Giunone verso la caverna di Eolo; se non che la Dea pagava in Ninfe l'opera buona del re dei venti, e Don Rodrigo sapeva bene che avrebbe dovuto recarla a Doppie.
La via era di cinque miglia all'incirca; e Don Rodrigo la faceva lentamente, e per dare agio alla scorta pedestre di seguirlo; e perché il cammino quasi tutto montuoso e disuguale e sassoso anche dov'era piano obbligava il ronzino ad andare di passo, e a cercare il luogo dove posare la zampa con sicurezza.
I villani che si abbattevano su quella via, al vedere spuntare il convoglio, si ritiravano dall'un canto verso il muro, per dare a Don Rodrigo il comodo d'un libero passaggio; e quando erano giunti al medesimo punto della strada, si ristringevano ancor più al muro, con aria quasi di chiedere scusa a Don Rodrigo d'essersi trovati sul suo cammino.
Don Rodrigo che già cominciava a godere nella sua mente un'anticipazione della potenza che gli avrebbe data l'alleanza che andava a contrarre, gli guarda con un volto fosco e sprezzante, come se dicesse: - vi siete rallegrati troppo presto a mie spese; lo so; ma vedrete chi sono -.
Giunto dinanzi al convento che si trovava su la sua strada, Don Rodrigo rallentò ancor più il passo, e si rivolse tutto a sinistra, guardando fieramente se mai il Padre Cristoforo girasse fuori del nido: ma non v'era nessuno: la porta della chiesa era aperta, e si sentivano i frati cantare l'uficio in coro.
In mezzo alla sua ira Don Rodrigo si risovvenne delle promesse del Conte Attilio, e dei disegni che questi gli aveva comunicati sul modo di liberarlo da quei frate: pensò che in quel momento forse la trappola era già tesa; e passando dalla collera alla compiacenza, fece un sogghigno accompagnato da un «ah! ah!» il cui senso non fu chiaramente compreso che dal fidato Griso; il quale per mostrare la sua sagacità, e per far vedere ai compagni ch'egli era molto internato nei segreti del padrone, si volse a questo pur sogghignando, e facendo col volto un cenno che voleva dire: - a quest'ora il frate sarà servito -.
Pochi passi dopo il convento giunse la brigata ad uno di quei tanti torrenti che si gettano nel lago, dai monti che lo ricingono.
Questo si chiamava e si chiama tuttavia il Bione, nome che non si troverà in alcun dizionario geografico; e a dir vero colui che lo porta non merita per nessun verso di esser memorato.
Scappa fuori da un monte che è quasi poggiato nel lago, e per un brevissimo e larghissimo letto manda per lo più qualche filo d'acqua, e dopo le grandi piogge, e allo scioglimento delle nevi, mena un largo fiume d'acqua che in un momento si perde, e un flagello di ciottoloni, che rimangono.
In quel momento non vi scorrevano che due o tre rigagnoli sparsi in un deserto di sassi: noi avremmo voluto che la nostra storia registrasse a questo passaggio qualche incontro, qualche avvenimento inaspettato, per poterne illustrare quel torrente, e togliere il suo nome dalla oscurità, ma la storia non ne registra: e noi solleciti della verità più che d'ogni altra cosa non possiamo dire altro se non che il cavallo di Don Rodrigo attraversò il letto in retta linea, tenuto pel freno dal Griso il quale dovette porre i piedi nel guazzo, scontando così com'era giusto un poco l'onore di star più vicino al signore; mentre gli altri bravi passarono un po' più in giù sur un ponticello stretto a piedi asciutti.
Varcato il Bione, andarono per un miglio circa sulla via pubblica che conduce al luogo dove allora era il confine dello stato veneto; e quindi presero un viottolo ripido a sinistra che conduceva al castello del Conte.
Appiedi della ultima salita che dava al castello v'era una rozza e picciola taverna; e sulla porta della taverna un impiccatello di forse dodici anni, il quale al veder gente armata entrò tosto a darne avviso; ed ecco uscirne tre scheranacci nerboruti ed arcigni i quali deposte sul tavolo le carte sudice e ravvolte come tegole con le quali stavano giucando; stettero a guardare con sospetto chi veniva.
Don Rodrigo aveva già tirata la briglia del suo ronzino per rivolgerlo sulla salita, quando uno dei tre, facendogli cenno di ristare gli chiese molto famigliarmente: «dove si va signor mio, con questa bella compagnia?» In altro luogo ed in altra occasione Don Rodrigo che aveva la superiorità del numero, e che non era avvezzo a sentirsi così interrogare da paltonieri, avrebbe risposto chi sa come; ma egli sapeva di essere negli stati del Conte, e s'avvedeva che parlava con dipendenti da quello, onde fingendo di non trovare nulla di strano in quel modo, rispose umanamente: «Vado ad inchinare il signor Conte».
«E chi è Vossignoria?» replicò l'altro con tuono più amichevole ma non meno risoluto.
«Sono il signor Don Rodrigo...»
«Bene; ma sappia che su per quell'erta non camminano altri armati che quelli del signor Conte; e s'ella vuole riverirlo, potrà venir solo a fare una passeggiata con me».
Don Rodrigo intese che bisognava anche scendere da cavallo, e ricordandosi di quel proverbio: si Romae fueris, romano vivito more, non si fece pregare, e disse: «avrò molto piacere di far questi pochi passi a piede: e voi intanto», disse rivolto alla sua scorta, «starete qui aspettandomi a refiziarvi, e a godere della compagnia di questa brava gente».
Mentre quivi si parlamentava, scendevano per l'erta a varie distanze uomini del Conte che dall'altura avevan veduti armati a fermarsi; ma colui che s'era offerto di accompagnare Don Rodrigo, accennò loro che erano amici, e quegli ritornarono.
Don Rodrigo sceso, e date le briglie in mano al Griso cominciò a salire con la sua guida; la quale non volendo forse avere offeso un uomo che poteva esser più amico del Conte che non si sapesse, fece una qualche scusa a Don Rodrigo di averlo fatto scendere.
«Se il Signor Conte», disse colui, «fosse stato avvertito della sua visita, avrebbe dato ordine perch'ella fosse accolta con le debite cerimonie; perché ella deve sapere quanto il mio padrone sia cortese coi gentiluomini che sanno il vivere del mondo; ma Vossignoria non è aspettata, e noi abbiamo dovuto fare il nostro dovere che è di non lasciar passare a cavallo che gli amici vecchi del signor Conte».
«Certo, certo», rispose Don Rodrigo: «io sono buon servitore del signor Conte, e non pretendo che egli abbia a far complimenti con me».
- Questi è un signore davvero, - pensava tra sè continuando la sua salita Don Rodrigo.
- Vedete un po', come sa farsi rispettare, ed esser padrone in casa sua.
S'io volessi fare una legge simile, non so se vi potrei riuscire: ma è poi anche vero che fa una vita da romito.
A voler godere un po' il mondo non bisogna star tanto in sulle sue, né metter tanta carne a fuoco.
- Così Don Rodrigo si racconsolava della sua inferiorità; e nel resto del cammino andava rimasticando i discorsi ch'egli aveva preparati pel Conte.
Giunti al castello, la guida v'entrò con Don Rodrigo, e lo fece aspettare in una sala, dove stavano sempre servi armati, pronti agli ordini del Conte.
Dopo pochi momenti, la guida tornò invitando Don Rodrigo ad entrare dal padrone; e di sala in sala sempre incontrando scherani, lo condusse a quella dove stava il Conte del Sagrato.
Don Rodrigo s'inchinò profondamente con quell'aria equivoca che può egualmente parere bassezza o affettazione, e il Conte che in mezzo a tanti affari non aveva potuto conservare le abitudini cerimoniose di quel tempo, gli corrispose con una leggiera e rapida inclinazione del capo; e gli fece cenno di sedersi sur una seggiola la quale era posta in luogo che dall'altra stanza si potesse scorgere ogni moto di colui che vi era seduto.
Dopo molte cerimonie, alle quali il Conte badò poco, Don Rodrigo sedette; e il Conte pure a qualche distanza.
Era il Conte del Sagrato un uomo di cinquant'anni, alto, gagliardo, calvo, con una faccia adusta e rugosa.
Si sforzava fino ad un certo segno d'esser garbato, ma da quegli sforzi stessi traspariva una rusticità feroce e indisciplinata.
«Dovrei scusarmi», cominciò Don Rodrigo, «di venir così a dare infado a Vossignoria Illustrissima».
«Lasci queste cerimoniacce spagnuole, e mi dica in che posso servirla».
«Non so se il Signor Conte si ricordi della mia persona, ma io ho presente di essere stato qualche volta fortunato...»
«Mi ricordo benissimo, e la prego di venire al fatto».
«A dir vero», riprese Don Rodrigo «io mi trovo impegnato in un affare d'onore, in un puntiglio, e sapendo quanto valga un parere di un uomo tanto esperimentato quanto illustre, come è il Signor Conte, mi sono fatto animo a venir a chiederle consiglio, e per dir tutto anche a domandare il suo amparo».
«Al diavolo anche l'amparo», rispose con impazienza il Conte.
«Tenga queste parolacce per adoprarle in Milano con quegli spadaccini imbalsamati di zibetto, e con quei parrucconi impostori che non sapendo essere padroni in casa loro, si protestano servitore d'uno spagnuolo infingardo».
E qui avvedendosi che Don Rodrigo faceva un volto serio, tra l'offeso e lo spaventato, si raddolcì e continuò: «intendiamoci fra noi da buoni patriotti, senza spagnolerie.
Mi dica schiettamente in che posso servirla».
Don Rodrigo si fece da capo e raccontò a suo modo tutta la storia, e finì col dire che il suo onore era impegnato a fare stare quel villanzone e quel frate, e ch'egli voleva aver nelle mani Lucia; che se il Signor Conte avesse voluto assumere questo impegno, egli non dubitava più dell'evento.
«Non intendo però», continuò titubando, «che oltre il disturbo, il Signor Conte debba assoggettarsi a spese per favorirmi...
è troppo giusto...
e la prego di specificare...»
«Patti chiari», rispose senza titubare il Conte, e proseguì mormorando fra le labbra a guisa di chi leva un conto a memoria: «Venti miglia...
un borgo...
presso a Milano...
un monastero...
la Signora che spalleggia...
due cappuccini di mezzo...
signor mio, questa donna vale dugento doppie».
A queste parole succedette un istante di silenzio, rimanendosi l'uno e l'altro a parlare fra sè.
Il Conte diceva nella sua mente: - l'avresti avuta per centocinquanta se non parlavi d'infado e d'amparo -; e Don Rodrigo intanto faceva egli pure mentalmente i suoi conti su le dugento doppie.
- Diavolo! questo capriccio mi vuol costare! Che Ebreo! Vediamo...
le ho: ma ho promesso al mercante...
via lo farò tacere.
Eh! ma con costui non si scherza: se prometto, bisognerà pagare.
E pagherò:...
frate indiavolato, te le farò tornare in gola...
Lucia la voglio...
Si è parlato troppo...
non son chi sono...
- Fatta così la risoluzione, si rivolse al Conte e disse: «Dugento doppie, signor Conte, l'accordo è fatto».
«Cinque e cinque, dieci», rispose il conte.
E questa, se mai per caso la nostra storia capitasse alle mani di un lettore ignaro del linguaggio milanese, è una formola comune, che accennando il numero delle dita di due mani congiunte, significa l'impalmarsi per conchiudere un accordo.
E nell'atto di proferire la formola, il Conte stese la mano, e Don Rodrigo la strinse.
«Le darò», disse Don Rodrigo, «uno dei miei uomini, che conosce benissimo la persona, e starà agli ordini di Vossignoria...»
«Non fa bisogno», rispose il Conte del Sagrato: «mi basta il nome», e qui cavò una vacchetta sulla quale sa il cielo che memorie erano registrate, e fattosi dire un'altra volta il nome e il cognome della nostra poveretta, lo scrisse, e notò pure il monastero.
«Ma non vorrei che nascessero abbagli».
«So quel che posso promettere», rispose il Conte, il quale coglieva ogni destro di dare una idea inaspettata del suo potere e della certezza dei suoi mezzi.
«Certo», replicò Don Rodrigo, «pel Signor Conte non v'è cosa impossibile».
«Ad un mio avviso, ella mandi persone fidate con le dugento doppie, e la persona sarà consegnata».
«Così farò; e mi raccomando...
vede bene...
non vorrei che...
il Signor Conte darà ordini precisi, e impiegherà persone di giudizio».
«Al corpo di mille diavoli! Ella non sa dunque come io son servito: tutti i miei uomini sono ben persuasi che colui il quale in una simile circostanza pigliasse la più picciola libertà, sarebbe punito con le mie mani».
«Non ne dubito», rispose Don Rodrigo.
«Segreto, e fedeltà ai patti!» disse il Conte.
«Son uomo d'onore», rispose Don Rodrigo, e si accomiatò.
Uscì del castello, scese alla taverna, trovò la sua scorta, pagò largamente lo scotto, e si avviò verso casa.
Non aveva egli ancora oltrepassata la soglia del castello del Conte, che questi aveva già dato principio all'impresa, prendendo la penna, e scrivendo una lettera a quell'Egidio di Monza, che il lettore conosce, per invitarlo a venire al Castello per un negozio di somma premura.
È d'uopo sapere che il Conte era uno di quei vecchi amici del padre di Egidio coi quali questi aveva mantenuta corrispondenza; anzi era di tutti il più intrinseco e il più riverito.
Il giovane Egidio appena rimasto solo aveva implorata l'assistenza del Conte per adempire la vendetta del padre, e il Conte che nel giovanetto aveva già intravedute disposizioni non ordinarie, e che aveva pensato di farne uno degli agenti che teneva in varie parti del paese, lo aveva in quella occasione soccorso di denari e d'uomini, e sempre in seguito gli si era mostrato pronto ad ajutarlo dove fosse stato di mestieri.
Si formò quindi fra loro l'intelligenza di darsi mano a vicenda in ogni occorrenza; nel che Egidio faceva le sue parti con molto zelo, e con una certa sommessione verso il Conte, per la sua età, per la sua fama, e per gli obblighi che Egidio gli aveva, e perché in ogni frangente contava d'avere in lui un difensore invincibile.
Per ciò il Conte, quando Don Rodrigo gli parlò di Monza, corse tosto col pensiero ad Egidio, e conoscendo per esperienza la devozione, e risolutezza di lui, sapendo che la sua casa era contigua al monastero, fece ragione che la impresa era come compiuta, e promise a Don Rodrigo con quella asseveranza che abbiamo veduta, e che gli diede una maraviglia non affatto sgombra di diffidenza.
Il messo partì; e il giorno susseguente Egidio si mosse di buon mattino, e verso il mezzogiorno salì in trionfo fino al castello del Conte con due cavalieri, e con quattro pedoni che l'accompagnavano, distinzione riserbata a quegli che erano non solo amici, ma alleati e la gente dei quali era impiegata al bisogno, ad eseguire i disegni del Conte.
In fatti gli uomini di Egidio e quelli del Conte s'erano trovati insieme in più d'una impresa, ed erano per lo più antiche conoscenze, e avvezzi in ogni caso a far conto su uno scambievole ajuto.
Quindi a misura che Egidio avvicinandosi al castello, incontrava di quei bravi che vi soggiornavano, questi dopo d'aver umilmente inchinato l'amico del padrone, facevano festa pur camminando, al suo corteggio, ed era una ripetuta stretta di mani, e un dare e rendere di saluti a cui si appiccavano i più bisbetici e scomunicati nomi del mondo.
«Benvenuto il Tanabuso!» «Bentrovato il Montanaruolo!» «Oh addio, Strozzato!» «Buon giorno Biondino bello!» «Bravo, Nibbione, mi consolo di vederti bene in gamba!» «Eh! Spettinato, grazie al cielo, in gamba, sano e salvo agli statuti di Milano, fin che viene la mia ora!» «Bravo un'altra volta! Ehi! e quel tale che ti faceva l'amore dietro tutte le siepi?» «Mandato a dormire senza cena», rispose il Nibbione, stendendo il braccio sinistro e appoggiando orizzontalmente la mano destra alla guancia.
«Bene», rispose lo Spettinato: «così va fatto: meglio pagare che riscuotere».
«Così m'ha insegnato mio padre», replicò il Nibbione.
Con questi bei ragionamenti giunse la trista brigata alla vista del castello; quivi si trovò il Conte che avendo veduto salire l'amico gli si faceva incontro.
Quando Egidio lo scorse, balzò da cavallo, gittò la briglia a uno de' suoi uomini, e corse a lui: si abbracciarono, entrarono insieme nel castello: gli scherani dell'uno e dell'altro seguitarono riverentemente in silenzio, ed entrati pure in frotta, andarono tutti insieme a gozzovigliare secondo gli ordini dati dal Conte.
Quando i due amici furono soli nella stanza appartata, dove il Conte trattava gli affari più reconditi, scoperse ad Egidio il motivo della chiamata in questo modo.
«Mio caro Egidio, e posso dir figlio.
Ho un affare a Monza, pel quale m'è d'uopo un amico fidato, e un uomo destro e valente; e ho posti gli occhi sopra di te».
«Vorrei vedere», rispose Egidio, «chi sarebbe in Monza colui che ardisse vantarsi di esservi più amico di me».
«La mentita gliela darei io», replicò il Conte.
«Ora mettetemi alla prova».
«Ho bisogno di avere in mano una persona», disse il Conte.
«Viva, o morta?» domandò Egidio.
«Viva, viva», rispose il Conte, «è un affare allegro».
«Bene», disse Egidio, «purché non sia il Castellano né alcuno di sua famiglia, né il feudatario, né il podestà, né un ufiziale spagnuolo...»
«Ih! ih!» disse il Conte, «che vorresti tu ch'io facessi di questa gente? Quando io gli avessi tutti in questo castello, farei aprire tutte le porte per lasciarli andare.
Non sono buoni da nulla né vivi né morti».
«Che so io?» riprese Egidio: «Bene, purché non sia ancora, né l'arciprete, né tampoco un prete, né un frate, né una monaca, perché non vorrei aver che fare col Cardinale, che sarebbe uomo da mettere a soqquadro tutta Roma e tutta Madrid, finché non ne avesse veduta l'acqua chiara: purché non sia nessuno di questi, vi prometto, umanamente parlando, che siete servito».
«Ebbene», disse il Conte «quello ch'io vorrei che tu prendessi non è nessuno di questi uccellacci che hai nominati: è il più picciolo reatino che tu possa immaginare.
Solamente, è rimpiattato in una certa fratta che ci vorrà destrezza assai a cavarnelo».
«Vediamo», rispose confidentemente Egidio.
Il Conte cavò la sua vacchetta, e dopo aver rivolta qualche carta, lesse: Lucia Mondella, e continuò: «è una contadina di questi contorni che si trova in Monza nel monastero contiguo alla tua casa, sotto la protezione della Signora; protezione molto fredda però; e raccomandata al guardiano dei cappuccini».
«Ne ho inteso parlare»; rispose Egidio, il quale ne sapeva sul conto di Lucia molto più del Conte, ma non voleva mostrarsene più inteso, perché i suoi rapporti con la Signora erano un segreto al quale non ammetteva nemmeno gli amici più intrinseci.
«Prendi tu l'impegno?» domandò il Conte.
«Senza dubbio», rispose Egidio.
«E la Signora?»
«La Signora, come vi hanno detto benissimo non si piglia molto a cuore questa donna; così almeno ho inteso dire da quelli di casa mia che bazzicano con l'ortolano, o con qualche altro mascalzone del monastero.
E poi, faremo la cosa in modo che né la Signora né altri possa sospettare donde il colpo venga».
«Sai tu ch'ella si allontani dal monastero qualche volta? Hai mezzo per farla uscire?»
«M'impegno di trovarlo.
E non vi posso promettere né pel tal giorno, né per la tale settimana; ma piglierò il tempo, e sarete servito; e non andrà molto».
«Bravo! e hai tu bisogno d'uomini in ajuto?»
«Ho bisogno certo d'uomini, non tanto per compire l'opera, come per distornare i sospetti.
Quando io vi darò avviso, voi mi manderete dei vostri uomini forestieri, dei più destri e determinati; costoro si lasceranno vedere qualche tempo prima; si parlerà in paese di loro: quando la donna sarà scomparsa...»
«Va bene, si dirà che è stata rapita da forastieri, sconosciuti, da Bergamaschi».
«Rapita, o fuggita con essi: quel che si vorrà: o anche l'uno e l'altro perché ho veduto in più d'un caso che il raccontare una storia in diverse maniere serve molto a confondere le teste, e a tener lontani i sospetti dalla verità del fatto».
«Tu parli come un vecchio, e sai operare da giovane», rispose il Conte.
«Io ti manderò gli uomini che mi richiederai: e non avranno altro ordine che di ubbidire ai tuoi».
Così fu conchiuso l'orribile accordo: Egidio annunziò al Conte che l'indomani ripartirebbe di buon mattino, e che appena giunto a casa, avviserebbe ai mezzi di condurre a buon fine l'impresa.
La sicurezza però di Egidio diede al Conte una maraviglia non molto dissimile da quella che Don Rodrigo aveva presa della sua.
Si aspettava bene il Conte che Egidio avrebbe abbracciata l'impresa, e trovato il modo di compierla, ma ch'ella dovesse parergli così agevole, non lo avrebbe immaginato.
Si preparava anzi a fargli animo, e a suggerirgli i mezzi per vincere gli ostacoli che Egidio gli avrebbe opposti; e fra questi il primo gli pareva che dovesse essere la Signora: ma il lettore sa che questo che al Conte sembrava ostacolo dovette tosto affacciarsi alla mente di Egidio come un mezzo validissimo.
Ed è questo uno dei molti vantaggi dei lettori di storie: il sapere certe cose ignorate dai personaggi più importanti di esse; il veder chiaro dove i più accorti ed oculati personaggi camminano all'oscuro: vantaggio che dovrebbe ispirare ad ogni lettore bennato molta riconoscenza a coloro che glielo procurano, che alla fin fine sono gli scrittori di quelle storie.
Nel resto di quel giorno il Conte trattenne in festa l'amico, in quella festa però che poteva essere in quel luogo e fra quei due.
All'indomani, dopo molti affettuosi congedi, Egidio partì, promettendo che ben presto manderebbe al Conte buone novelle dell'affare; discese al lago, entrò nel battello del Conte, traghettato all'altra riva dell'Adda coi suoi, si ripose a cavallo, e prese la via di Monza.
In quel tempo di provocazioni, di vendette, di agguati, di tradimenti, l'uomo che si allontanava quattro passi da casa sua, camminava sempre con sospetto a guisa d'un esploratore in vicinanza del nemico; e più d'ogni altro i facinorosi e soverchiatori di mestiere, quelli che avevano in ogni parte conti accesi di offese o di minacce, com'era Egidio.
Benché mandasse alcuni passi innanzi a battergli la via uno de' suoi cavalieri, il quale spiava se ci fossero insidie, o se giungessero nemici, pure andava egli stesso guardandosi a destra e a sinistra, cercando di penetrare con lo sguardo ogni siepe, alzandosi di tempo in tempo su le staffe per veder dietro i muri dei campi, piegandosi per vedere dietro ogni cappelletta, volgendosi di tempo in tempo a vedere dietro le spalle, e affisando da lontano chiunque veniva, perché poteva essere un nemico, o il sicario nascosto di un nemico.
Alla metà circa della via, incontrò egli una caravana di carretti e di pedoni, e li riconobbe da lontano per quelli che erano veramente cioè pescivendoli che tornavano da Milano dopo avere smaltita la loro merce, e che camminavano di conserva per assicurarsi dai masnadieri.
Esaminando però attentamente ogni persona della caravana, a misura che gli passava dinanzi, gli parve di riconoscere una donna, che si stava accosciata sur un carretto, coperta il capo d'un fazzoletto rannodato sotto il mento, la quale veggendo venire armati guatava con una curiosità mezzo spaventata.
Egidio la mirò più fisamente, s'avvide che s'era apposto, che era dessa, e si rallegrò pensando che a Monza troverebbe un impiccio di meno nell'esecuzione del suo mandato.
Era la nostra povera Agnese che avendo in vano aspettato le lettere o almeno imbasciate promesse dal Padre Cristoforo, impaziente di venire in chiaro del come andassero le cose, qual partito si dovesse finalmente pigliare; tornava al paese, per saperne qualche cosa, per dare nello stesso tempo una occhiata alla casa ed alle masserizie.
Lucia alla quale i pericoli passati, la fuga, il trovarsi come smarrita lungi dalla sua casa fra gente nuova, il timore continuo di peggio avevan restituita quasi tutta la timidezza della infanzia, aveva più volte afferrata la gonna della madre per non lasciarla partire, aveva pianto, e pregato, ma, finalmente stanca essa pure della incertezza, e più ansiosa di saper qualche cosa di quello che non ne confessasse, rassicurata dal trovarsi in un asilo così guardato, e così santo, s'acquetò, e lasciò che la madre ne andasse; e Agnese se n'era venuta, senza cruccio della figlia che le pareva d'aver lasciata, come si dice, su l'altare.
Noi torneremo indietro con la buona donna verso le nostre montagne, lasciando andare lo sciagurato Egidio al suo viaggio.
Quando Agnese si trovò al punto dove la strada che conduceva al suo tugurio si divideva da quella che dovevan fare i pescivendoli per giungere a casa loro, cioè quando ebbe passato il ponte dell'Adda, scese di carretto, e preso il suo fardello cominciò a piedi le due miglia che le restavano di viaggio, camminando non senza sospetto.
Si confortava però pensando che Don Rodrigo non l'avrebbe voluta far rapire, e che non sarebbe nemmeno stato tanto scellerato da farle far male alcuno, senza suo profitto.
Giunta vicino a casa, v'andò quanto più celatamente potè per viottoli, e infatti non fu scorta da veruno; picchiò, le fu aperto da quella sua cognata che stava a guardare la casa, trovò le cose in ordine; chiese novelle del Padre Cristoforo alla cognata che non potè rispondergli se non che da quel primo giorno non lo aveva più veduto comparire; e dopo d'avere esitato qualche momento, si fece animo, e prese la via del convento.
Tutta ansiosa si fece alla porta, e tirò il campanello, al suono del quale, ecco venire un occhio ad una picciola grata della porta a spiare chi sia arrivato, si alza un saliscendo, si apre mezza la porta, e al luogo dell'apertura un lungo, vecchio, e magro frate portinajo con la barba bianca sul petto che dice:
«Chi cercate buona donna?»
«Il padre Cristoforo».
«Non c'è».
«Starà molto a tornare?»
«Mah!»
«Dov'è andato?»
«A Palermo».
«A...?»
«A Palermo», ripetè posatamente il frate portinajo.
«Dov'è questo luogo?» domandò di nuovo Agnese.
«Eh! hee!» rispose il portinajo, stendendo il braccio e la mano destra e trinciando l'aria verticalmente per significare una lunga distanza.
«Oh diavolo!» sclamò Agnese.
«Ohibò, buona donna», disse pacatamente il frate: «che c'entra colui? non chiamatelo qui fra di noi, che poniamo ogni cura per tenerlo lontano».
«Ha ragione, Padre, ma io sto fresca».
«Bisogna aver pazienza», rispose il frate ritirandosi per richiudere la porta.
«Ma», disse Agnese in fretta, ritenendolo, «che cosa è andato a fare in quel paese?»
«A predicare», rispose il cappuccino.
«Ma perché è andato via così all'improvviso senza dirmi niente?»
«Gli è venuta l'obbedienza dal padre provinciale».
«E perché l'hanno mandato lui che aveva da far qui, e non un altro?»
«Se i superiori dovessero render ragione degli ordini che danno, non vi sarebbe obbedienza».
«Va benissimo; ma questa è la mia ruina».
«Ci vuol pazienza, buona donna.
Pensate al contento che proveranno quei di Palermo a sentirlo predicare: perché, vedete il padre Cristoforo è cima di predicatori; è un santo padre in pulpito».
«Oh il bel sollievo per me!»
«Vedete se v'è qualche altro nostro padre che possa tenervi luogo di lui, rendervi qualche servizio, nominatelo, e lo andrò a chiamare».
«Oh Santa Maria!» rispose Agnese con quella riconoscenza mista di stizza che fa nascere una offerta dove si trovi più di buona volontà che di convenienza: «chi ho da far chiamare, se non conosco nessuno: quegli sapeva tutti i fatti miei, mi dava tutti i pareri, aveva amore per noi poveretti».
«Dunque abbiate pazienza», rispose di nuovo il frate, disponendosi ancora a partire.
«...Ma, ma...» domandò ancora Agnese, «quando sarà di ritorno?...
così a un dipresso?»
«Mah!» rispose il frate.
«Quando avrà terminato il quaresimale, cioè a Pasqua, aspetterà un'altra obbedienza per sapere se deve restar là dove è andato, o tornar qui, o portarsi ad un altro luogo dove comanderanno i superiori: perché, vedete, noi abbiamo conventi in tutte le quattro parti del mondo».
«Oh la bella storia!» sclamò Agnese.
«Questo è quello che vi posso dire», rispose il frate, chiudendo questa volta la porta sul volto ad Agnese, la quale dopo esser rimasta ivi un qualche tempo come smemorata, riprese tristamente la via della sua casa, pensando come potrebbe riparare una tanta perdita e arzigogolando i motivi di una sì subitanea disparizione, senza poter mai venire ad una congettura un po' soddisfacente.
Non così il lettore, il quale quando voglia continuare la sua lettura, troverà qui tosto la spiegazione di tutto il mistero.
Il Conte Attilio, tornato a Milano, s'era tosto portato ad inchinare il conte suo Zio del consiglio segreto.
Era questi un vecchio ambizioso, geloso della parte di potere che gli era venuto fatto di afferrare, e geloso non meno dell'onore della sua famiglia e di tutto il parentado, al modo che s'intendeva l'onore a quei tempi.
Era egli per due sorelle, zio dei due cugini, e quindi chiese tosto ad Attilio novelle dell'altro nipote Don Rodrigo.
«Che fa quello sventato? Ma non serve ch'io ne chiegga a te che sei uno sventato come lui, e devi sempre trovarlo irreprensibile».
«Mi ha imposto di baciare umilmente la mano all'Eccellenza del signor zio, alla quale è sempre devotissimo».
«Sì sì...
mantiene bravi tuttavia?»
«Oh Signor zio, bravi...
non si può veramente chiamarli bravi: tiene un corteggio di servitori conveniente alla sua nascita, e al decoro della parentela».
«Sì sì...
ma Sua Eccellenza il signor Governatore non vuole i corteggi a questo modo, e si lascia qualche volta intendere che toccherebbe ai Ministri, e ai loro parenti dare l'esempio».
«Ma vede bene signor zio, il mondo diventa peggiore di giorno in giorno...»
«Oh questo sì; ma non tocca a te il dirlo».
«Ad ogni modo, il mondo è pieno di gente che non porta rispetto né alla nascita né al nome, se uno non lo sa far rispettare».
«Anche questo è vero; ma quando si ha uno Zio nel consiglio segreto e all'orecchio di Sua Eccellenza non si deve temere di soperchiatori».
«Certo, che con l'amparo del signor Zio noi potremmo aver soddisfazione di qualunque offesa: ma intanto gl'impegni nascerebbero, e il Signor Zio che ha tanta bontà di cuore, avrebbe disturbi ad ogni momento per causa nostra.
Così i temerarj si contengono col solo timore».
«Temerarj, temerari: io so molto bene che Don Rodrigo non è molestato da nessuno, se non cerca egli di molestare altrui».
«Eh! signor Zio ella sa quanti si trovano che presumono di essere superiori ad ogni autorità, e si fanno arditi contra chicchessia.
C'è per esempio un frate nel convento di Pescarenico, eh! signor Zio, non si può immaginare che superbia abbia costui».
«Che c'entra questo frate con Rodrigo?»
«Ci vuole entrare per forza, signor Zio.
Costui è pieno di premura, probabilmente spirituale, per una foresotta di quei contorni, e la guarda con un sospetto...
guai se alcuno le si avvicina.
Che cosa va a mettersi in capo questo frate? Che Rodrigo gli voglia rapire l'affetto di questa sua colomba.
E tutto questo, perché forse Rodrigo l'avrà guardata qualche volta passando: ma come le dico, la carità di questo frate è molto permalosa.
Ora non può credere le cose che ha dette costui di Rodrigo, i visacci che gli ha fatti, il tuono di minaccia con cui lo guarda, come se fosse un ragazzo plebeo».
«E questo frate sa che Don Rodrigo è mio nipote?»
«E come lo sa! Si figuri, che non faccio per censurare mio cugino, ma è il suo debole, lo dice ad ogni occasione, e lo compatisco; quando si ha un onore di questa sorte, non si vorrebbe tenerlo celato».
«E non ci è nessuno che faccia ricordare a questo frate che Don Rodrigo è mio nipote?»
«Eh pensi! tutte le persone di giudizio glielo fanno ricordare».
«E che dice egli?»
«Dice...
dice che il cordone di San Francesco non ha paura nemmeno degli scettri della terra».
«Come si chiama questo frate?»
«Fra Cristoforo da Cremona.
Fa il Santo, ma è conosciuto per un uomo torbido; ha sempre voluto cozzare con la gente bennata; in gioventù ha avuti incontri con cavalieri; ha un bell'omicidio su la coscienza e si è fatto frate per salvare la pelle: un cervello caldo».
Il Conte Zio prese la penna, e anche il nome di Fra Cristoforo fu registrato sur una terribile vacchetta, con due righe di commento.
«Sicuramente», borbottava poi il Conte riponendo la sua vacchetta; «il cordone di San Francesco! Lo so anch'io, ma t'insegnerò io, frate, che per adoperarlo a proposito, non fa bisogno d'averlo ravvolto intorno alla pancia».
«Per uscirne con poco impegno, e con tutto il decoro della parentela», disse il Conte Attilio, «il mio sottomesso parere sarebbe che V.E.
con la sua consumata politica trovasse il modo di fargli cambiar aria, e di sopire il negozio, senza entrare in esami, in discorsi, in relazioni; perché io conosco questo frate, e son certo che al caso non ci metterebbe su né sale né aceto a dare una mentita a un cavaliere; è un uomo, Signor Zio, da dare uno schiaffo con forza, e da riceverne uno con umiltà: questi cervelli alla lunga possono impacciare chi che sia, e mettere in impegni...»
«Chi domanda pareri a Vossignoria?...» interruppe il Conte Zio annuvolando la fronte.
Il nipote che lo conosceva, perché avendo spesso bisogno di lui lo aveva esaminato con l'occhio acuto dell'adulatore, aveva benissimo preveduto che quel personaggio si sarebbe offeso della intenzione di consigliarlo; ma sapeva nello stesso tempo che il consiglio gli sarebbe rimasto nella memoria, che sarebbe stato seguito perché era conforme alle idee del personaggio; e quanto all'offesa sapeva per esperienza che una umile parola di adulazione bastava a farla dimenticare.
«Ah! ah!» sclamò egli, come ridendo della sua propria dappocaggine, «È vero, è vero; sono pure uno sventato; ma: i paperi vogliono menare a ber l'oche».
Il Conte Zio fu contentissimo della riparazione; e disse: «Bene, bene, i pareri tu gli hai da sentire: e l'ordine che io ti dò ora è di non far parola con alcuno di questo impegno».
Il nipote promise l'obbedienza, e si congedò certo e lieto della riuscita.
Il Conte Zio rimasto solo, pensò tosto al modo di sciogliere il nodo prima che si ravviluppasse a segno che fosse mestieri di tagliarlo.
Il grande scopo di questo signore era di ottenere un po' di potere, il più che fosse possibile: e uno dei mezzi più validi per ottenerne era di far credere che ne avesse molto.
Egli conosceva per lunga esperienza l'efficacia di questo mezzo, e in certi momenti in cui il prurito di far mostra della sua profondità nella politica, superava nel suo animo la circospezione che gli consigliava a nasconderla (il qual prurito quasi invincibile, per parentesi, è cagione a molti furbi di scoprirsi da sè, e di rovinare così i loro affari; che è un peccato) in quei momenti dico, egli era solito di fare intendere la sua teoria con una frase di Virgilio che gli era rimasta in mente dalla scuola, e che egli interpretava a suo modo: possunt quia posse videntur.
- Chi aveva intese queste parole dalla sua bocca poteva esser certo di essere ai primi posti della confidenza del Consigliere segreto.
Questa dottrina poi, come accade, era in lui divenuta abito, e passione.
In questo frangente si trattava di non permettere che un cappuccino affrontasse e facesse stare un parente del Signor consigliere, d'impedirlo senza tirarsi addosso i cappuccini, e di far credere a chi era informato della inimicizia, e ai cappuccini stessi, che il frate era stato vinto, e aveva dovuto ritirarsi.
- Giovanastri senza giudizio, - pensava egli fra sè - la darò io ad intendere a quel Rodrigo.
- Ma intanto bisognava andare al riparo, e tutto pesato il Conte Zio fece pregare con quei rispetti e con quei pretesti di cerimonia che si usavano, il Padre Provinciale di passare alla sua casa.
Il Padre Provinciale non si fece aspettare.
Due potenze, due dignità, due vecchiezze, due esperienze consumate, si trovavano a fronte.
Il Padre provinciale che non sapeva che cosa il Consigliere segreto volesse fare di lui né in nome di chi, per quali interessi avesse a parlargli, stava in guardia; e il Consigliere si proponeva di farlo fare a modo suo, e di farlo partire contento di aver servito un così potente signore.
Dopo le prime accoglienze che furono al solito sviscerate, e dignitosamente umili, poi che il Cappuccino ebbe espressa magnificamente la sua stima pei Consiglieri, e il Consigliere pei Cappuccini, il Conte entrò in materia, cercando pure al solito di tasteggiare il suo interlocutore, e di procedere per via d'interrogazioni che obbligassero ad una risposta, e di eludere nello stesso tempo le interrogazioni dell'altro, il tutto con l'apparenza della più schietta cordialità.
«Mi sono presa questa sicurtà d'incomodare Vostra Paternità reverendissima», diss'egli, «per un affare che deve conchiudersi a comune soddisfazione.
E senza più, le dirò sinceramente di che si tratta, senza raggiri, col cuore in mano, come uso con tutti e specialmente con le persone che venero particolarmente.
Ecco il fatto.
Nel loro convento di Pescarenico presso Lecco, v'è un certo padre Cristoforo da Cremona?»
«Vostra Eccellenza è bene informata», rispose il Provinciale.
«Mi dica un po' schiettamente in amicizia, Padre Molto Reverendo, che informazioni tiene di questo soggetto?» riprese il Consigliere segreto aspettando la risposta.
Ma il Padre Provinciale non era uso di rispondere alla prima chiamata, e molto meno in un caso simile.
S'accorse egli che il Conte voleva cavare da lui tutte le notizie possibili prima di fargli conoscere il suo disegno, e propose di condurre per quanto potesse il discorso nel modo opposto.
- Perché - pensava il Padre - chi sa per qual cagione questo signore vuol essere informato del Padre Cristoforo.
Potrebbe forse avergli posto addosso gli occhi per servirsene in qualche maneggio, e allora non mi converrebbe screditarlo; potrebbe volergliene per qualche puntiglio, e allora non mi converrebbe pigliar le parti di fra Cristoforo prima di saper bene di che si tratta, e fino a che punto lo potrò sostenere.
In ogni caso prima di farmi cantare, dovrà cantare egli più chiaro.
- Fatte rapidamente queste riflessioni, il Padre rispose: «Se V.E.
vuol compiacersi di dirmi più chiaramente perché le preme il Padre Cristoforo, spero di poterle dare tutte le cognizioni che posso averne io medesimo».
- Sempre politico il Padre Provinciale, - disse in suo cuore, il Conte.
- Eh già gli sanno cavare dal mazzo.
- E tosto rispose ad alta voce:
«Ecco il fatto, Padre molto reverendo.
Questo padre Cristoforo non le ha dato più volte da pensare per cavarlo da impegni in cui s'era posto per poca prudenza, e per voglia di accattar brighe? Dica liberamente, non è un cervello un po' caldo?»
- Ho inteso, - disse fra sè, il Padre - è un impegno: Benedetto Cristoforo! ma bisognerà sostenerlo.
- E rivolgendosi al Conte rispose, indirettamente al solito:
«Liberamente, com'Ella desidera le dirò che il nostro Padre Cristoforo, l'ho sempre conosciuto per buon religioso, esemplare, zelante, e nei suoi doveri di cappuccino irreprensibile».
- Ah! Ah! - disse ancora fra sè il Conte - bisogna dunque tirarti con gli argani! - E con le labbra disse al Padre: «Ella sa pure che siamo amici, e fra noi non si deve parlare politicamente.
Io sono informato molto bene che questo religioso è un po' inquieto, ama di comprarsi le quistioni, e di cozzare con le persone di qualità.
Cose che non vanno bene, non vanno bene, Padre molto reverendo: Ella conosce il mondo, e m'insegnerà che queste cose non vanno bene».
- È tutta mia colpa, - disse sempre in soliloquio il Padre; - doveva pensare che quel benedetto Cristoforo con quel suo fuoco mi avrebbe strascinato in qualche impiccio: lo sapeva che era un uomo da far girare di pulpito in pulpito, e da non lasciar mai quieto per tre mesi in un convento vicino a case di signori.
Ma vediamo in che stato è la cosa, e come si può rimediare.
- E per pigliar tempo, rispose al Conte:
«Se Vostra Eccellenza è informata di qualche mancamento di questo padre, Le sarò grato di farmene partecipe, acciò ch'io possa mettervi rimedio».
«Pensieri degni della sua prudenza, padre molto reverendo: principiis obsta.
Ecco il fatto, senza andirivieni.
Questo religioso ha preso a cozzare con mio nipote, e la cosa potrebbe farsi più seria.
Senza parlare di me, che ho troppa venerazione per Vostra paternità e per tutta la compagnia, per fare nulla senza sua intelligenza in questo proposito; mio nipote ha molte aderenze.
Quand'anche io non me ne volessi impacciare, i parenti di padre e di madre...
sono persone...
sono famiglie...»
«Cospicue» disse il padre.
«E accreditate», continuò il Conte: «e mio nipote ha il sangue caldo.
Io le parlo da buon amico.
Mio nipote è giovane, e questo religioso, da quel che sento» e qui cavò la sua vacchetta, l'aperse, vi diede un'occhiata per lasciar supporre al padre che vi erano notate di gran cose, e continuò con un'aria misteriosa: «questo religioso ha ancora tutte le inclinazioni della gioventù.
I giovani non hanno giudizio, e tocca a noi che abbiamo i nostri anni...
pur troppo eh?...»
«Eh! pur troppo», disse il padre.
Chi fosse stato presente a quel dialogo avrebbe potuto scorgere in quel momento una mutazione curiosa nel volto dei due personaggi, che per la prima volta prendeva l'espressione d'un sentimento sincero: qui non avea luogo la politica, e il cuore parlava.
«Ella è così, padre», continuò il Conte.
«Tocca dunque a noi il rappezzare gli sdruciti che i giovani fanno».
«Tra me e lei (così disse il signor Conte) tra me e lei si potrà sopir l'affare».
Queste parole furono molto gradite al Provinciale.
È vero, ed ognuno lo sa, che a quei tempi i membri d'una congregazione religiosa erano affatto indipendenti da ogni podestà secolare, e non avevano quindi nulla a temere da essa.
E quando questa si trovava in collisione con alcuno di loro, e voleva prescrivere qualche cosa, la più forte, la sola minaccia che usasse e che potesse usare si era che avrebbe richiesto al papa che i renitenti, quelli che avessero contrafatto agli ordini fossono mandati fuori dello stato come diffidenti di S.M.; il che si può vedere nelle gride contra gli omicidi, banditi, i bravi, dove questa minaccia è fatta ai regolari che gli ricoveravano, e ponendoli così in luogo d'asilo gli involavano dalle mani della forza secolare.
In un'epoca posteriore fu pensato al modo di render più forte questa minaccia, e di estendere la pena; e questo sforzo merita d'esser ricordato e come un attestato insigne della impotenza della forza civile a raggiungere gli ecclesiastici, e come un esempio notabile di stolta e feroce iniquità.
L'onore di questo trovato appartiene al Signor Don Luigi de Revavides, Marchese di Fromista e Caracena Conte di Pinto.
Estese egli questa minaccia d'esser trattati come diffidenti di S.M.
anche ai parenti più prossimi di quegli ecclesiastici, che avessero raccettati nei luoghi sacri ed immuni certi banditi.
23 Agosto 1651, ed altre.
Ma i modi di nuocere non erano quegli soli che le grida prescrivevano, e la inimicizia di un uomo, e di una famiglia potente era un semenzaio di pericoli, d'incertezze, e di disturbi.
Il Provinciale si trovò dunque d'accordo col Conte nel desiderio di sopir l'affare; non si trattava più che del modo di farlo, con la convenienza delle due parti.
E siccome la cosa non aveva fatto grande scandalo, e si trattava più d'antivenire che di riparare, così la cosa non era difficile.
Dopo che i due sorboni ebbero ancora molto interrogato, poco risposto, mercanteggiato, e giuocato di scherma, il Padre Provinciale disse al Conte che per considerazione della persona di Lui, per amor della pace egli trasmuterebbe il Padre Cristoforo di quel convento in un altro lontano, con la condizione che nessuno si vantasse di questo come d'una vittoria: e il Conte lo promise; l'affare fu conchiuso, e i due contraenti si separarono contenti l'uno dell'altro, e ognun d'essi di se medesimo.
Gran cura ponevano quei vecchj pensatori in un negozio, di gran parole spendevano, ci pensavano assai, andavano per le lunghe, v'impiegavano il tempo conveniente; ma bisogna anche confessare che facevano poi cose grandi.
In fatti questo abboccamento produsse l'effetto di fare trottare il nostro povero Padre Cristoforo da Pescarenico a Palermo, che è un bel passeggio.
Fu dunque spedita al Guardiano l'obbedienza da intimarsi al Padre Cristoforo, e con l'obbedienza l'ordine di farlo tosto partire, la direzione della strada da farsi per non toccare Milano, e l'avviso di dargli un compagno nella missione, che nello stesso tempo osservasse tutte le sue azioni.
Mentre il nostro povero Frate pensava ai mezzi di soccorrere i suoi protetti, il guardiano lo chiamò a sè, e con molta consolazione gl'intimò l'obbedienza, gli comandò di prendere il suo bordone, gli presentò il compagno che era già avvertito, e gli disse «vade in pace».
Cristoforo non pensò nemmeno a domandare un rispitto che era certo di non ottenere: pensò alla povera Lucia, e si accorava; ma tosto si accusò di aver mancato di fiducia in Dio, e di essersi creduto necessario a qualche cosa; alzò gli occhi e il cuore al cielo, si abbandonò alla provvidenza; salutò umilmente il guardiano, prese la sua sporta, si cinse le reni con una correggia di pelle come usavano i cappuccini viaggiatori, disse una parola cortese al padre compagno, uscì del convento, e si pose su la via che gli era stata prescritta.
CAPITOLO IX
Quando Egidio si avvenne nella nostra povera Agnese, andava appunto fantasticando sul modo di soddisfare al più presto ai desiderj del suo degno amico, e di dargli con la prontezza del servizio una prova di audacia e di destrezza singolare; e nei varj disegni che ruminava il pensiero, questa Agnese gli si gettava sempre a traverso come il maggiore impedimento.
Come staccare da essa Lucia che le stava sempre appiccata alla gonnella? Rapire Lucia quando fosse in compagnia della madre era esporsi ad un vero scandalo: la resistenza che la madre avrebbe tentato di opporre poteva render necessaria qualche violenza che avrebbe renduto l'affare più serio, o almeno avrebbe fatto perder tempo, forse sfuggire l'opportunità; le sue grida potevano attirare dei guastamestieri, o almeno dei testimonj; e ad ogni modo essa rimanendo in Monza avrebbe sclamato, ricorso, parlato e fatto parlare.
Al contrario quando Lucia non avesse in paese persona a cui calesse di lei particolarmente, i discorsi sarebbero stati d'un giorno, ed era molto più agevole dare all'avventura quella spiegazione che fosse convenuta e che nessuno avrebbe potuto smentire.
Si andava dunque Egidio risolvendo ad aspettare che Agnese si fosse allontanata da Monza, ma non sapendo quando ciò fosse per accadere, si rodeva di dover rimettere ad un tempo non ben determinato l'impresa e l'onore dell'impresa.
Ma alla vista di Agnese che tornava a casa, Egidio si sentì libero d'una grande incertezza, risolvette di por mano al disegno appena sarebbe giunto a Monza, e continuò a maturare il suo disegno: i suoi pensieri camminavano più spediti, e per mettere del paro ad essi il suo cavallo gli diede una voce ed un colpo di sprone, dicendo ai seguaci a piedi che erano obbligati di trottare un po' affannosamente: «animo figliuoli, che la giornata è bella».
Giunto a Monza, entrato in casa, scavalcato, deposte le armi più gravi e più lunghe, egli corse tosto per la via da lui solo conosciuta alla porta abominevole che egli aveva aperta nel solajo, entrò con le solite precauzioni nel solajo dell'abitazione vicina, fece i soliti segni, la signora che stava sull'avviso, intese, avvertì le sue complici; le quali andarono a chiudere le porte del quartiere che comunicavano col chiostro, e la sciagurata corse incontro ad Egidio tutta ansiosa.
«Sia lodato il cielo» diss'ella «che vi riveggo! Oh che giorni ho passati! e che notti! Che paura ho avuta questa volta!» e mentre ella parlava una specie di consolazione angosciosa, e di rincoramento agitato dipingevano sulle sue guance come due pezze di rossore che contrastavano tristamente col pallore di tutta la faccia.
«Le solite sciocchezze?» disse Egidio con impazienza.
«Oh! sciocchezze! So io quel che soffro; e fossero anche sciocchezze, a chi tocca aver compassione di me? Mai mai, non avete voluto compiacermi.
Se provaste un'ora quello ch'io sento tutto il giorno! tutta la notte! Non posso più, non posso più vivere con colei così vicina.
Qua giù, qua sotto, a pochi passi, nella vostra cantina: e quando voi non ci siete...! l'ho veduta sempre, sempre: l'ho veduta smuovere a poco a poco il mucchio di sassi, e poi metter fuori il capo, e poi venir su...
avrei gridato se non avessi temuto di far correre tutto il monastero...
e poi entrare qua dentro per questo pertugio, senza mai volersi fermare, e poi sedersi qui...
quello sgabello son ben sicura d'averlo bruciato: e pure quando colei arriva, si trova sempre a quel posto, ed ella vi si adagia, e non vuol partire.
Mi pare che se fosse lontana dove io non sapessi, non potrebbe venire così a tormentarmi».
«Donne indiavolate, vive o morte», disse lo scellerato: «ecco le accoglienze gioconde che mi fate».
«Non andate in collera», disse Geltrude, «perché chi altri ho io? a chi mi posso confidare?» e continuò con voce più sommessa, «quelle altre non mi consoleranno, vedete, se racconterò loro che siete in collera con me, state in pace, e fatemi questo piacere una volta.
Voi sapete far tante cose! Non sarete più contento, quando mi vedrete tranquilla?»
«Ma sono queste cose da pensare, e da dire?» rispose Egidio.
«È un affare finito, che non dà più impaccio, e volerne andare a cercare uno di questa sorta? perché? per una pazzia? Che volete ch'io faccia? Ch'io desti il cane addormentato? Senza una ragione al mondo? come l'ho da portare? dove?»
«Scendete una notte solo», disse Geltrude, «già voi non avete paura, - fortunati gli uomini! - prendetela portatela al fiume, gittatela in un pozzo abbandonato...»
«Bel divertimento! bella festa invero!» disse Egidio con un sorriso di rabbia e di scherno «bella commissione che mi date! Pazzie! E tutto per tirar fuori quello che è ben nascosto! Savio disegno! Sapete voi dirmi un luogo dove possa star più nascosta che ora non è?»
«È vero», disse Geltrude, «gran cosa che non si sappia che fare d'un morto!»
«Che farne?» rispose Egidio, «niente: sta bene dov'è.
Dimenticatela, pensate quello che pensano tutte le vostre suore: è andata alle Indie su una nave olandese, e pensa a vivere allegramente; lo credono tutti...»
«Ma non è vero», rispose Geltrude.
«Che fa questo?» disse bruscamente Egidio.
«Fa tutto», replicò tristamente Geltrude; e proseguì: «anch'io prima...
credeva che purché lo sapessimo noi soli, la cosa sarebbe come se non fosse avvenuta, ma ora...»
«Ora è tempo di finirla», interruppe sempre aspramente Egidio.
«Oh ecco come son trattata!» disse con accoramento Geltrude; «mi strapazzate perché patisco; siete voi quello che mi strapazzate, voi...
Che colpa ho io se sono una poveretta? Vorrei anch'io non curarmi di nulla, esser come voi...
voi siete un uomo, voi mi date animo...
ma no no...
voi avete troppo coraggio, troppa presenza di spirito...
mi fate quasi...
paura...
penso...
penso che se...
mi odiaste...
ah i morti non vi danno travaglio!»
«Che pazzie! che pazzie!» disse Egidio con istizza sempre crescente.
«Ebbene», disse Geltrude in tuono supplichevole, «compiacetemi, levatemi questa spina del cuore, allontanate colei da questa abitazione; voi vedete ch'io non posso allontanarmi io».
«Via», rispose Egidio, fingendo di acconsentire alla domanda «vi compiacerò; è un impiccio, è un fastidio, è un pericolo, ma per voi lo farò».
«Oh davvero!» disse Geltrude, «non lo dite per acquetarmi, come avete fatto altre volte...
vi ricordate?...
promettetelo da vero».
«Possa essere...!»
«Non giurate, per amor del Cielo», interruppe Geltrude come spaventata; «non fate imprecazioni, perché noi siamo in uno stato che una picciola parola può bastare...
potrebb'essere intesa ed esaudita in quel momento che la proferiamo».
«Via ve lo prometto da uomo onorato», rispose Egidio, affettando tranquillità: «ve lo prometto; e non se ne parli più.
Ho bisogno anch'io che voi mi compiacciate in un affare d'importanza; e non mi si deve dire di no, non si deve opporre nemmeno un dubbio».
«Che posso fare?» chiese con istanza e non senza inquietudine Geltrude.
«Quella villanotta che v'è stata data in guardia», rispose Egidio, «quella Lucia...»
«Ebbene?...»
«Ho promesso di consegnarla ad un amico al quale non voglio né posso rifiutar nulla; e voi dovete darmi ajuto a liberarmi dalla mia parola».
A questa proposta, Geltrude incrocicchiò le mani con forza, le presse al petto, si strinse tutta, levò al cielo uno sguardo nel quale brillava momentaneamente un raggio dell'antica innocenza, e con voce supplichevole e commossa disse: «Ah no: non ne facciamo più, non ne facciamo più per pietà.
Chi sa che quel che abbiamo fatto non possa ancora essere perdonato? V'era, una scusa, ma qui non ve n'è.
Perché fare ancora delle cose, che si vorranno dimenticare e non si potrà? Non ne abbiamo abbastanza?»
«Ah! ah!» rispose Egidio, «così siete disposta a compiacermi? Adesso vi nascono gli scrupoli eh! Più conto fate d'una villana, che conoscete appena da otto o dieci giorni che di me.
Questa è quella che voi amate».
«Io amarla!» rispose Geltrude, «io colei! non la posso soffrire, è una superba, non fa che parlare della sua innocenza, e quando ne parla mi guarda con certi occhi come se sapesse qualche cosa, e fingendo rispetto volesse insultarmi.
L'ho accolta, sapete, perché bisogna nel nostro stato farsi più amici che si può: no ch'io non l'amo: ma lasciatemela per carità, questa lasciatemela, mi diventerà cara, e quando un altro pensiero verrà a tormentarmi, riposerò i miei occhi sopra di lei, e dirò fra di me: - ecco, anche questa l'avrei dovuta sagrificare; ed è qui».
«Pazzie, pazzie», disse Egidio: «parlate come una bambina sciocca.
Lasciate che sul principio si lamenti e un giorno poi riderà dei suoi terrori, e sarà contenta».
«No, non sarà contenta», rispose Geltrude con la rapida risoluzione di chi ha il vivo sentimento che le parole che ha udite sono menzogne.
«Va bene, va bene», disse Egidio con uno sdegno in parte vero, in parte diabolicamente affettato: «non ne facciamo più: e già vedo che non possiamo andar d'accordo: è tempo perduto con voi: siamo troppo differenti nel pensare: ma a tutto si può rimediare; i mattoni son lì tutti come contati; e ad ogni volta mi dò la briga di riporli al loro posto antico: basta che io porti un po' di calce, il muro sta come prima, tutto è finito».
«No, no, no...» riprese affannosamente Geltrude: «...dite, che volete ch'io faccia?»
«È vero», continuò l'uomo abbominevole, come se persistesse nel suo proposito, «è vero che vi sono anche quelle altre...»
«Zitto, zitto per pietà» disse Geltrude, «che non sentano: volete farmi diventare il ludibrio di quelle...»
«Quelle, quelle» riprese Egidio «saranno certamente più pronte a rendermi un servizio».
«Dite, dite, che volete ch'io faccia?»
«Chiamatele», rispose imperiosamente Egidio, «e troveremo insieme il mezzo di condurre a capo questa grande impresa».
«Dite...»
«Chiamatele, dico», riprese Egidio, e Geltrude strascinata ancora una volta un passo più innanzi nella via della perversità, avvezza ad ubbidire, ubbidì e andò a chiamare le sue complici.
Egidio sapeva quello che aveva detto; e quelle due sciagurate erano in fatti più tranquillamente e più risolutamente perverse di Geltrude.
Geltrude dei loro discorsi, del loro contegno sentiva talvolta orrore, disprezzo, ne riceveva una specie di scandalo; ma questi sentimenti ricadevano terribilmente su la sua coscienza, perché ad ogni volta Geltrude era costretta a ricordarsi che dessa era quella, che aveva fatti far loro i primi passi nel cammino dove ora la precorrevano.
Non parlo che di questi sentimenti, perché gli altri tutti orribili e tutti fastidiosi che dovevano nascere in quegli animi in quella situazione non sono da descriversi: basti dire che con tante cagioni di vicendevole ripugnanza una sola cosa le teneva unite, la partecipazione d'un sangue, l'avere una sola coscienza: vivevano insieme come lo sbigottimento e l'audacia, il desiderio di rimpiattarsi e il desiderio di assalire, il rimorso e il delitto vivono insieme nell'anima d'un masnadiero.
Rivisitate accuratamente le porte, tentati i chiavistelli per accertarsi che fossero ben chiusi, le tre sciagurate s'avviarono insieme verso il luogo più rimoto del quartiere dove Egidio le stava aspettando.
L'orrendo concilio fu ragunato: le sciagurate aspettavano ansiose di udire ciò che Egidio avesse a propor loro, e nello stesso tempo stavano col capo levato all'indietro origliando se un qualche romore si sentisse, se qualche suora venisse a bussare, per accorrer tosto, per intrattenerla con qualche pretesto prima di aprire, e dar così tempo ad Egidio di sparire senza lasciare alcun sospetto.
Egidio espose loro in due parole il suo desiderio: ch'egli aveva bisogno di tenere Lucia per servire un suo caro amico, che esse dovevano dargli ajuto, che la cosa doveva esser fatta presto e in modo che il sospetto non cadesse né sovra di esse né sovra di lui.
In una brigata di onesti che deliberi qualche risoluzione da prendersi, ognuno diventa più onesto, il sentimento comune rinforza quello d'ogni individuo che parli, le parole d'ognuno divengono più rigide, più degne, più scrupolose, suppongono sempre un convincimento profondo della persuasione della virtù; e così pur troppo, in una brigata di tristi, ognuno diventa più tristo, perché chi ragiona dinanzi ad un uditorio per picciolo ch'e' sia, generalmente parlando, non teme nulla più che di stonare dagli altri.
Geltrude che alla prima proposta di quel fatto, ne aveva conceputo tanto orrore, risoluta ora di obbedire allo spirito infernale che la possedeva, non avrebbe voluto che altri mostrasse più ardore, più prontezza, più sagacità nel farlo; Geltrude avvezza ad essere strascinata, e a far sempre qualche cosa di più di ciò che sul principio aveva ricusato di fare, rispose tosto che pigliava essa l'impegno, che ne aveva i mezzi più di chicchessia.
Le altre triste protestarono tosto che esse erano pronte a secondarla in tutto.
Egidio le chiese se essa avrebbe saputo far andare Lucia sola in una strada solitaria.
«Domani», rispose Geltrude.
«Domani è troppo presto», disse Egidio; «la rete non potrà esser tesa che dopo domani».
«Dopo domani», rispose ancora Geltrude.
La congrega si sciolse, ed Egidio corse tosto a spedire un messo al Conte del Sagrato, per chiedergli i bravi dei quali avevano convenuto.
Il messo partì nella notte stessa, giunse all'alba al castello; il Conte diede tosto gli ordini ai bravi che dovevano andare all'impresa: impose loro di obbedire ad Egidio, e di non nominarlo, di aspettare i suoi comandi, e di non andare a casa sua né di cercarlo in alcun luogo, e i bravi scesero all'Adda, e s'imbarcarono.
Nello stesso tempo spedì egli una carrozza leggiera da viaggio con un cocchiere quale conveniva a tal signore; gli ordinò di farsi tragittare su un altro punto del fiume, di non mostrare di avere alcuna relazione con quegli altri amici che partivano, di appostarsi vicino a Monza nel luogo che era indicato nella lettera di Egidio, e di aspettare pure gli ordini di questo.
Quanto alle ciarle da spargersi per via e alle fermate, onde far stornare dal vero le congetture dei curiosi, il Conte ne lasciò l'invenzione alla prudenza, ed alla sagacità dei suoi uomini; perché gli aveva scelti tra i più provati, e più destri, e tali che sapessero conformare la condotta e i discorsi alle circostanze che egli non poteva prevedere.
Contemporaneamente, a paro per un'altra via il messo di Egidio tornò al suo padrone, e gli portò la risposta nella quale il Conte, con un gergo da loro soli inteso lo avvertiva di ciò ch'egli aveva ordinato.
Egidio, lasciato riposare il messo, lo rispedì alle poste dov'erano giunti gli uomini del Conte, e li fece istruire di ciò che avevano a fare.
Tutta quella giornata fu spesa in preparativi.
Il giorno appresso (la nostra storia lo registra, ed era il ventuno di novembre) Egidio diede avviso a Geltrude che tutto era in pronto, e ch'ella dovesse mantenere la sua parola, operar tosto secondo le istruzioni ch'egli le aveva date.
Geltrude scese nel suo parlatorio appartato, e fece chiamare Lucia.
La nostra poveretta innocente corse volonterosa alla chiamata.
Dopo la partenza della madre, rimasta come smarrita, senza consiglio, senz'altro appoggio che quello della Signora, non si sentiva mai tanto sicura come presso di lei.
Ben è vero che quel non so che d'inusitato e di strano ch'ella aveva trovato nei discorsi e nel contegno di essa gli aveva lasciata una impressione d'incertezza e quasi di timore, ma ella era tanto lontana dal sospettar pure le vere cagioni di quell'inusitato, che le prime riflessioni della madre l'avevano rassicurata; e Lucia non ne aveva cavata altra conseguenza se non che i signori erano molto differenti dai poverelli.
Si presentò ella dunque a Geltrude con quell'aria di fiducia affettuosa, con quella gioja riconoscente, che il debole sente alla presenza del forte che è per lui; le andò incontro, come la pecora va incontro al pastore che le si avvicina, che allontana le altre e stende la mano per accarezzarla; e non sa la poveretta che egli ha lasciato fuori del pecorile il beccajo a cui l'ha venduta in quel momento.
La festa ingenua di Lucia, e la sua aria fiduciale era un rimprovero e una distrazione terribile per la Signora, la quale tosto interruppe alcune semplici parole di affetto e di riconoscenza che l'innocente tutta peritosa aveva incominciate, protestò di non voler ringraziamenti, e postasi in aria di premura e di mistero le annunziò che l'aveva fatta chiamare per comunicarle cose molto importanti.
Lucia si fece tutta attenta, e Geltrude ripetendo la lezione del suo infernale maestro cominciò ad impastocchiarla con una storia misteriosa, di pericoli, e di speranze, di mezzi posti in opera da lei, di ostacoli, di ajuti, tutto per liberare Lucia dalla persecuzione di Don Rodrigo, e per farla essere tranquillamente sposa di Fermo: accennando molto di più che non dicesse, e allegando motivi di prudenza per non dir tutto, ripetendo ad ogni momento che un po' di coraggio e molta precauzione poteva tutto salvare, e una picciola indiscrezione perder tutto; che l'occasione era pronta, e per coglierla non bisognava perder tempo; e terminò con dire che le bisognava in quel momento un uomo da cui potesse aspettarsi un consiglio fidato, e un ajuto operoso, che il solo uomo del mondo che fosse da ciò era quel padre guardiano dal quale Lucia era stata scorta al monastero; che ella aveva bisogno di parlare con lui ma che le mancava il mezzo di farlo avvertire con sicurezza, giacché dopo d'aver riandate tutte le persone, tutti i modi per questa spedizione, trovava in tutti il pericolo di farsi scorgere, di sventare il segreto, di metter sull'avviso quelli a cui importava il più di tener tutto nascosto, e di perdere così l'opportunità, anzi di avvicinare i pericoli: che insomma per condurre bene a fine questa faccenda, era necessario che Lucia prendesse un po' di risoluzione, si snighittisse, e facesse tosto, e segretamente e sola questa commissione.
Lucia a questa proposta rimase sopra di sè, poiché allontanarsi dal monastero, andarsene soletta per un paese che era per lei come l'America, era un gran pensiero: fece adunque come si fa ordinariamente quando non si vorrebbe aderire ad una proposta: si mise a discuterla, per poter conchiudere che non era la sola cosa da potersi fare: disse che la Signora avrebbe potuto trovare altre persone fidate e discrete, domandò schiarimenti, volle sapere più addentro come la commissione fosse necessaria, e come essa fosse la sola che la potesse eseguire.
Ma la Signora memore sempre della scuola di Egidio, mostrò prima di offendersi, rispose ancor più misteriosamente alle domande, lagnandosi di Lucia che pretendesse farle rivelare ciò ch'ella non poteva, e che non volesse fidarsi di chi senza un interesse, per pura pietà si prendeva tanta cura di lei; e conchiuse finalmente col dire: «Sono ben io la buona donna a pigliarmi di questi travagli: si tratta di voi, finalmente; io me ne lavo le mani: ho fatto ancora più ch'io non dovessi».
Lucia commossa in un punto di vergogna e di timore, stava per piangere; e la signora vedendola arrivata a quel punto, ripigliò il suo discorso, la sgridò più amorevolmente, la rimproverò di poco coraggio; le promise che non le sarebbe mai mancata se ella avesse avuta fede in lei; e infervorata com'era nell'impresa di tradire la poveretta per servire lo scellerato Egidio, con ipocrisia sfrontata le disse che pensasse ai rimproveri che ella farebbe un giorno a se stessa di avere per irresolutezza, per infingardaggine rifiutato il mezzo della salute, e rovinata se stessa, la madre, e l'uomo a cui ella s'era promessa.
Lucia non seppe più resistere, si accusò di aver resistito, le parve che avrebbe rifiutato il soccorso del cielo, rifiutando quello che le era offerto, piena di una novella fiducia disse: «vado tosto».
Geltrude l'accomiatò, lodandola, facendole animo, e ripetendo le più liete promesse e indicandole la via per andare al convento.
Lucia ritenendo a forza il pianto chiese scusa alla Signora della sua poca fede, e della sua ingratitudine.
«Sono una poveretta senza pratica», diss'ella; «ma già ella tutte queste brighe non se le deve pigliar per me, ma per Quello di lassù, che gliele rimeriterà tutte», e abbandonandosi alla grata, colle braccia tese, continuò: «se non fossero questi ferri, mi pare che le getterei le braccia al collo, ed ella non se lo avrebbe a male, perché è tanto buona, ed io lo faccio per cuore».
«Sì sì, Lucia, addio, addio», disse Geltrude.
«Dio la benedica» rispose Lucia, e staccatasi dalla grata, si volse, e si avviò verso la porta del parlatorio.
- Che orrenda parola! - disse in suo cuore Geltrude: Dio gliele rimeriterà tutte, e alzando gli occhi vide Lucia, che stava per passare la soglia.
Finché Lucia aveva litigato contra le persuasioni di Geltrude, questa, impegnata ad ottenere l'intento di Egidio, animata dalla disputa stessa non aveva pensato ad altro che a giungere al suo fine, ma quando vide il cangiamento di Lucia, quando vide la sua fede sicura, intera, amorosa, e pensò che la tradiva, quando vide la vittima andare così senza sospetto all'orribile sagrificio, un sentimento improvviso, indistinto, irresistibile le fece pronunziare quasi macchinalmente queste parole: «Sentite Lucia».
Lucia ristette, si rivolse, ritornò alla grata.
Ma, nel momento che Lucia spese a fare quei pochi passi, l'immaginazione di Geltrude aveva già veduto Egidio furibondo per essere stato ingannato, aveva già udite le sue imprecazioni, le sue minacce, s'era già pentita del suo pentimento, e quando Lucia ristette alla grata per intendere ciò che Geltrude avesse di nuovo a dirle; Geltrude confermata nella iniquità: «senti Lucia», le disse, «ricordati bene di tutte le avvertenze che ti ho date; procura di tirarti in mente la strada che tu hai fatta venendo qui; se fossi in dubbio, domanda con indifferenza e con franchezza a qualche buona donna che passi per via; va in modo di non dar sospetto: fatti animo, ché già non è il viaggio di Madrid: va e torna presto».
«Oh», disse Lucia, «Dio mi accompagnerà»; e si volse di nuovo, s'avviò verso la porta, e passò la soglia.
Geltrude corse a chiudersi nella sua stanza.
Quivi l'abbandona il nostro autore; né in tutto il resto del manoscritto ne fa più menzione.
Noi però, trovando descritti dal Ripamonti gli ultimi casi di questa sventurata, stimiamo che monti il pregio d'interrompere un momento la narrazione principale, per accennarli.
Ci sembra anzi una specie di dovere per noi, quando abbiamo raccontati i delitti, di non tacere il pentimento, di non tacere che l'orrore a noi così facilmente ispirato da quelli, la religione ha potuto ispirarlo ancor più forte e più profondo all'anima stessa, che gli aveva acconsentiti e commessi.
Riferiremo quei casi in compendio; chi volesse conoscerli più in particolare, li troverà esposti in bel latino nella Storia patria del Ripamonti, al libro sesto della quinta decade.
Siccome egli non vi pone alcuna data, così non possiam dire di quanto sieno posteriori alle cose già da noi narrate.
La condotta, il linguaggio, l'aspetto abituale delle tre sciagurate suore, le loro stesse precauzioni, per distornare i sospetti, ne fecero, com'era naturale, nascere dei nuovi, che dopo d'aver serpeggiato nel monastero, si diffusero al di fuori.
Due vicini di quello che ebbero la sciagura di ricevere qualche prima confidenza di quei sospetti, un fabbro ed uno speziale, accennarono copertamente in qualche discorso, che in un monastero del paese accadevano cose orrende e turpi: l'uno e l'altro furono trovati uccisi.
Un terrore misterioso invase tutti gli animi nel monastero e fuori; ai susurri che già cominciavano a farsi sentire nelle brigate, successe un silenzio cupo e significante, e nelle relazioni più intime, gli sguardi, i cenni, le parole sospese esprimevano o accennavano un sospetto e uno spavento comune.
Questi romori così vaghi e generali com'erano, furono riferiti al cardinale Federigo Borromeo arcivescovo di Milano.
Egli dolente e turbato d'essere così tardi avvertito, si portò a Monza sotto colore d'una visita generale, e venne a colloquio colla Signora, per esplorare dalle sue parole lo stato dell'animo suo; e ne uscì con più grave e più fondato sospetto.
D'allora in poi, la Signora, irritata dai sospetti che vedeva starle sopra, agitata dalle certezze della coscienza; esaltata per così dire dal suo stesso turbamento, perdè tutta la prudenza della colpa, le sue azioni divennero affatto indisciplinate, i suoi discorsi strani, furiosi, inverecondi.
La giurisdizione criminale su le persone addette allo stato religioso era allora esercitata dai vescovi.
Il cardinale fece torre la Signora da quel monastero, e trasportarla in un convento di convertite nella città.
Ivi l'infelice infuriò per qualche tempo: tentò di fuggire, tentò di uccidersi, ricusò il cibo, diede del capo nelle muraglie; urlava tutto il giorno, bestemmiava più di tutto il cardinale: contra il quale tale era l'odio di lei, ch'ella ebbe a dir poscia che tutte le inimicizie che gli uomini chiamano mortali, erano un giuoco appo di quella ch'ella sentiva per lui.
Intanto lo scellerato vicino ripose il piede nel monastero, e parte colla persuasione, parte colle minacce astrinse le altre due sue vittime a seguirlo, e di notte con esse fuggì.
Ma, o fosse disegno premeditato di quell'animo atroce, o ebbrezza di scelleraggine, poco distante dal paese, in riva al Lambro, una dopo l'altra le trafisse con un pugnale, gittando l'una nel Lambro, e l'altra in un pozzo rasciutto ed abbandonato nei campi.
Ma le ferite non furono mortali, ed entrambe le donne furono salve per diversi eventi e rinvenute, e riposte a guarire in un altro monastero del borgo.
La Signora all'annunzio di tali atrocità, tutta, tutto ad un tratto si mutò; rivolse in orrore di se stessa, in pentimento, in dolore ineffabile, in lagrime inesauste tutto quell'impeto di furore; e da quel momento fino al suo ultimo respiro non si stancò mai di espiare almeno ciò che non poteva più riparare.
Il Cardinale ch'ella chiamò poi il suo liberatore, dovette porre un freno ai rigori ch'ella esercitava contra se stessa; la visitò da poi e la consolò sovente.
Pagò egli poi sempre le spese del suo mantenimento, perché i parenti, come se col rifiutare quella sventurata avessero potuto scuotersi da dosso la colpa che avevano nella sua rovina, non vollero più udirne parlare.
Le due compagne la imitarono nella penitenza.
Ma il miserabile pervertitore di tutte, bandito nella testa, dopo d'avere errato qua e là, cangiato più volte d'abiti, e di nome, chiese asilo in città ad un amico, che lo accolse; ma come amico d'un tale uomo, o per timore, o per ottener grazia di qualche altro delitto, lo fece uccidere in un sotterraneo della casa, e presentò la sua testa al giudice, come era prescritto dagli ordini di quel tempo, i quali nel caso dei banditi costituivano carnefice ogni cittadino, e offerivano o danari, o impunità per altri delitti in mercede all'assassinio.
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Lucia uscì nella via, e s'incamminò con grande attenzione, con gran riserbo, con un gran battito al cuore, tutta raccolta in sè, studiando la strada, con le indicazioni che aveva avute, e con la memoria che le restava della strada già fatta.
Giunse così all'uscita del borgo (perché il convento dov'ella s'avviava era al di fuori in picciola distanza): riconobbe la porta per dov'era entrata la prima volta, e prese a sinistra la via che l'era stata insegnata.
Tutte le strade del Milanese erano a quel tempo anguste tortuose, e nel pian paese profonde e come quivi si dice invallate, a guisa di un letto di fiume, fra due rive di campi alte non di rado un uomo, e orlate di piante che intrecciate al pedale di rovi, di biancospini, e di pruni riunivano in alto i rami loro in volta dall'una all'altra parte: e tali sono ancora in gran parte le strade comunali.
Quando Lucia si trovò soletta in una strada simile, si pentì quasi di essersi tanto rischiata, e studiò il passo per giunger presto, proponendo fermamente di non ritornar dal convento a casa senza una qualche scorta.
Ma voltato uno di quei tanti andirivieni, vide una carrozza da viaggio ferma nel mezzo della via, e fuori della carrozza innanzi allo sportello che era aperto due uomini che guardavano su e giù per la via come incerti del cammino: e per quella presunzione comune che coloro i quali vanno in carrozza sieno galantuomini, Lucia si sentì tutta rincorata, e le parve d'aver trovata una salvaguardia alla metà appunto del cammino, nel luogo più lontano dall'abitato, e dove il bisogno era più grande.
Continuò adunque più animosamente a camminare; e quando fu presso alla carrozza tanto che si potessero distinguer le parole, intese uno di quelli che stavano al di fuori dire con una pronunzia e con un linguaggio che lo fece conoscere a Lucia per bergamasco: «Ecco una buona donna che c'insegnerà la strada».
Giunta a paro della carrozza, quel medesimo le si volse con un atto più cortese che non fosse la sua faccia, e le disse: «buona giovane sapreste voi insegnarci la strada di Monza?» Mentre costui parlava, l'altro s'era posto dinanzi a Lucia in modo da sbarrarle la via, ma come un uomo che sta per udire: «Loro signori», rispose Lucia, «sono voltati a rovescio: Monza è per di qua» (alzando la mano e stendendo il pollice al disopra della spalla): «girino la carrozza, e vadano per questa strada, e saranno a Monza in poco più d'un miserere».
Così detto, voleva continuare il suo cammino, e s'avvicinava alla riva per passare senza urtare quel forastiero che stava lì ritto come un termine, e senza dirgli che facesse largo, cosa che alla nostra povera forese sarebbe sembrata troppo famigliare.
«Un momento», disse colui che le aveva già parlato, ritenendola dolcemente: «noi siamo ben impacciati in queste strade dell'altro mondo: non potreste voi farci la cortesia di salire in carrozza con noi, e d'insegnarci la strada fino a Monza?»
«Signori miei», disse Lucia arrossando, e maravigliandosi della proposta, «io ho fretta d'andare pei fatti miei; vadano per di qua, e non possono fallire».
«Voi siete bene schifa», rispose il malandrino, e mentre egli proferiva queste poche parole, l'altro che era nella via, afferrò d'improvviso Lucia pei fianchi, la sollevò, e con l'ajuto del compagno la pose a forza nella carrozza, dove fu tosto presa, ritenuta, posta a sedere da due che vi erano: il malandrino che aveva parlato la seguì, l'altro chiuse lo sportello, e il cocchiere sferzò i cavalli, e la carrozza partì di galoppo.
Lucia al sentirsi presa levò un grido, lo raddoppiò quando si sentì alzata e ficcata nella carrozza, ma quando vi fu, una manaccia villana le cacciò un fazzoletto sulla bocca, e le soffocò il grido nella gola: Lucia si divincolava ma era tenuta da tutte le parti, faceva forza per pingersi verso lo sportello, per farsi vedere alla strada, ai campi, ma due braccia nerborute la tenevano per di dietro come conficcata al fondo della carrozza, due braccia nerborute ve la rispingevano per dinanzi, mentre tre bocche d'inferno dicevano con la voce più dolce che era lor concesso di formare: «Zitto, zitto, non abbiate paura, non vogliamo farvi male; non è niente, non è niente».
Lucia tra per la sorpresa, tra per lo terrore che andava sempre crescendo, tra pei pensieri tutti oscuri, e tutti orrendi che le passavano in furia per la mente, tra per lo sforzo che faceva e quello che pativa, sentì mancare gli spiriti: le sue idee si abbujarono, cominciò a veder come confusi fra di loro quegli orridi visacci che le stavano dinanzi, un sudore freddo le coperse il volto, allentò le braccia, lasciò cadere indietro la testa, abbandonò la persona al fondo della carrozza, e svenne.
«Coraggio, coraggio» dicevano gli scherani, ma Lucia non intendeva più nulla.
«Diavolo!» disse uno dei malandrini; «par morta».
«Niente, niente», disse un altro, «ci vorrebbe un po' d'aceto da mettergli sotto il naso».
«È lì covato l'aceto...» disse il terzo: «se potesse servire quel fiasco di vino che è riposto lì sotto il sedile».
«Che vino?» riprese il secondo, «aceto vorebb'essere».
«Vedete che mala ventura», disse ancora il terzo; «se giungessi arso di sete in una osteria disabitata, a cercar vino, troverei aceto, e qui che aceto ci vorrebbe...»
«Taci gaglioffo, che non è tempo da sciocchezze», interruppe il secondo.
«Ohe!» disse il primo, «non dà segno di vita: se fosse morta davvero avremmo fatta una bella spedizione».
«Noi abbiamo eseguiti gli ordini puntualmente», rispose il secondo; «se fosse accaduta una disgrazia non è nostra colpa».
«Che morta?» disse il terzo: «è un picciolo fastidio che le è venuto: eh! le donne ne hanno per meno d'assai: or ora tornerà in sè».
Mentre quegli sciagurati tenevano questo consiglio, ed esprimevano la loro inquietudine in uno stile degno del loro animo, la carrozza era uscita dalla via più battuta, aveva imboccata una stradella di traverso pei campi, e continuava rapidamente il suo cammino.
Intanto colui che aveva afferrata Lucia, ed era un bravo di Egidio rimasto nella strada quando la carrozza partì, si guardò intorno, e certo che nessuno lo aveva scorto spiccò un salto sul pendio d'una riva, abbrancò un ramo della siepe, con un altro salto fu sull'alto della riva, e si appiattò in un polloneto di castagni che conservavano ancora tanto delle lor foglie da nascondere un birbone.
Il primo grido di Lucia era stato inteso nei campi di qua e di là da pochi lavoratori che v'erano, e questi accorsero alla riva per guardare nella strada che fosse, ma cercando di adocchiare nascosti dalla siepe per non entrare in qualche impiccio, per non toccarne, per non essere citati come testimonj, per non arrischiarsi in somma, che è il pensiero il più comune nei tempi in cui i violenti fanno la legge.
Mettevano la faccia ai fori della siepe e guatavano: altri vide una carrozza che si allontanava di galoppo, e stette lì qualche tempo a seguirla col guardo a bocca aperta; altri non vide nulla e si fermò pure qualche tempo, altri che era accorso ad un punto della via per cui la carrozza non era ancora passata, la vide venire, trascorrere, vide una bocca d'arcobugio che usciva dallo sportello, e si ritirò tosto, fingendo di non aver nemmeno badato.
Tornati poi a casa, raccontarono quello che avevano veduto, e si sparse la voce che qualche cosa era accaduta.
Il bravo d'Egidio quando sentì tutto quieto intorno al suo nascondiglio, ne uscì per una parte che dava su una via diversa, e con l'aria d'un uomo che non ha intesa una novità se ne andò a render conto al padrone dell'esito felice della spedizione.
Egidio lo ricompensò di quattrini e di lodi, e lo mandò tosto attorno per raccontare la novella nel modo che ad entrambi e ai loro amici conveniva che fosse creduta, o almeno per confondere il giudizio pubblico e stornarlo dalle congetture che potevano condurlo alla verità.
Il bravo tolse con sè, senza saperlo, quella dea che ha tanti occhi quante penne, e tante lingue quanti occhi, (e debb'essere una bella dea) e si avviò.
Il campo più opportuno ad un tal uomo e ad un tale ufficio, la taverna, era allora deserto a cagione della carestia che di giorno in giorno cresceva e si diffondeva in tutte le parti del Milanese: mangiare e bere non era più per nessuno un oggetto di divertimento; era divenuto per tutti un bisogno difficile da soddisfare.
Andò dunque in su la piazza, luogo sempre popolato di oziosi, ma più che mai in quell'anno calamitoso, in cui erano forzati all'ozio anche i più operosi.
Quella piazza di Monza come tutte le piazze, tutte le vie, tutti i campi della Lombardia presentava il più tristo spettacolo.
Poveri di professione che dopo d'avere invano domandato un soccorso ad uomini divenuti poveri anch'essi, stavano in fila l'uno appresso dell'altro appoggiati ad un muro soleggiato stringendosi di tempo in tempo nelle spalle, aggrinzati, cenciosi, aventi un bordone nella destra, e tenendo stretta tra il braccio sinistro e le costole una arida scodella di legno, aspettando l'ora d'andare a ricevere quel poco nutrimento che si poteva distribuire alle porte dei conventi, dei monasteri, di qualche facoltoso caritatevole.
Qua e là crocchj di artigiani senza lavoro, di contadini quasi senza ricolto, di possidenti altre volte agiati ma che in quell'anno sapevano di dover combattere con la fame, tutti tristi, sparuti, scorati: i più rubesti, i meglio pasciuti che si vedessero erano qualche bravi, che vivevano delle provvigioni dei potenti a cui servivano, e ai quali nessun fornajo avrebbe osato di dare un rifiuto o di richiedere un pronto pagamento.
I discorsi abituali di quei crocchj erano miseria e disperazione: vociferazioni contra i fornaj e contra gli accapparratori, imprecazioni mormorate sommessamente contro i potenti, contra i magistrati, racconti di grano partito, di grano arrivato ed occultato, di morti di fame, e di tumulti in altre terre dello stato.
Pochi giorni prima una gran parte del popolo si era sollevata in Milano; e dopo quel sollevamento estinto con le promesse, e seppellito coi supplizj, si erano pubblicate leggi quali il popolo le desiderava.
Questo fatto era stato in tutta la Lombardia ed era ancora il soggetto dei discorsi; e il fatto come le conseguenze era narrato diversamente, come suole accadere: ognuno arrecava qualche nuova circostanza che dava luogo a qualche nuova riflessione.
Ma in quel momento in Monza l'avvenimento locale occupava tutti i pensieri, e tutte le bocche: in tutti i crocchj si parlava di Lucia.
Il bravo si avvicinò ad uno di quelli, come uno sfaccendato, e stette ascoltando.
«Erano due carrozze di signori bergamaschi» diceva un barbassoro, «accompagnate da uomini a cavallo: la giovane si mise a fuggire pel campo di Martino Stoppa, ma fu raggiunta, e portata via di peso».
E continuò con voce più sommessa in aria misteriosa: «debb'essere qualche gran tiranno bergamasco».
«Io ho inteso da chi l'ha inteso da uno che v'era», disse un altro, «che le carrozze erano tre, e che la gente le fece fermare; ma quei signori misero fuora gli archibugi, e allora, mi capite, i galantuomini hanno dovuto dar luogo».
«Poh!» disse il bravo, «vedete un po' come le cose si contano.
A me ha detto uno là (accennando un crocchio lontano) che la giovane era daccordo, che si era trovata lì per andarsene, e che quegli che l'ha portata via era un suo innamorato».
«Oh», disse uno, «se la cosa fosse così, se ne sarebbe andata senza schiammazzo».
«No», rispose il bravo, «perché aveva promesso ad un altro per far piacere ai suoi parenti; e voleva far credere di esser rapita.
Così dicono quelli che pretendono d'essere informati».
«Ohe!» disse un altro barbassoro, «che la fosse una mostra per ingannare i merlotti!» Questa opinione dopo un breve dibattimento prevalse; perché essendo quella che supponeva nel fatto una malizia più raffinata, veniva a supporre più fino accorgimento in chi la teneva: e chi l'avesse rifiutata poteva passare per un semplicione da lasciarsi ingannare alle più grossolane apparenze di virtù.
Quando il degno servitore di Egidio vide che la sementa non era gittata in terreno sterile e che avrebbe fruttato, si spiccò da quel crocchio dicendo: «Oh avete il buon tempo voi altri: per me m'accontenterei che sparissero tutte le giovani purché venissero pagnotte abbastanza».
Quegli altri ad uno ad uno se n'andarono chi qua chi là a riferire la storia; si disputò assai; le opinioni rimasero divise, ma la più preponderante fu quella che dava occasione di ragionare profondamente sulle astuzie delle donne che fanno la semplice, sulla dabbennaggine della Signora, che aveva raccolta quella mozzina.
Il tiro della povera Lucia fu raccontato con mille particolari; si riferirono di lei mille altre astuzie.
Il romore giunse ben presto al monastero: già la fattora tornata a casa, non trovando Lucia, sulle prime pensò ch'ella fosse andata alla Chiesa del monastero; non vedendola poi ricomparire, stava per andarne in cerca, quando s'intese che Lucia era stata rapita, o si era fatta rapire.
Il monastero fu sottosopra.
La Signora (quando ci siamo rallegrati di non aver più a parlarne ci era uscito di mente che avremmo dovuto far qui menzione di essa: ma ce ne sbrigheremo in due parole) la Signora a tutto addottrinata fece le maraviglie, mandò gente in cerca, non volle credere che Lucia le avesse fatto un tiro di questa sorta, disse che era pronta a metter la mano nel fuoco per quella ragazza.
Mandò finalmente a chiamare il padre guardiano che gliel'aveva raccomandata.
Ma il padre guardiano al quale pure erano giunti i diversi romori del fatto era in istrada, per udire dalla Signora come la faccenda fosse.
La Signora si mostrò con lui come con gli altri tutta maravigliata: disse che sperava ancora che Lucia verrebbe, che sarebbe una di quelle tante ciarle che mettono attorno gli scioperati.
«Se m'avesse ingannato...» aggiunse; «ma non lo posso credere di quella ragazza.
Ad ogni modo io sono tanto più afflitta di questo tristo accidente, in quanto io aveva pensato seriamente ad ajutare questa povera giovane, e credeva di aver trovato ajuti nelle mie aderenze per metterla al sicuro dal suo persecutore.
Aveva anzi molto desiderio di sentire il parere del padre guardiano, ma ora questi disegni non servono più a nulla».
È chiaro che la Signora gittò queste poche parole, per potere in caso spiegare la commissione da lei data a Lucia, se mai questa potesse un giorno rivelarla; per potere allora far vedere che non era stato un pretesto per allontanarla, e darla in mano ai rapitori.
Ma della commissione la Signora non ne parlò al guardiano; probabilmente perché non voleva che si dicesse che Lucia si era posta su quella strada per suo ordine, e ne nascesse qualche sospetto.
Se questa fosse una storia inventata, non mancherebbe certamente qualche lettore il quale troverebbe un gran difetto di previdenza nella perfidia ordita da Egidio e dalla Signora, poiché se Lucia avesse un giorno potuto parlare, se si fosse risaputo che quando fu presa ella andava per ordine di Geltrude, quanto maggior sospetto non sarebbe caduto sopra di questa, per avere essa taciuta al guardiano una circostanza tanto importante, della quale doveva così ben ricordarsi, che non avrebbe certo dissimulata se avesse operato schiettamente.
Quei lettori i quali vorrebbero che in una storia anche le insidie fossero fatte perfettamente, se la prenderebbero coll'inventore: ma questa critica non può aver luogo perché noi raccontiamo una storia quale è avvenuta.
Del resto questo stesso difetto ci dà il campo di porre qui una riflessione consolante in mezzo ad un sì tristo racconto: che è un disegno sapientissimo della Provvidenza regolatrice del mondo, che le perfidie le più studiate a danno altrui non sono mai tanto bene studiate, tanto bene eseguite che non rimanga sempre qualche traccia della mano che le ha ordite.
L'uomo che intraprende una buona azione, quando sia un po' avvezzo a riflettere prevede sovente che non sarà senza inconvenienti: i birbanti avrebbero una parte troppo buona nelle cose di questo mondo se dovessero nelle loro birberie essere esenti da ogni perplessità.
CAPITOLO X
La carrozza correva tuttavia velocemente, gl'indegni guardiani di Lucia, consultavano non senza sollecitudine su lo stato di essa, guardandola fisamente, cercando nel suo volto pallido e immobile le apparenze della vita, aspettando ansiosamente ch'ella ne desse alcun segno; quando la poveretta cominciò a rinvenire come da un sonno profondo, diede un sospiro, e aperse gli occhi.
Penò qualche tempo a distinguere i luridi oggetti che la circondavano, e a raccappezzare le idee già confuse, e incerte che avevano preceduto il suo deliquio, a confrontarle con le prime, che si affacciavano alla sua mente ritornata: finalmente a poco a poco riprendendo le forze riprese tutto il pensiero, e comprese la sua orribile situazione.
I bravi, senza ardire di porle le mani addosso, e guardandola con un certo rispetto le andavano facendo animo, e ripetendo: «coraggio, non è niente, non vogliamo farvi male: siamo galantuomini».
Il primo uso che fece Lucia della vita fu di gittarsi con forza verso lo sportello per vedere dove fosse, se gente passasse, se potesse lanciarsi al di fuori ad ogni pericolo: ma appena potè scorgere che il luogo ch'ella attraversava rapidamente era un bosco, che anima vivente non v'era: che le braccia villane che l'avevano già conficcata la prima volta al fondo della carrozza, ve la conficcarono di nuovo.
Levò ella allora un altro grido, ma la stessa manaccia tornò in furia con lo stesso fazzoletto, e il padrone di quella manaccia disse nello stesso momento: «Facciamo i nostri patti: noi non vi faremo male, non vi toccheremo, ma voi non cercherete né di fuggire né di gridare: già è inutile, ma pure se voleste tentarlo, noi siamo qui, amici o nemici, come vorrete».
«Lasciatemi andare», disse Lucia con voce soffocata dallo sdegno e dallo spavento: «lasciatemi andare subito, subito: io non son vostra, lasciatemi andare».
«Non possiamo», rispose il malandrino.
«Dove mi conducete? dove sono? voglio andare al convento dei cappuccini».
«Ohibò ohibò», disse sogghignando colui, «che le ragazze non istanno bene coi cappuccini.
Venite con noi di buona voglia».
«No no», rispose Lucia alzando la voce; ma il fazzoletto fu alzato.
«Lasciatemi andare per amor di Dio», ripigliò ella con voce più fioca.
«Dove mi conducete?»
«In casa di galantuomini, vicino a casa vostra», rispose il malandrino.
«No no», disse ancora Lucia: «lasciatemi andare».
«Ma se questo è contra i nostri ordini», rispose un altro.
«Chi vi può dare questi ordini?» domandò Lucia: «ricordatevi della giustizia, ricordatevi dell'inferno, ricordatevi della morte».
«Pensieri tristi», replicò quello dal fazzoletto: «voi ci volete far malinconia, e noi vi conduciamo a stare allegra».
«Santissima Vergine ajuto!» gridò Lucia, ma il malandrino con volto iracondo le protestò che s'ella gridava un'altra volta, il fazzoletto sarebbe rimasto sulla sua bocca fino a ch'ella fosse giunta al luogo destinato.
E sforzandosi d'esser garbato aggiunse: «già siamo vicini: parlerete con chi può comandare: noi siamo servitori che facciamo il nostro dovere: è inutile che ci diciate le vostre ragioni».
«Oh per amore di Dio, della Madonna», riprese Lucia in tuono supplichevole, con voce interrotta da singulti, e senza pur pensare ad asciugare le lagrime, che le rigavano tutta la faccia: «per amore di Dio, lasciatemi andare: io sono una povera creatura, che non vi ha mai fatto male: vi perdono quello che mi avete fatto, e pregherò Dio per voi: se avete anche voi una figlia, una moglie, una madre, qualche persona cara a questo mondo, pensate quello che patirebbero se fossero in questo stato: pensate all'anima vostra; fate una buona opera che vi può salvare: fatemi questa carità, acciocché Dio vi usi misericordia, lasciatemi qui».
«Non possiamo» risposero tutti e tre; commossi alquanto da quel lamento.
«Non possiamo», ripetè il capo; «ma non abbiate paura, fatevi animo; già non vi conduciamo in un deserto: state tranquilla: se volete parlare noi vi risponderemo; se volete tacere, noi non parleremo: non temete, nessuno vi toccherà»; e così dicendo si ristringeva contra la carrozza lasciando più spazio a Lucia perché stesse meno disagiata, perché non fosse oppressa da una vicinanza ch'egli stesso sentiva in quel momento quanto dovesse essere incomoda e ributtante.
Gli altri due, si andavano pure ristringendo dal loro lato, facendo luogo a Lucia, e tenendosi come in distanza, stornando gli occhi da quel volto accorato, ma fermi nel loro atroce proposito di eseguire la commissione: come il villanello che a fatica si è arrampicato all'albero per togliere un uccelletto dal nido, e lo tiene nelle mani, e lo sente dibattersi e tremare, e sente il cuore della povera bestiola battere affannosamente contra la palma che lo stringe; prova pure qualche pietà: allenta le dita alquanto per non affogare la povera bestiola, per non farle male; ma aprire il pugno, lasciarla tornare al suo nido: oh no! il figlio del padrone gli ha chiesto l'uccelletto, gli ha promessa una bella moneta s'egli sapeva snidarlo e portarglielo vivo.
Lucia dopo avere ancora indarno pregato; «ditemi dove mi conducete», richiese di nuovo.
«In casa di galantuomini, e non vi possiamo dire altro», rispose quegli che le stava vicino.
Lucia vedendo che le preghiere riuscivano inutili come la resistenza, e stanca dell'ambascia, e dello stento, incrocicchiò le braccia sul petto, si strinse nell'angolo della carrozza, in silenzio: e perduta ogni speranza di soccorso umano, si rivolse a Dio da cui tutto sperava; e pr
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