FERMO E LUCIA, di Alessandro Manzoni - pagina 30
...
.
Quindi rivolto sorridendo a Geltrude, le chiese quando ella sarebbe stata disposta a fare una trottata a Monza per richiedere alla Badessa di esser ricevuta.
«Anzi...» riprese dopo aver pensato un momento, «perché non v'andiamo oggi stesso? Geltrude ha bisogno di pigliar aria, e sarà ancor più contenta quando il primo passo sia fatto».
«Andiamo, andiamo» rispose la Marchesa.
«La giornata è bellissima».
«Vado a dar gli ordini», disse il Marchesino e stava per partire.
«Ma...» cominciò Geltrude, e non potè continuare.
«Piano, piano, cervellino», ripigliò il Marchese rivolto al figlio: «forse Geltrude è stanca, e vuole aspettare fino a domani.
Volete voi che andiamo domani?» domandò a Geltrude con uno sguardo che nello stesso tempo mostrava il sereno e minacciava il temporale.
«Domani», rispose con debole voce Geltrude, alla quale non parve vero di aver qualche ora di rispitto, e che nel proferire quella parola si sovvenne che finalmente quel passo non era l'ultimo, il decisivo; e che si poteva ancora darne uno indietro.
«Domani», disse solennemente il Marchese: «domani, è il giorno ch'ella ha stabilito».
Il resto della giornata fu occupatissimo.
Geltrude avrebbe voluto raccogliere i suoi pensieri, riposarsi da tante commozioni, rendersi conto di quello che aveva fatto, di quello che era da farsi, sapere distintamente che cosa voleva, trovare il modo di rallentare un po' quella macchina che appena mossa andava con tanta celerità, per vedere almeno come ne era condotta, e per arrestarla affatto se si fosse accorta che la conduceva ad un pentimento; ma non ci fu verso.
Le distrazioni si tenevano dietro senza interruzione, e la mente di Geltrude era come il lavorio d'una povera fante che serva ad una numerosa famiglia e che in un giorno di faccende chiamata di qua di là non può venire a capo di nulla.
Mentre s'apparecchiava il quartiere ch'ella doveva abitare, ella fu condotta nella stanza stessa della Marchesa, per essere acconciata, adornata, vestita del suo più bell'abito; operazione che in quel giorno le recò una noja intollerabile.
La Marchesa presiedeva all'acconciamento, e parte lodando, parte riprendendo, parte consigliando, parte interrogando Geltrude di cose estranie non le lasciò il tempo di raccozzar due idee.
Del resto a misura che l'opera procedeva verso la sua perfezione, Geltrude stessa vi prese un po' d'affetto, e vi occupò quel poco di pensiero che le rimaneva.
L'acconciatura era appena finita che venne l'ora del pranzo.
I servi la inchinavano umilmente sul suo passaggio, accennando di congratularsi per la ricuperata salute; con una serietà che non avrebbe lasciato supporre che essi sapessero qualche cosa del vero motivo della assenza di Geltrude.
A tavola Geltrude fu la regina: servita la prima, trattenuta, corteggiata, ella doveva corrispondere a tante gentilezze, e faceva ogni sforzo per riuscirvi.
Il Marchese aveva fatto avvertire alcuni parenti più prossimi del ristabilimento della figlia, e della sua risoluzione: le due liete nuove si sparsero, e come la famiglia del Marchese spandeva un lustro grande su tutta la parentela, comparvero dopo il pranzo visite di congratulazione.
I complimenti erano per la sposina - così si chiamavano le giovani che erano per farsi monache - e la sposina doveva rispondere a quei complimenti; ed ogni risposta era una conferma.
S'avvedeva ben ella che ad ogni momento andava tessendo ella stessa una maglia di più alla sua rete; ma oltre ch'ella non vedeva ben chiaro se quella era una rete, fare altrimenti le pareva impossibile: poiché come mai in presenza del padre, a chi si rallegrava di una risoluzione presa da lei, ed annunziata da quello, avrebb'ella potuto dare una risposta dubbiosa? Partite le visite Geltrude entrò con la famiglia nel cocchio dal quale era stata esclusa per tanto tempo: e si andò a fare la solenne trottata.
Lo spettacolo e il romore delle carrozze e dei passeggiatori, i discorsi incessanti del padre, della madre, e del fratello che per cortesia rivolgevano sempre la parola a Geltrude, si contendevano l'attenzione della sua mente; e i pensieri sulla sua situazione vi apparivano istantaneamente come lampi in un povero cielo.
Rientrato il cocchio, in casa, e fermato sotto le volte rimbombanti dell'atrio, i servi che scendevano in fretta coi doppieri, annunziarono che gran parte della conversazione era già ragunata.
Si montò con tutta la fretta che poteva conciliarsi con una certa gravità, e di sala in sala si giunse a quella della conversazione.
La sposina ne fu il soggetto, l'idolo, e la vittima.
Chi si faceva prometter da lei, chi prometteva visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della madre tal altra sua conoscente; chi lodava il cielo di Monza, chi la regola del monastero.
Se alcuno non potendo avvicinarsi a Geltrude assediata da altri, o trovandosi distratto a ciarlare in un crocchio, non le aveva detto nulla, si sentiva tutto ad un tratto preso come da un rimorso, temeva di averle fatta una offesa, e studiava il momento di farle il suo complimento.
Finalmente la brigata si sciolse, tutti partirono senza rimorso, e Geltrude stordita, intronata si rimase sola con la famiglia, dalla quale ebbe altri complimenti sui complimenti che aveva ricevuti.
«Ho finalmente», disse il Marchese Matteo «avuta la consolazione di veder mia figlia trattata e distinta da sua pari.
Domani mattina», soggiunse, «converrà esser presti di buon ora per andare a Monza come ha stabilito Geltrude».
Geltrude condotta finalmente dalla Marchesa nella stanza che le era preparata vi rimase con una donna che era stata quel giorno destinata ai suoi servigi, in vece di quella che aveva fatto presso di lei il tristo uficio di carceriera.
Questo cangiamento era stato provocato da Geltrude.
Vedendo ella in quel giorno il padre così disposto a compiacerla in tutto fuor che in una cosa, fu tentata di profittare dell'auge in cui si trovava per soddisfare almeno una delle passioni che si univano a tormentarla.
Si è detto ch'ella vedeva di mal occhio la donna che le era stata spia e guardiana; e che v'era fra esse un ricambio continuo, una gara di sgarbi.
Geltrude in certi momenti di divozione le aveva perdonato, ma cento perdoni non ne vagliono un solo.
Vedersi in quel giorno trattata con tanta importanza quasi con tanto rispetto da tutta la famiglia, le dava un po' di superbia, e nello stesso tempo il sentire che con queste lusinghe le si faceva fare quello che forse ella non avrebbe voluto le dava stizza: mentre il suo animo si trovava fra questi due tristi sentimenti, le sovvenne dei modi rozzi, famigliari, insolenti che quella donna le aveva usati nella sua prigionia, e volendo lamentarsi di qualche cosa, se ne lamentò al padre.
Questi ne fu, o se ne mostrò sdegnato, non istette a domandarle come ella pure avesse trattata la donna; ma promise che darebbe una buona lavata di capo a colei, e fissò immediatamente ai servigi di Geltrude un'altra donna di casa.
Era questa la vecchia governante del Marchesino: e Geltrude faceva poco guadagno nel cambio.
La vecchia alla quale il Marchesino era stato dato in guardia quando fu tolto alla nutrice, aveva per lui una falsa affezione di madre: in lui aveva poste tutte le sue compiacenze, le sue speranze, la sua gloria.
Dopo il Marchese ella era stata la prima a dire che Geltrude aveva ad esser monaca per non rubare una parte d'entrata al Marchesino.
Quel giorno ella era e si mostrava tanto soddisfatta che aveva ricevute le congratulazioni dei suoi conservi, tra i quali era un personaggio d'importanza; e parlava con molta bontà della signorina che aveva conosciuto il suo dovere.
Geltrude, a compimento di quella giornata, dovette sentire le lodi e i consigli della vecchia che spogliandola e ponendola a letto le fece la storia di sue zie, e di sue prozie, le quali s'eran fatte monache per non intaccare il patrimonio della casa, e che se n'erano trovate ben contente perché i monasteri dove s'erano chiuse avevan saputo tener conto dell'onore che arrecava loro l'aver dame di quella casa.
Le raccontò che si era ricorso ad esse per protezione, e che esse dal loro parlatorio avevano ottenuto ciò che era stato invano domandato dalle prime dame nella loro gran sala di ricevimento, parlò degli affari d'onore imbrogliatissimi ch'esse avevano conciliati, delle visite di grandi personaggi forestieri che avevano ricevute, di che tutta la città aveva parlato.
«Ma», soggiungeva, «erano donne che sapevan fare»; e qui intrometteva qualche consiglio sulla condotta da tenersi a Monza.
Prediceva gli onori che Geltrude avrebbe pur ricevuti, le distinzioni, le visite.
Verrebbe poi il Signor Marchesino con la sua sposa, la quale doveva esser certo una gran dama, e allora non solo il monastero, ma tutto il borgo sarebbe in movimento.
Geltrude ascoltava con una noja mista di qualche curiosità, poiché si trattava probabilmente del suo avvenire, e benché stanca e stordita non diceva: «finitela», per quella stessa curiosità che impedisce uno di lasciare a mezzo una storia mal pensata e male scritta.
La vecchia aveva parlato mentre spogliava Geltrude, quando Geltrude era già coricata; parlava ancora che Geltrude dormiva.
Le cure di rado tolgono il sonno alla giovinezza; e sono tutt'altre cure che quelle onde era oppressa Geltrude.
Il suo sonno fu affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce agra della vecchia che venne di buon mattino a riscuoterla perché si preparasse al viaggio di Monza.
«Alto, alto, signora sposina; è giorno fatto; e prima ch'ella sia vestita, rivestita, in pronto, ci vorrà anche un'ora almeno.
La Signora Marchesa si sta alzando, e l'hanno svegliata quattr'ore prima del solito.
Il Marchesino è già disceso alla scuderia e risalito; e si trova in ordine di partire quando che sia.
Vispo come un lepratto quel diavoletto: ma! egli era tale fin da bambino: io posso ben dirlo che l'ho tenuto nelle mie braccia.
Ma quando è all'ordine non bisogna farlo aspettare, perché quantunque sia della miglior pasta del mondo, allora egli strepita, fa il diavolo: e questa volta avrebbe anche un po' di ragione perché egli s'incomoda per accompagnar lei.
Guarda in quei momenti: non ha tema di nessuno, fuorché del Signor Marchese; ma poi finalmente egli non ha sopra di sè che il Signor Marchese, e un giorno il Signor Marchese sarà egli.
Poveretto! con due paroline però s'acqueta subito.
Lesta, lesta, signorina, perché mi sta guardando così come incantata? a quest'ora ella dovrebb'esser fuori del nido».
Geltrude infatti desta per forza, non ancor ben certa di vegliare, assalita ad un punto dalle memorie del giorno trascorso, dal pensiero di ciò che si doveva fare in quello che cominciava, e dal cinguettio della governante, stava cogli occhi socchiusi ed intenti come trasognata: quel destarsi era per la sua mente come il dubbio barlume di un mattino tempestoso, quando un leggero diradamento nelle tenebre appena annunzia che il sole è sull'orizzonte, e a chi guarda più attentamente il sole stesso appare come un disco bianco e leggiero sospeso dietro le nuvole trasparenti.
Quelle esortazioni però fecero colpo assai, perché la vecchia aveva toccato un tasto del quale essa stessa non conosceva tutta la forza.
Il nome del Marchesino aveva già fermata l'attenzione di Geltrude, ma quando dalle parole della governante l'immagine del Marchesino in collera passò nella mente di Geltrude, tutti i pensieri onde questa era affollata, si levarono a volo come uno stormo di passere alla vista d'uno spauracchio, e non restò più a Geltrude che la voglia di sbrigarsi, e di schivare quella collera.
Geltrude, bisogna confessarlo, non amava molto il fratello; e pei suoi modi aspri, sprezzanti, e imperiosi, e perché di tutta la casa il Marchesino era quegli che più sovente aveva il monastero in bocca; e perché le compiacenze e le distinzioni dei parenti sopra di lui, la tenevano in uno stato continuo di paragone umiliante.
Lo temeva essa però, ma fino ad un certo tempo non quanto egli avrebbe voluto: e come di lingua e d'ingegno, ella era meglio fornita di lui, di quando in quando ella si vendicava con un motto di molti giorni di una pesante persecuzione.
Era quindi fra loro come un continuo stato di guerra.
Ma quando dopo la sua prigionia Geltrude comparve davanti al fratello carica d'un fallo e d'un perdono, alzando timidamente gli occhi sulla faccia del fratello, vi scorse una superiorità dalla quale non ebbe pure il pensiero di potersi ribellar mai; si sentì soggiogata per sempre.
Ed ora il solo pensare che il fratello in un momento d'impazienza potesse profittare del vantaggio che ella le aveva dato col suo fallo, per gittarle un motto, un rimprovero che alludesse a quello, la faceva tremare.
Si pose ella quindi a sedere in fretta, e pure in fretta cominciò a vestirsi.
Avrebbe potuto la poverina riflettere che quel pericolo era troppo lontano; che il fratello in un momento in cui sperava da lei un tal sagrificio era ben lontano dal dir cosa che potesse offenderla; e che alla fine per grossolano e sventato ch'egli fosse, non avrebbe scherzato così di leggieri con l'onore di sua sorella, al quale il suo proprio era tanto vicino; ma un effetto dei falli si è appunto di render l'animo più soggetto a timori non ragionevoli.
Geltrude si vestì dunque in fretta, si lasciò acconciare e comparve nella sala dov'era radunata la famiglia ad aspettarla.
Il Marchesino, al quale corsero dapprima i suoi occhj, se ne stava tranquillo, senza dar segno d'impazienza: la Marchesa la quale aveva sagrificate tre ore di letto mostrava nell'aspetto quel misto di sentimenti che nasce dalla consolazione di aver fatta una impresa, e dal dispetto degli incomodi sostenuti per venirne a capo.
Il Marchese con lieto viso si fece incontro a Geltrude, e le disse.
«Avete scelto una bella giornata: buon augurio».
«Buon augurio» ripeterono la Marchesa e il Marchesino.
Era preparata una sedia a bracciuoli, e il Marchese accennò amorevolmente a Geltrude che vi sedesse, e perch'ella confusa stava alquanto in forse: «qui, qui», diss'egli, «certamente: dopo la risoluzione che avete fatta non siete più una ragazzetta: siete come un di noi».
Appena Geltrude si fu seduta, venne un servo che le presentò rispettosamente una tazza di ciocolatte.
Prendere il ciocolatte a quei tempi, era, dice il nostro manoscritto, quello che presso ai romani assumere la veste virile: e tutte queste cerimonie erano piccioli fili, che legavano sempre più la povera Geltrude.
Essa non confermava con parole la risoluzione che tutte quelle dimostrazioni supponevano: non diceva nulla, non faceva nulla, ma tutto ciò che si faceva d'intorno a lei, la poneva in una situazione nella quale il disdirsi, appena il mover dubbio sulla sua risoluzione, il fermarsi un momento avrebbe avuto sempre più apparenza di stranezza scandalosa.
Preso il fatal ciocolatte, il Marchese si alzò, pigliò Geltrude in disparte, e con aria di consiglio amorevole le disse.
«Orsù figlia mia, diportatevi bene: scioltezza, e buon garbo».
E qui le diede le istruzioni su quello che doveva fare e dire, e le fece ripetere la formola della domanda.
«Benissimo, a meraviglia» esclamò quindi e continuò: «Quelle buone suore vi aspettano a braccia aperte; e non sanno nulla, nulla...
Non mi date in fanciullaggini, in pianti, non mi fate la Maddalena penitente, guardatevi da un contegno che lasci sospettar qualche cosa: siate franca, e mostrate di che sangue uscite.
La vostra risoluzione vi ha meritato il perdono della famiglia; il vostro fallo è cancellato e dimenticato».
Quand'anche Geltrude avesse avuto il coraggio, che non aveva, di porre qualche ostacolo, questo discorso, che le faceva sentire dove si sarebbe tosto portata la quistione, l'avrebbe immediatamente disposta ad obbedire senz'altre osservazioni.
Ella arrossò, non rispose nulla, chinò il capo, gli occhi le si gonfiarono; ma un «via via», detto risolutamente dal Marchese e l'apparire d'un servo che annunziava che il cocchio era pronto, la costrinsero a farsi forza, e a ricomporsi.
Nello scender le scale, Geltrude fu servita da un bracciere; si montò in cocchio, e si partì.
Gl'impicci, le noje, e i pericoli del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente per le giovani di sangue nobilissimo furono il tema del discorso durante il tragitto.
All'entrare nel borgo, al vedere la porta del chiostro, Geltrude si sentì stringere il cuore, ma gli occhi della famiglia erano sopra di lei; quando il cocchio si fermò Geltrude guardando alla porta la vide già piena di curiosi; e lo studio di non far nulla di sconvenevole la occupava tanto, ch'ella scese, e s'avviò quasi senz'altro pensiero.
Attraversando il cortile si vide la porta del chiostro aperta, e tutta occupata dalle monache.
In prima fila alcune anziane con la badessa nel mezzo; dietro le altre alla rinfusa, quelle che erano immediatamente dopo le prime cacciavano il volto tra l'una e l'altra, altre dietro ritte sulla punta dei piedi; e per non tacer nulla, le converse in ultimo sollevate sopra sgabelletti.
Si vedevano pure qua e là luccicare più basso qualche paja di occhj avidissimi, come al buco della chiave, ed apparire qua e là un po' di volto mezzo ascoso: erano le più destre e le più animose delle educande che serpendo tra una monaca e l'altra s'eran trovate un cantuccio per vedere anch'esse qualche cosa: il che era in verità troppo giusto.
Geltrude come incantata giunse in faccia a tanto teatro, condotta ed animata dai parenti, e si fermò nel bel mezzo davanti alla madre badessa.
È inutile dire che questa era stata dal Marchese avvertita per un messo straordinario della visita che avrebbe ricevuta e del perché.
Geltrude fu accolta dalla badessa e da tutte le suore con acclamazioni.
Dopo i primi saluti, la badessa nel modo con cui si fa per formalità una domanda della quale è certa la risposta, le domandò che cosa ella desiderava in quel luogo dove non v'era chi potesse nulla rifiutarle.
«Son qui...» cominciò a rispondere Geltrude, ma nel momento in cui ella doveva manifestare con certezza un desiderio che era tutt'altro che certo nel suo cuore, nel momento in cui le sue parole dovevano decidere quasi irrevocabilmente del suo destino, il combattimento interno fu sì forte ch'ella non potè proseguire, e ristette un istante guardando come incantata la badessa, e la folla che la circondava.
Così guatando ella vide distintamente alcune delle sue compagne, e sulla parte che appariva di quelle faccette e più negli occhi un'espressione mista di malizia e di compassione, che diceva chiaramente: «Ah! c'è incappata la brava!» Questa vista le risvegliò in cuore tutta l'avversione al chiostro, l'orrore per la violenza che l'era fatta, e con questi sentimenti un lampo di coraggio.
E già ella stava cercando una risposta diversa da quella che si aspettava da lei, cosa troppo difficile a trovarsi in quella circostanza.
Alzò un momento gli occhi verso il padre che le stava di fianco, per indovinare che effetto avrebbe prodotto la sua resistenza, e come per esperimentare le proprie forze, ma vide negli sguardi del Marchese una espressione sì minacciosa, che tutto il suo coraggio svanì.
Pensò che la resistenza, che il ritardo, l'avrebbero resa innanzi a tanti occhi un oggetto di scandalo, di stupore, e di derisione, pensò al padre, al fratello, al mondo, al paggio; si consolò riflettendo che dopo quella formalità le rimaneva ancora una porta aperta per tornare indietro, che poteva guadagnar tempo, e che avrebbe saputo approfittarne; e il partito il più facile, il più sicuro, il meno terribile in quel momento le parve di dire, come fece: «Son qui a domandare d'essere ammessa a vestir l'abito».
Nel breve momento d'indugio ch'ella aveva posto a finir la sua frase un silenzio solenne aveva regnato fra gli astanti: le parole di Geltrude furono seguite da una acclamazione generale.
Chetato il tumulto, la badessa tutta sorridente, porse a memoria questa risposta che le era stata data in iscritto da un bell'ingegno di Monza, uomo dotto che aveva letti i celebri romanzi del Pasta: «Se il rispetto non ponesse un freno agli affetti, io accuserei in questa circostanza di troppo rigore quelle regole sapientissime che ci proibiscono di dare alcuna risposta a domande di questa natura prima di averne ottenuta la licenza.
Bensì senza riguardi, accuseremo il tempo che coi suoi lenti passi ci ritarda il momento di dare questa risposta desiderosa non meno che desiderata.
E voi, carissima figlia, con l'acume del vostro ingegno potrete intanto, dai segni esterni farvi indovina della decisione che potete aspettarvi da tutte le nostre suore; e da me umilissima superiora».
Le acclamazioni ricominciarono: e le suore sorrisero di compiacenza, e non a torto perché la gloria del capo si diffonde sugli inferiori.
La badessa, alla quale non era spiaciuto di aver molti uditori, pensò allora che la folla poteva essere incomoda, si rivolse ad una suora, e disse: «Ehi suor Eusebia, date un po', una voce alla fattora, perché faccia sparire tutto quel minuto popolo, e chiuda la porta di strada».
L'ordine fu dato ed eseguito: e il minuto popolo partì con dispiacere, ma con ammirazione.
Geltrude passava intanto dalle braccia della badessa a quelle d'una e d'un'altra suora; e ognuna le faceva un complimento, il quale aveva in tutte a un di presso lo stesso senso: - l'avevam sempre detto che sareste nostra -.
Passato quel primo impeto, la badessa pregò Geltrude e la famiglia di passare nel parlatorio.
A questa preghiera, le converse scesero dagli sgabelli, la folla si diradò, e la badessa con alcune delle anziane si avviò al parlatorio per l'interno del chiostro, mentre la famiglia milanese vi andava pel di fuori.
V'ha due modi di scendere il pendio della sventura: l'uno è di capitombolare ad un tratto nel precipizio, l'altro d'andarvi come saltelloni in più riprese: in questo secondo caso, ogni fermata è una specie di riposo; e l'intervallo che passa tra una caduta e l'altra è talvolta tutto occupato dalla speranza.
Geltrude sentì un certo sollievo d'essere uscita di quella stretta comunque ne fosse uscita, e corse tosto col pensiero a proporsi di volere prima di fare un altro passo meditar ben bene se le conveniva o no di progredire, e di non lasciarsi cogliere così alla sprovveduta.
Con questo pensiero ella fu condotta nel parlatorio.
Qui rinnovati i complimenti, la badessa pregò gli ospiti di aggradire alcune cosucce, ch'ella faceva porre nella ruota da una conversa; la quale dette il moto alla ruota, e ne rivolse la bocca verso il parlatorio esteriore.
Due secoli e più sono passati dopo quel giorno memorabile: così che noi crediamo di potere ormai senza indiscrezione manifestare che la ruota, rivolgendosi, offerse agli sguardi, ed alle mani degli ospiti un gran bacile di dolci squisiti, fabbricati di propria mano dalle suore malgrado gli ordini ecclesiastici, in allora recenti, che proibivano loro assolutamente un tale esercizio.
È da credersi che questi ordini non ottenessero un più grande effetto in progresso di tempo, giacché questa fabbricazione durò fino ai nostri giorni; il che non si accenna qui per censurare con indiscreta severità tutte le monache che si succedettero in questi due secoli; una tale censura sarebbe anzi a dir vero non solo indiscreta, ma perfidamente ipocrita, perché chi scrive ha mangiato egli stesso i dolci squisiti di fabbrica monastica, quando ha potuto averne.
Si parla soltanto di questo fatto, perché può dar luogo ad una osservazione piccante: che vi ha talvolta delle leggi che non sono eseguite.
Dopo un «oh!» come di sorpresa, dopo alquanto schermirsi, e lagnarsi d'esser trattati in cerimonia, il bacile fu manomesso, i dolci furono gustati con atti che esprimevano l'ammirazione, somme lodi furon date con sentimento molto, e rispinte con molta modestia.
Mentre la Marchesa e il Marchesino si abbandonavano con alcune suore alle varie riflessioni che può far nascere un bacile di dolci, e Geltrude era costretta di rispondere come poteva ai complimenti che altre suore le facevano, la madre badessa chiamò in disparte il Marchese ad un'altra grata.
«Signor Marchese...
per adempire alle regole...
per una pura formalità...
debbo dirle...
che ogni volta che una figlia domanda d'essere ammessa...
la Superiora, quale io sono indegnamente...
tiene obbligo di avvertire i parenti che se mai essi forzassero la volontà della figlia incorrerebbero nella scomunica...
Mi scuserà...»
«Benissimo, benissimo, reverenda madre; troppo giusto: lodo la sua esattezza.
Ma già ella non può dubitare...»
«Oh! Pensi, Signor Marchese; non sono pur cose da dirsi: ho parlato per mio dovere; ma s'immagini...»
«Certo, certo, madre badessa».
Finito il qual breve dialogo, i due interlocutori si separarono in fretta, come se fosse incomodo ad entrambi il continuarlo, e andarono a mescersi ognuno alla sua brigata.
Dopo alcuni altri complimenti, il Marchese si accomiatò, e Geltrude colle tenere espressioni della badessa, con le istanze delle suore di venir presto, fu rimessa in cocchio più stordita, più incerta, più sopra pensiero di quello che fosse partita la mattina, ma con un anello di più alla sua catena; e che anello!
Ma la badessa aveva ella qualche dubbio sulla libera elezione di Geltrude, o prestava fede intera alle parole materiali ch'erano uscite dalla bocca di lei? Il manoscritto non ne dice nulla; si perde invece a raccontare lunghissimamente dei particolari nojosi che noi ommettiamo, intorno ad alcune brighe del monastero, ad alcune rivalità, ad alcuni impegni, nei quali l'aver fra le suore una figlia di famiglia potentissima poteva essere un gran soccorso.
CAPITOLO IV
Appena cessati gl'inchini che dalla carrozza si dovevano fare in risposta alle riverenze delle suore che stavano sulla soglia a veder partire i signori, e la nuova sorella, appena messo in moto il cigolante carrozzone, Geltrude fu assalita da nuovi complimenti sul modo con cui si era portata, sul suo contegno, sull'ammirazione che aveva eccitato nelle monache, sul giubilo di queste per l'acquisto che facevano, e per conseguenza sulla felicità di che Geltrude avrebbe goduto in loro compagnia.
Ma tutti gli elogi non furono per Geltrude.
La Marchesa sbadigliando parlò con ammirazione della badessa: «Come s'è portata!» diss'ella «non mi aspettava tanto; ah! che contegno! aah! che dignità! aaah! che disinvoltura!»
«Sì, sì»: rispose il Marchese, «ma! Geltrude sarà altra cosa».
Il discorso sarebbe durato fino all'arrivo in città, se il Marchesino che ne era nojato non l'avesse troncato per parlare dei divertimenti che Geltrude doveva godere nell'intervallo fra la domanda e l'accettazione.
E qui come conoscitore espertissimo di tutto ciò che nella città e nei contorni era degno da vedersi, egli ne anticipò a Geltrude larghe e variate descrizioni; e le parlò di molte sposine ch'egli aveva incontrate nelle brigate, senza risparmiare la storia di qualche grossa semplicità di taluna di esse, che aveva molto dato da ridere.
Il Marchese lasciava chiaccherare il figlio, perché in questa faccenda egli aveva più da fare che da dire, e tutto ciò che gli risparmiava una occasione di discorso, lo toglieva da un impaccio: quanto alla Marchesa, malgrado i trabalzi che una carrozza di quei tempi dava in una strada di quei tempi, ella dormiva saporitamente: cosa che non sorprenderà chi sappia che cosa vuol dire essere svegliato tre ore prima del solito, e per occuparsi in cosa indifferente.
La Marchesa fu desta dal rimbombo dell'atrio di casa, e dall'improvviso fermarsi della carozza.
Scesi, e salite le scale, il Marchese intimò alla madre e alla figlia che prima del pranzo dovessero porsi in assetto per andar subito dopo a restituire la visita alle dame che avevano favorito la sera antecedente.
Detto e fatto; l'acconciatura, il pranzo, le visite si succedettero senza interruzione; e la solita conversazione terminò la giornata.
Dopo cena il Marchese pose in campo il discorso dei divertimenti che si dovevano dare a Geltrude, e delle conversazioni dove ella aveva ad esser presentata come sposina.
«Bisognerà pensare senza ritardo», soggiunse egli, «a scegliere per Geltrude una madrina degna della nostra casa».
La madrina, mio giovane lettore, era una dama incaricata di condurre la sposina ai divertimenti, alle conversazioni, di presentarla, e di vegliare sovr'essa.
Siccome il Marchese proferendo quelle ultime parole s'era voltato verso la Marchesa come invitandola a proporre la dama che le fosse paruta più a proposito (atto per parentesi che il Marchese faceva rarissimo) la Marchesa cominciò tosto: «Vi sarebbe...» «No no», interruppe il Marchese, «la prima condizione d'una madrina è ch'ella vada a genio della sposina; e benché l'uso universale e ragionevole dia questa scelta ai parenti, pure Geltrude ha tanto giudizio che merita che si faccia una eccezione per lei».
E qui rivolto a Geltrude col piglio di chi fa una grazia singolare, continuò: «Ognuna delle dame che avete visitate questa mattina, e di quelle che si sono trovate questa sera alla conversazione, ha le condizioni necessarie per esser madrina d'una figlia della nostra casa, e ognuna si terrà onorata di esser preferita: scegliete».
Geltrude incerta com'era, e stanca e indispettita dei passi che le si facevano fare sulla via del chiostro, non avrebbe voluto far nulla: ma la grazia era offerta con tanto apparato ch'ella s'avvide che il rifiuto sarebbe stato preso per un disprezzo; e nello stesso tempo non volle perdere quel qualunque vantaggio che le dava il potere scegliere.
Nominò dunque la dama che in quel giorno le era più dell'altre piaciuta, quella cioè che le aveva fatte più carezze d'ogni altra, che l'aveva lodata più d'ogni altra, che nell'accoglierla e nel conversare con lei le aveva mostrato tutto quell'aggradimento, quella famigliarità, quell'affetto che alle volte in una prima conoscenza imita i modi d'una antica amicizia.
La dama scelta da Geltrude aveva da lungo tempo fatto assegnamento sul fratello di Geltrude per farne il marito d'una sua figlia ch'ella amava assai.
«Ben scelto, ben scelto», disse il Marchese: «e Lei», proseguì verso la Marchesa, «andrà domani a farne la domanda alla dama; e si ricordi di dire che la scelta è stata fatta da Geltrude: che son certo che la dama aggradirà doppiamente la domanda».
Noi non terremo dietro a Geltrude nei divertimenti, e nelle conversazioni a cui fu condotta o strascinata; né racconteremo tutte le impressioni e i sentimenti dell'animo suo in queste spedizioni; poiché dovremmo ripetere tante volte la stessa cosa, quante furono le fluttuazioni, le risoluzioni, i pentimenti, i sì e i no della sua mente, che furono infiniti.
Talvolta la pompa degli addobbi, lo splendore delle feste, la musica che non esprime alcuna idea, e ne fa nascere a migliaja, quella esaltazione di gioja che appare negli uomini radunati per divertirsi, e per dir tutto le qualità auree di qualche giovane cavaliere che s'indovinavano al solo vederlo, le comunicava una certa ebbrezza, una specie di entusiasmo che le faceva proporre di soffrire ogni cosa piuttosto che di tornare all'ombra trista e fredda del chiostro.
Talvolta lo stordimento, la fatica, la seccaggine dell'udire e la contenzione del rispondere le faceva parer dolce quel silenzio e quella pace.
Si destava talvolta piena ancora delle immagini splendide del giorno trascorso; pensava al passo irrevocabile che stava per dare, e diceva tra sè: - Oh che sproposito! - si sentiva un coraggio a tutta prova, e prometteva di tornare indietro.
La presenza del padre, o del Marchesino, una cosa qualunque da farsi raffreddavano quel primo impeto; il quale alla sera si trovava talvolta cangiato in un pieno abbattimento.
Tornavano allora alla mente le difficoltà, si pensava allora che se anche resistendo si avrebbe potuto schivare il chiostro, non era da sperarsi il viver lieto del quale allora si gustava una parte: perché si era in colpa, perché tutta la bonaccia presente non era assicurata che da un perdono, e il perdono dalla risoluzione di pigliare il velo.
Come sarebbero andate le cose, se la risoluzione si fosse ritrattata? e con quali parole ritrattarla? come cominciare? da che? Geltrude ritirava lo sguardo da questo mare in tempesta, e rivolgendolo allora al chiostro, il chiostro le pareva un porto.
Coltivava ella allora i sentimenti pii che potevano far piacere il chiostro a chi l'avesse scelto volontariamente, e in quelli cercava di riposare.
Quando dopo questi momenti ella si trovava con la famiglia, o con altri, diceva spontaneamente e con aria di posata fermezza, parole che dovevano far credere che la sua scelta era liberissima.
Tutte le volte poi ch'ella era posta in una circostanza nella quale ciò ch'ella doveva fare o dire doveva essere un nuovo attestato di questa sua scelta, ella faceva e diceva ciò che lo poteva far credere, ciò che la impegnava sempre più.
Benché alcune volte in quelle circostanze, ella sentisse una manifesta ripugnanza all'impegnarsi davantaggio, quantunque ella vedesse chiaramente che ciò ch'ella stava per fare le rendeva più e più difficile il retrocedere, pure il dire o fare il contrario l'avrebbe posta tutt'ad un tratto in una situazione così dura e così difficile, ch'ella non poteva né pure pensare di farlo.
Ella era come chi trovandosi sur un ripido pendio, vedesse all'ingiù sotto di sè un picciol passo da farsi, e quindi un luogo di riposo, e volgendosi indietro per guardare alla via che bisognerebbe fare per risalire vedesse il principio d'una erta, lunga, dirotta, disastrosa.
E la povera Geltrude non dava passo che per discendere.
Ma siccome chi nuoce a se stesso nell'avvenire per timore di nuocersi nel momento presente, non vuol mai confessare a se stesso tutto il male che si fa, né darsi così tosto per perduto, e ad ogni male che si fa, si consola con l'idea d'un rimedio, così anche Geltrude aveva trovato nella via che le restava da percorrere un momento di più forte speranza.
Questo momento era quello dell'esame che un ecclesiastico deputato dal vicario delle monache doveva fare della sua vocazione; esame nel quale ella si sarebbe trovata sola con lui, e nel quale ella si teneva certa che qualche occasione si sarebbe offerta per potere svilupparsi da quel laccio, se laccio era, e in ogni caso, di conoscere ella stessa più chiaramente il suo animo, di deliberare sulla sua scelta più posatamente, più sicuramente, di quello che potesse fare coi parenti già risoluti senza deliberazione, e coi suoi pensieri troppo agitati, troppo confusi, troppo inesperti per deliberare.
Il momento che Geltrude desiderava non senza qualche terrore, il Marchese lo affrettava con istanze, perché, come si è detto, egli era uomo esperimentato, e sapeva che a volere che un affare sia spicciato, bisogna muoversi; e il momento venne.
Un bel mattino il Marchese annunziò a Geltrude che in quel giorno il Signor...
ecclesiastico mandato dal vicario delle monache, verrebbe ad esaminare la sua vocazione.
Ma come quella conferenza avrebbe avute conseguenze serie, e Geltrude vi doveva esser sola con l'ecclesiastico, così il Marchese stimò che fosse necessario aggiungere all'annunzio qualche avvertimento che lasciasse una impressione nell'animo della figlia, e le servisse di compagnia e di guardia nell'assenza forzata d'ogni altro custode.
«Orsù, Geltrude», diss'egli; «finora voi vi siete diportata da angelo: ora si tratta di coronar l'opera.
Oggi voi dovete fare un gran passo; pensate che da esso dipende l'onore di vostro padre, della famiglia, il vostro, e il vostro destino di tutta la vita.
Tutto quello che si è fatto finora, si è fatto di vostro consenso, anzi a vostra richiesta.
Se in tutto questo frattempo vi fosse nato qualche pentimento, qualche dubbio, avreste dovuto manifestarlo; ma ora, voi ben vedete che non è più tempo di far ragazzate.
Io mi sono impegnato, in faccia al mondo, e mi sono impegnato perché voi mi avete dato motivo di credere, di esser certo che poteva impegnarmi senza rischio di avere una smentita.
Ricordatevi che la più picciola esitazione che voi potreste mostrare oggi, mi porrebbe nella necessità di scegliere fra due partiti dolorosi: o di rinunziare alla mia riputazione, lasciando credere che io ho presa leggermente una leggerezza vostra per una ferma risoluzione, che ho fatte tante pubblicità senza riflessione...
che so io...
che ho preteso far violenza alla vostra vocazione...
o di svelare i veri motivi della richiesta che voi avete fatta, e del vostro pentimento.
Il primo partito non può assolutamente stare con ciò che debbo a me e alla casa.
Astretto di appigliarmi al secondo, dovrei anche poi trattarvi come una figlia colpevole, che avrebbe corrisposto al primo perdono con un'altra gravissima colpa...»
Il tuono solenne e misterioso con cui il Marchese aveva cominciato il suo discorso aveva già messa in apprensione Geltrude: e nella angoscia dell'aspettazione i tratti del suo volto erano immobili, tesi, ravvolti come le foglie d'un fiore nell'afa che precede la burasca: ma la gragnuola assidua e crescente di quelle parole minacciose percotendola, la abbattè affatto, e la fè sciogliere in uno scoppio di pianto.
«Via via...
che è stato?» disse avvedendosene il Marchese, il quale era in quella faccenda tanto occupato delle conseguenze che ella poteva avere per lui che non pensava che ella potesse toccare altri tanto sul vivo.
«Che è stato? io ho parlato in una supposizione impossibile...
pure doveva pensare anche ad un tal caso...
per quanto giudizio abbiate, io doveva mettervi in avviso sull'importanza delle risposte che oggi siete per dare.
Il Signor...
vi domanderà se la vostra risoluzione è libera, se i parenti non vi hanno comandato, consigliato...
che so io?...
ed io doveva avvisare di pesare ben bene la risposta, perché ella sia tale da non pormi nella necessità, di farne un'altra io, e...
ma via, via, le son ciarle; voi farete il vostro dovere da brava, come avete fatto finora; e non si parlerà tra di noi che di consolazioni.
Via non piangete, ricomponetevi, io vi lascio sola: rasserenatevi, non fate che il Signor...
vi trovi in uno stato che possa dare dei sospetti...
mi fido di voi».
Così dicendo partì, lasciando Geltrude a tutta l'agitazione che poteva dare un tal discorso ad una giovane del suo carattere in quella circostanza.
Geltrude pianse amaramente, si sdegnò, volle meditare su quello che aveva a dire; ma questa meditazione era così piena di dolori, di incertezze, e d'angustie, che la poveretta prescelse di divertirne a forza il pensiero, di rivolgerlo a qualche cosa di estraneo, e di aspettare il consiglio dalla cosa stessa e dal momento.
Ma qual si fosse il partito al quale ella dovesse appigliarsi nell'abboccamento, ella stessa sentiva ripugnanza e vergogna a presentarvisi in un aspetto che annunziasse una qualche perturbazione, e risolvette di avere un aspetto tranquillo e decente; e lo ebbe in brevissimo tempo.
Pretendono alcuni che le figlie d'Adamo riescano molto meglio a dominare l'espressione esterna del loro animo che l'animo stesso; e che in questa parte riescano meglio assai che non quegli individui del genere umano che si chiamano di preferenza uomini.
Ma tutte queste quistioni di paragone tra l'un sesso e l'altro, non saranno mai messe in chiaro, e né pure ben poste fin che gli uomini soli ne tratteranno ex professo negli scritti: giacché essi peccano tutti verso le donne o di galanteria adulatoria, o di ostilità grossolana.
Con questa osservazione non s'intende già di sprezzare temerariamente tante opere profonde che sono state scritte sul merito comparativo del bel sesso, e le riflessioni infinite e bellissime su questo argomento che sono sparse in tante altre opere; ma per quanto una materia sia stata egregiamente trattata, è sempre lecito di desiderare qualche cosa di più.
«Il Signor...!» A questo annunzio Geltrude balzò in piedi vergognosa, e agitata, facendogli le accoglienze che usano le persone vergognose e agitate.
Il Marchese lo accompagnava, e dato uno sguardo a Geltrude si ritirò: la madrina passò nella stanza vicina: la porta di comunicazione aperta in modo che ella potesse da quella vedere e non intendere.
I lettori d'una storia hanno il privilegio di conoscere i personaggi prima di vederli operare, di sentirli parlare; ed è questa una delle ragioni per cui la lettura d'una storia è molte volte più chiara e meno difficoltosa che la condotta negli affari della vita.
Per servire a questo privilegio noi diremo qualche cosa del Signor...
Era un buon uomo; e la bontà gli era sì naturale, che gli pareva la cosa la più naturale del mondo: siccome ve n'aveva sempre nelle sue intenzioni e nelle sue azioni, egli ne supponeva sempre nelle intenzioni e nelle azioni degli altri: nel che il buon uomo aveva torto.
Non vogliam dire con questo ch'egli avrebbe dovuto giudicare sfavorevolmente degli altri, supporre il male, attenersi a quell'indegno proverbio che dice, - chi pensa male pensa una volta sola -: ohibò: questo è un eccesso più comune, e peggiore.
Avrebbe dovuto lasciar di giudicare nelle cose che non lo toccavano; e in quelle nelle quali il suo giudizio doveva influire sulla sorte altrui, avrebbe dovuto sospenderlo fino a tanto che da un attento esame egli avesse potuto formarlo, buono o tristo, ma con quella maggior certezza che è data a quello stromento guasto che si chiama ragione umana.
Il caso di Geltrude mostrerà come egli avesse il torto di pensar bene prima di pensare.
Il Marchese parlandogli della figlia ch'egli aveva ad esaminare ne aveva esaltata la pietà, l'amore del ritiro, il desiderio di conservarsi nel chiostro per esser pura e santa.
Il Signor...
aveva creduto con gioja al primo momento tutte queste cose liete; e andava a far l'esame nel quale si trattava di decidere se la vocazione era vera o falsa colla prevenzione dolcissima ch'ella era vera: il buon uomo si consolava di avere a sentire l'espressione di un animo pio e fervente, di godere dello spettacolo di una buona risoluzione, mentre avrebbe dovuto pensare ad accertarsi se la risoluzione esisteva.
- Oh! - dirà taluno, - se egli non avesse creduto al Marchese, avrebbe dovuto supporre così di primo slancio che Geltrude era una finta, o il Marchese un tiranno impostore.
E doveva egli pensar così senza alcun fondamento? - Ohibò, di nuovo: non doveva pensar nulla; vi pare egli cosa tanto difficile? Ma per non averlo saputo fare, il buon uomo preparò l'animo suo nulla più che ad adempiere una cerimonia, una formalità, e faceva tutt'altro; e doveva saperlo.
Il Signor...
pregò Geltrude di riporsi a sedere, sedette, e vedendo in essa quella leggiera perturbazione ch'era da aspettarsi in quel caso, pensò di rincorarla con un modo scherzevole, e le disse: «Signorina, vedo che le fo paura: non me ne maraviglio: io vengo a fare la parte del diavolo; perché ella saprà che io debbo ora mettere in dubbio quella risoluzione che a lei forse pare certa, ferma, irrevocabile; io debbo ora farle guardare attentamente il rovescio della medaglia, al quale ella forse non ha mai pensato; io debbo interrogarla minutamente, per esser certo che ella non pigli qualche illusione per ispirazione».
«Signore», rispose Geltrude, realmente rincorata dalle parole e dal tuono del buon uomo, «io ho desiderato ardentemente questo abboccamento.
Da questo dipende la scelta della mia vita e io spero che da ciò che io sentirò da lei, da ciò che io le risponderò, verrò io stessa a conoscere più chiaramente quale sia la mia vocazione».
«Bene, bene», rispose con gioja e quasi con ammirazione il Signor...
«così mi piace.
Quelle proteste veementi, quelle affermazioni enfatiche alla prima sono talvolta fuochi di paglia; fervori di fantasia.
Per decidere bisogna dubitare, o fare come se si dubitasse.
La prego, per ora, si faccia forza: per quanto ella credesse di aver risoluto, torni da capo e si metta bene in testa che si tratta di risolvere ora.
Il mio dovere è d'interrogarla su molti capi, e si compiaccia di rispondermi con semplicità e con riflessione.
Come le è venuta questa risoluzione di abbandonare il mondo, e di farsi monaca?»
Se il buon ecclesiastico avesse avuta l'intenzione di aflliggere, di umiliare, e di confondere Geltrude, non avrebbe potuto scegliere una interrogazione più opportuna di questa: ma egli era ben lontano dal supporre l'effetto ch'ella doveva produrre, e l'aveva fatta nella semplicità del suo cuore, e per adempire alle regole del suo uficio, che la prescrivevano.
Geltrude rimase come colpita: che rispondere? parlare della cagione vera e primaria, raccontare l'istoria del paggio?...
Dio liberi! Quella storia ella voleva schivarla a tutto costo.
Ma tacendola, come spiegare la sua domanda di farsi monaca, e tutti i passi conformi a quella domanda? Addurre violenze, minacce dei parenti? Ma non ne avevano usate, e questa menzogna (giacché in quel momento Geltrude era disposta a farne una, e pensava solo a scegliere quella che l'avrebbe cavata più presto d'impaccio, e che non sarebbe stata scoperta in seguito) questa menzogna avrebbe certamente cagionata una spiegazione, che sarebbe tutta tornata in disonore di Geltrude.
Che s'ella avesse attribuita la sua risoluzione al desiderio di compiacere ai parenti, ai loro consigli, a leggerezza propria, la spiegazione diventava pure inevitabile; e in quel momento le parole che Geltrude aveva intese poco prima dal padre, le ripassarono in processione nella memoria.
Le parve dunque che il solo mezzo per uscire da quel gineprajo fosse di dare una risposta che piacesse all'interrogante, e al padre, che non lasciasse oscurità né punti da discutere nell'avvenire: sentì che per dare una tal risposta bisognava mostrare che la risoluzione fosse tuttavia ferma; vide le conseguenze, ma ci si risolse.
Avvezza com'era a trarsi dalle circostanze difficili con ripieghi che la ponevano in circostanze più difficili ancora, a consumare per dir così il tempo avvenire per vivere in quel momento, ella cedette all'abitudine, e alla difficoltà, mentì contra se stessa, e disse: «È la mia vocazione: fino dai miei primi anni io mi sono sentita inclinata a servir Dio nel chiostro lontano dai pericoli e dalle cure del mondo».
Queste parole furon porte con l'apparenza della più ferma persuasione; e l'indugio ch'ella aveva posto al rispondere, parve al Signor...
un segno una prova di riflessione posata.
E in quel momento furon contenti ambedue: egli di vedere una così buona disposizione, ella di essere uscita d'impaccio come che fosse.
Da quel momento Geltrude non pensò nelle altre risposte che a confermare la prima; e edificò il Signor...
oltre ogni sua speranza.
Quando egli le chiese se i parenti non avessero usate minacce o troppo instanti preghiere per determinarla alla scelta dello stato religioso...
«No no»; rispose con vivacità Geltrude: «i miei parenti desiderano certo che io sia monaca; ma mi hanno lasciata libera, mi hanno lasciata libera».
Il Signor...
si scusò di averle fatta una simile interrogazione.
«Il Signor Marchese», diss'egli, «quel cavaliere così degno! s'immagini s'io posso pensare di lui una cosa simile! ma, io ho fatto il mio dovere, per quanto strano mi paresse in questa circostanza».
L'esame finì con le giulive congratulazioni del Signor..., il quale come per iscaricarsi la coscienza di aver fatto qualche cosa per distorre un'anima buona da un pio proponimento, le disse tutto ciò che gli suggeriva il suo zelo cordiale per confermarla in quello; e partì con la persuasione di non aver mai trovata un'anima così ben disposta.
Del resto noi siamo ben lontani dal dare l'unica colpa, e nemmeno la primaria della riuscita di quell'esame all'ingegno corrivo del buon uomo.
Coi tristi antecedenti di Geltrude, e col suo carattere, la cosa doveva avere a un di presso quell'esito, qualunque fosse l'esaminatore.
Geltrude, ancor più fortemente compresa dall'idea del pericolo che avea passato, che dal pensiero dell'impegno che avea preso, corse tosto dal Padre.
Questi era in uno stato di aspettazione inquieta: ma Geltrude tutta commossa (le commozioni si scambiano facilmente non solo da chi le osserva, ma da chi le prova) gli raccontò frettolosamente l'esito della conferenza; e il Marchese respirò.
Le fece animo, la colmò di lodi, la soffocò di promesse; tutto questo con una eloquenza di tenerezza sentita; giacché in quel punto egli era lieto non solo di avere ottenuto il suo fine; ma le parole di Geltrude sembravano di chi ha liberamente scelto, ed è contento della sua scelta; e la benevolenza per chi fa quello che uno desidera, in modo da togliergli ogni inquietudine ed ogni rimorso, è una virtù concessa a tutto il genere umano.
Da quel giorno in poi Geltrude non ebbe più che due occupazioni; l'una interiore, ed era di persuadere a se stessa ch'ella era contenta della sua scelta, di fermarsi quanto più poteva su le immaginazioni che potevano renderle gradevole il monastero, di cercare un po' nella divozione, un po' nel pensiero delle distinzioni che vi avrebbe avute, consolazioni, celesti o mondane, tutto purché fosse consolazioni.
L'altra occupazione era di accelerare quanto più si poteva tutte le operazioni preliminari alla vestizione, per uscir di casa, per esser chiusa una volta, per precludersi ogni strada al tornare addietro, per non sentirsi più nascere in cuore quell'intollerabile: - potrei forse ancora -.
Questo suo desiderio s'accordava troppo con quelli del Marchese perch'egli non cercasse ogni via di soddisfarlo; e in fatti egli sollecitò a tempo e a contrattempo tutte le dispense per far presto.
Così mi sembra che sarà bene che facciamo pur noi in questo racconto.
Diremo dunque che Geltrude entrò nel monastero di Monza, e che assunse l'abito; che scorso il tempo del noviziato nel quale la sua risoluzione parve sempre più spontanea e ferma, perché ella mostrava tutto ciò che poteva farlo credere, e divorava nel suo cuore tutto ciò che avrebbe potuto far credere il contrario, trascorso questo tempo, ella fece la solenne professione, con una pompa straordinaria, e quale si conveniva alla casa.
Il sacrificio fu consumato, il dono fu posto su l'altare, ma era di frutti della terra; la mano che ve lo aveva posto non era monda; il cuore non lo offriva; e lo sguardo del cielo non discese sovr'esso.
È uno dei caratteri più ammirabili e più divini della religione cristiana, di potere in qualunque circostanza dare all'uomo che ricorra ad essa, un rimedio, una norma, e il riposo dell'animo.
Quegli stesso, che per violenza altrui o per suo fallo, o per sua malizia s'è posto in una via falsa può ad ogni momento approfittare di questi beneficj.
Poiché, se la via ch'egli ha intrapresa è iniqua, la religione glielo fa conoscere, gli dà l'idea chiara ed assoluta del dovere ch'egli ha di ritrarsene, e la forza di farlo, che che ne possa conseguire; e se la via è soltanto difficile, pericolosa, spiacevole, ma senza adito al ritorno, da questa stessa dura necessità di proseguire in essa, la religione cava un motivo e dei mezzi per renderla regolare, praticabile, sicura, diciamolo pure arditamente, soave e deliziosa.
Disapprovando i motivi che l'hanno fatta intraprendere, perché erano falsi, essa ne somministra un altro nuovo ed inconcusso per continuarla, e dà ad una scelta temeraria o infelice ma irrevocabile, tutta la santità, tutti i conforti, tutta la sapienza della vocazione.
Con quest'ajuto Geltrude a malgrado della perfidia altrui, e dei suoi errori d'ogni genere avrebbe potuto divenire una monaca santa, e contenta: e il secolo stesso anzi l'età in cui ella visse ha dato esempj dei quali si è conservata la memoria, di donne che strascinate al chiostro con l'arte e con la forza, e dopo d'essersi per alcun tempo dibattute come vittime sotto la scure, vi trovarono la rassegnazione e la pace; una pace quale si trova di rado negli stati eletti più liberamente.
Che dico? Geltrude stessa fu uno di questi esempj, e insigne; ma ben tardi e dopo aver commessi ben altri errori anzi delitti, dopo sofferta ben altra forza che quella di cui abbiamo parlato.
Ma per non precorrere ora agli eventi col racconto, diremo che Geltrude dopo la sua professione, continuava ad opporre nel suo cuore un ostacolo ai rimedj e alle consolazioni che la religione avrebbe date alla sua sciagurata condizione: e questo ostacolo erano le consolazioni ch'ella andava cercando altrove, e particolarmente nelle cose che potevano lusingare il suo orgoglio.
Il lettore non avrà forse dimenticato che la famiglia onde usciva Geltrude era molto potente, e che questa era la cagione principale per cui ella era stata tanto desiderata nel monastero.
In fatti il monastero aveva acquistato nel marchese Matteo un protettore dichiarato il quale risguardava ormai come parte del suo onore l'onore del luogo dove si trovava una sua figlia.
Ma questo vantaggio le suore lo pagavano, e per verità la cosa era giusta.
Lo pagavano in tanti sgarbi, in tanti scherni, in tante fantasticaggini che avevano a sopportare da Geltrude, la quale, ricordandosi di tempo in tempo delle arti usate da quelle per ajutare a tirarla in quel luogo dove di tempo in tempo ella non si poteva patire, si sfogava avventando beccate agli uccelli che avevano cantato per farla venire nella loro gabbia.
E queste beccatelle le suore le toccavano senza risentirsene, per non perdere tutto il frutto del loro acquisto.
Geltrude vedendosi così distinta, così sopportata, tanto più libera delle altre provava talvolta un certo conforto iracondo nel valersi di questi vantaggi, e nell'esercitare in tal modo la sua superiorità.
Una superiorità d'un altro genere era pure per essa una occasione continua di cercare consolazioni nell'amor proprio, ed era la sua bellezza: ma quali consolazioni, per amor del cielo! pari a quelle che provava Robinson nella sua isola in contemplare le monete ch'egli aveva trovate nei frantumi del vascello sul quale era naufragato.
Anzi non pari, perché quel solitario le gettò in disparte con disprezzo, dopo d'aver fatto ad esse un'apostrofe su la loro inutilità, e non vi pensò più; ma la bellezza era per Geltrude un rodimento continuo, una occasione di regressi affannosi nel passato, e di sguardi disperati nell'avvenire.
Ben è vero che ella si andava paragonando con le altre, e si trovava più bella, ch'ella rideva di tratto in tratto, e si sarebbe creduto ch'ella ridesse di voglia, degli occhi sciarpellati della madre badessa, e del mento incartocciato della madre celleraria, ma in verità che quel riso non lasciava alla poveretta il dolce in bocca.
Spendeva una parte del suo tempo nell'adornarsi come poteva, e così ingannava alcun poco la sua noja; cercava di ridurre l'abbigliamento monastico alle fogge secolaresche, o di accordarlo all'aria del suo volto, e a dir vero questo le riusciva facilmente perché la natura le aveva dato un volto che per poco che gli si lavorasse attorno stava bene.
Per far questo aveva Geltrude trovato un mezzo molto ingegnoso.
Gli specchj come ognun sa erano proibiti nei chiostri come i lumi nelle polveriere, e Geltrude nei primi tempi non osava ancora, come fece in appresso, conculcare tutte le regole; ma la infelice scaltrita aveva fatta porre dietro ad un quadretto ch'ella teneva appeso nella sua camera una lastra di latta levigatissima, e a quella si consultava segretamente.
Ma quando dalle sue consulte ella aveva conchiuso che anche in quell'abito ella era avvenente assai, quand'anche ella se lo udiva ripetere dalle più mondane o dalle più adulatrici fra le sue compagne, il suo cuore ne rimaneva tutt'altro che soddisfatto.
E quando poi il suo cuore le rinfacciava anche quella poca parte di piacere così mescolato e corrotto ch'ella aveva gustato, ella sentiva più rabbia che pentimento.
Così la meschina si precludeva l'adito alle consolazioni reali di cui il suo stato era ancora capace, perché per giungere a quelle la prima condizione è di non curare il resto; come il naufrago, che vuole afferrare la tavola galleggiante che può condurlo in salvamento sulla riva, deve pure sciogliere il pugno e abbandonare le alghe e gli sterpi nuotanti che aveva abbrancati, per una rabbia d'istinto.
Ad essere badessa si richiedeva l'età di quarant'anni; e quest'erba, per magra che fosse, era pure anco ben lunge dal becco di Geltrude.
Ma oltre le distinzioni e le franchigie per così dire ch'ella godeva per la condiscendenza delle suore, e delle superiore, le era tosto stato conferito il grado più elevato che fosse compatibile con la sua giovinezza: era stata eletta Maestra delle educande.
E per una distinzione singolare le erano state assegnate due giovani suore converse, le quali erano come ai suoi servizj, quasi damigelle.
Quel posto era per Geltrude una occasione continua di esercitare le passioni più pericolose ch'ella covava.
Fra le educande che le erano state affidate si trovavano ancora alcune di quelle che le erano state compagne, e Geltrude così vicina ad esse di età non aveva ancora dimenticati i risentimenti e le rivalità puerili del sodalizio: ed ora gli sfogava talvolta con tutta la forza che le dava la sua autorità.
Nei momenti spesso assai lunghi di tristezza e di pentimento dello stato che aveva abbracciato, ella provava un certo rancore contra quelle giovanette destinate per la più parte ad una vita libera e splendida che non era più per lei; le risguardava come nemiche, le spiaceva di vederle liete d'una letizia che non era sperabile per essa, e faceva di tutto per toglierla loro, cosa assai facile ad una superiora.
Sentiva ella bene la pazza ingiustizia di questa sua passione, ma vi si abbandonava.
E in quei momenti, poverette quelle educande! Talvolta dopo d'aver lasciato tornare indietro il suo pensiero nei diletti del mondo, dopo avervelo lasciato riposare per lungo tempo, ella ne sorprendeva alcune che parlavano fra di loro di ciò ch'ella aveva pensato, e allora chi l'avesse udita sgridarle ferocemente, l'avrebbe creduta invasa d'uno zelo inconsiderato, e d'una staccatezza indiscreta e antisociale.
Talvolta invece predominava nell'animo suo l'orrore al chiostro, alle regole, alla disciplina, all'obbedienza, alla solitudine, a tutte quelle cose in mezzo delle quali ella si trovava per forza, e allora non solo ella sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma la animava; si mesceva ai loro giuochi, e gli rendeva più liberi; entrava nei loro discorsi, e gli portava al di là delle intenzioni con le quali esse gli avevano incominciati.
In queste agitazioni, in questo stato di guerra continua con se stessa, e con ogni cosa circostante ella passò i primi anni del chiostro, non senza qualche ritorno di divozione, e di regolarità temporaria, dal quale ricadeva ben presto nelle sue abitudini predominanti.
Questa vita di noja e di contrasto era tanto penosa, che, senza forse esserne ben conscia a se stessa, ella si trovava disposta ad abbracciare qualunque distrazione, qualunque cangiamento di sensazioni fosse stato possibile.
Ma la clausura, le grate, le regole, la facevano camminare con una regolarità esteriore; i suoi pensieri soltanto vagavano in piena licenza; ma non v'era una occasione per concedere impunemente, o con lusinga d'impunità una simile licenza alle sue azioni.
Finalmente la sventura di Geltrude volle che l'occasione si presentasse; e Geltrude si portò in quella come era da temersi, e come diremo nel seguente capitolo.
CAPITOLO V
Il quartiere dove abitavano le educande e con esse Geltrude e le sue damigelle, era annesso al monastero, ma appartato, e comunicava con esso per mezzo d'un corridojo.
Era un cortiletto quadrato, ricinto a terreno da un porticato continuo, sul quale per tutti e quattro i lati girava un basso ed unico piano di abitazione.
Il lato appoggiato a quella parte del chiostro ove dimoravano le suore, era un lungo stanzone, che serviva alla scuola ed alla ricreazione delle educande; un altro lato era occupato pure da un lungo stanzone che serviva di dormitorio: il terzo diviso in varie camere era l'appartamento della Signora e delle sue damigelle; il quarto finalmente più stretto degli altri era tenuto dal corridojo che conduceva nell'interno del chiostro, il quale abbracciava il cortiletto da tre lati.
L'altro, e appunto quello occupato dall'appartamento di Geltrude, era contiguo ad una casa privata e signorile, o per meglio dire ad una parte rustica e non finita di quella casa.
Era dessa elevata al di sopra del quartiere delle educande, ma quello che se ne poteva vedere da quindi pareva piuttosto una catapecchia, un casolaraccio, che una parte di casa civile: erano tetti e tettucci diseguali di altezza e di forma soprapposti l'uno all'altro come a caso.
Ma in uno di quei tetti v'era un pertugio, un abbaino, che dava luce ad un solajo, e adito a passare su quei tetti, e dal quale si poteva guardare nel cortiletto delle educande.
Era severamente prescritto alle monache dagli ordini ecclesiastici, che dovessero togliere ai vicini ogni vista nel loro chiostro; ma o fosse che, per essere quella parte di casa disabitata, le monache non avessero mai badato a quel pertugio, o fosse che la spesa per liberarsi da quella servitù eccedesse la possibilità del monastero, o che non si potesse venirne a capo senza quistioni, il fatto è che da quel pertugio si guardava nel cortiletto delle educande; e un altro fatto assai tristo si è che il padrone di quella casa era un giovane scellerato: e questa parola applicata ad un uomo di quei tempi ha un senso molto più forte di quello che generalmente vi s'intende nei nostri; perché a quei tempi tante cagioni favorivano la scelleratezza, che in coloro i quali vi si distinguevano, ella giungeva ad un segno del quale grazie a Dio, non si può avere una idea dalla esperienza comune del vivere presente.
I mezzi d'impunità erano allora varj ed infiniti; la frequenza dei delitti ne aveva diminuito il ribrezzo e la vergogna: gli animi erano avvezzi ed allevati per dir così nel sangue: da questi fatti era nato un pervertimento quasi generale nelle idee, e allo stesso tempo la perversità delle idee rendeva quei fatti più comuni, e più tollerati.
La vendetta, per esempio, era comunemente stimata non solo lecita, ma onorevole, ma comandata in alcuni casi; e benché i ministri della religione non l'avessero mai fatta piegare nelle istruzioni pubbliche a questa massima perversa, benché non avessero anzi cessato giammai di inveire contra la vendetta e contra le massime che la autorizzavano, pure l'opinione quasi generale del mondo sussisteva col favore di una distinzione che a malgrado della sua assurdità, o forse a cagione della sua assurdità non è ancora del tutto caduta in disuso: si diceva che i preti facevano il loro dovere, che dicevano benissimo, che la vendetta secondo la religione era viziosa, ma ch'ella era un dovere secondo le leggi dell'onore: così si diceva e non dai più perversi, né dai più stolti.
Ora queste leggi dell'onore erano in allora molto draconiane; e domandavano sangue per molti casi; senza che questo onore così delicato si stimasse poi offeso, se per necessità, il sangue si fosse dovuto versare a tradimento, o per mano di sicarj.
Ne veniva di conseguenza che gli omicidj erano molto frequenti, che uno commesso diveniva causa di un altro, e così all'infinito, e che l'orrore al sangue si diminuiva con l'abitudine, anche negli uomini che non erano sanguinari, e che si era formato come un sentimento universale che una certa misura di animosità, di crudeltà e di delitti fosse una condizione necessaria inevitabile della società; chi avesse detto che quello era un male temporario, e speciale sarebbe stato deriso come un ottimista, un utopista, un sognatore metafisico: appena uno si sarebbe degnato di rispondergli: «gli uomini sono sempre stati e saranno sempre così».
Portate le idee comuni a questo punto di licenza in molti, e di tolleranza e di rassegnazione in quasi tutti gli altri, egli è chiaro che gli uomini i quali avevano una tendenza distinta alla perversità, per giungere al colmo di essa, pigliavano le mosse da un punto ben più avanzato, ben più vicino al termine che non sieno le idee comuni dei nostri giorni; trovavano meno ostacoli e più incitamenti che ai nostri giorni a giungervi, e vi giungevano.
L'omicida ai nostri giorni, quand'anche fosse impunito sarebbe un oggetto di orrore, oggetto forse di più profondo orrore sarebbe chi senza commettere l'omicidio di propria mano ne avesse dato l'ordine ed il prezzo; e tali rei, oltre le pene legali, dovrebbero temere di perdere tutte le dolcezze della comune società.
Quindi l'uomo, che in qualunque condizione, aspira a goderle, ha pure da questo lato un freno potente.
Ma allora v'erano molti casi in cui l'avere ucciso, o fatto uccidere non toglieva alla riputazione d'un uomo: l'omicida volontario era ammesso a giustificarsi e a render ragione dinanzi alla opinione pubblica: non si trattava che di provare che il caso richiedeva l'omicidio, che il delitto era una azione tollerata, o prescritta dalle leggi della opinione stessa.
La speranza di poter fare questa giustificazione, dinanzi ad una opinione già tanto perversamente indulgente, e di farla accettare col terrore doveva essere, ed era uno stimolo ai tristi potenti per correre allegramente la loro via.
Bastava quindi un leggero interesse, una picciola passione a spingere anche i meno tristi fra i tristi ad attentati, ai quali ora si risolverebbero a fatica gli uomini i più avvezzi al delitto, benché vi fossero tratti da un interesse molto maggiore, da una passione molto più violenta.
Sarebbe un soggetto degno di curiosità, la ricerca delle cagioni per cui quelle idee e quei costumi, dopo aver regnato per troppe età in quasi tutte le nazioni d'Europa, sieno poi stati da migliaia di scrittori, e da milioni di parlanti attribuite poi esclusivamente agli Italiani.
Ma noi invece di avviarci in una nuova digressione, ne abbiamo ora una, e anzi lunghetta che no, da farci perdonare: torniamo quindi alla storia.
Il padrone della casa contigua al quartiere delle educande, era dunque un giovane scellerato: e si chiamava il signor Egidio: perché di cognomi, come abbiam detto, l'autor nostro è molto sparagnatore.
Suo padre, uomo dovizioso bastantemente non aveva avuta altra mira nell'educarlo, che di renderlo somigliante a se stesso: ora egli era un solenne accattabrighe: Egidio non aveva quindi sentito dall'infanzia a parlar d'altro che di soddisfazioni e di fare stare, non aveva veduto quasi altro che schioppi e pugnali; e dalle braccia della nutrice era passato in quelle degli scherani.
La madre, ch'era di un carattere mansueto e pio, avrebbe potuto forse temperare in parte questa educazione ma ella era morta lasciando Egidio nella infanzia, dopo una lenta malattia cagionata dai continui spaventi.
Il padre fu ucciso dopo una brevissima quistione da un suo emolo membro di una famiglia emola della sua da generazioni; ed Egidio restò solo e padrone nella giovinezza.
La prima sua impresa fu di risarcire l'onore della famiglia, con una schioppettata nelle spalle dell'uccisore di suo padre.
Questa impresa però lo pose da quel momento in un continuo pericolo; e per assicurarsi, egli dovette crescere il numero de' suoi bravi, e non camminar mai che in mezzo ad un drappello.
Suo padre aveva non solo nel paese, ma altrove amici assai, e conformi a lui di massime e di condotta: Egidio gli ereditò tutti, e gli coltivò, tanto più che aveva bisogno della loro assistenza.
Ma i garbugli e il macello non piacevano a lui, come al padre, per se medesimi: l'educazione lo aveva addestrato a non temerli, e a corrervi anzi ogni volta che un qualche fine ve lo spingesse: ma non erano un fine, un divertimento, un bisogno per lui.
La sua passione predominante era l'amoreggiare; a questa si abbandonava con quelle precauzioni però che esigeva lo stato di guerra in cui egli si trovava, e per questa egli veniva ai garbugli ed al macello, quando non si poteva fare altrimenti.
L'abbaino che guardava nel cortiletto del chiostro non era frequentato da nessuno tanto che visse il padre, il quale non si curava di spiare i fatti delle educande.
Soltanto egli vi aveva condotto una volta Egidio adolescente, per fargli osservare che quello era un dominio sul chiostro; e quivi stendendo la mano sui tetti sotto posti, come Amilcare sull'ara, aveva fatto promettere a quel picciolo Annibale che mai in nessun tempo egli non avrebbe sofferto che le monache si togliessero quella servitù.
Egidio divenuto padrone, si risovvenne dell'abbaino, e gli parve un dominio assai più importante che suo padre non lo aveva creduto.
Un consorzio di donzellette, le quali non eran tutte bambine, parve a colui uno spettacolo da non trasandarsi quando lo aveva così a portata; e la santità del luogo, il riserbo con cui eran tenute, l'innocenza loro, tutto ciò che avrebbe dovuto essere freno, fu incentivo alla sua sfacciata curiosità, la quale non aveva disegni già determinati, ma era pronta a cogliere e a far nascere tutte le occasioni.
Si affacciava egli dunque all'abbaino con quella frequenza e con quella libertà, che non bastasse a farlo scoprire da chi non avrebbe voluto.
Nelle ore in cui Geltrude non faceva guardia alle educande, e queste ore tornavano sovente, gettò egli gli occhi sopra una delle più adulte, e trovato il terreno dolce, si diede a chiaccherellare con essa: ma pochi giorni trascorsero, che quella, fidanzata dai suoi parenti ad un tale, fu tolta dal monastero, e così la tresca finì, senza che nessuno l'avesse avvertita.
Egidio animato da quel primo successo, ed allettato più che atterrito dalla empietà del secondo pensiero, ardì di rivolgere e di fermare gli occhi e i disegni sopra la Signora; e si diede ad agguatarla.
Un giorno mentre le educande erano tutte congregate nella stanza del lavoro con le due suore addette ai servigi della Signora, passeggiava essa sola innanzi e indietro nel cortiletto lontana le mille miglia da ogni sospetto d'insidie, come il pettirosso sbadato saltella di ramo in ramo senza pure immaginarsi che in quella macchia vi sia dei panioni, e nascosto dietro a quella il cacciatore che gli ha disposti.
Tutt'ad un tratto sentì ella venire dai tetti come un romore di voce non articolata la quale voleva farsi e non farsi intendere, e macchinalmente levò la faccia verso quella parte; e mentre andava errando con l'occhio per quegli alti e bassi, quasi cercando il punto preciso donde il romore era partito, un secondo romore simile al primo, e che manifestamente le apparve una chiamata misteriosa e cauta, le colpì l'orecchio, e la fece avvertire il punto ch'ella cercava.
Guardò ella allora più fissamente per conoscere che fosse; e i cenni che vide non le lasciarono dubbio sulla intenzione di quella chiamata.
Bisogna qui render giustizia a quella infelice: qual che fosse fin'allora stata la licenza dei suoi pensieri, il sentimento ch'ella provò in quel punto fu un terrore schietto e forte: chinò tosto lo sguardo, fece un cipiglio severo e sprezzante, e corse come a rifuggirsi sotto quel lato del porticato che toccava la casa del vicino, e dove per conseguenza ella era riparata dall'occhio temerario di quello: quivi tirando lunghesso il muro, rannicchiata e ristretta come se fosse inseguita, si avviò all'angolo dov'era una scaletta che conduceva alle sue stanze, vi salse, e vi si chiuse, quasi per porsi in sicuro.
Posta a sedere tutta ansante, fu assalita da una folla di pensieri: cominciò prima di tutto a ripensare se mai ella avesse dato ansa in alcun modo alla arditezza di colui, e trovatasi innocente, si rallegrò: quindi detestando ancora sinceramente ciò che aveva veduto, se lo andava raffigurando e rimettendo nella immaginazione per venire più chiaramente a comprendere come, perché ciò fosse avvenuto.
Forse era equivoco? forse l'aveva egli presa in iscambio? Forse aveva voluto accennare qualche cosa d'indifferente? Ma più ella esaminava, più le pareva di non avere errato alla prima, e questo esame aumentando la sua certezza, la andava famigliarizzando con quella immagine, e diminuiva quel primo orrore e quella prima sorpresa.
Cosa strana e trista! il sentimento stesso della sua innocenza le dava un certa sicurtà a tornare su quelle immagini: ella compiaceva liberamente ad una curiosità di cui non conosceva ancora tutta l'estensione, e guardava senza rimorso e senza precauzione una colpa che non era la sua.
Finalmente dopo lunga pezza ella si levò come stanca di tanti pensieri che finivano in uno, e desiderò di trovarsi con le sue educande, con le suore, di non esser sola.
Esitò alquanto su la strada che doveva fare: ripassando pel cortiletto, ella avrebbe potuto lanciare un guardo alla sfuggita dietro le spalle su quei tetti per vedere se colui era tanto ardito da trattenervisi, e così saper meglio come regolarsi..., ma s'accorse tosto ella stessa che questo era un sofisma della curiosità, o di qualche cosa di peggio, e senza più esitare, s'avviò pel dormitorio alla stanza dove erano le educande: qui, o fosse caso o un resto di quella esitazione ella si affacciò ad una finestra che aveva dirimpetto appunto quei tetti, vi guardò, vide il temerario che non si era mosso, partì tosto dalla finestra, la chiuse, e uscì da quella stanza dicendo in fretta alle educande con voce commossa: «lavorate da brave»; e se ne andò difilato a passeggiare nel giardino del chiostro.
L'atto repentino, e la commozione della voce non diedero nulla da pensare né alle educande né alle suore, avvezze le une e le altre agli sbalzi frequenti dell'umore della Signora.
Ma ella stava peggio nel giardino che già non fosse nelle sue stanze.
Le venne un pensiero, che avrebbe dovuto avvertire dell'accaduto chi poteva opporsi a tanta temerità.
- Ma; e se mi fossi ingannata? - Questo dubbio non le veniva che allor quando la manifestazione di ciò che aveva veduto le si presentava alla mente come un dovere.
- Prima di parlare - diceva fra sè - voglio esser certa; troverò il modo di farlo con prudenza.
E finalmente - concluse fra sè in un accesso di passioni diverse - finalmente che colpa ci ho io? questo monastero non l'ho piantato io qui vicino a questa casa.
Così non foss'egli stato piantato in nessun angolo della terra! Dovevano pensarvi quelle che sono venute a chiudervisi di loro voglia.
Vada come sa andare.
Io non voglio pensarci.
Queste parole volevano dire, forse senza che Geltrude stessa lo scorgesse ben chiaro, che d'allora in poi ella non avrebbe pensato ad altro.
Il nostro manoscritto, segue qui con lunghi particolari il progresso dei falli di Geltrude; noi saltiamo tutti questi particolari, e diremo soltanto ciò che è necessario a fare intendere in che abisso ella fosse caduta, e a motivare gli orribili eccessi d'un altro genere, ai quali la strascinò la sua caduta.
L'assedio dello scellerato Egidio non si rallentò, e Geltrude cominciò a mettersi sovente nella occasione di mostrargli ch'ella disapprovava le sue istanze, quindi passando gradatamente dalle dimostrazioni della disapprovazione a quelle della non curanza, da questa alla tolleranza, finalmente dopo un doloroso combattimento si diede per vinta in cuor suo, e con quei mezzi che lo scellerato aveva saputi trovare e additarle lo fece certo della sua infame vittoria.
Cessato il combattimento, la sventurata provò per un istante una falsa gioja.
Alla noja, alla svogliatezza, al rancore continuo, succedeva tutt'ad un tratto nel suo animo una occupazione forte, gradita, continua, una vita potente si trasfondeva nel vuoto dei suoi affetti; Geltrude ne fu come inebbriata; ma era la coppa ristorante che la crudeltà ingegnosa degli antichi porgeva al condannato per invigorirlo a sostenere il martirio.
L'avvenire gli apparì come pieno e delizioso.
Alcuni momenti della giornata spesi a quel modo, e il resto impiegato a pensare a quelli, ad aspettarli, a prepararli gli sembrò una esistenza beata, che, non lascerebbe né cure, né desiderj; ma le consolazioni della mala coscienza, dice il manoscritto, profittano altrui come al figliuolo di famiglia le somme ch'egli tocca dall'usurajo.
L'accecamento di Geltrude e le insidie di Egidio s'avanzavano di pari passo, e giunsero al punto che il muro divisorio non lo fu più che di nome.
Già prima di arrivare a questo estremo, nel carattere di Geltrude era accaduto un gran cangiamento, tutte le inclinazioni viziose che vi erano come addormentate si risvegliarono più forti e più adulte, e a tutte queste si aggiunse l'ipocrisia.
Cominciò ella nei primi momenti a divenire più attenta nell'esteriore, più regolare, più tranquilla; cessò dagli scherni, e dal rammarichio; di modo che le suore si congratulavano a vicenda della mutazione felice.
Ma quando all'effetto naturale del fallo si aggiunse la scuola viva e diretta dello scellerato giovane, ognuno può immaginarsi quali diventassero le idee di Geltrude.
Tutto ciò che era dovere, pietà, morigeratezza era già da gran tempo associato nella sua mente alla violenza ed alla perfidia, ed aveva un lato odioso e sospetto: i ragionamenti che tendevano a mostrare che tutto ciò era una invenzione dell'astuzia, un'arte per godere a spese altrui, accolti dal cuore e presentati all'intelletto, furono ricevuti in esso come amici savj e sinceri.
Vi ha nelle teorie del vizio qualche cosa di più pensato, di più profondo, di più verosimile che non appaja nelle massime del dovere espresse in un modo volgare e talvolta inesatto: di modo che il pervertimento può parere facilmente un progresso di ragione.
Ben è vero che al di là di quelle teorie ve n'ha una più profonda e vera che mostra la loro fallacia; ma questa non è dato trovarla se non ad una meditazione potente, o ad un sentimento retto; ma Geltrude non aveva né l'uno né l'altro di questi ajuti.
Ella fu dunque una docile e cieca discepola, e conobbe e ricevè tutte quelle idee generali di perversità a cui l'ignoranza e la irriflessione di quei tempi permetteva di arrivare.
Ma non andò molto che il maestro ebbe a domandarle, o ad imporle nuovi passi nella carriera ch'ella aveva intrapresa.
Geltrude aveva a poco a poco trasandate quelle cure di apparente regolarità che si era prescritte; la licenza a cui si era abbandonata le rendeva più insopportabile ogni contegno; e così si rilasciò tanto che negli atti e nei discorsi divenne più libera e più irregolare di prima.
Insieme a quelle cure cominciò senza avvedersene a trascurare anche le precauzioni che aveva da prima messe in opera per nascondere quello che tanto le importava di nascondere; e le trascurò tanto che ella s'accorse chiaramente un giorno che le due damigelle, che le stavano più vicine avevano qualche sospetto.
Tutta atterrita ella comunicò la sua scoperta a colui che era il suo solo consigliere.
Questi ne fu pure atterrito, ma a mille miglia meno di Geltrude, e per la diversità delle circostanze, e perché tanto era minore il suo pericolo che non quello della donna, e per la diversità dell'animo: perché quello di Egidio era duro e grossolano; e in Geltrude il timore della vergogna era una passione furiosa come si è veduto dalla sua condotta anteriore.
Pensò egli quindi più freddamente al modo di scansare il pericolo, e ne trovò uno che era per lui una nuova occasione di soddisfare alle sue passioni.
Per riuscirvi, egli coltivò il terrore di quella poveretta, le fece tanta paura del male, che nessun rimedio le paresse troppo doloroso: e finalmente propose l'infame rimedio che fu di render partecipi del segreto e di associare alla colpa le due che la sospettavano.
Lo scellerato pose in opera tutta la sua astuzia, si valse di tutto il predominio che aveva sull'animo di Geltrude, adoperò tutte le dottrine che le aveva insegnate e ch'ella aveva ricevute.
L'albero della scienza aveva maturato un frutto amaro e schifoso, ma Geltrude aveva la passione nell'animo e il serpente al fianco; e lo colse.
Con la direzione del serpente, ella trasfuse prudentemente a gradi a gradi nelle menti delle due suore il pervertimento che era necessario per renderle sue complici, e consumò il proprio avvilimento nella loro colpa.
Venuta in questo fondo, la sventurata perdette con ogni dignità ogni ritegno, e agguerrita contra ogni pudore si trovò disposta ad agguerrirsi ad ogni attentato; e l'occasione non tardò a presentarsi.
Una delle due suore addette alla Signora quando cominciò ad avere qualche sospetto, lo confidò ad un'altra suora sua amica, facendosi promettere il segreto: promessa che le fu tenuta perché la Signora era troppo potente, e il segreto troppo pericoloso; e la voglia di ciarlare fu vinta dalla paura.
Non era che un sospetto, e gli indizj eran deboli e potevano anche essere interpretati altrimenti; ma la curiosità della suora fu risvegliata, e non lasciava mai di tempestare quella che le aveva fatta la confidenza, per vederne, come si dice, l'acqua chiara.
Quando però la suora che aveva ciarlato divenne complice, si studiò non solo di eludere le inchieste della curiosa, ma di disdirsi, e di farle credere che il sospetto era ingiurioso e stolto, e ch'ella stessa si era pienamente disingannata.
Ciò non ostante la curiosa ritenne sempre quel sospetto, e non lasciava sfuggire occasione di gettar gli occhi nel quartiere delle educande, e di origliare, per venire a qualche certezza.
Accadde un giorno che la Signora venuta a parole con costei la aspreggiò, e la trattò con tali termini di villania, che la suora dimenticata ogni cautela, si lasciò sfuggire dalla chiostra dei denti: ch'ella sapeva qualche cosa, e che a tempo e luogo l'avrebbe detto a cui si doveva.
La Signora non ebbe più pace.
Che orrenda consulta! le tre sciagurate, e il loro infernale consigliero deliberarono sul modo di imporre silenzio alla suora.
Il modo fu pensato e proposto da lui con indifferenza, e acconsentito dalle altre con difficoltà, con resistenza, ma alla fine acconsentito.
Geltrude fece più resistenza delle altre, protestò più volte che era pronta a tutto soffrire piuttosto che dar mano ad una tanta scelleratezza, ma finalmente vinta dalle istanze di Egidio e delle due, e nello stesso tempo dal suo terrore, venne ad una transazione con la quale ella si sforzò di fingere a se stessa che sarebbe men rea: pattuì ella dunque che non si sarebbe impacciata di nulla, ed avrebbe lasciato fare.
Presi gli orribili concerti, determinato dalle esortazioni di Egidio al sangue l'animo di quella che fu scelta a versarlo; costei si ravvicinò alla suora condannata e le parlò di nuovo di quegli antichi sospetti, in modo da crescerle la curiosità.
E la curiosità era stimolata in essa dal desiderio di vendicarsi della Signora; ma per farlo con sicurezza, aveva essa stessa bisogno di esser sicura.
La traditrice, mostrando che non le convenisse di stare più a lungo assente dalla Signora per darle sospetto, lasciò la suora nel forte della curiosità, e nella speranza di scoprire qualche cosa; e come questa insisteva per trattenerla, le propose di venire la notte al quartiere, dove l'avrebbe potuta nascondere nella sua cella, e dirle il di più, e forse renderla testimonio di qualche cosa.
La meschina cadde nel laccio.
Venuta la notte ella si trovò nel corridojo, dove la suora omicida le venne incontro chetamente, e la condusse nella sua cella: quivi, preso il pretesto dei servigj della Signora per partirsi, promettendo che tornerebbe tosto; la fece nascondersi tra il letticciuolo e la mura, raccomandandole di non muoversi finch'ella non la chiamasse.
Uscì quindi a render conto del fatto all'altra suora e allo scellerato che aspettavano in un'altra stanza, e pigliato da Egidio l'orribile coraggio che le abbisognava, entrò nella cella armata d'uno sgabello con la sua compagna.
Nella cella non v'era lume, ma quello che ardeva nella stanza vicina vi mandava per la porta aperta una dubbia luce.
La scellerata parlando con la compagna, perché la nascosta non si muovesse, e parlando in modo da farle credere ch'ella cercava di rimandare la sua compagna come importuna, andò prima pianamente verso il luogo dove la infelice stavasi rannicchiata, quindi giuntale presso le si avventò, e prima che quella potesse né difendersi né gettare un grido né quasi avvedersi, con un colpo la lasciò senza vita.
CAPITOLO VI
Accorse al romore Egidio che stava alla bada nella stanza vicina, ed incontrò le colpevoli che fuggivano spaventate, come avrebbero fatto se per caso e a mal loro grado si fossero trovate presenti ad un misfatto.
Egidio le fermò, e chiese premurosamente se la cosa era fatta.
«Vedete», rispose tremando l'omicida.
«Ebbene! coraggio», replicò lo scellerato, «ora bisogna fare il resto»; e dava tranquillamente gli ordini all'una e all'altra su le cose da farsi per togliere ogni vestigio del delitto.
Avvezze, come elle erano, ad ubbidire a colui che aveva acquistata una orribile autorità su gli animi loro, a colui che faceva loro sempre paura, e dava loro sempre coraggio; e rianimate, e come illuse dall'aria naturale con la quale egli dava quegli ordini, come se si trattasse di una faccenda ordinaria; raccomandando ora la prestezza, ora il silenzio, elle fecero ciò che era loro comandato.
«E la Signora, perché non viene ad ajutarci?» disse l'omicida: «tocca a lei quanto a noi, e più».
«Andate a chiamarla», rispose Egidio: l'omicida che cercava anche un pretesto per allontanarsi, almeno per qualche momento, da quel luogo e da quell'oggetto che le era insopportabile, si avviò alla stanza di Geltrude.
Questa si stava nelle angosce di chi sente l'orrore del delitto, e lo vuole.
Sedeva, si alzava, andava ad origliare alla porta: intese il colpo, e fuggì ella pure a rannicchiarsi nell'angolo il più lontano della sua stanza, orribilmente agitata tra il terrore del misfatto, e il terrore che non fosse ben consumato.
L'omicida entrò, e disse: «abbiamo fatto ciò ch'era inteso: non resta più che di riporre le cose in ordine: venite ad ajutarci».
«No no, per amor del cielo», rispose Geltrude.
«Che c'entra il cielo?» disse l'omicida.
«Lasciami, lasciami» continuò Geltrude.
«Come!» replicò l'omicida «chi è stata quella...?» «Sì è vero» rispose Geltrude; «ma tu sai ch'io sono una povera sciocca nelle faccende; non son buona da nulla; lasciami stare per amor...» Gli atti e il volto di Geltrude riflettevano in un modo così orribile l'orrore del fatto, che l'omicida non potè sopportare la sua presenza, e tornò in fretta presso a colui, l'aspetto del quale pareva dire: - non è nulla -.
«Non vuol venire», diss'ella, con un moto convulso delle labbra, che avrebbe voluto essere un sorriso di scherno: «non vuol venire: è una dappoca».
«Non importa», rispose Egidio; «non farebbe altro che impacciare; ecco tutto è finito senza di lei».
«Resta ancora...» volle cominciare l'omicida, ma non potè continuare.
«Ebbene» disse Egidio, «questa è mia cura; datemi tosto mano, e poi lasciate fare a me».
Le donne obbedirono: Egidio carico del terribile peso ascese per una scaletta al solajo: e l'omicidio uscì per la porta che era stata aperta al sacrilegio.
Quando lo scellerato fu nelle sue case, cioè in quella parte disabitata che toccava il monastero, discese per bugigattoli e per andirivieni dei quali egli era pratico, ad una cantina abbandonata, o che non aveva forse mai servito; quivi in una buca scavata da lui, il giorno antecedente, depose il testimonio del delitto; lo ricoperse, e pigliati da un mucchio che ivi era, cocci, mattoni e rottami, ve li gettò sopra per ricoprirlo, proponendosi di trasportare poco a poco su quel sito tutto il mucchio, un monte se avesse potuto.
Le due donne rimaste sole, esaminarono in silenzio, se tutto era nello stato di prima; e poi...
che avevano a dirsi? L'omicida, ruppe il silenzio, dicendo: «andiamo a cercare la Signora»; l'altra le tenne dietro senza rispondere.
Bussarono sommessamente alla porta di Geltrude, la quale vi stava in agguato, e disse macchinalmente: «chi è?» «Chi potrebb'essere?» rispose l'omicida: «siam noi, apri e vieni, e vedrai che le cose sono tutte come jeri».
Geltrude aprì, e venne con loro nella più orrenda stanza di quell'orrendo quartiere: volse in giro entrando un'occhiata sospettosa, e disse: «che faremo qui?» «Quel che faremmo altrove», rispose l'omicida.
«Perché non andiamo nella mia stanza?» replicò Geltrude.
«È vero», disse quella che non aveva mai parlato; «è vero; andiamo nella stanza della Signora».
Ognuna delle tre sciagurate sentiva nella sua agitazione come il bisogno di far qualche cosa, di appigliarsi ad un partito che avesse qualche cosa di opportuno; e nessuna sapeva pensare quello che fosse da farsi: quando una faceva una proposta, le altre vi si arrendevano, come ad una risoluzione.
Geltrude si avviò, le altre le tennero dietro, e tutte e tre sedettero nella stanza di Geltrude.
«Accendete un altro lume», disse questa.
«No, no», rispose questa volta l'omicida: «ve n'è anche troppo: abbiamo ristoppate le finestre, è vero, ma se qualche educanda vegliasse...»
«Santissima...!» proruppe con un moto involontario di spavento, Geltrude, e non terminò l'esclamazione, spaventata in un altro modo del nome puro e soave che stava per uscirle dalle labbra.
«E perché dunque», continuò rimessa alquanto, «perché avete lasciato il lume nell'altra stanza?»
«Perché...» rispose l'omicida: «non si ha testa da far tutto».
«Andate a prenderlo».
«Andate, andate...
andiamo insieme».
Le due serventi partirono, Geltrude le seguì fino alla porta aspettando che tornassero col lume.
Lo deposero sur una tavola, lo spensero, e sedettero di nuovo intorno a quello che ardeva da prima.
Stavano così tacite, guardandosi furtivamente di tratto in tratto; quando gli sguardi s'incontravano ognuna abbassava gli occhi come se temesse un giudice, e avesse ribrezzo d'un colpevole.
Ma l'omicida più agitata, e agitata in modo diverso dalle altre, cercava ad ogni momento di cominciare un discorso, voleva parlare del fatto e del da farsi come di cosa comune, parlava sempre in plurale, come per tenere afferrate le compagne nella colpa, per essere nulla più che una loro pari.
Concertarono finalmente la condotta da tenersi quel primo giorno, perché nei concerti presi antecedentemente non avevano preveduti che i pericoli materiali: non avevano pensato che al modo di commettere il delitto segretamente, e di cancellarne ogni traccia esterna; ma il delitto aveva loro appresa un'altra cosa; che il sangue si sarebbe rivelato nei loro atti, nel loro contegno, nel loro volto.
Stabilirono dunque che Geltrude si direbbe indisposta, che avrebbe un forte dolor di capo, che starebbe chiusa all'oscuro nella sua stanza, e le altre si rimarrebbero ad assisterla.
Ma in questo concerto stesso, quante difficoltà, quanti dibattimenti! Il punto più terribile era di decidere a quale delle due serventi sarebbe toccato di avvertire le suore della indisposizione di Geltrude, per evitare che, non vedendola comparire, o la badessa, o qualche suora non venisse nel quartiere a chiederne novella.
Ognuna voleva rigettare su l'altra questo incarico.
L'omicida aveva una buona ragione per esimersi; ma questa ragione, poteva ella parlarne? Dire: - io sarò più confusa, più tremante, perché...
- Cercava ella dunque pretesti come l'altra, ma li sosteneva con più furore.
Geltrude indovinò, anzi sentì quella ragione, e persuase l'altra ad assumersi l'incarico, dicendole che sarebbe stato facile e spedito annunziare la sua indisposizione dalla finestra ad una delle suore che governavano le educande, pregando nello stesso tempo che non si facesse romore per non disturbarla.
Egidio intanto eseguiva gli altri concerti che erano stati presi, o per dir meglio ch'egli aveva proposti; giacché il disegno era tutto suo.
Occultata la vittima, egli uscì di notte fitta, accompagnato da alcuni suoi scherani, come soleva non di rado per qualche spedizione.
Gli dispose in un luogo distante da quello a cui aveva disegnato di portarsi, e gli lasciò come a guardia, lasciando loro credere che andasse ad una delle sue solite avventure.
Quindi per lunghi circuiti si condusse ad un campo disabitato col quale confinava l'orto del monastero, e ne era diviso dal muro.
Ivi, dopo d'aver ben guardato intorno se nessuno vi fosse, si trasse di sotto il mantello gli stromenti da smurare che aveva portati nascosti con le armi; e pian piano in una parte del muro già intaccata dal tempo, e ch'egli aveva fissata di giorno, aperse un pertugio, tanto che una persona potesse passarvi.
Riprese i suoi ferri, si ravvolse nel mantello, e camminando non senza terrore minacciato com'era da più d'un nemico, raggiunse i suoi scherani; si mostrò ad essi lieto, s'avviò con essi, gittò per via qualche motto misterioso di altre avventure, e tornò alla sua casa.
Il mattino vegnente una suora mancò; si corse alla sua cella; non v'era; le monache si sparpagliarono a ricercarla; ed una che andava per frugare nell'orto, vide da lontano...
- Possibile? un pertugio nel muro.
- Chiamò le compagne a tutta voce: si corse al pertugio; «è fuggita; è fuggita».
La badessa venne al romore: lo spavento fu grande; la cosa non poteva nascondersi; la badessa ordinò tosto che il pertugio fosse guardato dall'ortolano, che si mandasse per muratori, onde chiuderlo, e che si spedisse gente per raggiungere la sfuggita.
Il lettore sa che pur troppo ogni ricerca doveva riuscire inutile.
L'occupazione che questo affare diede a tutte le monache fece che le tre che erano la trista cagione di tutto, fossero lasciate in pace, o per meglio dire, sole.
È facile supporre che da quel giorno in poi il carattere di Geltrude (giacché di essa sola esige la nostra storia che ci occupiamo) fu sempre più stravolto.
Combattuta continuamente tra il rimorso e la perversità, tra il terrore d'essere scoverta, e un certo bisogno di lasciare uno sfogo alle sue tante passioni, e tutte tumultuose, dominata più che mai da colui che ella risguardava come l'origine dei suoi più gravi, più veri e più terribili mali, e nello stesso tempo come il suo solo soccorso, l'infelice era nel suo interno ben più conturbata, e confusa che non apparisse nel suo discorso, per quanto poco ordinato egli fosse.
Una immagine la assediava perpetuamente, e non è mestieri dire quale.
Tentava ella di rappresentarsi alla fantasia la sventurata suora, quale l'aveva veduta infocata di collera e con la minaccia sul labbro quell'ultimo giorno.
Ma l'immagine s'impallidiva sempre nella sua mente, invano ella cercava di raffigurarla con la testa alta, con l'occhio acceso, con una mano sul fianco; la vedeva indebolirsi, non poter reggere, abbandonarsi, cadere, se la sentiva pesare addosso.
Per togliere ogni sospetto, e nello stesso tempo per dare un altro corso alle sue idee, procurava ella di toccar materie liete o indifferenti di discorso; ma ora il rimorso, ora la collera contra tutti quelli che le erano stata occasione di cadere in tanto profondo, ora una, ora un'altra memoria si gettavano a traverso alle sue idee, le scompaginavano, e lasciavano nelle sue parole un indizio del disordine che regnava nella sua mente.
E quella regola nei discorsi, quel contegno nei modi ch'ella non poteva avere naturalmente, e per ispirazione dalla pace dell'animo, non aveva i mezzi per trovarlo nella esperienza e per comandarselo.
La sua esperienza non era altro che del chiostro, di quel poco che aveva veduto nel tempo burrascoso passato nella casa paterna, e di ciò che aveva imparato dall'infame suo maestro; le sue idee erano un guazzabuglio composto di questi elementi, ed ella non aveva potuto attingere d'altronde cognizioni per fare almeno una scelta in questi elementi.
Le sue parole e il suo contegno sarebbero state uno scandalo insopportabile in un secolo meno bestiale di quello; ma allora la stranezza universale non lasciava spiccare la sua al punto da farne un oggetto di maraviglia singolare.
Due anni erano già trascorsi da quel giorno funesto al tempo in cui la nostra Lucia le fu raccomandata dal padre cappuccino, il quale, come pure ogni altro del monastero, e di fuori, conosceva bene la Signora per un cervellino, ma era lontano dal sospettare quale in tutto ella fosse.
Siamo stati più volte in dubbio se non convenisse stralciare dalla nostra storia queste turpi ed atroci avventure; ma esaminando l'impressione che ce n'era rimasta, leggendola dal manoscritto, abbiamo trovato che era una impressione d'orrore; e ci è sembrato che la cognizione del male quando ne produce l'orrore sia non solo innocua ma utile.
Abbiamo lasciata, se il lettore se ne ricorda, Lucia sola nel parlatorio con la Signora.
Il dialogo fra quelle due così dissimili creature continuò a questo modo:
«Ora», disse la Signora, «parlate con libertà.
Qui non c'è né madre né padre; e ditemi il vero, perché le bugie che mi potreste dire, le ravviserei tosto come una antica conoscenza: non temete di nulla: qualunque sia il vostro caso, io vi proteggerò, purché siate sincera con me».
Lucia pose la picciola destra sul cuore, e con quell'accento che toglie ogni dubbio, rispose: «Signora, la verità è quello che ha detto mia madre, e che ha scritto il padre Cristoforo: io non ho mai giurato finora, ma se Ella, reverenda signora vuole ch'io giuri in questa occasione, io son pronta a farlo».
«Non dite più, che vi credo», rispose la Signora.
«Ma contatemi dunque tutta questa storia».
E qui cominciò ad affogare Lucia d'inchieste, volendo sapere tutti i particolari della persecuzione di Don Rodrigo, e delle relazioni di Lucia con Fermo.
Questa curiosità era come ognuno può figurarselo assai molesta alla povera Lucia.
All'istinto del pudore ed alla ripugnanza naturale di parlare di se stessa su questa materia, si aggiungeva il timore anche di dire qualche cosa di sconvenevole in presenza della reverenda madre.
Lucia che aveva parlato con un uomo, e che gli aveva dato promessa di sposarlo, che aveva tentato un matrimonio clandestino si riguardava come una donna esperta e più forse che non conveniva, nelle cose del mondo, come una scaltritaccia al paragone di una monaca, velata, rinchiusa, separata dal consorzio degli uomini, e pigliava le inchieste della Signora a un di presso come si fa a quelle talvolta indiscretissime dei ragazzi, dalle quali uno si sbriga alla meglio, cercando di non rispondere direttamente e di mandare in pace l'interrogante.
E quanto le domande erano più avanzate, Lucia le attribuiva ancor più ad una pura e santa ignoranza.
Rispose dunque sopra Fermo, che quel giovane l'aveva chiesta a sua madre e che essendo a lei dalla madre proposto il partito, ella lo aveva accettato volentieri, e che tanto bastava per conchiudere un matrimonio.
Ma per ciò che risguardava Don Rodrigo, per quanto Lucia ponesse cura a schermirsi, le fu pur forza entrare in qualche particolare, per ispiegare alla Signora la persecuzione ch'ella aveva sofferta, e contra la quale cercava un ricovero.
«Egli pativa dunque davvero per voi», domandò la Signora.
«Io non so di patire», rispose Lucia, «so bene che avrebbe fatto meglio per l'anima e per il corpo a lasciarmi attendere ai fatti miei, senza curarsi d'una tapinella che non si curava niente di lui».
«Poveretto!» sclamò la Signora, con una certa aria di compassione, nella quale pareva tralucesse quasi un rimprovero a Lucia.
«Poveretto?» riprese questa, «Poveretto? Oh Madonna del Carmine! Ella lo compatisce, illustrissima!»
«Sì, poveretto», rispose la Signora.
«Convien dire che voi non abbiate mai avuto chi vi volesse male, giacché sentite tanto orrore per chi vi ha voluto bene.
Birbone, cattivo, tiranno! Che parolone, figliuola, per una quietina, come parete! E la carità del prossimo?...
Se gli aveste provati i tiranni davvero...! Vorrei un po' che mi ripeteste le ingiurie che vi diceva, per vedere quanta ragione avete di chiamarlo con questi nomi».
«Le ingiurie dei signori», rispose Lucia con quella sicurezza che non manca mai a chi comincia un discorso con una persuasione viva ed intima, «le ingiurie dei signori, sono tremende pei poverelli; ma se gli era pur destino che quel signore dovesse aver qualche cosa a dirmi, sa il cielo, che io sarei ben contenta che m'avesse detto ogni sorta d'ingiurie piuttosto che quello che mi è toccato sentire da lui.
Io non avrei risposto, le avrei sofferte, è il destino di noi poverelli; e quando egli si fosse stato stanco, l'avrebbe finita; ed ora io non sarei qui lontana dalla mia patria, come una sbandata, a domandare un ricovero per amor di Dio; sarei...
pensi, Signora, s'io posso dir bene di lui.
Non ch'io gli desideri del male, no grazie a Dio, ma quanto al bene ch'egli mi poteva volere...
Santissima Vergine, che razza di bene! Io non vorrei dir cose da non dirsi in sua presenza, signora madre, e, so ben io quel che dico; ella sa molto di cose alte, di quelle che si trovano sui libri, ma le cose del mondo non è obbligata a conoscerle, e certe cose che potrei contare sarà meglio tacerle».
«Vi ho detto di parlare con sincerità: dite pur tutto»; rispose la Signora ridendo, e senza quell'imbarazzo che le aveva cagionata una proposizione somigliante nella bocca del padre guardiano.
«Spero dunque di poter parlare con prudenza», riprese Lucia, «ma di poterle far toccare con mano che cosa poteva essere il bene di quel Signore.
Sappia che io non sono stata la prima, a cui per mala sorte egli abbia badato.
Eh!...
le cose si sanno purtroppo: e d'una poveretta in particolare, io non ho potuto a meno di non saperlo, perché eravamo amiche, e me ne piange il cuore tuttavia.
Questa poveretta - non la nomino - diede retta al bene di quel signore; e sa ella che ne avvenne? Cominciò a disubbidire ai suoi parenti; quando fu ammonita si rivoltò; la casa le venne in odio, non ebbe più amiche, disprezzava tutti, e diceva - puh villani! - come avrebbe potuto fare una gran dama.
Quando i parenti s'avvidero di qualche cosa, sulle prime negò, e poi, rispose in modo da fargli tacere per paura.
Comparve con un vestito troppo bello per una ricca sposa, e credeva la poveretta che tutti avrebbero fatte le maraviglie, e l'avrebbero inchinata, e tutti la sfuggivano: i ragazzi le facevano dietro mille visacci.
Un fior di giovane, mi compatisca se parlo male, che voleva ricercarla in matrimonio, non la guardò più; nessuno le parlava, nessuno voglio dire della gente come si deve, perché i cattivi se le avvicinavano per la via con una famigliarità come se le fossero sempre stati amici, e fino, a parlare con poca riverenza, i birri, la salutavano ridendo, e le gittavano parole da non dire.
Poveretta! di tratto in tratto pareva più lieta che non fosse mai stata, ma le lagrime che spargeva in segreto! e quante volte la vedevamo da lontano piangente, e si nascondeva da noi: e io mi ricordava di quando ell'era allegra come un pesce, di quando ridevamo insieme alla filanda.
Basta: la disgraziata non potè più vivere nel suo paese, e un bel mattino, fece un fagottello, e finì a girare il mondo».
«Girare!» interruppe la Signora, «non è poi la peggior disgrazia».
«E tutto questo», continuò Lucia, «senza parlare dal tetto in su; perché all'altro mondo, Dio sa come andranno le cose.
Ma povera la mia Bettina! oh poveretta me, ho detto il nome...
spero che Dio le farà misericordia; perché poi finalmente è stata tradita.
Ma per me dico davvero, che se per andare in paradiso bisognasse fare la vita di quella povera figlia, la mi parrebbe ancora molto dura».
«Ma quel signore», riprese la monaca, «era egli di stucco? non la sapeva far rispettare? lasciava la briglia sul collo a quei tangheri?»
«Fortunata lei», rispose Lucia, «che non sa come vanno queste cose.
Il signore dopo qualche tempo non si curò più di quella meschina; e si venne a sapere che un giorno ch'ella si lagnava con lui d'essere disprezzata, egli le rispose: - si provino un po' a farvi qualche sgarbo in mia presenza, e vedranno -.
Tutto quello che la poverina doveva patire fuori della sua presenza, non era niente.
Ma tutto questo non bastava a disingannarla: soffriva, ma non sapeva staccarsi da colui.
Finalmente bisognò che fossi tormentata io per farle conoscere il suo stato.
Quando costui, sfacciato!...
cominciò a pormi gli occhi addosso, allora...»
«È un vile birbante», interruppe la signora, «avete ragione: avete fatto bene a voltargli le spalle, e io vi proteggerò».
«Dio gliene renda il merito.
Le diceva ben io che se avesse saputo...»
«Sì sì, è un birbante: son tutti così costoro.
Date loro retta sul principio: voi, voi sola siete la loro vita: che cosa sono le altre? nulla; voi siete la sola donna di questo mondo, e poi;...
Fortunata voi che potete sbrigarvene.
Vi avrebbe voluta vedere amica di Bettina...
amica! e sprezzarvi tutte e due; e vi so dire io come vi avrebbe trattate; peggio che da serve.
Se aveste fatto il primo passo...»
Lucia teneva gli occhi sbarrati addosso alla signora, come stupefatta ch'ella ne sapesse tanto addentro.
Geltrude rinvenne e s'avvide che questo suo modo di disapprovare il seduttore non era più conveniente alla sua condizione di quello che fosse stato quel primo compatimento, e che invece di togliere il sospetto o almeno lo stupore che quello poteva aver fatto nascere, lo avrebbe accresciuto, e si ripigliò dicendo:
«Del resto, son cose che io non posso conoscere; ma già l'avrete inteso anche dai predicatori che quelli che seducono le povere figliuole sono i primi a sprezzarle.
E se da principio, io ho mostrato qualche dispiacere per colui, è perché non vi eravate bene espressa; io credeva che alla fine egli avesse intenzione di sposarvi».
«Sposarmi! sposarlo!» esclamò Lucia, maravigliata di questo pensiero che supponeva l'accordo di due volontà, d'una delle quali ella sentiva, e dell'altra sapeva che ne erano le mille miglia lontane.
Geltrude credette che Lucia non alludesse ad altro ostacolo che alla differenza delle condizioni.
«E perché no?» rispose, e abbandonandosi alla intemperanza della sua fantasia continuò: «Perché no, sposarvi? Se ne vede tante a questo mondo.
Sareste la Signora Donna Lucia: che maraviglia! non sareste la donna più stranamente nominata di questo mondo.
Avete sentito come mi chiamava quel buon uomo con la barba bianca che vi ha condotta qui? - Reverenda madre.- Io, vedete, sono la sua reverenda madre.
Bel bambino davvero ch'io ho».
E a questa idea si pose a ridere sgangheratamente: ma tosto aggrondatasi, e levatasi a passeggiare nel parlatorio...
«madre!...» continuò...
«avrei dovuto sentirmelo dire, non da un vecchio calvo e barbato:...
CAPITOLO VII
Come una troppa di segugi dopo aver tracciata invano una lepre, ritorna sbaldanzita con le code pendenti, verso il padrone; paventosa di lui, ma pronta ad abbajare e a ringhiare per dispetto contra ogni altro in cui si abbatta per via; così in quella notte romorosa tornavano gli scherani con gli artigli vuoti al castello di Don Rodrigo; dove convien tornare a noi pure, messa in salvo alla meglio la bella fera che quel birbone inseguiva.
Don Rodrigo passeggiava inquieto aspettando il ritorno de' suoi bravi, aprendo di tempo in tempo la finestra, e guardando al lume della luna e tendendo l'orecchio.
Fremeva d'impazienza, che la spedizione tornasse, ma in questa impazienza misto al desiderio v'era anche un po' di terrore; perché questa era la più grossa che Don Rodrigo avesse fatta fino allora.
Se allo sparire di Lucia, il rapitore fosse stato conosciuto, se la fama ne fosse giunta a Milano, l'affare poteva esser serio: il governatore avrebbe potuto pubblicare un bando contra il rapitore, come accadeva talvolta in simili casi, promettendo un premio a chi lo desse vivo o morto nelle mani della giustizia.
Veramente Don Rodrigo aveva veduto passeggiare sicuramente più d'uno colpito da un tal bando; e sapeva d'aver egli pure i mezzi di questa sicurezza, perché cinto da scherani, e temuto com'era, nessuno avrebbe voluto per un premio torsi un'impresa come quella di attaccarlo, e porre la vita a certissimo pericolo: pure un bando era almeno una seccatura forte.
Dall'altra parte pensava egli che essendo gli offesi povera gente, nessuno si sarebbe curato di prendere impegno per essi...
Ma c'era di mezzo quel benedetto frate (Don Rodrigo non diceva veramente benedetto) quel frate che era un brigante, un ficcanaso, uno che si dilettava d'impacciarsi nei fatti altrui, e che avrebbe potuto trovare appoggi, far comparire le cose...
Ma anche pel frate v'erano rimedj, e si poteva combatterlo con le stesse sue armi d'impegni, e di brighe.
- Quel che importa per ora, - continuava Don Rodrigo, - è che il Griso faccia il suo dovere, e che questa smorfiosetta non mi faccia uno scandalo che levi a romore il paese.
Diavolo! Ho avuto un pensiero molto ardito; ma quel che è fatto è fatto, e non mi voglio ora ritirare per bacco! Non voglio? non posso: coraggio coraggio Don Rodrigo! bisogna ammansarla con le buone; la madre?...
eh quando vedrà dei bei danari lampanti: e poi osi un po' far chiasso: vorrei vedere!...
Il parroco non fiaterà...
ha già avuta una bella paura, ed ora sarebbe anch'egli in colpa...
eh già colui è un birbone che farebbe di tutto per salvar la pelle...
Non vengono costoro?...
Sta a vedere che si saranno ubbriacati...
No no il Griso non è un ragazzo, e avrà condotte le cose con giudizio: non è mica una bagattella...
non vorrei che me la malmenasse: non è avvezzo a spedizioni di questa sorte: ha sempre avuto che fare con uomini...
basta gli ho fatta una buona ammonizione.
Stà...
per bacco, è la mia gente...
- Così pensando corse alla finestra, e vide i segugj venir quatti quatti, col Griso alla testa: tese l'occhio, per distinguere fra essi la lepre, ma la lepre non v'era.
- Diavolo!...
diavolo! diavolo! Il Griso me ne darà conto.
Aperta ai bravi la porta dal loro compagno che vi stava a guardia, ed entrati e andati a riposare com'era giusto, perché il riposo è dovuto alla fatica tollerata, non all'effetto ottenuto, il Griso come portava la sua carica, che in quel momento nessuno degli altri gl'invidiava, salì in fretta a render conto a Don Rodrigo.
«Ebbene?» disse tosto questi dispettoso: «ebbene? signor bravo, signor capitano, signor spaccone...»
«È dura», rispose il Griso con rispetto, ma non senza rancore, «è dura di sentir rimproveri dopo aver faticato fedelmente, e cercato di fare il suo dovere...»
«Ma dunque?...»
Il Griso si fece da capo, e raccontò tutti i preparativi, come la spedizione era ben condotta, e come la casa fu trovata vuota, e come sonò a stormo senza ch'egli potesse ben saperne il perché, e come si era tornati senza aver fatto nulla, ma senza aver lasciato traccia.
«Mancomale» rispose Don Rodrigo; e si posero a far congetture senza potersi fermare ad una che li accontentasse.
«Basta», conchiuse Don Rodrigo: «domani piglia informazioni; sarà meglio che mandi uno dei contadini fidati, nella bettola più vicina alla casa di Lucia, tanto che domani io vegga la cosa chiara».
Così congedò il Griso che se ne andò anch'egli a dormire.
Dormi, povero Griso, dormi che tu devi averne bisogno.
Povero Griso! Correre qua e là tutto il giorno, stare all'agguato, dirigere una mano di zotici mal disciplinati, pigliar sopra di te tutto il pensiero, e tanta parte della fatica; porti a rischio di aver qualche nuovo disparere con la giustizia, e di veder questa volta messo a prezzo il tuo capo, per rapto di donna honesta; stare al caldo e al gelo; e poi, e poi raccoglier rimbrotti.
Ma tu non cominci oggi a vivere, e devi sapere che il mondo è tristo, che gli uomini sono ingrati.
Va a riposarti, povero Griso: un giorno poi, quando ti porrai a letto per morire, se a letto morrai; forse questa giornata ti verrà in mente; forse il pensiero di non aver potuto oggi farti onore, e di essere stato sgridato per ricompensa, sarà quello che ti darà meno di gravezza.
Ma non pensare ora a questo, perché forse non dormiresti.
All'aurora il Griso fu in campo, tutto desideroso di venire in chiaro di ciò che fosse avvenuto di Lucia, per soddisfare alla curiosità del padrone e alla sua propria, e per avvisare i mezzi di riparare alla mala riuscita del giorno antecedente.
Non era la sola vanità né il dispetto che stimolavano il Griso; ma v'entrava la riconoscenza per Don Rodrigo che lo aveva posto, e lo teneva sotto le sue ali in salvo dalla giustizia, e che gli dava facoltà di camminare francamente, e di farsi temere; da questa riconoscenza era nato nel suo cuore un affetto, un attaccamento per Don Rodrigo, che i rimproveri, e le asprezze di questo potevano affliggere, ma non distruggere; né rendere inoperoso.
Scelse adunque il Griso gli uomini più opportuni a raccogliere notizie, e gli spedì attorno, ed egli stesso andò, per ispiare schiarimenti sui fatti misteriosi della notte trascorsa.
Ma gli abitanti del villaggio che s'erano trovati in quel trambusto, non ne sapevano essi stessi la cagione, e quello che avevano veduto non era per essi che una sorgente di curiosità, o al più un motivo di congetture e di fandonie.
Quando il mattino rivelò la fuga di Lucia e di sua madre e di Fermo, i sospetti divennero ancor più complicati, e la curiosità più animata: ognuno domandava a tutti quelli in cui si abbatteva, e se ne formarono come accade molte storie, perché s'ignorava la vera.
Quei pochi che la sapevano o tutta o in parte, e che avrebbero potuto soddisfare o almeno metter sulla via la curiosità degli altri, quei pochi se ne stavano zitti, e si facevano più nuovi degli altri.
Toni fece un severo precetto a Gervaso e alle sue donne di non parlare, e fu egli stesso molto fedele a questo suo precetto di cui sentiva l'importanza; appena uno sperimentato osservatore avrebbe potuto arguire ch'egli sapeva qualche cosa più degli altri dal poco chiedere ch'egli faceva, e dal suo ristringersi nelle spalle protestando di non saper nulla quando altri ne lo chiedeva.
«Io attendo ai fatti miei», rispondeva Toni, «che volete ch'io sappia?» Don Abbondio era ricorso al suo ripiego diplomatico di porsi a letto e di sviare così i curiosi.
Se ne stava egli ora cheto cheto, maladicendo la mala ventura, che negli ultimi suoi giorni gli faceva scontare quel poco di bene che aveva goduto negli anni passati, e rendeva inutili tutte le cure della sua prudenza.
Di tempo in tempo rimbrottava Perpetua e accagionava della sua disgrazia la cervellinaggine di quella.
Ma Perpetua non penuriava di argomenti per provare al padrone che la colpa doveva ricadere tutta sopra di lui; e il combattimento finiva per stanchezza d'ambe le parti.
Questi piati però non uscivano dalle mura di Don Abbondio, perché era interesse troppo evidente d'ambe le parti di sopire l'affare e di stornare i sospetti dalla verità.
Ma tra coloro che erano stati in parte testimonj ed attori di tutta quella scena ve n'era uno a cui l'esperienza non aveva potuto ancora dare le profonde idee di prudenza che il tempo e i casi avevano apprese a Toni e a Don Abbondio.
Sa il cielo se il lettore si ricorda di quel garzoncello spedito da Agnese al Padre Cristoforo, e mandato da questo ad avvertire Lucia del pericolo che le soprastava, di quel picciolo Menico che era stato nelle tenebre guida dei fuggitivi.
Menico il quale era pur dolente della fuga delle sue parenti, ma che almeno in questa sventura aveva avuta la felice occasione di far qualche cosa, non ebbe pace finché non confidò quello che aveva fatto a dei ragazzi suoi coetanei, i quali venivano a contargli le congetture che avevano intese, e ai quali egli aveva da raccontare qualche cosa di più fondato.
I ragazzi corsero a casa, e si seppe tosto che Lucia, Agnese e Fermo erano andati la notte al convento.
Le congetture divennero allora un po' più uniformi e più fondate, giacché tutti avevano qualche sentore della turpe caccia che Don Rodrigo dava a Lucia.
Gli spioni del Griso riseppero tosto con gli altri queste particolarità; e il Griso gli spedì tosto a Pescarenico per cavare più sicure notizie.
I barcajuoli avevano detto qualche cosa.
Povera gente! avevano cooperato ad un'opera buona, e l'assoluto silenzio era un peso troppo difficile da portarsi.
Si riseppe dunque che i fuggitivi avevano attraversato il lago, e che avevano continuato il loro viaggio per terra.
Queste cose vennero pure agli orecchi del Griso, il quale potè annunziare a Don Rodrigo che poco mancava a sapere su che albero l'uccello fosse andato a posarsi.
Don Rodrigo era uscito quella mattina col conte Attilio e col solito seguito di bravi, e s'erano aggirati pei campi e per le ville con l'apparenza d'andare a caccia ma con l'intenzione di scoprire quello che si facesse, e di stornare i sospetti mostrandosi, o almeno di ostentare sicurezza, e d'incutere spavento.
I sospetti erano già molto sparsi, e Don Rodrigo sotto l'apparente rispetto, e sui visi inchinati dei contadini in cui si abbatteva, potè scorgere qualche cosa di misterioso che annunziava un pensiero celato di cognizione, e una gioja compressa per la trista riuscita del suo infame tentativo.
Don Rodrigo faceva osservare quelle facce al suo compagno, e si rodeva; ma non ardiva né poteva fare alcun risentimento perché all'oscurarsi del suo sguardo gl'inchini diventavano più umili, e gli aspetti più sommessi, e non ci sarebbe stato verso di appiccare una lite senza troppo scoprirsi.
Giunti a casa i due cacciatori leggiadri trovarono il Griso che gli aspettava con le notizie.
Quand'egli ebbe fatta la sua relazione, Don Rodrigo si volse al cugino, come per chiedergli consiglio.
Il Conte Attilio era uno sventato, ma l'affare era tanto serio ch'egli stesso lo era divenuto, e disse: «Se mi aveste chiesto parere quando avete cominciato a divagarvi con questa smorfiosa, da buon amico vi avrei detto di levarne il pensiero, perché era cosa da cavarne poco costrutto; ma ora l'impegno è contratto, c'entra il vostro onore, e quello della parentela: ora si direbbe che vi siete lasciato metter paura, e che non l'avete saputa spuntare.
Dal modo con cui vi conterrete in questa occasione dipenderà la vostra riputazione e il rispetto che vi si porterà nell'avvenire».
«Avete ragione».
«E», continuò il Conte Attilio; «fate pur conto sopra di me come sopra un buon parente ed amico: non si tratta ora più di scommesse e di scherzi».
«Avete ragione.
Griso, che cosa dicono questi villani?»
«Il signor padrone può ben credere che in faccia mia nessuno avrebbe osato proferire una parola poco rispettosa; ma so che parlano, e si mostrano contenti».
«Ah! contenti» rispose Don Rodrigo, «vedranno, vedranno.
Il Podestà è tutto mio...
ma nulladimeno...
che ne dite cugino?...
sarà bene di prevenirlo favorevolmente».
«Certo», rispose il Conte Attilio, «non bisogna tralasciare nessuna precauzione».
«E poi», continuò Don Rodrigo, «non bisogna metterlo in impaccio.
Siccome si parlerà della fuga di costoro, e la giustizia forse non potrà schivare di far qualche ricerca, bisognerebbe trovare una storia che spiegasse la fuga, e che rivolgesse i sospetti in tutt'altra parte».
«Si potrebbe per esempio», disse il Conte Attilio, «sparger voce che quel villano ha rapita la ragazza e fargli mettere un bando, in modo che non ardisse più di comparire in paese».
«Non va male», rispose Don Rodrigo, «ma...»
«Se mi permettono questi signori», disse umilmente il Griso, «avrei anch'io un debole parere».
«Sentiamo», dissero entrambi.
«Fermo», rispose il Griso, «è lavoratore di seta; e questa è una gran bella cosa».
«Come c'entra la seta?» domandò il Conte Attilio.
«I lavoratori di seta», continuò il Griso, «non possono abbandonare il paese, è un criminale grosso.
Ecco che il signor Podestà quando voglia, come è giusto, servire l'illustrissima casa, potrà fare un ordine di cattura contra Fermo come lavoratore fuggitivo; poi si dirà che se Fermo ritorna, guai a lui; e Fermo non sarà tanto gonzo da venire a giustificarsi in prigione».
«Ma bravo il mio Griso», proruppe Don Rodrigo, mentre lo stesso Conte Attilio faceva un sorriso di approvazione.
«Ma bravo: va che ti voglio fare aiutante del dottor Duplica.
Per bacco, ch'egli non l'avrebbe trovata più a proposito».
«Eh Signore», rispose il Griso, con affettata modestia, «ho avuto tanto che fare con la giustizia, che qualche cosa devo saperne».
«Del resto», continuò Don Rodrigo, «per quanto grande sia l'abilità legale del Griso, non voglio ch'egli balzi di scanno il nostro dottore.
Fa ch'egli venga oggi a pranzo da me e m'intenderò con lui.
Tu intanto abbi cura di vedere il bargello e di dirgli che questa volta venga più presto del solito a ricever la mancia consueta, e che mi troverà di buon umore, e avrà un regalo di più...
Così si potrà andare innanzi a fare tutto quello che sarà necessario...
Purché la cosa non si risappia a Milano...»
«Che diavolo di paura vi nasce ora», interruppe il Conte.
«Caro cugino, la cosa non è finita; costei la voglio...»
«Va bene».
«E non so dove bisognerà andare a cercarla, che passi bisognerà fare...»
«E bene, a Milano hanno altro da pensare che a questi pettegolezzi.
C'è la carestia, c'è il passaggio delle truppe, c'è mille diavoli.
E poi quand'anche se ne parlasse a Milano, sarebbe la prima che avremmo spuntata?»
«Va bene, ma quel frate, quel frate vedete, chi sa quali protezioni potrà avere; e vi assicuro che non istarà quieto fin ché...
Quel frate è il mio demonio, e...
non posso farlo ammazzare».
«Il frate lo piglio sotto alla mia protezione», rispose sorridendo il Conte Attilio.
«Non pensate a lui: me ne incarico io».
«Eh se sapeste!...»
«Via, via, che ora non saprò fare stare un cappuccino.
Vi dico che, se avete in me la più picciola fede, non prendiate pensiero di lui, che non ve ne potrà dare.
Domani a sera sono a Milano; e dopo due o tre giorni udrete novelle del frate».
«Non mi state a fare un guajo che mi ponga in maggiore impiccio...»
«Quando vi dico di fidarvi di me, fidatevi; ma se volete vi dirò prima il modo semplicissimo che ho pensato per torvelo d'attorno, modo tanto semplice che l'avreste immaginato anche voi se non foste un po' conturbato».
Infatti Don Rodrigo combattuto, trainato da sentimenti diversi, e tutti rei, tutti vili, tutti faticosi, era un oggetto di pietà senza stima agli occhi stessi del Griso e del Conte Attilio, e avrebbe eccitato orrore e stomaco nell'animo di chiunque gli avesse meno somigliato che quei due signori.
La passione di Don Rodrigo per Lucia, nata per ozio, irritata e cresciuta da poi dalle ripulse e dal disdegno, era diventata violenta quando conobbe un rivale.
La fantasia ardente e feroce di Don Rodrigo si andava allora raffigurando quella Lucia contegnosa, ingrugnata, severa, se l'andava raffigurando umana, soave, affabile con un altro, egli immaginava gli atti e le parole, indovinava i movimenti di quel cuore che non erano per lui, che erano per un villano; e la vanità, la stizza, la gelosia aumentavano in lui quella passione che per qualche tempo riceve nuova forza da tutte le passioni che non la distruggono, o ch'ella non distrugge, da tutte quelle che possono vivere con essa.
Tutte queste passioni lo avevano allora spinto ad impedire con minacce il matrimonio di Lucia, senza ch'egli avesse risoluto quel che farebbe da poi, ma per impedirlo a buon conto, perché ella non fosse d'un altro, per guadagnar tempo, per isfogare in qualche modo la rabbia e l'amore, se amore si può dire quel suo.
Quindi allorché egli riseppe dalla narrazione del Griso che Lucia e Fermo erano partiti insieme, i dolori della gelosia e della rabbia lo colpirono più acutamente che mai.
Egli pensava qual prova Lucia aveva data di amore per Fermo e di orrore per lui, abbandonando così timida, così inesperta la sua casa paterna, i luoghi conosciuti, andando forse alla ventura; pensava che in quel momento essi erano in cerca d'un asilo per essere riuniti tranquillamente, e risolveva di fare, di sagrificare ogni cosa per impedirlo.
Dall'altra parte avvezzo bensì a non rifiutarsi mai una soddisfazione quando non gli doveva costare altro che una bricconeria, ma avvezzo a commetterne in un campo ristretto e conosciuto, si atterriva al pensiero di uscirne, di dovere intraprendere una ricerca difficile e pericolosa per porsi poi ad una impresa chi sa quanto vasta, chi sa quanto difficile e pericolosa.
Tanta era l'agitazione di Don Rodrigo, ch'egli pensava in quel momento non senza terrore alle Gride contra i Tiranni.
(Così chiamavano le Gride coloro che sopraffacevano come che fosse i deboli, quasi con questa espressione querula e paurosa volessero confessare l'impotenza di contenere quelli e di difender questi.) Ben è vero che quelle gride erano per lo più inoperose, e Don Rodrigo lo sapeva per esperienza, come noi lo sappiamo ora dal trovare ad ogni nuova pubblicazione di esse la dichiarazione espressa che le antecedenti non avevano prodotto alcun effetto.
Ma però queste gride stesse potevano essere un'arme potente, quando una mano potente le afferrasse contra chi le avesse violate; e v'era di mezzo un frate, un personaggio cioè alla influenza ed alla attività del quale nessuno poteva anticipatamente prevedere un limite: e questo frate pareva risoluto a proteggere ad ogni costo gli innocenti.
In questa tempesta di pensieri Don Rodrigo passeggiava per la stanza, facendo ad ogni momento nuove interrogazioni al Griso, e affettando sicurezza dinanzi al Conte Attilio; finalmente conchiuse col dire: «Per ora non c'è altro da fare che di sapere precisamente dove sono andati: tocca a te Griso; e poi, e poi...
non son chi sono se...
non è vero cugino?»
«Senza dubbio», rispose il Conte, al quale alla fine non premeva realmente in tutta questa faccenda che di far pensare che nello stesso caso egli avrebbe saputo giungere ai suoi fini senza esitazione e senza fallo.
Così fu sciolta la conferenza, e il Griso partì.
Don Rodrigo pensò che in quel giorno sarebbe stata cosa molto utile l'avere il podestà a pranzo, per mostrare sicurezza, e per far vedere ai malevoli che la giustizia era per lui; e lo fece invitare, pregando il Conte Attilio di non disgustargli quel brav'uomo con tante contraddizioni.
Venne il podestà, e il dottore; si stette allegri, si parlò ancora della marcia delle truppe, e della carestia: ma degli affari del paese, della campana a martello, della fuga, né una parola.
Soltanto Don Rodrigo accennò indirettamente questa faccenda nel modo il più gentile ed ingegnoso, come si vedrà.
Fece egli in modo che il podestà lodasse particolarmente il vino della tavola: cosa non difficile ad ottenersi, perché il vino era buono, e il podestà conoscitore.
Allora Don Rodrigo: «Oh, signor podestà, giacché ho la buona sorte di posseder cosa di suo aggradimento mi permetterà...»
«Non mai, non mai, Signor Don Rodrigo, se avessi saputo ch'ella sarebbe venuta a questi termini, avrei dissimulata la mia ammirazione per questo incomparabile...»
«Bene bene, signor Podestà, ella non mi farà il torto...»
«Don Rodrigo conosce la stima...»
Il Conte Attilio interruppe la gara, la quale era già realmente composta: Don Rodrigo parlò all'orecchio ad un servo, e il podestà tornando poi a casa, trovò sei tarchiati contadini che erano venuti a deporre nella sua cantina le grazie di Don Rodrigo.
Dato l'ordine segreto, Don Rodrigo ritornò al discorso incominciato, benché sembrasse mutarlo affatto, e passare dal vino all'economia politica; ma chi appena osservi la serie delle sue idee, scorgerà il filo recondito che le tiene.
«Che dice», continuò adunque Don Rodrigo, «che dice il signor podestà di questo spatriare che fanno i nostri operaj?»
«Che vuole ch'io le dica?» rispose il podestà: «è cosa da non potersi comprendere.
Quanto più si moltiplicano le gride per trattenerli, tanto più se ne vanno.
Non si sa capire: è una pazzia che gli ha presi: sono pecore, una va dietro all'altra».
«Eppure», continuò Don Rodrigo «pare che questa cosa stia molto a cuore di Sua Eccellenza».
«Capperi! veda con che sentimento ne parla nelle gride.
Ma costoro, parte per ignoranza, parte per malizia non danno retta, armano mille pretesti, ma la vera ragione si è la poca volontà di lavorare, e il disprezzo temerario delle leggi divine ed umane».
«Ma per buona sorte», disse il dottor Duplica, a cui Don Rodrigo aveva detto non tutto ma quanto bastava a fargli intendere come Don Rodrigo desiderava di esser servito, «per buona sorte abbiamo un signor podestà che non si lascerà illudere da pretesti, e saprà tenere mano ferma...»
«Mano ferma, signor podestà», riprese Don Rodrigo: «mano ferma: il primo che c'incappa, farne un esempio».
«Io so», disse con gravità misteriosa il Conte Attilio, «che Sua Eccellenza tiene gli occhi aperti su questo sviamento degli artefici, e sulla esecuzione delle gride che lo proibiscono perché il Conte mio zio del Consiglio segreto, qualche volta in confidenza si è spiegato con me...
basta non voglio ciarlare; ma son certo che quando tornato a Milano andrò a fare il mio dovere dal Conte mio zio, egli non lascerà di farmi mille interrogazioni...
In verità avere dei parenti in alto è un onore, ma un onore un po' pesante.
Non si può parlare con loro che non vogliano ricavare qualche notizia: non si sa come sbrigarsene».
«Mi raccomando ai buoni uficj del signor Conte», disse umilmente il Podestà: «una buona parola trasmessa da una bocca tanto garbata in orecchie tanto rispettabili...»
«È pura giustizia renduta al merito, Signor podestà: però se la parola ha da ottenere il suo effetto, da far colpo, sarà bene che si vegga qualche dimostrazione esemplare dello zelo del Signor podestà in questa materia».
«È mio dovere, e starò sull'avviso».
«Oh le occasioni non mancheranno», disse il dottore; «perché come diceva sapientemente il signor podestà, è una pazzia universale in costoro».
Quindi prendendo l'aria grave e pensosa di chi passa dai fatti ad una idea generale, continuò: «Vedano un po' le signorie loro come son fatti gli uomini, e particolarmente la gente meccanica che non sa riflettere.
Comincia a mettersi fra gli artefici questa smania di sviarsi, di cambiar cielo.
La sapienza di chi governa vede il male, e tosto applica il rimedio della proibizione e delle pene.
Si può far di più? eppure costoro, presa una volta quella dirittura di andarsene a processione, proseguono ad andarsene come se nessuno avesse parlato.
Come si spiega questo? Col dire che sono pazzi.
Ma coi pazzi come bisogna fare? Castigarli».
È facile supporre che con questi ragionamenti il signor podestà si trovò disposto a credere poi, o a fingere di credere alle insinuazioni incessanti del dottor Duplica, e alle deposizioni degli onorevoli suoi ministri, che Fermo si era spatriato in contravvenzione alle gride.
Il signor podestà non si lasciò scappare una occasione, che gli si era tanto raccomandato di afferrare, e nel giorno susseguente fatte fare ricerche di Fermo, le quali riuscirono inutili, lo notò come fuggitivo, gli fece intimare alla casa l'ordine di ritornare, e nello stesso tempo rilasciò l'ordine di catturarlo s'egli ritornava.
Non importa di accordare quei due ordini: basta che con questi si ottenesse l'effetto desiderato, che era di toglier la volontà a Fermo di ritornare.
Intanto il Griso non ommetteva cura per iscoprire il covo dei fuggitivi; ed ecco come vi riuscì.
Mandava egli esploratori qua e là per le piazze e per le taverne per raccogliere i discorsi che potevano dar qualche lume su questo avvenimento.
Colui che aveva condotto il baroccio dei profughi, non tacque, e di confidenza in confidenza, il Griso venne a risapere, e potè riferire a Don Rodrigo: che i fuggitivi erano andati a Monza, che Fermo aveva proseguito il viaggio fino a Milano, che Lucia ed Agnese erano state raccomandate al guardiano dei cappuccini.
Parve a Don Rodrigo che la matassa non fosse tanto imbrogliata com'egli aveva temuto, e che il bandolo si potrebbe ravviare senza troppa difficoltà.
Monza non era più lontana che venti miglia; Fermo era separato dalle donne; quando si prendessero buoni alleati, senza dei quali Don Rodrigo sentiva di non poter far nulla a quattro miglia del suo castellotto, l'impresa non era disperata.
V'era però ancora di mezzo un cappuccino; ma si sarebbe veduto fino a che segno egli era da temersi.
«Ora mio bravo e fedel Griso», disse Don Rodrigo, «non bisogna metter tempo in mezzo.
Ho bisogno di sapere al più presto presso a chi, in qual parte di Monza costei è andata a posarsi; e tu devi andare sul luogo a pigliarne informazioni sicure».
«Signore...»
«Che è, Griso? non ho io parlato chiaro?»
«Signore illustrissimo,...
io son pronto a dar la vita pel mio padrone, ma so anche ch'ella non vuole arrischiar troppo i suoi sudditi»
«Ebbene, non sei tu sotto la mia protezione?»
«Qui sono sicuro, qui Vossignoria illustrissima è conosciuta, e tutti mi portano rispetto; ma in Monza, s'io fossi riconosciuto...
Sa Vostra signoria che, non dico per vantarmi; ma sa che chi mi potesse consegnare alla giustizia, crederebbe di aver fatto un gran colpo?»
Don Rodrigo stette un momento sopra pensiero.
È una certa consolazione per chi considera lo stato insopportabile di angoscia e di terrore in cui a quei tempi gli uomini arditi e perversi tenevano i deboli, il vedere che i perversi pure erano in continua angoscia, e dovevano starsi sempre come si dice con l'olio santo in saccoccia.
Ma Don Rodrigo dopo un breve silenzio, fece con buone ragioni vergognar il Griso della sua pusillanimità.
«Che diavolo!» disse Don Rodrigo, «tu mi riesci ora un can da pagliajo, che non sa che abbajare sulla porta, guardandosi indietro se quei di casa lo spalleggiano, e non ardisce di allontanarsi quattro passi? Ebbene, piglia con te un pajo di compagni...
il Pelato, e...
il Saltafossi...
e va.
Io non ho nimicizia con nessuno in Monza: chi dunque ti vorrebbe toccare? La faccia di bravo non ti manca, e cospetto non incontrerai nessuno che non sia contento di lasciarti passare.
Quanto alla giustizia, dovresti vergognarti di avervi pensato un momento.
Bisognerebbe che i birri di Monza fossero bene stanchi di vivere per azzuffarsi con tre malandrini che vanno tranquillamente pei fatti loro».
«Sia per non detto, illustrissimo signore: io parto immediatamente».
«Bravo: hai amici in Monza?»
«Eh Signore io ho amici e nemici per tutto il mondo.
Sono stato in prigione con uno che sta per bravo dal Signor Egidio...
e abbiamo fatta una amicizia da spartire colle pertiche, conosco...»
«Bene tu avrai da questi informazioni, e ajuti al caso.
Una mano lava l'altra, e le due il viso.
Coraggio, e prudenza: comprare e non vendere; andare e tornare».
«Vado e torno; e se osassi...»
«Che?»
«Pregar Vossignoria illustrissima di non dire ad alcuno che il Griso ha dubitato un momento.
Vede bene, ognuno nel suo mestiere ha a cuore la sua riputazione».
«Va, va, balocco che sei: credi tu che io abbia bisogno di essere pregato per tenere in credito la mia gente?»
Il Griso partì coi due compagni, spiò, e raccolse che Lucia era nel monastero, sotto la protezione della Signora, che però la Signora l'aveva ricevuta per compiacere al padre guardiano, che nessuno pensava che altrimenti ella si sarebbe pigliata a petto questa faccenda giacché Lucia non le apparteneva per nulla, che Lucia abitava nel monastero, ma fuori del chiostro, che si lasciava poco vedere, e sempre di chiaro giorno: che la madre aveva disegnato di tornarsene a casa lasciando Lucia così bene appoggiata.
Tutte queste cose riferì il Griso a Don Rodrigo, il quale lodatolo, e ricompensatolo, si pose seriamente a pensare quale risoluzione fosse da prendersi.
Tentare un ratto a forza aperta, in Monza, su un terreno che egli non conosceva bene, in un monastero, a rischio di tirarsi addosso la signora, e tutto il suo parentado, del quale Don Rodrigo conosceva molto bene la potenza, e la ferocia in sostenere le protezioni una volta abbracciate, era impresa da non porvi nemmeno il pensiero.
Pure Lucia fra pochi giorni sarebbe rimasta sola senza la madre, e a chi avesse avuta pratica del paese, aderenze, notizie per conoscere le occasioni e per approfittarsene, per evitare i pericoli, l'impresa poteva forse essere agevole non che possibile.
Bisognava dunque ricorrere ad un alleato potente e destro, ad un uomo avvezzo a condurre a termine spedizioni di questo genere; e Don Rodrigo si determinò in un pensiero, che gli era passato più volte per la mente, che non aveva mai abbandonato, il pensiero di raccomandare i suoi affari al Conte del Sagrato.
Le ricerche che abbiamo fatte per trovare il vero nome di costui giacché quello che abbiamo trascritto era un soprannome, sono state infruttuose.
Al prudentissimo nostro autore è sembrato di avere ecceduto in libertà e in coraggio col solo indicare con un soprannome quest'uomo.
Due scrittori contemporanei, degnissimi di fede, il Rivola e il Ripamonti, biografi entrambi del Cardinale Federigo Borromeo, fanno menzione di quel personaggio misterioso, ma lo dipingono succintamente come uno dei più sicuri e imperturbabili scellerati che la terra abbia portato, ma non ne danno il nome, e né meno il soprannome che noi abbiamo ricavato dal nostro manoscritto insieme con la narrazione del fatto che glielo fece acquistare, e che basterà a dare una idea del carattere di quest'uomo.
Abitava egli in un castello posto al confine degli stati veneti, sur un monte; e quivi menava una vita sciolta da ogni riguardo di legge, comandando a tutti gli abitatori del contorno, non riconoscendo superiore a sè, arbitro violento dei negozj altrui come di quelli nei quali era parte, raccettatore di tutti i banditi, di tutti i fuggitivi per delitti quando fossero abili a commetterne di nuovi, appaltatore di delitti per professione.
«La sua casa» per servirci della descrizione che ne fa il Ripamonti «era come una officina di commessioni d'ammazzamento: servì condannati nella testa, e troncatori di teste: né cuoco né guattero dispensati dall'omicidio; le mani dei valletti insanguinate».
E la confidenza di costui, nutrita dal sentimento della forza e da una lunga esperienza d'impunità era venuta a tanto, che dovendo egli un giorno passar vicino a Milano, vi entrò senza rispetto, benché capitalmente bandito, cavalcò per la città coi suoi cani, e a suon di tromba, passò sulla porta del palazzo ove abitava il governatore, e lasciò alle guardie una imbasciata di villanie da essergli riferita in suo nome.
Avvenne un giorno che a costui come a protettore noto di tutte le cause spallate si presentò un debitore svogliato di pagare, e si richiamò a lui della molestia che gli era recata dal suo creditore, raccontando il negozio a modo suo, e protestando ch'egli non doveva nulla, e che non aveva al mondo altra speranza che nella protezione onnipotente del signor Conte.
Il creditore, un benestante d'un paese vicino, non era sul calendario del Conte, perché senza provocarlo giammai, né usargli il menomo atto di disprezzo, pure mostrava di non volere stare come gli altri alla suggezione di lui, come chi vive pei fatti suoi e non ha bisogno né timore di prepotenti.
Al Conte fu molto gradita l'opportunità di dare una scuola a questo signore: trovò irrepugnabili le ragioni del debitore, lo prese nella sua protezione, chiamò un servo, e gli disse: «Accompagnerai questo pover uomo dal signor tale, a cui dirai in mio nome che non gli rechi più molestia alcuna per quel debito preteso, perché io ho riconosciuto che costui non gli deve nulla: ascolterai la sua risposta: non replicherai nulla quale ch'ella sia, e quale ch'ella sia, tornerai tosto a riferirmela».
Il lupo e la volpe s'avviarono tosto dal creditore, al quale il lupo espose l'imbasciata, mentre la volpe stava tutta modesta a sentire.
Il creditore avrebbe volentieri fatto senza un tale intromettitore; ma punto dalla insolenza di quel procedere, animato dal sentimento della sua buona ragione, e atterrito dalla idea di comparire allora allora un vigliacco, e di perdere per sempre ogni credito; rispose ch'egli non riconosceva il signor Conte per suo giudice.
Il lupo e la volpe partirono senza nulla replicare, e la risposta fu tosto riferita al Conte, il quale udendola disse: «benissimo».
Il primo giorno di festa la chiesa del paese dove abitava il creditore era ancora tutta piena di popolo che assisteva agli uficj divini, che il Conte si trovava sul sagrato alla testa di una troppa di bravi.
Terminati gli uficj, i più vicini alla porta uscendo i primi e guardando macchinalmente sul sagrato videro quell'esercito e quel generale, e ognun d'essi spaventato, senza ben sapere che cagione di timore potesse avere si rivolsero tutti dalla parte opposta, studiando il passo quanto si poteva senza darla a gambe.
Il Conte, al primo apparire di persone sulla porta si era tolto dalla spalla l'archibugio, e lo teneva con le due mani in apparecchio di spianarlo.
Al muro esteriore della chiesa stavano appoggiati in fila molti archibugj secondo l'uso di quei tempi nei quali gli uomini camminavano per lo più armati, ma non osavano entrar con armi nella chiesa, e le deponevano al di fuori senza custodia per ripigliarle all'uscita.
Tanta era la fede publica in quella antica semplicità! Ma i primi che uscirono non si curarono di pigliare le armi loro in presenza di quel drappello: anche i più risoluti svignavano dritto dritto dinanzi a un pericolo oscuro, impreveduto, e che non avrebbe dato tempo a ripararsi e a porsi in difesa.
I sopravvegnenti giungevano sbadatamente sulla soglia, e si rivolgevano ciascuno al lato che gli era più comodo per uscire, ma alla vista di quell'apparato tutti si volgevano dalla parte opposta e la folla usciva come acqua da un vaso che altri tenga inclinato a sbieco, che manda un filo solo da un canto dell'apertura.
Si affacciò finalmente alla porta con gli altri il creditore aspettato, e il Conte al vederlo gli spianò lo schioppo addosso, accennando nello stesso punto col movimento del capo agli altri di far largo.
Lo sventurato colpito dallo spavento, si pose a fuggire dall'altro lato, e la folla non meno, ma l'archibugio del Conte lo seguiva, cercando di coglierlo separato.
Quegli che gli erano più lontani s'avvidero che quell'infelice era il segno, e il suo nome fu proferito in un punto da cento bocche.
Allora nacque al momento una gara fra quel misero, e la turba tutta compresa da quell'amore della vita, da quell'orrore di un pericolo impensato che occupando alla sprovveduta gli animi non lascia luogo ad alcun altro più degno pensiero.
Cercava egli di ficcarsi e di perdersi nella folla, e la folla lo sfuggiva pur troppo s'allontanava da lui per ogni parte, tanto ch'egli scorrazzava solo di qua di là, in un picciolo spazio vuoto, cercando il nascondiglio il più vicino.
Il Conte lo prese di mira in questo spazio, lo colse, e lo stese a terra.
Tutto questo fu l'affare di un momento.
La folla continuò a sbandarsi, nessuno si fermò, e il Conte senza scomporsi, ritornò per la sua via, col suo accompagnamento.
Se quel fatto crescesse in tutto il contorno il terrore che già ognuno aveva del Conte, non è da domandare; e l'impressione comune di stupore, e di sgomento fu tale che nessuno poteva pensare al Conte senza che il fatto non gli ricorresse al pensiero; e così fu associata al nome quella idea, che tutti avevano associata alla persona.
Il Conte sapeva che lo disegnavano con questo soprannome, ma lo sofferiva tranquillamente, non gli spiacendo che ognuno, avendo a parlare di lui si ricordasse di quello ch'egli sapeva fare; o forse che avendo in qualche romanzo di quei tempi veduta qualche menzione di Scipione l'Africano, o di Metello il Numidico, amasse di aver com'essi il nome dal luogo illustrato da una grande impresa.
Teneva egli dispersi o appostati assai bravi nello Stato milanese e nel veneto, e dal suo castello posto a cavaliere ai due confini dirigeva gli uni e gli altri, facendo ajutare o perseguitare quegli che si rifuggivano da uno Stato nell'altro, secondo l'occorrenza, tramutandone alcuno talvolta, quando qualche operazione lo domandasse, o anche quando alcuno avesse in uno stato commessa qualche iniquità tanto clamorosa che la giustizia per averlo nelle mani facesse sforzi straordinarj, che esigessero sforzi straordinarj per difenderlo.
Allora la fuga del reo era una buona scusa ai ministri della giustizia del non far nulla contra di lui, e la cosa finiva quietamente, tanto che dopo qualche tempo non se ne parlava più, né meno sommessamente, e il reo ricompariva con faccia più tosta che mai.
Questo maneggio serviva non poco ad agevolare tutte le operazioni del Conte, perché le si compivano tutte senza molto impaccio dei ministri della giustizia, i quali potevano sempre allegare l'impossibilità di porvi un riparo.
Quanto alle operazioni che il Conte eseguiva di propria mano, la giustizia non se ne mostrava accorta; ed era regola ricevuta di prudenza, che erano di quelle cose in cui ogni dimostrazione avrebbe prodotti più inconvenienti che non il dissimularle.
Le sue corrispondenze erano varie, estese, sempre crescenti.
Pochi erano i tiranni della città, e di una gran parte dello stato che non avessero qualche volta fatto capo a lui per condurre a termine qualche vendetta o qualche soperchieria rematica, massimamente se la persona da colpirsi, o il fatto da eseguirsi era nelle sue vicinanze.
E non basta, fino ad alcuni principi stranieri tenevano comunicazione con lui, e a lui avevano ricorso tal volta per qualche uccisione d'importanza, e quando il caso lo richiedesse gli mandavano rinforzi: fatto attestato dal Ripamonti, e strano certamente per chi misura la probabilità degli avvenimenti e dei costumi dalla sola esperienza dei suoi tempi; ma fatto che cammina benissimo con tutto l'andamento di quel secolo.
Nella sua professione d'intraprenditore di scelleratezze, era egli pieno di affabilità nel contrattare, e nell'eseguire metteva, ed esigeva una somma puntualità.
Accoglieva con molta riserva certamente per non incorrere nel pericolo al quale era sempre esposto, ma con molta piacevolezza, quelli che venivano a domandare l'opera sua, deponeva con essi il sopracciglio, stipulava con parole spicce, ma pacate, non andava in furia contra chi non avesse voluto stare alle sue condizioni, ma rompeva pacificamente il trattato, non volendo né disgustare alcuno senza utilità, né atterrire coloro, i quali avevano per la scelleragine più inclinazione nella volontà, che determinazione di coraggio.
Ma stretti i patti, colui che non gli avesse ben fedelmente serbati con lui, doveva esser bene in alto per tenersi sicuro dalla sua vendetta.
Don Rodrigo conosceva il Conte non solo di fama (chi non lo conosceva di fama?) ma di persona, per essersi talvolta avvenuto in lui.
In tutti questi incontri Don Rodrigo sentendo la sua inferiorità, aveva deposto ogni orgoglio e aveva cercato con molte espressioni di rispetto di porsi in grazia al Conte; non ch'egli pensasse allora che un giorno avrebbe cercato il suo ajuto, ma soltanto per non farsi un tale nemico.
Confermato nel suo perverso proposto di attingere la innocente Lucia, e convinto che le sue mani non erano abbastanza lunghe, si risolvette Don Rodrigo di andare in cerca di chi volesse prestargli le sue; fatta questa risoluzione, non v'era da titubare sulla scelta del personaggio, perché il Conte era appunto per lui quel che il diavolo fece.
CAPITOLO VIII
Il mattino vegnente, senza por tempo in mezzo, Don Rodrigo a cavallo, in abito da caccia, col fedel Griso che camminava a fianco del palafreno, e con una quadriglia di bravi, si mosse verso il castello del Conte, come altre volte Giunone verso la caverna di Eolo; se non che la Dea pagava in Ninfe l'opera buona del re dei venti, e Don Rodrigo sapeva bene che avrebbe dovuto recarla a Doppie.
La via era di cinque miglia all'incirca; e Don Rodrigo la faceva lentamente, e per dare agio alla scorta pedestre di seguirlo; e perché il cammino quasi tutto montuoso e disuguale e sassoso anche dov'era piano obbligava il ronzino ad andare di passo, e a cercare il luogo dove posare la zampa con sicurezza.
I villani che si abbattevano su quella via, al vedere spuntare il convoglio, si ritiravano dall'un canto verso il muro, per dare a Don Rodrigo il comodo d'un libero passaggio; e quando erano giunti al medesimo punto della strada, si ristringevano ancor più al muro, con aria quasi di chiedere scusa a Don Rodrigo d'essersi trovati sul suo cammino.
Don Rodrigo che già cominciava a godere nella sua mente un'anticipazione della potenza che gli avrebbe data l'alleanza che andava a contrarre, gli guarda con un volto fosco e sprezzante, come se dicesse: - vi siete rallegrati troppo presto a mie spese; lo so; ma vedrete chi sono -.
Giunto dinanzi al convento che si trovava su la sua strada, Don Rodrigo rallentò ancor più il passo, e si rivolse tutto a sinistra, guardando fieramente se mai il Padre Cristoforo girasse fuori del nido: ma non v'era nessuno: la porta della chiesa era aperta, e si sentivano i frati cantare l'uficio in coro.
In mezzo alla sua ira Don Rodrigo si risovvenne delle promesse del Conte Attilio, e dei disegni che questi gli aveva comunicati sul modo di liberarlo da quei frate: pensò che in quel momento forse la trappola era già tesa; e passando dalla collera alla compiacenza, fece un sogghigno accompagnato da un «ah! ah!» il cui senso non fu chiaramente compreso che dal fidato Griso; il quale per mostrare la sua sagacità, e per far vedere ai compagni ch'egli era molto internato nei segreti del padrone, si volse a questo pur sogghignando, e facendo col volto un cenno che voleva dire: - a quest'ora il frate sarà servito -.
Pochi passi dopo il convento giunse la brigata ad uno di quei tanti torrenti che si gettano nel lago, dai monti che lo ricingono.
Questo si chiamava e si chiama tuttavia il Bione, nome che non si troverà in alcun dizionario geografico; e a dir vero colui che lo porta non merita per nessun verso di esser memorato.
Scappa fuori da un monte che è quasi poggiato nel lago, e per un brevissimo e larghissimo letto manda per lo più qualche filo d'acqua, e dopo le grandi piogge, e allo scioglimento delle nevi, mena un largo fiume d'acqua che in un momento si perde, e un flagello di ciottoloni, che rimangono.
In quel momento non vi scorrevano che due o tre rigagnoli sparsi in un deserto di sassi: noi avremmo voluto che la nostra storia registrasse a questo passaggio qualche incontro, qualche avvenimento inaspettato, per poterne illustrare quel torrente, e togliere il suo nome dalla oscurità, ma la storia non ne registra: e noi solleciti della verità più che d'ogni altra cosa non possiamo dire altro se non che il cavallo di Don Rodrigo attraversò il letto in retta linea, tenuto pel freno dal Griso il quale dovette porre i piedi nel guazzo, scontando così com'era giusto un poco l'onore di star più vicino al signore; mentre gli altri bravi passarono un po' più in giù sur un ponticello stretto a piedi asciutti.
Varcato il Bione, andarono per un miglio circa sulla via pubblica che conduce al luogo dove allora era il confine dello stato veneto; e quindi presero un viottolo ripido a sinistra che conduceva al castello del Conte.
Appiedi della ultima salita che dava al castello v'era una rozza e picciola taverna; e sulla porta della taverna un impiccatello di forse dodici anni, il quale al veder gente armata entrò tosto a darne avviso; ed ecco uscirne tre scheranacci nerboruti ed arcigni i quali deposte sul tavolo le carte sudice e ravvolte come tegole con le quali stavano giucando; stettero a guardare con sospetto chi veniva.
Don Rodrigo aveva già tirata la briglia del suo ronzino per rivolgerlo sulla salita, quando uno dei tre, facendogli cenno di ristare gli chiese molto famigliarmente: «dove si va signor mio, con questa bella compagnia?» In altro luogo ed in altra occasione Don Rodrigo che aveva la superiorità del numero, e che non era avvezzo a sentirsi così interrogare da paltonieri, avrebbe risposto chi sa come; ma egli sapeva di essere negli stati del Conte, e s'avvedeva che parlava con dipendenti da quello, onde fingendo di non trovare nulla di strano in quel modo, rispose umanamente: «Vado ad inchinare il signor Conte».
«E chi è Vossignoria?» replicò l'altro con tuono più amichevole ma non meno risoluto.
«Sono il signor Don Rodrigo...»
«Bene; ma sappia che su per quell'erta non camminano altri armati che quelli del signor Conte; e s'ella vuole riverirlo, potrà venir solo a fare una passeggiata con me».
Don Rodrigo intese che bisognava anche scendere da cavallo, e ricordandosi di quel proverbio: si Romae fueris, romano vivito more, non si fece pregare, e disse: «avrò molto piacere di far questi pochi passi a piede: e voi intanto», disse rivolto alla sua scorta, «starete qui aspettandomi a refiziarvi, e a godere della compagnia di questa brava gente».
Mentre quivi si parlamentava, scendevano per l'erta a varie distanze uomini del Conte che dall'altura avevan veduti armati a fermarsi; ma colui che s'era offerto di accompagnare Don Rodrigo, accennò loro che erano amici, e quegli ritornarono.
Don Rodrigo sceso, e date le briglie in mano al Griso cominciò a salire con la sua guida; la quale non volendo forse avere offeso un uomo che poteva esser più amico del Conte che non si sapesse, fece una qualche scusa a Don Rodrigo di averlo fatto scendere.
«Se il Signor Conte», disse colui, «fosse stato avvertito della sua visita, avrebbe dato ordine perch'ella fosse accolta con le debite cerimonie; perché ella deve sapere quanto il mio padrone sia cortese coi gentiluomini che sanno il vivere del mondo; ma Vossignoria non è aspettata, e noi abbiamo dovuto fare il nostro dovere che è di non lasciar passare a cavallo che gli amici vecchi del signor Conte».
«Certo, certo», rispose Don Rodrigo: «io sono buon servitore del signor Conte, e non pretendo che egli abbia a far complimenti con me».
- Questi è un signore davvero, - pensava tra sè continuando la sua salita Don Rodrigo.
- Vedete un po', come sa farsi rispettare, ed esser padrone in casa sua.
S'io volessi fare una legge simile, non so se vi potrei riuscire: ma è poi anche vero che fa una vita da romito.
A voler godere un po' il mondo non bisogna star tanto in sulle sue, né metter tanta carne a fuoco.
- Così Don Rodrigo si racconsolava della sua inferiorità; e nel resto del cammino andava rimasticando i discorsi ch'egli aveva preparati pel Conte.
Giunti al castello, la guida v'entrò con Don Rodrigo, e lo fece aspettare in una sala, dove stavano sempre servi armati, pronti agli ordini del Conte.
Dopo pochi momenti, la guida tornò invitando Don Rodrigo ad entrare dal padrone; e di sala in sala sempre incontrando scherani, lo condusse a quella dove stava il Conte del Sagrato.
Don Rodrigo s'inchinò profondamente con quell'aria equivoca che può egualmente parere bassezza o affettazione, e il Conte che in mezzo a tanti affari non aveva potuto conservare le abitudini cerimoniose di quel tempo, gli corrispose con una leggiera e rapida inclinazione del capo; e gli fece cenno di sedersi sur una seggiola la quale era posta in luogo che dall'altra stanza si potesse scorgere ogni moto di colui che vi era seduto.
Dopo molte cerimonie, alle quali il Conte badò poco, Don Rodrigo sedette; e il Conte pure a qualche distanza.
Era il Conte del Sagrato un uomo di cinquant'anni, alto, gagliardo, calvo, con una faccia adusta e rugosa.
Si sforzava fino ad un certo segno d'esser garbato, ma da quegli sforzi stessi traspariva una rusticità feroce e indisciplinata.
«Dovrei scusarmi», cominciò Don Rodrigo, «di venir così a dare infado a Vossignoria Illustrissima».
«Lasci queste cerimoniacce spagnuole, e mi dica in che posso servirla».
«Non so se il Signor Conte si ricordi della mia persona, ma io ho presente di essere stato qualche volta fortunato...»
«Mi ricordo benissimo, e la prego di venire al fatto».
«A dir vero», riprese Don Rodrigo «io mi trovo impegnato in un affare d'onore, in un puntiglio, e sapendo quanto valga un parere di un uomo tanto esperimentato quanto illustre, come è il Signor Conte, mi sono fatto animo a venir a chiederle consiglio, e per dir tutto anche a domandare il suo amparo».
«Al diavolo anche l'amparo», rispose con impazienza il Conte.
«Tenga queste parolacce per adoprarle in Milano con quegli spadaccini imbalsamati di zibetto, e con quei parrucconi impostori che non sapendo essere padroni in casa loro, si protestano servitore d'uno spagnuolo infingardo».
E qui avvedendosi che Don Rodrigo faceva un volto serio, tra l'offeso e lo spaventato, si raddolcì e continuò: «intendiamoci fra noi da buoni patriotti, senza spagnolerie.
Mi dica schiettamente in che posso servirla».
Don Rodrigo si fece da capo e raccontò a suo modo tutta la storia, e finì col dire che il suo onore era impegnato a fare stare quel villanzone e quel frate, e ch'egli voleva aver nelle mani Lucia; che se il Signor Conte avesse voluto assumere questo impegno, egli non dubitava più dell'evento.
«Non intendo però», continuò titubando, «che oltre il disturbo, il Signor Conte debba assoggettarsi a spese per favorirmi...
è troppo giusto...
e la prego di specificare...»
«Patti chiari», rispose senza titubare il Conte, e proseguì mormorando fra le labbra a guisa di chi leva un conto a memoria: «Venti miglia...
un borgo...
presso a Milano...
un monastero...
la Signora che spalleggia...
due cappuccini di mezzo...
signor mio, questa donna vale dugento doppie».
A queste parole succedette un istante di silenzio, rimanendosi l'uno e l'altro a parlare fra sè.
Il Conte diceva nella sua mente: - l'avresti avuta per centocinquanta se non parlavi d'infado e d'amparo -; e Don Rodrigo intanto faceva egli pure mentalmente i suoi conti su le dugento doppie.
- Diavolo! questo capriccio mi vuol costare! Che Ebreo! Vediamo...
le ho: ma ho promesso al mercante...
via lo farò tacere.
Eh! ma con costui non si scherza: se prometto, bisognerà pagare.
E pagherò:...
frate indiavolato, te le farò tornare in gola...
Lucia la voglio...
Si è parlato troppo...
non son chi sono...
- Fatta così la risoluzione, si rivolse al Conte e disse: «Dugento doppie, signor Conte, l'accordo è fatto».
«Cinque e cinque, dieci», rispose il conte.
E questa, se mai per caso la nostra storia capitasse alle mani di un lettore ignaro del linguaggio milanese, è una formola comune, che accennando il numero delle dita di due mani congiunte, significa l'impalmarsi per conchiudere un accordo.
E nell'atto di proferire la formola, il Conte stese la mano, e Don Rodrigo la strinse.
«Le darò», disse Don Rodrigo, «uno dei miei uomini, che conosce benissimo la persona, e starà agli ordini di Vossignoria...»
«Non fa bisogno», rispose il Conte del Sagrato: «mi basta il nome», e qui cavò una vacchetta sulla quale sa il cielo che memorie erano registrate, e fattosi dire un'altra volta il nome e il cognome della nostra poveretta, lo scrisse, e notò pure il monastero.
«Ma non vorrei che nascessero abbagli».
«So quel che posso promettere», rispose il Conte, il quale coglieva ogni destro di dare una idea inaspettata del suo potere e della certezza dei suoi mezzi.
«Certo», replicò Don Rodrigo, «pel Signor Conte non v'è cosa impossibile».
«Ad un mio avviso, ella mandi persone fidate con le dugento doppie, e la persona sarà consegnata».
«Così farò; e mi raccomando...
vede bene...
non vorrei che...
il Signor Conte darà ordini precisi, e impiegherà persone di giudizio».
«Al corpo di mille diavoli! Ella non sa dunque come io son servito: tutti i miei uomini sono ben persuasi che colui il quale in una simile circostanza pigliasse la più picciola libertà, sarebbe punito con le mie mani».
«Non ne dubito», rispose Don Rodrigo.
«Segreto, e fedeltà ai patti!» disse il Conte.
«Son uomo d'onore», rispose Don Rodrigo, e si accomiatò.
Uscì del castello, scese alla taverna, trovò la sua scorta, pagò largamente lo scotto, e si avviò verso casa.
Non aveva egli ancora oltrepassata la soglia del castello del Conte, che questi aveva già dato principio all'impresa, prendendo la penna, e scrivendo una lettera a quell'Egidio di Monza, che il lettore conosce, per invitarlo a venire al Castello per un negozio di somma premura.
È d'uopo sapere che il Conte era uno di quei vecchi amici del padre di Egidio coi quali questi aveva mantenuta corrispondenza; anzi era di tutti il più intrinseco e il più riverito.
Il giovane Egidio appena rimasto solo aveva implorata l'assistenza del Conte per adempire la vendetta del padre, e il Conte che nel giovanetto aveva già intravedute disposizioni non ordinarie, e che aveva pensato di farne uno degli agenti che teneva in varie parti del paese, lo aveva in quella occasione soccorso di denari e d'uomini, e sempre in seguito gli si era mostrato pronto ad ajutarlo dove fosse stato di mestieri.
Si formò quindi fra loro l'intelligenza di darsi mano a vicenda in ogni occorrenza; nel che Egidio faceva le sue parti con molto zelo, e con una certa sommessione verso il Conte, per la sua età, per la sua fama, e per gli obblighi che Egidio gli aveva, e perché in ogni frangente contava d'avere in lui un difensore invincibile.
Per ciò il Conte, quando Don Rodrigo gli parlò di Monza, corse tosto col pensiero ad Egidio, e conoscendo per esperienza la devozione, e risolutezza di lui, sapendo che la sua casa era contigua al monastero, fece ragione che la impresa era come compiuta, e promise a Don Rodrigo con quella asseveranza che abbiamo veduta, e che gli diede una maraviglia non affatto sgombra di diffidenza.
Il messo partì; e il giorno susseguente Egidio si mosse di buon mattino, e verso il mezzogiorno salì in trionfo fino al castello del Conte con due cavalieri, e con quattro pedoni che l'accompagnavano, distinzione riserbata a quegli che erano non solo amici, ma alleati e la gente dei quali era impiegata al bisogno, ad eseguire i disegni del Conte.
In fatti gli uomini di Egidio e quelli del Conte s'erano trovati insieme in più d'una impresa, ed erano per lo più antiche conoscenze, e avvezzi in ogni caso a far conto su uno scambievole ajuto.
Quindi a misura che Egidio avvicinandosi al castello, incontrava di quei bravi che vi soggiornavano, questi dopo d'aver umilmente inchinato l'amico del padrone, facevano festa pur camminando, al suo corteggio, ed era una ripetuta stretta di mani, e un dare e rendere di saluti a cui si appiccavano i più bisbetici e scomunicati nomi del mondo.
«Benvenuto il Tanabuso!» «Bentrovato il Montanaruolo!» «Oh addio, Strozzato!» «Buon giorno Biondino bello!» «Bravo, Nibbione, mi consolo di vederti bene in gamba!» «Eh! Spettinato, grazie al cielo, in gamba, sano e salvo agli statuti di Milano, fin che viene la mia ora!» «Bravo un'altra volta! Ehi! e quel tale che ti faceva l'amore dietro tutte le siepi?» «Mandato a dormire senza cena», rispose il Nibbione, stendendo il braccio sinistro e appoggiando orizzontalmente la mano destra alla guancia.
«Bene», rispose lo Spettinato: «così va fatto: meglio pagare che riscuotere».
«Così m'ha insegnato mio padre», replicò il Nibbione.
Con questi bei ragionamenti giunse la trista brigata alla vista del castello; quivi si trovò il Conte che avendo veduto salire l'amico gli si faceva incontro.
Quando Egidio lo scorse, balzò da cavallo, gittò la briglia a uno de' suoi uomini, e corse a lui: si abbracciarono, entrarono insieme nel castello: gli scherani dell'uno e dell'altro seguitarono riverentemente in silenzio, ed entrati pure in frotta, andarono tutti insieme a gozzovigliare secondo gli ordini dati dal Conte.
Quando i due amici furono soli nella stanza appartata, dove il Conte trattava gli affari più reconditi, scoperse ad Egidio il motivo della chiamata in questo modo.
«Mio caro Egidio, e posso dir figlio.
Ho un affare a Monza, pel quale m'è d'uopo un amico fidato, e un uomo destro e valente; e ho posti gli occhi sopra di te».
«Vorrei vedere», rispose Egidio, «chi sarebbe in Monza colui che ardisse vantarsi di esservi più amico di me».
«La mentita gliela darei io», replicò il Conte.
«Ora mettetemi alla prova».
«Ho bisogno di avere in mano una persona», disse il Conte.
«Viva, o morta?» domandò Egidio.
«Viva, viva», rispose il Conte, «è un affare allegro».
«Bene», disse Egidio, «purché non sia il Castellano né alcuno di sua famiglia, né il feudatario, né il podestà, né un ufiziale spagnuolo...»
«Ih! ih!» disse il Conte, «che vorresti tu ch'io facessi di questa gente? Quando io gli avessi tutti in questo castello, farei aprire tutte le porte per lasciarli andare.
Non sono buoni da nulla né vivi né morti».
«Che so io?» riprese Egidio: «Bene, purché non sia ancora, né l'arciprete, né tampoco un prete, né un frate, né una monaca, perché non vorrei aver che fare col Cardinale, che sarebbe uomo da mettere a soqquadro tutta Roma e tutta Madrid, finché non ne avesse veduta l'acqua chiara: purché non sia nessuno di questi, vi prometto, umanamente parlando, che siete servito».
«Ebbene», disse il Conte «quello ch'io vorrei che tu prendessi non è nessuno di questi uccellacci che hai nominati: è il più picciolo reatino che tu possa immaginare.
Solamente, è rimpiattato in una certa fratta che ci vorrà destrezza assai a cavarnelo».
«Vediamo», rispose confidentemente Egidio.
Il Conte cavò la sua vacchetta, e dopo aver rivolta qualche carta, lesse: Lucia Mondella, e continuò: «è una contadina di questi contorni che si trova in Monza nel monastero contiguo alla tua casa, sotto la protezione della Signora; protezione molto fredda però; e raccomandata al guardiano dei cappuccini».
«Ne ho inteso parlare»; rispose Egidio, il quale ne sapeva sul conto di Lucia molto più del Conte, ma non voleva mostrarsene più inteso, perché i suoi rapporti con la Signora erano un segreto al quale non ammetteva nemmeno gli amici più intrinseci.
«Prendi tu l'impegno?» domandò il Conte.
«Senza dubbio», rispose Egidio.
«E la Signora?»
«La Signora, come vi hanno detto benissimo non si piglia molto a cuore questa donna; così almeno ho inteso dire da quelli di casa mia che bazzicano con l'ortolano, o con qualche altro mascalzone del monastero.
E poi, faremo la cosa in modo che né la Signora né altri possa sospettare donde il colpo venga».
«Sai tu ch'ella si allontani dal monastero qualche volta? Hai mezzo per farla uscire?»
«M'impegno di trovarlo.
E non vi posso promettere né pel tal giorno, né per la tale settimana; ma piglierò il tempo, e sarete servito; e non andrà molto».
«Bravo! e hai tu bisogno d'uomini in ajuto?»
«Ho bisogno certo d'uomini, non tanto per compire l'opera, come per distornare i sospetti.
Quando io vi darò avviso, voi mi manderete dei vostri uomini forestieri, dei più destri e determinati; costoro si lasceranno vedere qualche tempo prima; si parlerà in paese di loro: quando la donna sarà scomparsa...»
«Va bene, si dirà che è stata rapita da forastieri, sconosciuti, da Bergamaschi».
«Rapita, o fuggita con essi: quel che si vorrà: o anche l'uno e l'altro perché ho veduto in più d'un caso che il raccontare una storia in diverse maniere serve molto a confondere le teste, e a tener lontani i sospetti dalla verità del fatto».
«Tu parli come un vecchio, e sai operare da giovane», rispose il Conte.
«Io ti manderò gli uomini che mi richiederai: e non avranno altro ordine che di ubbidire ai tuoi».
Così fu conchiuso l'orribile accordo: Egidio annunziò al Conte che l'indomani ripartirebbe di buon mattino, e che appena giunto a casa, avviserebbe ai mezzi di condurre a buon fine l'impresa.
La sicurezza però di Egidio diede al Conte una maraviglia non molto dissimile da quella che Don Rodrigo aveva presa della sua.
Si aspettava bene il Conte che Egidio avrebbe abbracciata l'impresa, e trovato il modo di compierla, ma ch'ella dovesse parergli così agevole, non lo avrebbe immaginato.
Si preparava anzi a fargli animo, e a suggerirgli i mezzi per vincere gli ostacoli che Egidio gli avrebbe opposti; e fra questi il primo gli pareva che dovesse essere la Signora: ma il lettore sa che questo che al Conte sembrava ostacolo dovette tosto affacciarsi alla mente di Egidio come un mezzo validissimo.
Ed è questo uno dei molti vantaggi dei lettori di storie: il sapere certe cose ignorate dai personaggi più importanti di esse; il veder chiaro dove i più accorti ed oculati personaggi camminano all'oscuro: vantaggio che dovrebbe ispirare ad ogni lettore bennato molta riconoscenza a coloro che glielo procurano, che alla fin fine sono gli scrittori di quelle storie.
Nel resto di quel giorno il Conte trattenne in festa l'amico, in quella festa però che poteva essere in quel luogo e fra quei due.
All'indomani, dopo molti affettuosi congedi, Egidio partì, promettendo che ben presto manderebbe al Conte buone novelle dell'affare; discese al lago, entrò nel battello del Conte, traghettato all'altra riva dell'Adda coi suoi, si ripose a cavallo, e prese la via di Monza.
In quel tempo di provocazioni, di vendette, di agguati, di tradimenti, l'uomo che si allontanava quattro passi da casa sua, camminava sempre con sospetto a guisa d'un esploratore in vicinanza del nemico; e più d'ogni altro i facinorosi e soverchiatori di mestiere, quelli che avevano in ogni parte conti accesi di offese o di minacce, com'era Egidio.
Benché mandasse alcuni passi innanzi a battergli la via uno de' suoi cavalieri, il quale spiava se ci fossero insidie, o se giungessero nemici, pure andava egli stesso guardandosi a destra e a sinistra, cercando di penetrare con lo sguardo ogni siepe, alzandosi di tempo in tempo su le staffe per veder dietro i muri dei campi, piegandosi per vedere dietro ogni cappelletta, volgendosi di tempo in tempo a vedere dietro le spalle, e affisando da lontano chiunque veniva, perché poteva essere un nemico, o il sicario nascosto di un nemico.
Alla metà circa della via, incontrò egli una caravana di carretti e di pedoni, e li riconobbe da lontano per quelli che erano veramente cioè pescivendoli che tornavano da Milano dopo avere smaltita la loro merce, e che camminavano di conserva per assicurarsi dai masnadieri.
Esaminando però attentamente ogni persona della caravana, a misura che gli passava dinanzi, gli parve di riconoscere una donna, che si stava accosciata sur un carretto, coperta il capo d'un fazzoletto rannodato sotto il mento, la quale veggendo venire armati guatava con una curiosità mezzo spaventata.
Egidio la mirò più fisamente, s'avvide che s'era apposto, che era dessa, e si rallegrò pensando che a Monza troverebbe un impiccio di meno nell'esecuzione del suo mandato.
Era la nostra povera Agnese che avendo in vano aspettato le lettere o almeno imbasciate promesse dal Padre Cristoforo, impaziente di venire in chiaro del come andassero le cose, qual partito si dovesse finalmente pigliare; tornava al paese, per saperne qualche cosa, per dare nello stesso tempo una occhiata alla casa ed alle masserizie.
Lucia alla quale i pericoli passati, la fuga, il trovarsi come smarrita lungi dalla sua casa fra gente nuova, il timore continuo di peggio avevan restituita quasi tutta la timidezza della infanzia, aveva più volte afferrata la gonna della madre per non lasciarla partire, aveva pianto, e pregato, ma, finalmente stanca essa pure della incertezza, e più ansiosa di saper qualche cosa di quello che non ne confessasse, rassicurata dal trovarsi in un asilo così guardato, e così santo, s'acquetò, e lasciò che la madre ne andasse; e Agnese se n'era venuta, senza cruccio della figlia che le pareva d'aver lasciata, come si dice, su l'altare.
Noi torneremo indietro con la buona donna verso le nostre montagne, lasciando andare lo sciagurato Egidio al suo viaggio.
Quando Agnese si trovò al punto dove la strada che conduceva al suo tugurio si divideva da quella che dovevan fare i pescivendoli per giungere a casa loro, cioè quando ebbe passato il ponte dell'Adda, scese di carretto, e preso il suo fardello cominciò a piedi le due miglia che le restavano di viaggio, camminando non senza sospetto.
Si confortava però pensando che Don Rodrigo non l'avrebbe voluta far rapire, e che non sarebbe nemmeno stato tanto scellerato da farle far male alcuno, senza suo profitto.
Giunta vicino a casa, v'andò quanto più celatamente potè per viottoli, e infatti non fu scorta da veruno; picchiò, le fu aperto da quella sua cognata che stava a guardare la casa, trovò le cose in ordine; chiese novelle del Padre Cristoforo alla cognata che non potè rispondergli se non che da quel primo giorno non lo aveva più veduto comparire; e dopo d'avere esitato qualche momento, si fece animo, e prese la via del convento.
Tutta ansiosa si fece alla porta, e tirò il campanello, al suono del quale, ecco venire un occhio ad una picciola grata della porta a spiare chi sia arrivato, si alza un saliscendo, si apre mezza la porta, e al luogo dell'apertura un lungo, vecchio, e magro frate portinajo con la barba bianca sul petto che dice:
«Chi cercate buona donna?»
«Il padre Cristoforo».
«Non c'è».
«Starà molto a tornare?»
«Mah!»
«Dov'è andato?»
«A Palermo».
«A...?»
«A Palermo», ripetè posatamente il frate portinajo.
«Dov'è questo luogo?» domandò di nuovo Agnese.
«Eh! hee!» rispose il portinajo, stendendo il braccio e la mano destra e trinciando l'aria verticalmente per significare una lunga distanza.
«Oh diavolo!» sclamò Agnese.
«Ohibò, buona donna», disse pacatamente il frate: «che c'entra colui? non chiamatelo qui fra di noi, che poniamo ogni cura per tenerlo lontano».
«Ha ragione, Padre, ma io sto fresca».
«Bisogna aver pazienza», rispose il frate ritirandosi per richiudere la porta.
«Ma», disse Agnese in fretta, ritenendolo, «che cosa è andato a fare in quel paese?»
«A predicare», rispose il cappuccino.
«Ma perché è andato via così all'improvviso senza dirmi niente?»
«Gli è venuta l'obbedienza dal padre provinciale».
«E perché l'hanno mandato lui che aveva da far qui, e non un altro?»
«Se i superiori dovessero render ragione degli ordini che danno, non vi sarebbe obbedienza».
«Va benissimo; ma questa è la mia ruina».
«Ci vuol pazienza, buona donna.
Pensate al contento che proveranno quei di Palermo a sentirlo predicare: perché, vedete il padre Cristoforo è cima di predicatori; è un santo padre in pulpito».
«Oh il bel sollievo per me!»
«Vedete se v'è qualche altro nostro padre che possa tenervi luogo di lui, rendervi qualche servizio, nominatelo, e lo andrò a chiamare».
«Oh Santa Maria!» rispose Agnese con quella riconoscenza mista di stizza che fa nascere una offerta dove si trovi più di buona volontà che di convenienza: «chi ho da far chiamare, se non conosco nessuno: quegli sapeva tutti i fatti miei, mi dava tutti i pareri, aveva amore per noi poveretti».
«Dunque abbiate pazienza», rispose di nuovo il frate, disponendosi ancora a partire.
«...Ma, ma...» domandò ancora Agnese, «quando sarà di ritorno?...
così a un dipresso?»
«Mah!» rispose il frate.
«Quando avrà terminato il quaresimale, cioè a Pasqua, aspetterà un'altra obbedienza per sapere se deve restar là dove è andato, o tornar qui, o portarsi ad un altro luogo dove comanderanno i superiori: perché, vedete, noi abbiamo conventi in tutte le quattro parti del mondo».
«Oh la bella storia!» sclamò Agnese.
«Questo è quello che vi posso dire», rispose il frate, chiudendo questa volta la porta sul volto ad Agnese, la quale dopo esser rimasta ivi un qualche tempo come smemorata, riprese tristamente la via della sua casa, pensando come potrebbe riparare una tanta perdita e arzigogolando i motivi di una sì subitanea disparizione, senza poter mai venire ad una congettura un po' soddisfacente.
Non così il lettore, il quale quando voglia continuare la sua lettura, troverà qui tosto la spiegazione di tutto il mistero.
Il Conte Attilio, tornato a Milano, s'era tosto portato ad inchinare il conte suo Zio del consiglio segreto.
Era questi un vecchio ambizioso, geloso della parte di potere che gli era venuto fatto di afferrare, e geloso non meno dell'onore della sua famiglia e di tutto il parentado, al modo che s'intendeva l'onore a quei tempi.
Era egli per due sorelle, zio dei due cugini, e quindi chiese tosto ad Attilio novelle dell'altro nipote Don Rodrigo.
«Che fa quello sventato? Ma non serve ch'io ne chiegga a te che sei uno sventato come lui, e devi sempre trovarlo irreprensibile».
«Mi ha imposto di baciare umilmente la mano all'Eccellenza del signor zio, alla quale è sempre devotissimo».
«Sì sì...
mantiene bravi tuttavia?»
«Oh Signor zio, bravi...
non si può veramente chiamarli bravi: tiene un corteggio di servitori conveniente alla sua nascita, e al decoro della parentela».
«Sì sì...
ma Sua Eccellenza il signor Governatore non vuole i corteggi a questo modo, e si lascia qualche volta intendere che toccherebbe ai Ministri, e ai loro parenti dare l'esempio».
«Ma vede bene signor zio, il mondo diventa peggiore di giorno in giorno...»
«Oh questo sì; ma non tocca a te il dirlo».
«Ad ogni modo, il mondo è pieno di gente che non porta rispetto né alla nascita né al nome, se uno non lo sa far rispettare».
«Anche questo è vero; ma quando si ha uno Zio nel consiglio segreto e all'orecchio di Sua Eccellenza non si deve temere di soperchiatori».
«Certo, che con l'amparo del signor Zio noi potremmo aver soddisfazione di qualunque offesa: ma intanto gl'impegni nascerebbero, e il Signor Zio che ha tanta bontà di cuore, avrebbe disturbi ad ogni momento per causa nostra.
Così i temerarj si contengono col solo timore».
«Temerarj, temerari: io so molto bene che Don Rodrigo non è molestato da nessuno, se non cerca egli di molestare altrui».
«Eh! signor Zio ella sa quanti si trovano che presumono di essere superiori ad ogni autorità, e si fanno arditi contra chicchessia.
C'è per esempio un frate nel convento di Pescarenico, eh! signor Zio, non si può immaginare che superbia abbia costui».
«Che c'entra questo frate con Rodrigo?»
«Ci vuole entrare per forza, signor Zio.
Costui è pieno di premura, probabilmente spirituale, per una foresotta di quei contorni, e la guarda con un sospetto...
guai se alcuno le si avvicina.
Che cosa va a mettersi in capo questo frate? Che Rodrigo gli voglia rapire l'affetto di questa sua colomba.
E tutto questo, perché forse Rodrigo l'avrà guardata qualche volta passando: ma come le dico, la carità di questo frate è molto permalosa.
Ora non può credere le cose che ha dette costui di Rodrigo, i visacci che gli ha fatti, il tuono di minaccia con cui lo guarda, come se fosse un ragazzo plebeo».
«E questo frate sa che Don Rodrigo è mio nipote?»
«E come lo sa! Si figuri, che non faccio per censurare mio cugino, ma è il suo debole, lo dice ad ogni occasione, e lo compatisco; quando si ha un onore di questa sorte, non si vorrebbe tenerlo celato».
«E non ci è nessuno che faccia ricordare a questo frate che Don Rodrigo è mio nipote?»
«Eh pensi! tutte le persone di giudizio glielo fanno ricordare».
«E che dice egli?»
«Dice...
dice che il cordone di San Francesco non ha paura nemmeno degli scettri della terra».
«Come si chiama questo frate?»
«Fra Cristoforo da Cremona.
Fa il Santo, ma è conosciuto per un uomo torbido; ha sempre voluto cozzare con la gente bennata; in gioventù ha avuti incontri con cavalieri; ha un bell'omicidio su la coscienza e si è fatto frate per salvare la pelle: un cervello caldo».
Il Conte Zio prese la penna, e anche il nome di Fra Cristoforo fu registrato sur una terribile vacchetta, con due righe di commento.
«Sicuramente», borbottava poi il Conte riponendo la sua vacchetta; «il cordone di San Francesco! Lo so anch'io, ma t'insegnerò io, frate, che per adoperarlo a proposito, non fa bisogno d'averlo ravvolto intorno alla pancia».
«Per uscirne con poco impegno, e con tutto il decoro della parentela», disse il Conte Attilio, «il mio sottomesso parere sarebbe che V.E.
con la sua consumata politica trovasse il modo di fargli cambiar aria, e di sopire il negozio, senza entrare in esami, in discorsi, in relazioni; perché io conosco questo frate, e son certo che al caso non ci metterebbe su né sale né aceto a dare una mentita a un cavaliere; è un uomo, Signor Zio, da dare uno schiaffo con forza, e da riceverne uno con umiltà: questi cervelli alla lunga possono impacciare chi che sia, e mettere in impegni...»
«Chi domanda pareri a Vossignoria?...» interruppe il Conte Zio annuvolando la fronte.
Il nipote che lo conosceva, perché avendo spesso bisogno di lui lo aveva esaminato con l'occhio acuto dell'adulatore, aveva benissimo preveduto che quel personaggio si sarebbe offeso della intenzione di consigliarlo; ma sapeva nello stesso tempo che il consiglio gli sarebbe rimasto nella memoria, che sarebbe stato seguito perché era conforme alle idee del personaggio; e quanto all'offesa sapeva per esperienza che una umile parola di adulazione bastava a farla dimenticare.
«Ah! ah!» sclamò egli, come ridendo della sua propria dappocaggine, «È vero, è vero; sono pure uno sventato; ma: i paperi vogliono menare a ber l'oche».
Il Conte Zio fu contentissimo della riparazione; e disse: «Bene, bene, i pareri tu gli hai da sentire: e l'ordine che io ti dò ora è di non far parola con alcuno di questo impegno».
Il nipote promise l'obbedienza, e si congedò certo e lieto della riuscita.
Il Conte Zio rimasto solo, pensò tosto al modo di sciogliere il nodo prima che si ravviluppasse a segno che fosse mestieri di tagliarlo.
Il grande scopo di questo signore era di ottenere un po' di potere, il più che fosse possibile: e uno dei mezzi più validi per ottenerne era di far credere che ne avesse molto.
Egli conosceva per lunga esperienza l'efficacia di questo mezzo, e in certi momenti in cui il prurito di far mostra della sua profondità nella politica, superava nel suo animo la circospezione che gli consigliava a nasconderla (il qual prurito quasi invincibile, per parentesi, è cagione a molti furbi di scoprirsi da sè, e di rovinare così i loro affari; che è un peccato) in quei momenti dico, egli era solito di fare intendere la sua teoria con una frase di Virgilio che gli era rimasta in mente dalla scuola, e che egli interpretava a suo modo: possunt quia posse videntur.
- Chi aveva intese queste parole dalla sua bocca poteva esser certo di essere ai primi posti della confidenza del Consigliere segreto.
Questa dottrina poi, come accade, era in lui divenuta abito, e passione.
In questo frangente si trattava di non permettere che un cappuccino affrontasse e facesse stare un parente del Signor consigliere, d'impedirlo senza tirarsi addosso i cappuccini, e di far credere a chi era informato della inimicizia, e ai cappuccini stessi, che il frate era stato vinto, e aveva dovuto ritirarsi.
- Giovanastri senza giudizio, - pensava egli fra sè - la darò io ad intendere a quel Rodrigo.
- Ma intanto bisognava andare al riparo, e tutto pesato il Conte Zio fece pregare con quei rispetti e con quei pretesti di cerimonia che si usavano, il Padre Provinciale di passare alla sua casa.
Il Padre Provinciale non si fece aspettare.
Due potenze, due dignità, due vecchiezze, due esperienze consumate, si trovavano a fronte.
Il Padre provinciale che non sapeva che cosa il Consigliere segreto volesse fare di lui né in nome di chi, per quali interessi avesse a parlargli, stava in guardia; e il Consigliere si proponeva di farlo fare a modo suo, e di farlo partire contento di aver servito un così potente signore.
Dopo le prime accoglienze che furono al solito sviscerate, e dignitosamente umili, poi che il Cappuccino ebbe espressa magnificamente la sua stima pei Consiglieri, e il Consigliere pei Cappuccini, il Conte entrò in materia, cercando pure al solito di tasteggiare il suo interlocutore, e di procedere per via d'interrogazioni che obbligassero ad una risposta, e di eludere nello stesso tempo le interrogazioni dell'altro, il tutto con l'apparenza della più schietta cordialità.
«Mi sono presa questa sicurtà d'incomodare Vostra Paternità reverendissima», diss'egli, «per un affare che deve conchiudersi a comune soddisfazione.
E senza più, le dirò sinceramente di che si tratta, senza raggiri, col cuore in mano, come uso con tutti e specialmente con le persone che venero particolarmente.
Ecco il fatto.
Nel loro convento di Pescarenico presso Lecco, v'è un certo padre Cristoforo da Cremona?»
«Vostra Eccellenza è bene informata», rispose il Provinciale.
«Mi dica un po' schiettamente in amicizia, Padre Molto Reverendo, che informazioni tiene di questo soggetto?» riprese il Consigliere segreto aspettando la risposta.
Ma il Padre Provinciale non era uso di rispondere alla prima chiamata, e molto meno in un caso simile.
S'accorse egli che il Conte voleva cavare da lui tutte le notizie possibili prima di fargli conoscere il suo disegno, e propose di condurre per quanto potesse il discorso nel modo opposto.
- Perché - pensava il Padre - chi sa per qual cagione questo signore vuol essere informato del Padre Cristoforo.
Potrebbe forse avergli posto addosso gli occhi per servirsene in qualche maneggio, e allora non mi converrebbe screditarlo; potrebbe volergliene per qualche puntiglio, e allora non mi converrebbe pigliar le parti di fra Cristoforo prima di saper bene di che si tratta, e fino a che punto lo potrò sostenere.
In ogni caso prima di farmi cantare, dovrà cantare egli più chiaro.
- Fatte rapidamente queste riflessioni, il Padre rispose: «Se V.E.
vuol compiacersi di dirmi più chiaramente perché le preme il Padre Cristoforo, spero di poterle dare tutte le cognizioni che posso averne io medesimo».
- Sempre politico il Padre Provinciale, - disse in suo cuore, il Conte.
- Eh già gli sanno cavare dal mazzo.
- E tosto rispose ad alta voce:
«Ecco il fatto, Padre molto reverendo.
Questo padre Cristoforo non le ha dato più volte da pensare per cavarlo da impegni in cui s'era posto per poca prudenza, e per voglia di accattar brighe? Dica liberamente, non è un cervello un po' caldo?»
- Ho inteso, - disse fra sè, il Padre - è un impegno: Benedetto Cristoforo! ma bisognerà sostenerlo.
- E rivolgendosi al Conte rispose, indirettamente al solito:
«Liberamente, com'Ella desidera le dirò che il nostro Padre Cristoforo, l'ho sempre conosciuto per buon religioso, esemplare, zelante, e nei suoi doveri di cappuccino irreprensibile».
- Ah! Ah! - disse ancora fra sè il Conte - bisogna dunque tirarti con gli argani! - E con le labbra disse al Padre: «Ella sa pure che siamo amici, e fra noi non si deve parlare politicamente.
Io sono informato molto bene che questo religioso è un po' inquieto, ama di comprarsi le quistioni, e di cozzare con le persone di qualità.
Cose che non vanno bene, non vanno bene, Padre molto reverendo: Ella conosce il mondo, e m'insegnerà che queste cose non vanno bene».
- È tutta mia colpa, - disse sempre in soliloquio il Padre; - doveva pensare che quel benedetto Cristoforo con quel suo fuoco mi avrebbe strascinato in qualche impiccio: lo sapeva che era un uomo da far girare di pulpito in pulpito, e da non lasciar mai quieto per tre mesi in un convento vicino a case di signori.
Ma vediamo in che stato è la cosa, e come si può rimediare.
- E per pigliar tempo, rispose al Conte:
«Se Vostra Eccellenza è informata di qualche mancamento di questo padre, Le sarò grato di farmene partecipe, acciò ch'io possa mettervi rimedio».
«Pensieri degni della sua prudenza, padre molto reverendo: principiis obsta.
Ecco il fatto, senza andirivieni.
Questo religioso ha preso a cozzare con mio nipote, e la cosa potrebbe farsi più seria.
Senza parlare di me, che ho troppa venerazione per Vostra paternità e per tutta la compagnia, per fare nulla senza sua intelligenza in questo proposito; mio nipote ha molte aderenze.
Quand'anche io non me ne volessi impacciare, i parenti di padre e di madre...
sono persone...
sono famiglie...»
«Cospicue» disse il padre.
«E accreditate», continuò il Conte: «e mio nipote ha il sangue caldo.
Io le parlo da buon amico.
Mio nipote è giovane, e questo religioso, da quel che sento» e qui cavò la sua vacchetta, l'aperse, vi diede un'occhiata per lasciar supporre al padre che vi erano notate di gran cose, e continuò con un'aria misteriosa: «questo religioso ha ancora tutte le inclinazioni della gioventù.
I giovani non hanno giudizio, e tocca a noi che abbiamo i nostri anni...
pur troppo eh?...»
«Eh! pur troppo», disse il padre.
Chi fosse stato presente a quel dialogo avrebbe potuto scorgere in quel momento una mutazione curiosa nel volto dei due personaggi, che per la prima volta prendeva l'espressione d'un sentimento sincero: qui non avea luogo la politica, e il cuore parlava.
«Ella è così, padre», continuò il Conte.
«Tocca dunque a noi il rappezzare gli sdruciti che i giovani fanno».
«Tra me e lei (così disse il signor Conte) tra me e lei si potrà sopir l'affare».
Queste parole furono molto gradite al Provinciale.
È vero, ed ognuno lo sa, che a quei tempi i membri d'una congregazione religiosa erano affatto indipendenti da ogni podestà secolare, e non avevano quindi nulla a temere da essa.
E quando questa si trovava in collisione con alcuno di loro, e voleva prescrivere qualche cosa, la più forte, la sola minaccia che usasse e che potesse usare si era che avrebbe richiesto al papa che i renitenti, quelli che avessero contrafatto agli ordini fossono mandati fuori dello stato come diffidenti di S.M.; il che si può vedere nelle gride contra gli omicidi, banditi, i bravi, dove questa minaccia è fatta ai regolari che gli ricoveravano, e ponendoli così in luogo d'asilo gli involavano dalle mani della forza secolare.
In un'epoca posteriore fu pensato al modo di render più forte questa minaccia, e di estendere la pena; e questo sforzo merita d'esser ricordato e come un attestato insigne della impotenza della forza civile a raggiungere gli ecclesiastici, e come un esempio notabile di stolta e feroce iniquità.
L'onore di questo trovato appartiene al Signor Don Luigi de Revavides, Marchese di Fromista e Caracena Conte di Pinto.
Estese egli questa minaccia d'esser trattati come diffidenti di S.M.
anche ai parenti più prossimi di quegli ecclesiastici, che avessero raccettati nei luoghi sacri ed immuni certi banditi.
23 Agosto 1651, ed altre.
Ma i modi di nuocere non erano quegli soli che le grida prescrivevano, e la inimicizia di un uomo, e di una famiglia potente era un semenzaio di pericoli, d'incertezze, e di disturbi.
Il Provinciale si trovò dunque d'accordo col Conte nel desiderio di sopir l'affare; non si trattava più che del modo di farlo, con la convenienza delle due parti.
E siccome la cosa non aveva fatto grande scandalo, e si trattava più d'antivenire che di riparare, così la cosa non era difficile.
Dopo che i due sorboni ebbero ancora molto interrogato, poco risposto, mercanteggiato, e giuocato di scherma, il Padre Provinciale disse al Conte che per considerazione della persona di Lui, per amor della pace egli trasmuterebbe il Padre Cristoforo di quel convento in un altro lontano, con la condizione che nessuno si vantasse di questo come d'una vittoria: e il Conte lo promise; l'affare fu conchiuso, e i due contraenti si separarono contenti l'uno dell'altro, e ognun d'essi di se medesimo.
Gran cura ponevano quei vecchj pensatori in un negozio, di gran parole spendevano, ci pensavano assai, andavano per le lunghe, v'impiegavano il tempo conveniente; ma bisogna anche confessare che facevano poi cose grandi.
In fatti questo abboccamento produsse l'effetto di fare trottare il nostro povero Padre Cristoforo da Pescarenico a Palermo, che è un bel passeggio.
Fu dunque spedita al Guardiano l'obbedienza da intimarsi al Padre Cristoforo, e con l'obbedienza l'ordine di farlo tosto partire, la direzione della strada da farsi per non toccare Milano, e l'avviso di dargli un compagno nella missione, che nello stesso tempo osservasse tutte le sue azioni.
Mentre il nostro povero Frate pensava ai mezzi di soccorrere i suoi protetti, il guardiano lo chiamò a sè, e con molta consolazione gl'intimò l'obbedienza, gli comandò di prendere il suo bordone, gli presentò il compagno che era già avvertito, e gli disse «vade in pace».
Cristoforo non pensò nemmeno a domandare un rispitto che era certo di non ottenere: pensò alla povera Lucia, e si accorava; ma tosto si accusò di aver mancato di fiducia in Dio, e di essersi creduto necessario a qualche cosa; alzò gli occhi e il cuore al cielo, si abbandonò alla provvidenza; salutò umilmente il guardiano, prese la sua sporta, si cinse le reni con una correggia di pelle come usavano i cappuccini viaggiatori, disse una parola cortese al padre compagno, uscì del convento, e si pose su la via che gli era stata prescritta.
CAPITOLO IX
Quando Egidio si avvenne nella nostra povera Agnese, andava appunto fantasticando sul modo di soddisfare al più presto ai desiderj del suo degno amico, e di dargli con la prontezza del servizio una prova di audacia e di destrezza singolare; e nei varj disegni che ruminava il pensiero, questa Agnese gli si gettava sempre a traverso come il maggiore impedimento.
Come staccare da essa Lucia che le stava sempre appiccata alla gonnella? Rapire Lucia quando fosse in compagnia della madre era esporsi ad un vero scandalo: la resistenza che la madre avrebbe tentato di opporre poteva render necessaria qualche violenza che avrebbe renduto l'affare più serio, o almeno avrebbe fatto perder tempo, forse sfuggire l'opportunità; le sue grida potevano attirare dei guastamestieri, o almeno dei testimonj; e ad ogni modo essa rimanendo in Monza avrebbe sclamato, ricorso, parlato e fatto parlare.
Al contrario quando Lucia non avesse in paese persona a cui calesse di lei particolarmente, i discorsi sarebbero stati d'un giorno, ed era molto più agevole dare all'avventura quella spiegazione che fosse convenuta e che nessuno avrebbe potuto smentire.
Si andava dunque Egidio risolvendo ad aspettare che Agnese si fosse allontanata da Monza, ma non sapendo quando ciò fosse per accadere, si rodeva di dover rimettere ad un tempo non ben determinato l'impresa e l'onore dell'impresa.
Ma alla vista di Agnese che tornava a casa, Egidio si sentì libero d'una grande incertezza, risolvette di por mano al disegno appena sarebbe giunto a Monza, e continuò a maturare il suo disegno: i suoi pensieri camminavano più spediti, e per mettere del paro ad essi il suo cavallo gli diede una voce ed un colpo di sprone, dicendo ai seguaci a piedi che erano obbligati di trottare un po' affannosamente: «animo figliuoli, che la giornata è bella».
Giunto a Monza, entrato in casa, scavalcato, deposte le armi più gravi e più lunghe, egli corse tosto per la via da lui solo conosciuta alla porta abominevole che egli aveva aperta nel solajo, entrò con le solite precauzioni nel solajo dell'abitazione vicina, fece i soliti segni, la signora che stava sull'avviso, intese, avvertì le sue complici; le quali andarono a chiudere le porte del quartiere che comunicavano col chiostro, e la sciagurata corse incontro ad Egidio tutta ansiosa.
«Sia lodato il cielo» diss'ella «che vi riveggo! Oh che giorni ho passati! e che notti! Che paura ho avuta questa volta!» e mentre ella parlava una specie di consolazione angosciosa, e di rincoramento agitato dipingevano sulle sue guance come due pezze di rossore che contrastavano tristamente col pallore di tutta la faccia.
«Le solite sciocchezze?» disse Egidio con impazienza.
«Oh! sciocchezze! So io quel che soffro; e fossero anche sciocchezze, a chi tocca aver compassione di me? Mai mai, non avete voluto compiacermi.
Se provaste un'ora quello ch'io sento tutto il giorno! tutta la notte! Non posso più, non posso più vivere con colei così vicina.
Qua giù, qua sotto, a pochi passi, nella vostra cantina: e quando voi non ci siete...! l'ho veduta sempre, sempre: l'ho veduta smuovere a poco a poco il mucchio di sassi, e poi metter fuori il capo, e poi venir su...
avrei gridato se non avessi temuto di far correre tutto il monastero...
e poi entrare qua dentro per questo pertugio, senza mai volersi fermare, e poi sedersi qui...
quello sgabello son ben sicura d'averlo bruciato: e pure quando colei arriva, si trova sempre a quel posto, ed ella vi si adagia, e non vuol partire.
Mi pare che se fosse lontana dove io non sapessi, non potrebbe venire così a tormentarmi».
«Donne indiavolate, vive o morte», disse lo scellerato: «ecco le accoglienze gioconde che mi fate».
«Non andate in collera», disse Geltrude, «perché chi altri ho io? a chi mi posso confidare?» e continuò con voce più sommessa, «quelle altre non mi consoleranno, vedete, se racconterò loro che siete in collera con me, state in pace, e fatemi questo piacere una volta.
Voi sapete far tante cose! Non sarete più contento, quando mi vedrete tranquilla?»
«Ma sono queste cose da pensare, e da dire?» rispose Egidio.
«È un affare finito, che non dà più impaccio, e volerne andare a cercare uno di questa sorta? perché? per una pazzia? Che volete ch'io faccia? Ch'io desti il cane addormentato? Senza una ragione al mondo? come l'ho da portare? dove?»
«Scendete una notte solo», disse Geltrude, «già voi non avete paura, - fortunati gli uomini! - prendetela portatela al fiume, gittatela in un pozzo abbandonato...»
«Bel divertimento! bella festa invero!» disse Egidio con un sorriso di rabbia e di scherno «bella commissione che mi date! Pazzie! E tutto per tirar fuori quello che è ben nascosto! Savio disegno! Sapete voi dirmi un luogo dove possa star più nascosta che ora non è?»
«È vero», disse Geltrude, «gran cosa che non si sappia che fare d'un morto!»
«Che farne?» rispose Egidio, «niente: sta bene dov'è.
Dimenticatela, pensate quello che pensano tutte le vostre suore: è andata alle Indie su una nave olandese, e pensa a vivere allegramente; lo credono tutti...»
«Ma non è vero», rispose Geltrude.
«Che fa questo?» disse bruscamente Egidio.
«Fa tutto», replicò tristamente Geltrude; e proseguì: «anch'io prima...
credeva che purché lo sapessimo noi soli, la cosa sarebbe come se non fosse avvenuta, ma ora...»
«Ora è tempo di finirla», interruppe sempre aspramente Egidio.
«Oh ecco come son trattata!» disse con accoramento Geltrude; «mi strapazzate perché patisco; siete voi quello che mi strapazzate, voi...
Che colpa ho io se sono una poveretta? Vorrei anch'io non curarmi di nulla, esser come voi...
voi siete un uomo, voi mi date animo...
ma no no...
voi avete troppo coraggio, troppa presenza di spirito...
mi fate quasi...
paura...
penso...
penso che se...
mi odiaste...
ah i morti non vi danno travaglio!»
«Che pazzie! che pazzie!» disse Egidio con istizza sempre crescente.
«Ebbene», disse Geltrude in tuono supplichevole, «compiacetemi, levatemi questa spina del cuore, allontanate colei da questa abitazione; voi vedete ch'io non posso allontanarmi io».
«Via», rispose Egidio, fingendo di acconsentire alla domanda «vi compiacerò; è un impiccio, è un fastidio, è un pericolo, ma per voi lo farò».
«Oh davvero!» disse Geltrude, «non lo dite per acquetarmi, come avete fatto altre volte...
vi ricordate?...
promettetelo da vero».
«Possa essere...!»
«Non giurate, per amor del Cielo», interruppe Geltrude come spaventata; «non fate imprecazioni, perché noi siamo in uno stato che una picciola parola può bastare...
potrebb'essere intesa ed esaudita in quel momento che la proferiamo».
«Via ve lo prometto da uomo onorato», rispose Egidio, affettando tranquillità: «ve lo prometto; e non se ne parli più.
Ho bisogno anch'io che voi mi compiacciate in un affare d'importanza; e non mi si deve dire di no, non si deve opporre nemmeno un dubbio».
«Che posso fare?» chiese con istanza e non senza inquietudine Geltrude.
«Quella villanotta che v'è stata data in guardia», rispose Egidio, «quella Lucia...»
«Ebbene?...»
«Ho promesso di consegnarla ad un amico al quale non voglio né posso rifiutar nulla; e voi dovete darmi ajuto a liberarmi dalla mia parola».
A questa proposta, Geltrude incrocicchiò le mani con forza, le presse al petto, si strinse tutta, levò al cielo uno sguardo nel quale brillava momentaneamente un raggio dell'antica innocenza, e con voce supplichevole e commossa disse: «Ah no: non ne facciamo più, non ne facciamo più per pietà.
Chi sa che quel che abbiamo fatto non possa ancora essere perdonato? V'era, una scusa, ma qui non ve n'è.
Perché fare ancora delle cose, che si vorranno dimenticare e non si potrà? Non ne abbiamo abbastanza?»
«Ah! ah!» rispose Egidio, «così siete disposta a compiacermi? Adesso vi nascono gli scrupoli eh! Più conto fate d'una villana, che conoscete appena da otto o dieci giorni che di me.
Questa è quella che voi amate».
«Io amarla!» rispose Geltrude, «io colei! non la posso soffrire, è una superba, non fa che parlare della sua innocenza, e quando ne parla mi guarda con certi occhi come se sapesse qualche cosa, e fingendo rispetto volesse insultarmi.
L'ho accolta, sapete, perché bisogna nel nostro stato farsi più amici che si può: no ch'io non l'amo: ma lasciatemela per carità, questa lasciatemela, mi diventerà cara, e quando un altro pensiero verrà a tormentarmi, riposerò i miei occhi sopra di lei, e dirò fra di me: - ecco, anche questa l'avrei dovuta sagrificare; ed è qui».
«Pazzie, pazzie», disse Egidio: «parlate come una bambina sciocca.
Lasciate che sul principio si lamenti e un giorno poi riderà dei suoi terrori, e sarà contenta».
«No, non sarà contenta», rispose Geltrude con la rapida risoluzione di chi ha il vivo sentimento che le parole che ha udite sono menzogne.
«Va bene, va bene», disse Egidio con uno sdegno in parte vero, in parte diabolicamente affettato: «non ne facciamo più: e già vedo che non possiamo andar d'accordo: è tempo perduto con voi: siamo troppo differenti nel pensare: ma a tutto si può rimediare; i mattoni son lì tutti come contati; e ad ogni volta mi dò la briga di riporli al loro posto antico: basta che io porti un po' di calce, il muro sta come prima, tutto è finito».
«No, no, no...» riprese affannosamente Geltrude: «...dite, che volete ch'io faccia?»
«È vero», continuò l'uomo abbominevole, come se persistesse nel suo proposito, «è vero che vi sono anche quelle altre...»
«Zitto, zitto per pietà» disse Geltrude, «che non sentano: volete farmi diventare il ludibrio di quelle...»
«Quelle, quelle» riprese Egidio «saranno certamente più pronte a rendermi un servizio».
«Dite, dite, che volete ch'io faccia?»
«Chiamatele», rispose imperiosamente Egidio, «e troveremo insieme il mezzo di condurre a capo questa grande impresa».
«Dite...»
«Chiamatele, dico», riprese Egidio, e Geltrude strascinata ancora una volta un passo più innanzi nella via della perversità, avvezza ad ubbidire, ubbidì e andò a chiamare le sue complici.
Egidio sapeva quello che aveva detto; e quelle due sciagurate erano in fatti più tranquillamente e più risolutamente perverse di Geltrude.
Geltrude dei loro discorsi, del loro contegno sentiva talvolta orrore, disprezzo, ne riceveva una specie di scandalo; ma questi sentimenti ricadevano terribilmente su la sua coscienza, perché ad ogni volta Geltrude era costretta a ricordarsi che dessa era quella, che aveva fatti far loro i primi passi nel cammino dove ora la precorrevano.
Non parlo che di questi sentimenti, perché gli altri tutti orribili e tutti fastidiosi che dovevano nascere in quegli animi in quella situazione non sono da descriversi: basti dire che con tante cagioni di vicendevole ripugnanza una sola cosa le teneva unite, la partecipazione d'un sangue, l'avere una sola coscienza: vivevano insieme come lo sbigottimento e l'audacia, il desiderio di rimpiattarsi e il desiderio di assalire, il rimorso e il delitto vivono insieme nell'anima d'un masnadiero.
Rivisitate accuratamente le porte, tentati i chiavistelli per accertarsi che fossero ben chiusi, le tre sciagurate s'avviarono insieme verso il luogo più rimoto del quartiere dove Egidio le stava aspettando.
L'orrendo concilio fu ragunato: le sciagurate aspettavano ansiose di udire ciò che Egidio avesse a propor loro, e nello stesso tempo stavano col capo levato all'indietro origliando se un qualche romore si sentisse, se qualche suora venisse a bussare, per accorrer tosto, per intrattenerla con qualche pretesto prima di aprire, e dar così tempo ad Egidio di sparire senza lasciare alcun sospetto.
Egidio espose loro in due parole il suo desiderio: ch'egli aveva bisogno di tenere Lucia per servire un suo caro amico, che esse dovevano dargli ajuto, che la cosa doveva esser fatta presto e in modo che il sospetto non cadesse né sovra di esse né sovra di lui.
In una brigata di onesti che deliberi qualche risoluzione da prendersi, ognuno diventa più onesto, il sentimento comune rinforza quello d'ogni individuo che parli, le parole d'ognuno divengono più rigide, più degne, più scrupolose, suppongono sempre un convincimento profondo della persuasione della virtù; e così pur troppo, in una brigata di tristi, ognuno diventa più tristo, perché chi ragiona dinanzi ad un uditorio per picciolo ch'e' sia, generalmente parlando, non teme nulla più che di stonare dagli altri.
Geltrude che alla prima proposta di quel fatto, ne aveva conceputo tanto orrore, risoluta ora di obbedire allo spirito infernale che la possedeva, non avrebbe voluto che altri mostrasse più ardore, più prontezza, più sagacità nel farlo; Geltrude avvezza ad essere strascinata, e a far sempre qualche cosa di più di ciò che sul principio aveva ricusato di fare, rispose tosto che pigliava essa l'impegno, che ne aveva i mezzi più di chicchessia.
Le altre triste protestarono tosto che esse erano pronte a secondarla in tutto.
Egidio le chiese se essa avrebbe saputo far andare Lucia sola in una strada solitaria.
«Domani», rispose Geltrude.
«Domani è troppo presto», disse Egidio; «la rete non potrà esser tesa che dopo domani».
«Dopo domani», rispose ancora Geltrude.
La congrega si sciolse, ed Egidio corse tosto a spedire un messo al Conte del Sagrato, per chiedergli i bravi dei quali avevano convenuto.
Il messo partì nella notte stessa, giunse all'alba al castello; il Conte diede tosto gli ordini ai bravi che dovevano andare all'impresa: impose loro di obbedire ad Egidio, e di non nominarlo, di aspettare i suoi comandi, e di non andare a casa sua né di cercarlo in alcun luogo, e i bravi scesero all'Adda, e s'imbarcarono.
Nello stesso tempo spedì egli una carrozza leggiera da viaggio con un cocchiere quale conveniva a tal signore; gli ordinò di farsi tragittare su un altro punto del fiume, di non mostrare di avere alcuna relazione con quegli altri amici che partivano, di appostarsi vicino a Monza nel luogo che era indicato nella lettera di Egidio, e di aspettare pure gli ordini di questo.
Quanto alle ciarle da spargersi per via e alle fermate, onde far stornare dal vero le congetture dei curiosi, il Conte ne lasciò l'invenzione alla prudenza, ed alla sagacità dei suoi uomini; perché gli aveva scelti tra i più provati, e più destri, e tali che sapessero conformare la condotta e i discorsi alle circostanze che egli non poteva prevedere.
Contemporaneamente, a paro per un'altra via il messo di Egidio tornò al suo padrone, e gli portò la risposta nella quale il Conte, con un gergo da loro soli inteso lo avvertiva di ciò ch'egli aveva ordinato.
Egidio, lasciato riposare il messo, lo rispedì alle poste dov'erano giunti gli uomini del Conte, e li fece istruire di ciò che avevano a fare.
Tutta quella giornata fu spesa in preparativi.
Il giorno appresso (la nostra storia lo registra, ed era il ventuno di novembre) Egidio diede avviso a Geltrude che tutto era in pronto, e ch'ella dovesse mantenere la sua parola, operar tosto secondo le istruzioni ch'egli le aveva date.
Geltrude scese nel suo parlatorio appartato, e fece chiamare Lucia.
La nostra poveretta innocente corse volonterosa alla chiamata.
Dopo la partenza della madre, rimasta come smarrita, senza consiglio, senz'altro appoggio che quello della Signora, non si sentiva mai tanto sicura come presso di lei.
Ben è vero che quel non so che d'inusitato e di strano ch'ella aveva trovato nei discorsi e nel contegno di essa gli aveva lasciata una impressione d'incertezza e quasi di timore, ma ella era tanto lontana dal sospettar pure le vere cagioni di quell'inusitato, che le prime riflessioni della madre l'avevano rassicurata; e Lucia non ne aveva cavata altra conseguenza se non che i signori erano molto differenti dai poverelli.
Si presentò ella dunque a Geltrude con quell'aria di fiducia affettuosa, con quella gioja riconoscente, che il debole sente alla presenza del forte che è per lui; le andò incontro, come la pecora va incontro al pastore che le si avvicina, che allontana le altre e stende la mano per accarezzarla; e non sa la poveretta che egli ha lasciato fuori del pecorile il beccajo a cui l'ha venduta in quel momento.
La festa ingenua di Lucia, e la sua aria fiduciale era un rimprovero e una distrazione terribile per la Signora, la quale tosto interruppe alcune semplici parole di affetto e di riconoscenza che l'innocente tutta peritosa aveva incominciate, protestò di non voler ringraziamenti, e postasi in aria di premura e di mistero le annunziò che l'aveva fatta chiamare per comunicarle cose molto importanti.
Lucia si fece tutta attenta, e Geltrude ripetendo la lezione del suo infernale maestro cominciò ad impastocchiarla con una storia misteriosa, di pericoli, e di speranze, di mezzi posti in opera da lei, di ostacoli, di ajuti, tutto per liberare Lucia dalla persecuzione di Don Rodrigo, e per farla essere tranquillamente sposa di Fermo: accennando molto di più che non dicesse, e allegando motivi di prudenza per non dir tutto, ripetendo ad ogni momento che un po' di coraggio e molta precauzione poteva tutto salvare, e una picciola indiscrezione perder tutto; che l'occasione era pronta, e per coglierla non bisognava perder tempo; e terminò con dire che le bisognava in quel momento un uomo da cui potesse aspettarsi un consiglio fidato, e un ajuto operoso, che il solo uomo del mondo che fosse da ciò era quel padre guardiano dal quale Lucia era stata scorta al monastero; che ella aveva bisogno di parlare con lui ma che le mancava il mezzo di farlo avvertire con sicurezza, giacché dopo d'aver riandate tutte le persone, tutti i modi per questa spedizione, trovava in tutti il pericolo di farsi scorgere, di sventare il segreto, di metter sull'avviso quelli a cui importava il più di tener tutto nascosto, e di perdere così l'opportunità, anzi di avvicinare i pericoli: che insomma per condurre bene a fine questa faccenda, era necessario che Lucia prendesse un po' di risoluzione, si snighittisse, e facesse tosto, e segretamente e sola questa commissione.
Lucia a questa proposta rimase sopra di sè, poiché allontanarsi dal monastero, andarsene soletta per un paese che era per lei come l'America, era un gran pensiero: fece adunque come si fa ordinariamente quando non si vorrebbe aderire ad una proposta: si mise a discuterla, per poter conchiudere che non era la sola cosa da potersi fare: disse che la Signora avrebbe potuto trovare altre persone fidate e discrete, domandò schiarimenti, volle sapere più addentro come la commissione fosse necessaria, e come essa fosse la sola che la potesse eseguire.
Ma la Signora memore sempre della scuola di Egidio, mostrò prima di offendersi, rispose ancor più misteriosamente alle domande, lagnandosi di Lucia che pretendesse farle rivelare ciò ch'ella non poteva, e che non volesse fidarsi di chi senza un interesse, per pura pietà si prendeva tanta cura di lei; e conchiuse finalmente col dire: «Sono ben io la buona donna a pigliarmi di questi travagli: si tratta di voi, finalmente; io me ne lavo le mani: ho fatto ancora più ch'io non dovessi».
Lucia commossa in un punto di vergogna e di timore, stava per piangere; e la signora vedendola arrivata a quel punto, ripigliò il suo discorso, la sgridò più amorevolmente, la rimproverò di poco coraggio; le promise che non le sarebbe mai mancata se ella avesse avuta fede in lei; e infervorata com'era nell'impresa di tradire la poveretta per servire lo scellerato Egidio, con ipocrisia sfrontata le disse che pensasse ai rimproveri che ella farebbe un giorno a se stessa di avere per irresolutezza, per infingardaggine rifiutato il mezzo della salute, e rovinata se stessa, la madre, e l'uomo a cui ella s'era promessa.
Lucia non seppe più resistere, si accusò di aver resistito, le parve che avrebbe rifiutato il soccorso del cielo, rifiutando quello che le era offerto, piena di una novella fiducia disse: «vado tosto».
Geltrude l'accomiatò, lodandola, facendole animo, e ripetendo le più liete promesse e indicandole la via per andare al convento.
Lucia ritenendo a forza il pianto chiese scusa alla Signora della sua poca fede, e della sua ingratitudine.
«Sono una poveretta senza pratica», diss'ella; «ma già ella tutte queste brighe non se le deve pigliar per me, ma per Quello di lassù, che gliele rimeriterà tutte», e abbandonandosi alla grata, colle braccia tese, continuò: «se non fossero questi ferri, mi pare che le getterei le braccia al collo, ed ella non se lo avrebbe a male, perché è tanto buona, ed io lo faccio per cuore».
«Sì sì, Lucia, addio, addio», disse Geltrude.
«Dio la benedica» rispose Lucia, e staccatasi dalla grata, si volse, e si avviò verso la porta del parlatorio.
- Che orrenda parola! - disse in suo cuore Geltrude: Dio gliele rimeriterà tutte, e alzando gli occhi vide Lucia, che stava per passare la soglia.
Finché Lucia aveva litigato contra le persuasioni di Geltrude, questa, impegnata ad ottenere l'intento di Egidio, animata dalla disputa stessa non aveva pensato ad altro che a giungere al suo fine, ma quando vide il cangiamento di Lucia, quando vide la sua fede sicura, intera, amorosa, e pensò che la tradiva, quando vide la vittima andare così senza sospetto all'orribile sagrificio, un sentimento improvviso, indistinto, irresistibile le fece pronunziare quasi macchinalmente queste parole: «Sentite Lucia».
Lucia ristette, si rivolse, ritornò alla grata.
Ma, nel momento che Lucia spese a fare quei pochi passi, l'immaginazione di Geltrude aveva già veduto Egidio furibondo per essere stato ingannato, aveva già udite le sue imprecazioni, le sue minacce, s'era già pentita del suo pentimento, e quando Lucia ristette alla grata per intendere ciò che Geltrude avesse di nuovo a dirle; Geltrude confermata nella iniquità: «senti Lucia», le disse, «ricordati bene di tutte le avvertenze che ti ho date; procura di tirarti in mente la strada che tu hai fatta venendo qui; se fossi in dubbio, domanda con indifferenza e con franchezza a qualche buona donna che passi per via; va in modo di non dar sospetto: fatti animo, ché già non è il viaggio di Madrid: va e torna presto».
«Oh», disse Lucia, «Dio mi accompagnerà»; e si volse di nuovo, s'avviò verso la porta, e passò la soglia.
Geltrude corse a chiudersi nella sua stanza.
Quivi l'abbandona il nostro autore; né in tutto il resto del manoscritto ne fa più menzione.
Noi però, trovando descritti dal Ripamonti gli ultimi casi di questa sventurata, stimiamo che monti il pregio d'interrompere un momento la narrazione principale, per accennarli.
Ci sembra anzi una specie di dovere per noi, quando abbiamo raccontati i delitti, di non tacere il pentimento, di non tacere che l'orrore a noi così facilmente ispirato da quelli, la religione ha potuto ispirarlo ancor più forte e più profondo all'anima stessa, che gli aveva acconsentiti e commessi.
Riferiremo quei casi in compendio; chi volesse conoscerli più in particolare, li troverà esposti in bel latino nella Storia patria del Ripamonti, al libro sesto della quinta decade.
Siccome egli non vi pone alcuna data, così non possiam dire di quanto sieno posteriori alle cose già da noi narrate.
La condotta, il linguaggio, l'aspetto abituale delle tre sciagurate suore, le loro stesse precauzioni, per distornare i sospetti, ne fecero, com'era naturale, nascere dei nuovi, che dopo d'aver serpeggiato nel monastero, si diffusero al di fuori.
Due vicini di quello che ebbero la sciagura di ricevere qualche prima confidenza di quei sospetti, un fabbro ed uno speziale, accennarono copertamente in qualche discorso, che in un monastero del paese accadevano cose orrende e turpi: l'uno e l'altro furono trovati uccisi.
Un terrore misterioso invase tutti gli animi nel monastero e fuori; ai susurri che già cominciavano a farsi sentire nelle brigate, successe un silenzio cupo e significante, e nelle relazioni più intime, gli sguardi, i cenni, le parole sospese esprimevano o accennavano un sospetto e uno spavento comune.
Questi romori così vaghi e generali com'erano, furono riferiti al cardinale Federigo Borromeo arcivescovo di Milano.
Egli dolente e turbato d'essere così tardi avvertito, si portò a Monza sotto colore d'una visita generale, e venne a colloquio colla Signora, per esplorare dalle sue parole lo stato dell'animo suo; e ne uscì con più grave e più fondato sospetto.
D'allora in poi, la Signora, irritata dai sospetti che vedeva starle sopra, agitata dalle certezze della coscienza; esaltata per così dire dal suo stesso turbamento, perdè tutta la prudenza della colpa, le sue azioni divennero affatto indisciplinate, i suoi discorsi strani, furiosi, inverecondi.
La giurisdizione criminale su le persone addette allo stato religioso era allora esercitata dai vescovi.
Il cardinale fece torre la Signora da quel monastero, e trasportarla in un convento di convertite nella città.
Ivi l'infelice infuriò per qualche tempo: tentò di fuggire, tentò di uccidersi, ricusò il cibo, diede del capo nelle muraglie; urlava tutto il giorno, bestemmiava più di tutto il cardinale: contra il quale tale era l'odio di lei, ch'ella ebbe a dir poscia che tutte le inimicizie che gli uomini chiamano mortali, erano un giuoco appo di quella ch'ella sentiva per lui.
Intanto lo scellerato vicino ripose il piede nel monastero, e parte colla persuasione, parte colle minacce astrinse le altre due sue vittime a seguirlo, e di notte con esse fuggì.
Ma, o fosse disegno premeditato di quell'animo atroce, o ebbrezza di scelleraggine, poco distante dal paese, in riva al Lambro, una dopo l'altra le trafisse con un pugnale, gittando l'una nel Lambro, e l'altra in un pozzo rasciutto ed abbandonato nei campi.
Ma le ferite non furono mortali, ed entrambe le donne furono salve per diversi eventi e rinvenute, e riposte a guarire in un altro monastero del borgo.
La Signora all'annunzio di tali atrocità, tutta, tutto ad un tratto si mutò; rivolse in orrore di se stessa, in pentimento, in dolore ineffabile, in lagrime inesauste tutto quell'impeto di furore; e da quel momento fino al suo ultimo respiro non si stancò mai di espiare almeno ciò che non poteva più riparare.
Il Cardinale ch'ella chiamò poi il suo liberatore, dovette porre un freno ai rigori ch'ella esercitava contra se stessa; la visitò da poi e la consolò sovente.
Pagò egli poi sempre le spese del suo mantenimento, perché i parenti, come se col rifiutare quella sventurata avessero potuto scuotersi da dosso la colpa che avevano nella sua rovina, non vollero più udirne parlare.
Le due compagne la imitarono nella penitenza.
Ma il miserabile pervertitore di tutte, bandito nella testa, dopo d'avere errato qua e là, cangiato più volte d'abiti, e di nome, chiese asilo in città ad un amico, che lo accolse; ma come amico d'un tale uomo, o per timore, o per ottener grazia di qualche altro delitto, lo fece uccidere in un sotterraneo della casa, e presentò la sua testa al giudice, come era prescritto dagli ordini di quel tempo, i quali nel caso dei banditi costituivano carnefice ogni cittadino, e offerivano o danari, o impunità per altri delitti in mercede all'assassinio.
---------
Lucia uscì nella via, e s'incamminò con grande attenzione, con gran riserbo, con un gran battito al cuore, tutta raccolta in sè, studiando la strada, con le indicazioni che aveva avute, e con la memoria che le restava della strada già fatta.
Giunse così all'uscita del borgo (perché il convento dov'ella s'avviava era al di fuori in picciola distanza): riconobbe la porta per dov'era entrata la prima volta, e prese a sinistra la via che l'era stata insegnata.
Tutte le strade del Milanese erano a quel tempo anguste tortuose, e nel pian paese profonde e come quivi si dice invallate, a guisa di un letto di fiume, fra due rive di campi alte non di rado un uomo, e orlate di piante che intrecciate al pedale di rovi, di biancospini, e di pruni riunivano in alto i rami loro in volta dall'una all'altra parte: e tali sono ancora in gran parte le strade comunali.
Quando Lucia si trovò soletta in una strada simile, si pentì quasi di essersi tanto rischiata, e studiò il passo per giunger presto, proponendo fermamente di non ritornar dal convento a casa senza una qualche scorta.
Ma voltato uno di quei tanti andirivieni, vide una carrozza da viaggio ferma nel mezzo della via, e fuori della carrozza innanzi allo sportello che era aperto due uomini che guardavano su e giù per la via come incerti del cammino: e per quella presunzione comune che coloro i quali vanno in carrozza sieno galantuomini, Lucia si sentì tutta rincorata, e le parve d'aver trovata una salvaguardia alla metà appunto del cammino, nel luogo più lontano dall'abitato, e dove il bisogno era più grande.
Continuò adunque più animosamente a camminare; e quando fu presso alla carrozza tanto che si potessero distinguer le parole, intese uno di quelli che stavano al di fuori dire con una pronunzia e con un linguaggio che lo fece conoscere a Lucia per bergamasco: «Ecco una buona donna che c'insegnerà la strada».
Giunta a paro della carrozza, quel medesimo le si volse con un atto più cortese che non fosse la sua faccia, e le disse: «buona giovane sapreste voi insegnarci la strada di Monza?» Mentre costui parlava, l'altro s'era posto dinanzi a Lucia in modo da sbarrarle la via, ma come un uomo che sta per udire: «Loro signori», rispose Lucia, «sono voltati a rovescio: Monza è per di qua» (alzando la mano e stendendo il pollice al disopra della spalla): «girino la carrozza, e vadano per questa strada, e saranno a Monza in poco più d'un miserere».
Così detto, voleva continuare il suo cammino, e s'avvicinava alla riva per passare senza urtare quel forastiero che stava lì ritto come un termine, e senza dirgli che facesse largo, cosa che alla nostra povera forese sarebbe sembrata troppo famigliare.
«Un momento», disse colui che le aveva già parlato, ritenendola dolcemente: «noi siamo ben impacciati in queste strade dell'altro mondo: non potreste voi farci la cortesia di salire in carrozza con noi, e d'insegnarci la strada fino a Monza?»
«Signori miei», disse Lucia arrossando, e maravigliandosi della proposta, «io ho fretta d'andare pei fatti miei; vadano per di qua, e non possono fallire».
«Voi siete bene schifa», rispose il malandrino, e mentre egli proferiva queste poche parole, l'altro che era nella via, afferrò d'improvviso Lucia pei fianchi, la sollevò, e con l'ajuto del compagno la pose a forza nella carrozza, dove fu tosto presa, ritenuta, posta a sedere da due che vi erano: il malandrino che aveva parlato la seguì, l'altro chiuse lo sportello, e il cocchiere sferzò i cavalli, e la carrozza partì di galoppo.
Lucia al sentirsi presa levò un grido, lo raddoppiò quando si sentì alzata e ficcata nella carrozza, ma quando vi fu, una manaccia villana le cacciò un fazzoletto sulla bocca, e le soffocò il grido nella gola: Lucia si divincolava ma era tenuta da tutte le parti, faceva forza per pingersi verso lo sportello, per farsi vedere alla strada, ai campi, ma due braccia nerborute la tenevano per di dietro come conficcata al fondo della carrozza, due braccia nerborute ve la rispingevano per dinanzi, mentre tre bocche d'inferno dicevano con la voce più dolce che era lor concesso di formare: «Zitto, zitto, non abbiate paura, non vogliamo farvi male; non è niente, non è niente».
Lucia tra per la sorpresa, tra per lo terrore che andava sempre crescendo, tra pei pensieri tutti oscuri, e tutti orrendi che le passavano in furia per la mente, tra per lo sforzo che faceva e quello che pativa, sentì mancare gli spiriti: le sue idee si abbujarono, cominciò a veder come confusi fra di loro quegli orridi visacci che le stavano dinanzi, un sudore freddo le coperse il volto, allentò le braccia, lasciò cadere indietro la testa, abbandonò la persona al fondo della carrozza, e svenne.
«Coraggio, coraggio» dicevano gli scherani, ma Lucia non intendeva più nulla.
«Diavolo!» disse uno dei malandrini; «par morta».
«Niente, niente», disse un altro, «ci vorrebbe un po' d'aceto da mettergli sotto il naso».
«È lì covato l'aceto...» disse il terzo: «se potesse servire quel fiasco di vino che è riposto lì sotto il sedile».
«Che vino?» riprese il secondo, «aceto vorebb'essere».
«Vedete che mala ventura», disse ancora il terzo; «se giungessi arso di sete in una osteria disabitata, a cercar vino, troverei aceto, e qui che aceto ci vorrebbe...»
«Taci gaglioffo, che non è tempo da sciocchezze», interruppe il secondo.
«Ohe!» disse il primo, «non dà segno di vita: se fosse morta davvero avremmo fatta una bella spedizione».
«Noi abbiamo eseguiti gli ordini puntualmente», rispose il secondo; «se fosse accaduta una disgrazia non è nostra colpa».
«Che morta?» disse il terzo: «è un picciolo fastidio che le è venuto: eh! le donne ne hanno per meno d'assai: or ora tornerà in sè».
Mentre quegli sciagurati tenevano questo consiglio, ed esprimevano la loro inquietudine in uno stile degno del loro animo, la carrozza era uscita dalla via più battuta, aveva imboccata una stradella di traverso pei campi, e continuava rapidamente il suo cammino.
Intanto colui che aveva afferrata Lucia, ed era un bravo di Egidio rimasto nella strada quando la carrozza partì, si guardò intorno, e certo che nessuno lo aveva scorto spiccò un salto sul pendio d'una riva, abbrancò un ramo della siepe, con un altro salto fu sull'alto della riva, e si appiattò in un polloneto di castagni che conservavano ancora tanto delle lor foglie da nascondere un birbone.
Il primo grido di Lucia era stato inteso nei campi di qua e di là da pochi lavoratori che v'erano, e questi accorsero alla riva per guardare nella strada che fosse, ma cercando di adocchiare nascosti dalla siepe per non entrare in qualche impiccio, per non toccarne, per non essere citati come testimonj, per non arrischiarsi in somma, che è il pensiero il più comune nei tempi in cui i violenti fanno la legge.
Mettevano la faccia ai fori della siepe e guatavano: altri vide una carrozza che si allontanava di galoppo, e stette lì qualche tempo a seguirla col guardo a bocca aperta; altri non vide nulla e si fermò pure qualche tempo, altri che era accorso ad un punto della via per cui la carrozza non era ancora passata, la vide venire, trascorrere, vide una bocca d'arcobugio che usciva dallo sportello, e si ritirò tosto, fingendo di non aver nemmeno badato.
Tornati poi a casa, raccontarono quello che avevano veduto, e si sparse la voce che qualche cosa era accaduta.
Il bravo d'Egidio quando sentì tutto quieto intorno al suo nascondiglio, ne uscì per una parte che dava su una via diversa, e con l'aria d'un uomo che non ha intesa una novità se ne andò a render conto al padrone dell'esito felice della spedizione.
Egidio lo ricompensò di quattrini e di lodi, e lo mandò tosto attorno per raccontare la novella nel modo che ad entrambi e ai loro amici conveniva che fosse creduta, o almeno per confondere il giudizio pubblico e stornarlo dalle congetture che potevano condurlo alla verità.
Il bravo tolse con sè, senza saperlo, quella dea che ha tanti occhi quante penne, e tante lingue quanti occhi, (e debb'essere una bella dea) e si avviò.
Il campo più opportuno ad un tal uomo e ad un tale ufficio, la taverna, era allora deserto a cagione della carestia che di giorno in giorno cresceva e si diffondeva in tutte le parti del Milanese: mangiare e bere non era più per nessuno un oggetto di divertimento; era divenuto per tutti un bisogno difficile da soddisfare.
Andò dunque in su la piazza, luogo sempre popolato di oziosi, ma più che mai in quell'anno calamitoso, in cui erano forzati all'ozio anche i più operosi.
Quella piazza di Monza come tutte le piazze, tutte le vie, tutti i campi della Lombardia presentava il più tristo spettacolo.
Poveri di professione che dopo d'avere invano domandato un soccorso ad uomini divenuti poveri anch'essi, stavano in fila l'uno appresso dell'altro appoggiati ad un muro soleggiato stringendosi di tempo in tempo nelle spalle, aggrinzati, cenciosi, aventi un bordone nella destra, e tenendo stretta tra il braccio sinistro e le costole una arida scodella di legno, aspettando l'ora d'andare a ricevere quel poco nutrimento che si poteva distribuire alle porte dei conventi, dei monasteri, di qualche facoltoso caritatevole.
Qua e là crocchj di artigiani senza lavoro, di contadini quasi senza ricolto, di possidenti altre volte agiati ma che in quell'anno sapevano di dover combattere con la fame, tutti tristi, sparuti, scorati: i più rubesti, i meglio pasciuti che si vedessero erano qualche bravi, che vivevano delle provvigioni dei potenti a cui servivano, e ai quali nessun fornajo avrebbe osato di dare un rifiuto o di richiedere un pronto pagamento.
I discorsi abituali di quei crocchj erano miseria e disperazione: vociferazioni contra i fornaj e contra gli accapparratori, imprecazioni mormorate sommessamente contro i potenti, contra i magistrati, racconti di grano partito, di grano arrivato ed occultato, di morti di fame, e di tumulti in altre terre dello stato.
Pochi giorni prima una gran parte del popolo si era sollevata in Milano; e dopo quel sollevamento estinto con le promesse, e seppellito coi supplizj, si erano pubblicate leggi quali il popolo le desiderava.
Questo fatto era stato in tutta la Lombardia ed era ancora il soggetto dei discorsi; e il fatto come le conseguenze era narrato diversamente, come suole accadere: ognuno arrecava qualche nuova circostanza che dava luogo a qualche nuova riflessione.
Ma in quel momento in Monza l'avvenimento locale occupava tutti i pensieri, e tutte le bocche: in tutti i crocchj si parlava di Lucia.
Il bravo si avvicinò ad uno di quelli, come uno sfaccendato, e stette ascoltando.
«Erano due carrozze di signori bergamaschi» diceva un barbassoro, «accompagnate da uomini a cavallo: la giovane si mise a fuggire pel campo di Martino Stoppa, ma fu raggiunta, e portata via di peso».
E continuò con voce più sommessa in aria misteriosa: «debb'essere qualche gran tiranno bergamasco».
«Io ho inteso da chi l'ha inteso da uno che v'era», disse un altro, «che le carrozze erano tre, e che la gente le fece fermare; ma quei signori misero fuora gli archibugi, e allora, mi capite, i galantuomini hanno dovuto dar luogo».
«Poh!» disse il bravo, «vedete un po' come le cose si contano.
A me ha detto uno là (accennando un crocchio lontano) che la giovane era daccordo, che si era trovata lì per andarsene, e che quegli che l'ha portata via era un suo innamorato».
«Oh», disse uno, «se la cosa fosse così, se ne sarebbe andata senza schiammazzo».
«No», rispose il bravo, «perché aveva promesso ad un altro per far piacere ai suoi parenti; e voleva far credere di esser rapita.
Così dicono quelli che pretendono d'essere informati».
«Ohe!» disse un altro barbassoro, «che la fosse una mostra per ingannare i merlotti!» Questa opinione dopo un breve dibattimento prevalse; perché essendo quella che supponeva nel fatto una malizia più raffinata, veniva a supporre più fino accorgimento in chi la teneva: e chi l'avesse rifiutata poteva passare per un semplicione da lasciarsi ingannare alle più grossolane apparenze di virtù.
Quando il degno servitore di Egidio vide che la sementa non era gittata in terreno sterile e che avrebbe fruttato, si spiccò da quel crocchio dicendo: «Oh avete il buon tempo voi altri: per me m'accontenterei che sparissero tutte le giovani purché venissero pagnotte abbastanza».
Quegli altri ad uno ad uno se n'andarono chi qua chi là a riferire la storia; si disputò assai; le opinioni rimasero divise, ma la più preponderante fu quella che dava occasione di ragionare profondamente sulle astuzie delle donne che fanno la semplice, sulla dabbennaggine della Signora, che aveva raccolta quella mozzina.
Il tiro della povera Lucia fu raccontato con mille particolari; si riferirono di lei mille altre astuzie.
Il romore giunse ben presto al monastero: già la fattora tornata a casa, non trovando Lucia, sulle prime pensò ch'ella fosse andata alla Chiesa del monastero; non vedendola poi ricomparire, stava per andarne in cerca, quando s'intese che Lucia era stata rapita, o si era fatta rapire.
Il monastero fu sottosopra.
La Signora (quando ci siamo rallegrati di non aver più a parlarne ci era uscito di mente che avremmo dovuto far qui menzione di essa: ma ce ne sbrigheremo in due parole) la Signora a tutto addottrinata fece le maraviglie, mandò gente in cerca, non volle credere che Lucia le avesse fatto un tiro di questa sorta, disse che era pronta a metter la mano nel fuoco per quella ragazza.
Mandò finalmente a chiamare il padre guardiano che gliel'aveva raccomandata.
Ma il padre guardiano al quale pure erano giunti i diversi romori del fatto era in istrada, per udire dalla Signora come la faccenda fosse.
La Signora si mostrò con lui come con gli altri tutta maravigliata: disse che sperava ancora che Lucia verrebbe, che sarebbe una di quelle tante ciarle che mettono attorno gli scioperati.
«Se m'avesse ingannato...» aggiunse; «ma non lo posso credere di quella ragazza.
Ad ogni modo io sono tanto più afflitta di questo tristo accidente, in quanto io aveva pensato seriamente ad ajutare questa povera giovane, e credeva di aver trovato ajuti nelle mie aderenze per metterla al sicuro dal suo persecutore.
Aveva anzi molto desiderio di sentire il parere del padre guardiano, ma ora questi disegni non servono più a nulla».
È chiaro che la Signora gittò queste poche parole, per potere in caso spiegare la commissione da lei data a Lucia, se mai questa potesse un giorno rivelarla; per potere allora far vedere che non era stato un pretesto per allontanarla, e darla in mano ai rapitori.
Ma della commissione la Signora non ne parlò al guardiano; probabilmente perché non voleva che si dicesse che Lucia si era posta su quella strada per suo ordine, e ne nascesse qualche sospetto.
Se questa fosse una storia inventata, non mancherebbe certamente qualche lettore il quale troverebbe un gran difetto di previdenza nella perfidia ordita da Egidio e dalla Signora, poiché se Lucia avesse un giorno potuto parlare, se si fosse risaputo che quando fu presa ella andava per ordine di Geltrude, quanto maggior sospetto non sarebbe caduto sopra di questa, per avere essa taciuta al guardiano una circostanza tanto importante, della quale doveva così ben ricordarsi, che non avrebbe certo dissimulata se avesse operato schiettamente.
Quei lettori i quali vorrebbero che in una storia anche le insidie fossero fatte perfettamente, se la prenderebbero coll'inventore: ma questa critica non può aver luogo perché noi raccontiamo una storia quale è avvenuta.
Del resto questo stesso difetto ci dà il campo di porre qui una riflessione consolante in mezzo ad un sì tristo racconto: che è un disegno sapientissimo della Provvidenza regolatrice del mondo, che le perfidie le più studiate a danno altrui non sono mai tanto bene studiate, tanto bene eseguite che non rimanga sempre qualche traccia della mano che le ha ordite.
L'uomo che intraprende una buona azione, quando sia un po' avvezzo a riflettere prevede sovente che non sarà senza inconvenienti: i birbanti avrebbero una parte troppo buona nelle cose di questo mondo se dovessero nelle loro birberie essere esenti da ogni perplessità.
CAPITOLO X
La carrozza correva tuttavia velocemente, gl'indegni guardiani di Lucia, consultavano non senza sollecitudine su lo stato di essa, guardandola fisamente, cercando nel suo volto pallido e immobile le apparenze della vita, aspettando ansiosamente ch'ella ne desse alcun segno; quando la poveretta cominciò a rinvenire come da un sonno profondo, diede un sospiro, e aperse gli occhi.
Penò qualche tempo a distinguere i luridi oggetti che la circondavano, e a raccappezzare le idee già confuse, e incerte che avevano preceduto il suo deliquio, a confrontarle con le prime, che si affacciavano alla sua mente ritornata: finalmente a poco a poco riprendendo le forze riprese tutto il pensiero, e comprese la sua orribile situazione.
I bravi, senza ardire di porle le mani addosso, e guardandola con un certo rispetto le andavano facendo animo, e ripetendo: «coraggio, non è niente, non vogliamo farvi male: siamo galantuomini».
Il primo uso che fece Lucia della vita fu di gittarsi con forza verso lo sportello per vedere dove fosse, se gente passasse, se potesse lanciarsi al di fuori ad ogni pericolo: ma appena potè scorgere che il luogo ch'ella attraversava rapidamente era un bosco, che anima vivente non v'era: che le braccia villane che l'avevano già conficcata la prima volta al fondo della carrozza, ve la conficcarono di nuovo.
Levò ella allora un altro grido, ma la stessa manaccia tornò in furia con lo stesso fazzoletto, e il padrone di quella manaccia disse nello stesso momento: «Facciamo i nostri patti: noi non vi faremo male, non vi toccheremo, ma voi non cercherete né di fuggire né di gridare: già è inutile, ma pure se voleste tentarlo, noi siamo qui, amici o nemici, come vorrete».
«Lasciatemi andare», disse Lucia con voce soffocata dallo sdegno e dallo spavento: «lasciatemi andare subito, subito: io non son vostra, lasciatemi andare».
«Non possiamo», rispose il malandrino.
«Dove mi conducete? dove sono? voglio andare al convento dei cappuccini».
«Ohibò ohibò», disse sogghignando colui, «che le ragazze non istanno bene coi cappuccini.
Venite con noi di buona voglia».
«No no», rispose Lucia alzando la voce; ma il fazzoletto fu alzato.
«Lasciatemi andare per amor di Dio», ripigliò ella con voce più fioca.
«Dove mi conducete?»
«In casa di galantuomini, vicino a casa vostra», rispose il malandrino.
«No no», disse ancora Lucia: «lasciatemi andare».
«Ma se questo è contra i nostri ordini», rispose un altro.
«Chi vi può dare questi ordini?» domandò Lucia: «ricordatevi della giustizia, ricordatevi dell'inferno, ricordatevi della morte».
«Pensieri tristi», replicò quello dal fazzoletto: «voi ci volete far malinconia, e noi vi conduciamo a stare allegra».
«Santissima Vergine ajuto!» gridò Lucia, ma il malandrino con volto iracondo le protestò che s'ella gridava un'altra volta, il fazzoletto sarebbe rimasto sulla sua bocca fino a ch'ella fosse giunta al luogo destinato.
E sforzandosi d'esser garbato aggiunse: «già siamo vicini: parlerete con chi può comandare: noi siamo servitori che facciamo il nostro dovere: è inutile che ci diciate le vostre ragioni».
«Oh per amore di Dio, della Madonna», riprese Lucia in tuono supplichevole, con voce interrotta da singulti, e senza pur pensare ad asciugare le lagrime, che le rigavano tutta la faccia: «per amore di Dio, lasciatemi andare: io sono una povera creatura, che non vi ha mai fatto male: vi perdono quello che mi avete fatto, e pregherò Dio per voi: se avete anche voi una figlia, una moglie, una madre, qualche persona cara a questo mondo, pensate quello che patirebbero se fossero in questo stato: pensate all'anima vostra; fate una buona opera che vi può salvare: fatemi questa carità, acciocché Dio vi usi misericordia, lasciatemi qui».
«Non possiamo» risposero tutti e tre; commossi alquanto da quel lamento.
«Non possiamo», ripetè il capo; «ma non abbiate paura, fatevi animo; già non vi conduciamo in un deserto: state tranquilla: se volete parlare noi vi risponderemo; se volete tacere, noi non parleremo: non temete, nessuno vi toccherà»; e così dicendo si ristringeva contra la carrozza lasciando più spazio a Lucia perché stesse meno disagiata, perché non fosse oppressa da una vicinanza ch'egli stesso sentiva in quel momento quanto dovesse essere incomoda e ributtante.
Gli altri due, si andavano pure ristringendo dal loro lato, facendo luogo a Lucia, e tenendosi come in distanza, stornando gli occhi da quel volto accorato, ma fermi nel loro atroce proposito di eseguire la commissione: come il villanello che a fatica si è arrampicato all'albero per togliere un uccelletto dal nido, e lo tiene nelle mani, e lo sente dibattersi e tremare, e sente il cuore della povera bestiola battere affannosamente contra la palma che lo stringe; prova pure qualche pietà: allenta le dita alquanto per non affogare la povera bestiola, per non farle male; ma aprire il pugno, lasciarla tornare al suo nido: oh no! il figlio del padrone gli ha chiesto l'uccelletto, gli ha promessa una bella moneta s'egli sapeva snidarlo e portarglielo vivo.
Lucia dopo avere ancora indarno pregato; «ditemi dove mi conducete», richiese di nuovo.
«In casa di galantuomini, e non vi possiamo dire altro», rispose quegli che le stava vicino.
Lucia vedendo che le preghiere riuscivano inutili come la resistenza, e stanca dell'ambascia, e dello stento, incrocicchiò le braccia sul petto, si strinse nell'angolo della carrozza, in silenzio: e perduta ogni speranza di soccorso umano, si rivolse a Dio da cui tutto sperava; e pregò fervidamente da prima col cuore; indi cavato di tasca il rosario che teneva sempre con sè, cominciò a recitarlo con voce sommessa.
I bravi tacevano, guardando di tratto in tratto quello ch'ella faceva, e sospirando tutti il fine di quella spedizione: e Lucia di tempo in tempo fermandosi nella sua preghiera a Dio, per voltarsi a coloro in forza dei quali ella si trovava, e ricominciava a supplicarli: ma non udiva rispondersi altro che: «non possiamo».
La sua preghiera era esaudita, ma il momento non era venuto.
Erano già due ore che la carrozza correva, sempre per istrade deserte, attraversando boscaglie, e campi abbandonati alla felce ed alla scopa (una gran parte del territorio milanese era allora ridotta a quello stato dalle guerre, dalle gravezze insopportabili, dall'ignoranza, dalla specie di barbarie insomma in cui erano gli abitanti, e i legislatori).
Il sole declinava verso l'orizzonte quando Lucia sentì un romore continuo sempre crescente, come di un'acqua rapidamente corrente.
Era l'Adda infatti a cui la carrozza si avvicinava: il bravo che stava sulla serpe accanto al cocchiere urtò col gomito chiamando quelli di dentro; uno di essi pose la testa fuori dello sportello, e l'altro gli disse: «il battello c'è».
«Ah! bravo» dissero tutti e tre quei di dentro.
Lucia, vedendo che si stava per fare qualche cosa da cui doveva decidersi il suo destino, ricominciò le sue preghiere, ma il vicino lieto di essere alla fine della sua incombenza, e di non aver più a combattere con le istanze di quella infelice, le impose silenzio dicendo: «Zitto zitto; abbiamo altro in capo che di darvi retta ora: siamo occupati».
La carrozza si fermò presso la riva, quel della serpe fece un segno a cui fu risposto dal battello, e tosto ne uscirono tre bravi con una vecchia, e si avviarono verso la carrozza.
Lucia strillava, i bravi le comandavano di tacere replicando: «non abbiate paura, e già tutto è inutile; son tutti nostri amici».
Lucia allora si rannicchiò tutta alla carrozza invocando la Vergine nel cuore, e proponendo di lasciarsi piuttosto uccidere che di uscire volontariamente da quel luogo, il quale per quanto orrendo le fosse le pareva un asilo poiché vi aveva passate due ore, e non sapeva dove, a che sarebbe strascinata quando ne fosse fuori.
Mentre si stava così tutta rannicchiata, udì chiamarsi da una voce femminile, aperse gli occhi e vide allo sportello la vecchia rivolta verso di lei.
Una donna parve in quel momento a Lucia un angiolo del paradiso: si sollevò, e con volto supplichevole, e con una certa fiducia le disse: «Oh brava donna, che fate voi qui? ajutatemi, se questi sono vostri amici pregateli che mi lascino venire con voi; salvatemi, salvatemi».
«Scendete e venite con me», rispose la vecchia; indi rivolta ai bravi raggrinzando la fronte e scontorcendo la bocca: «Maladetti», disse, «le avete fatto paura?»
«Ma la vedete sana e salva...?» rispondeva il capo; quando Lucia, chinandosi e sporgendosi dalla carrozza a prendere con le mani le braccia della vecchia: «non dite niente», interruppe, «quel che è stato è stato, purché mi lascino venire con voi».
«Scendete, venite», disse la vecchia.
«Ma con voi sola», rispose Lucia.
«Andiamo andiamo», disse ancora la vecchia, e presa Lucia la strascinava, mentre i bravi della carrozza l'ajutavano a scendere quasi portandola.
«No no», disse Lucia.
«Zitto, zitto», disse la vecchia, «venite colle buone».
«Ma voi siete d'accordo con questi scellerati», gridava Lucia.
«Zitto zitto», continuava a dire la vecchia, e così Lucia fu portata al battello.
Guardò intorno e non vide altro che la boscaglia la riva e il fiume e il battello; alzò gli occhi, e vide al di sopra delle cime dei monti la cima tagliata a sega del Resegone, alle falde del quale era la sua casa, dov'era sua madre, dove aveva passati i primi suoi anni nella pace; e l'accoramento le tolse anco la forza di gridare; tutta grondante di lagrime, affannata, quasi fuor di sè, fu posta a sedere nel battello sotto la tenda: la vecchia le si pose accanto: il capo di quelli che erano venuti in carrozza saltò pure nel battello, stette al di fuori coi bravi venuti per acqua; i quali tosto puntati i remi alla riva ne fecero allontanare il battello, pigliarono l'alto del fiume, diedero dei remi nell'acqua, e il battello partì.
Appena Lucia ebbe ripreso un po' di fiato, si pose ginocchioni dinanzi la vecchia, domandandole dov'era condotta, pregandola di farla deporre su qualche riva, pregandola pei nomi i più temuti ed amati dai cristiani; ma la vecchia inflessibile, immobile, non rispose altro che «zitto, zitto».
Lucia ricominciò a pregare Colui che ode anche quando non risponde, si abbandonò alla sua provvidenza.
Dopo forse due altre ore di viaggio, il battello approdò: la notte precipitava, e Lucia sbigottita, tremante, non sapeva più in che mondo si fosse: fu tolta in questo stato dal battello, posta in una lettiga, e portata al castello del Conte del Sagrato.
La vecchia accompagnava la lettiga, entrò insieme in casa, la fece deporre in una stanza, dove rimase sola con Lucia, dicendo a coloro che l'avevano portata, che andassero ad avvertire il Signor Conte.
Ma il Signor Conte aveva già intesa dal Tanabuso la relazione del rapimento, del viaggio e dell'arrivo.
«Ebbene», aveva egli detto al Tanabuso, «fatto?»
«Fatto», rispose Tanabuso.
«A dovere?»
«A dovere».
«Non c'è stato bisogno di spiegar le unghie?»
«Tutto è andato quietamente»; e qui fece il Tanabuso la sua narrazione.
E aggiunse: «Tutto è corso a verso, com'ella vede, signor padrone; ma una sola cosa ci ha dato un po' di disturbo».
«Che è?» chiese il Conte.
«Quella ragazza», rispose il Tanabuso...
«quella povera ragazza...
un tal guaire, un tal piangere, un tal pregare...
restar lì come morta..., guardarci un po' come diavoli, un po' con gli occhi pietosi...
che...
che...»
«Che?» disse il Conte; «sentiamo un po' questa che vuol essere nuova, ribaldonaccio».
«Che mi ha fatto compassione».
«Ohe!» disse il Conte, «bisognerà che ti dia doppia mancia per quello che ha patito il tuo povero cuore».
«Possa io diventare un birro se non è così», rispose il Tanabuso; «mi ha fatto compassione.
Dico la verità Signor padrone, avrei avuto più caro che l'ordine fosse stato di darle una schioppettata, alla lontana, prima di sentirla discorrere».
«Ora», riprese il Conte, «lascia da parte la compassione, cacciati la via tra le gambe, vanne diritto al castello di quel Don Rodrigo...
Sai dov'è posto?».
Il Tanabuso accennò di sì: «fagli dire che sei mandato da me, dagli questo segno nelle mani, e torna a casa.
La giornata è stata faticosa, ma tu sai che il tuo padrone vuole esser servito ma sa anche pagare...»
«Oh illustrissimo!...»
«Taci, e vanne tosto...
ma no, aspetta: dimmi un poco come ha fatto costei per moverti a compassione.
Che abbia un patto col demonio?»
«Niente, niente, signor padrone, era proprio il crepacuore che aveva quella povera ragazza.
Se non avessi avuto un comando del mio padrone...»
«Ebbene?...»
«L'avrei lasciata andare».
«Oh! andiamo a vederla costei; e tu aspetta, partirai domattina...
dopo aver ricevuto i miei ordini...
tanto fa che quello inspagnolato aspetti qualche ora di più...
Domattina sii all'erta per tempo».
Il Tanabuso partì, facendo un inchino, e il Conte s'avviò alla stanza dove Lucia stava in guardia della vecchia.
Bussò, disse: «son io», e tosto il chiavistello di dentro corse romoreggiando negli anelli, e la porta fu spalancata.
Lucia si stava seduta sul pavimento, acquattata, accosciata nell'angolo della stanza il più lontano dalla porta, nel luogo che entrando le era sembrato il più nascosto, si stava quivi aggomitolata, con la faccia occultata, e compressa nelle palme, tutta tremante di spavento, e quasi fuor di sè: al romore che fece la porta, alla pedata del Conte che entrava trasalì, ma non levò la faccia, non mosse membro, anzi fece uno sforzo per ristringersi ancor più tutta insieme; e stette con un battito sempre crescente aspettando e paventando quello che avvenisse.
«Dov'è questa ragazza?» disse il Conte alla vecchia.
«Eccola», rispose umilmente la malnata.
«Come?» disse il Conte, «l'avete gettata là come un sacco di cenci».
«Oh s'è posta dove ha voluto».
«Ehi! quella giovane», disse il Conte avvicinandosi a Lucia: «dove diavolo vi siete posta a sedere? alzatevi; non voglio farvi male...
lasciatevi vedere».
Lucia non si mosse.
«Peggio per voi», disse il Conte; «se volete fare il bell'umore.
Ah! ah! non sapete dove siete.
Pretendereste voi di resistermi? Abbassate subito quelle mani ch'io voglio vedervi».
Queste parole furono dette con un tuono così minaccioso, che le mani di Lucia obbedirono quasi senza il comando della volontà: e Lucia lasciò vedere la sua faccia spaventata e dolente.
Alzò ella allora gli occhi al volto del Conte che la stava guardando attentamente; e dopo un momento, gli disse con una voce, in cui al tremito dello sgomento era mista la sicurezza d'una indignazione disperata: «Che male gli ho fatto io?»
«E che male voglio io fare a voi, scioccherella?» rispose il Conte, con voce più mite.
«Credete forse d'essere condotta al macello? Verrà un giorno che riderete di tutto questo vostro spavento, e riderete forse anche di me, che vi rispondo ora così sul serio».
«Ridere! oh Dio!» rispose Lucia «ridere!» e guardando un momento come smemorata, diede in un nuovo scoppio di pianto.
«Sì sì, tutte voi altre fate così», replicò il Conte.
«Ma perché», riprese Lucia, «mi fa ella patire le pene dell'inferno? Mi dica che cosa le ho fatto? Oh non mi faccia più patire così: Dio glielo potrebbe rendere un giorno...»
«Dio: Dio: sempre Dio coloro, che non hanno niente altro: sempre rinfacciar questo Dio, come se gli avessero parlato.
Dov'è questo vostro Dio?»
«È da per tutto, è qui», rispose Lucia: «è qui a vedere s'ella si muove a pietà di me, per usarle pietà in ricambio un giorno.
Oh abbia misericordia d'una poveretta, mi lasci andare, lasci ch'io mi ricoveri in qualche Chiesa, su le montagne, in un bosco.
Oh lo vedo; tutto dipende da lei: con una parola ella mi può salvare: dica questa parola.
Non so dove sono, ma troverò la strada per andare da mia madre.
Oh Dio! non è forse lontana: ho visto i miei monti: oh s'ella sentisse quel ch'io patisco! non conviene ad un uomo che ha da morire, far tanto patire una creatura innocente: mi lasci andare; oh se pregherò Dio per lei! la benedirò sempre».
E animata nel suo discorso si levò da sedere, si pose in ginocchio, giunse le mani al petto, e continuò: «Che cosa le costa dire una parola? Non iscacci una buona ispirazione, un sentimento di pietà.
Oh Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia!»
- Che pazza curiosità ho avuto di venirla a vedere - pensava tra sè il Conte.
- Dugento doppie! ne ho bisogno.
Costoro vogliono esser ben pagati; eh! hanno ragione: espongono la loro vita: ma vorrei piuttosto toglierne cinquanta a quattro usuraj, e farli scannare tutti e quattro.
«Non mi dica di no», continuava Lucia, sempre singhiozzando, «sono una povera figlia.
S'ella provasse a pregare, a pregare, a cercar misericordia senza poterla ottenere! E se le accadesse una disgrazia!...
ma no, no io pregherò per lei il Signore e la Vergine...
mi lasci andare...»
«State di buon animo», rispose il Conte, senza intenzione di nulla promettere, senza sapere egli stesso che senso avessero le sue parole, ma spinto da un bisogno di far cessare quell'angoscia e quel lamento, di consolare quella creatura.
«Oh», disse Lucia, «Dio la benedica, ella mi lascia andare».
«State di buon animo», ripetè il Conte, «cercate di riposare...
domani...
parleremo...»
«E voi», rivolto alla vecchia, «voi», disse, «fate ch'ella non abbia da lagnarsi pure di una parola torta.
Ora vi si allestirà la cena...
ristoratevi, e dormite tranquilla».
«No, no», rispose Lucia, «mi lasci andar subito...»
«Domani...
domani ci parleremo», replicò il Conte, e con un rapido movimento andò verso la porta, ed uscì.
Lucia, tutta piena della speranza di ottenere la sua liberazione si alzò, e volle correr dietro al Conte, ma quando si trovò sull'uscio non ardì movere un passo più in là, né chiamare: tornò indietro come spaventata, e si raccosciò di nuovo nel suo angolo.
«Volete dunque cenare?» le disse la vecchia.
«No no; badate bene a non partire di qua» rispose Lucia, «ricordatevi di quello che vi ha detto il vostro padrone: chiudete la porta».
La vecchia obbedì, e tornata: «mettetevi a letto e dormite dunque», disse.
«No: io non mi voglio movere di qui» replicò Lucia.
«Che pazzie?...»
«Non voglio», replicò di nuovo Lucia, risolutamente: quel coraggio di disperazione ch'ella si sentiva da quando a quando era stato accresciuto e corroborato da quella compassione ch'ella aveva veduta nel Conte, dalle parole di speranza che egli le aveva date, e dagli ordini ch'egli aveva lasciati con impero alla vecchia.
- Ih! ih! che fummo ha costei, - disse tra sè la mala vecchia.
- Maladette le giovani che hanno sempre ragione e quando sono svergognate e quando fanno le smorfiose.
«Badate a non ispegnere quella lucerna», disse Lucia.
«Sì sì», rispose la vecchia, e senza più rivolger la parola a Lucia si coricò brontolando.
Lucia rimase nel suo angolo.
Era questo per lei, in quella orrenda giornata il primo momento di riposo; ma quale riposo.
I pensieri che l'avevano assalita tumultuosamente, ad intervalli nel giorno, tornarono tutti in una volta ad assediare la povera sua mente.
Le memorie così recenti, così vive, così atroci di quelle ore, di quel viaggio, di quell'arrivo, si affollavano alla sua fantasia; l'avrebbero oppressa se fossero state memorie d'un pericolo trascorso: e che dovevano fare, nel mezzo del pericolo stesso, nella durata, nella orribile incertezza dell'avvenimento! Qual passato! e qual presente! quel silenzio, quella compagnia, quel luogo.
Qual notte! e per giungere a qual domani! L'infelice intravedeva ben qualche cosa della orditura spaventosa del laccio dove era stata tirata, ma rifuggiva dal pensiero di scoprirne più in là.
Di quando in quando le parole di speranza del Conte la rincoravano: le andava ripetendo fra sè, s'immaginava di essere l'indomani fuori di quell'antro con sua madre, ma un altro avvenire possibile rispingeva questa immaginazione, e a tutta forza veniva a collocarsi nella sua mente.
Tremava, si faceva animo, sperava, disperava, pregava: le forze del corpo finalmente cedettero ad un tale combattimento dell'animo, e Lucia fu presa da una febbre violenta.
Le sue idee divennero più vive, più forti, ma più interrotte, più mescolate, più varie, si urtarono più rapidamente, e la confusione togliendole una parte della coscienza, rese sofferibile una angoscia che altrimenti ella non avrebbe potuto sofferire e vivere.
Nel calore della febbre, le parve ad un tratto che la preghiera sarebbe stata più accetta, certamente esaudita, se con la preghiera ella avesse offerte in sagrificio quelle che altre volte erano state le sue più liete speranze.
L'unica speranza di quel momento, quella di uscire da quel pericolo, le parve con questo divenire più fondata, più ferma: aperse gli occhj, li girò con sospetto e con ansietà nel barlume di quella stanza; tese l'orecchio, e non udì altro che il russare della vecchia; si levò chetamente, stette ginocchioni; e votò alla Vergine di viver casta, senza nozze terrene, s'ella poteva uscire intatta da quel pericolo.
Proferito il voto, o, quello che a Lucia parve tale, ella si sentì come racconsolata; si raccosciò nel suo angolo, e passò il resto della notte in un letargo febbrile, interrotto da sussulti, e da vaneggiamenti.
Il Conte partito da quella stanza andò secondo il suo costume a visitare i posti del suo castello, a vedere se le guardie erano poste ai luoghi stabiliti, se tutto era in ordine, e si chiuse nella sua stanza.
Ma l'immagine di Lucia non l'aveva mai abbandonato nel suo giro; ma quando egli si trovò solo nella sua stanza, senza più nulla da fare che d'ascoltare i suoi pensieri, e di dormire se avesse potuto, quella immagine più viva, più potente si pose a sedere nella sua mente, e vi stette.
- Che sciocca curiosità da femminetta, m'è venuta, - andava egli pensando, - di andare a vedere questa giovane? Ho dovuto sentire dalla sua bocca di quelle cose che nessun uomo vivente avrebbe ardito dirmi sul volto.
Le ho sentite, e mi seccano.
Perché non è figlia d'uno spagnuolo? o di qualcuno di quei sozzi birbanti che m'hanno bandito: che avrei goduto di sentirla guaire, di vederla tremante ai miei piedi.
Ma costei non mi ha mai fatto male...
Ecco, lo andava ripetendo...
pareva sapesse che questa era la corda da toccare per farmi compassione...
Compassione!...
ma certo io ho avuto compassione: la sento ancora...
e qualche cosa di peggio...
Che diavolo ho io addosso questa notte?...
Ha fatto compassione perfino al Tanabuso! Oh aveva ragione quella bestia, quando disse che sarebbe stato men male averle data una schiopettata...
Poveretta! una schiopettata...
no credo che mi avrebbe fatto compassione anche morta.
Eh sciocchezza! i morti almeno non si stanno a guardare, non si sentono, non vi si mettono ginocchioni davanti...
è un conto saldato.
Dicono mo' i preti che un giorno hanno a risuscitar tutti quanti! Poh! imposture! imposture, non è vero, non è vero.
Vorrebb'essere una bella processione.
E qui cominciarono a schierarsi dinanzi alla sua memoria tutti quelli ch'egli aveva cacciati o fatti cacciare dal mondo, dal primo, ch'egli essendo ancor giovanetto aveva passato con una stoccata per una rivalità d'amore, fino all'ultimo che aveva fatto scannare per servire alla vendetta di un suo corrispondente; tutti coi loro volti, nell'atto del morire, e quelli che egli non aveva veduti, ma uccisi soltanto col comando, la sua fantasia dava loro i volti e gli atti.
- Via, via, sciocchezze, - diceva: - sono io diventato un ragazzo? domani a giorno chiaro riderò di me.
E se domani a sera costoro mi tornassero in mente? che dovessi passar sempre la notte così? Diavolo! comincio ad invecchiare: vorrebb'essere un tristo vivere, e un tristo...
morire.
Che cosa m'ha detto quella poveretta? «Oh Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia...» Che sa mai quella contadina? L'ha inteso dire dal curato e lo ha creduto.
Imposture.
Ho sempre detto imposture, e quando aveva proferita questa parola, bastava...
ma adesso non serve...
tornano sempre quei pensieri.
Sono io quello? Sono stato tanto tempo un uomo, non ci ho pensato; ho avuto l'animo di farne tante, tante...
Ebbene! ne ho fatte troppe...
se non le avessi fatte...
in verità sarebbe meglio.
A buon conto l'opera di misericordia sono in tempo di farla.
Poniamo che appena fatto il giorno io entri nella sua stanza: la poveretta si spaventa; ma io le dirò subito, subito: «vi lascio in libertà, vi farò condurre a casa».
Oh come si cangerà in volto! che cose mi dirà! mi darà delle benedizioni che mi faranno bene.
Voglio badar bene a tutto quello che mi dirà.
e ricordarmene per pensarvi la notte.
Oh! sono fanciullaggini...
ma a buon conto io non posso dormire.
Ma quando verrà giorno! Che notte eterna! Mi pare quella notte ch'io passai ad agguatare dietro un angolo quel temerario di Vercellino che doveva tornare dal festino di corte...
Ecco, io stava lì cheto, cheto; quando sentiva una pesta, guardava fiso, fiso; non era egli, ed io ritto e cheto nel mio angolo: sento una pedata che mi par quella, sporgo il capo, guardo, è colui: fuori, addosso col mio stocco: mandò un gemito, e mi cadde sulle gambe, gli diedi una spinta, e me ne andai...
Oh che coraggio aveva allora! era un uomo! e in un momento sono diventato...
che cosa son diventato? che è accaduto? non son sempre quello? Ecco anche quel Vercellino vorrei non averlo ammazzato.
Se doveva pensare così un giorno, era meglio che avessi pensato così sempre.
Vieni o luce maledetta, ch'io possa uscire da questo covaccio di triboli, e andare a vedere quella ragazza.
Ma devo lasciarla andare? Vedremo: vedremo come mi sentirò.
Se potessi dormire almeno un'ora, forse mi sveglierei coll'animo di questa mattina!
In questi e simili pensieri passò il Conte del Sagrato quasi tutta la notte; finalmente, non essendo il giorno lontano, la stanchezza lo vinse, e si assopì.
Ma i pensieri che avevano riempiuta la sua veglia, trasmutati ora alquanto e rivestiti di forme più strane e più terribili lo accompagnarono nel sonno.
Era già levato il sole, e il Conte stava affannoso sotto il giogo di quei sogni rammentatori, quando a poco a poco egli cominciò a risentirsi scosso come e quasi chiamato da un romore monotono, continuo, insolito: stette alquanto tra il sonno e la veglia, e finalmente tutto desto, e gettato un gran sospiro, riconobbe un suono festoso di campane, e pensò che potesse essere, né gli sovvenne di cosa che potesse essere allora cagione di festa.
Si alzò, si vestì rapidamente, e prima d'andare alla stanza di Lucia (che la risoluzione gliene era rimasta) si fece alla finestra della sua stanza che dominava il pendio, prima rapido, poi più lento e quasi piano fino al lago; e qua e là villaggi sparsi, e case solitarie.
Guardò intorno, e vide contadini e contadine in abito da festa per tutti i viottoli avviarsi verso la strada che conduceva al Milanese; altri uscire dalle porte, e parlarsi quelli che s'incontravano in aria di premura e di festa.
- Che diavolo hanno in corpo costoro? - diss'egli fra sè, e tosto chiamato uno de' suoi fidati, domandò la cagione di quel movimento e di quel concorso; e intese che s'era risaputo la sera antecedente che il Cardinale Federigo Borromeo arcivescovo di Milano era giunto improvvisamente a Lecco per visitare le parrocchie di quei contorni; che quella mattina doveva trovarsi ad una chiesa (che nominò, ed era alla metà della via, distante circa due miglia dal castello) e che tutti accorrevano a vedere quell'uomo il quale dovunque si portasse attraeva sempre folla.
Il Conte congedò con un cenno del capo il fidato, e rimase ancora un momento alla finestra a guardare, dicendo fra sè: - Come sono contenti costoro! E perché? Perché è arrivato un uomo che si porrà un bell'abito, e darà loro delle parole, e alzerà le mani tagliando l'aria in croce.
Oh! come saltano: sembrano cavriuoli: eh! avranno forse..., certo, dormito meglio di me! Tanto contenta questa canaglia...
ed io...
Voglio andare anch'io; voglio veder quest'uomo, che li fa esser tanto vogliosi, tanto contenti.
Andrò, andrò.
Voglio parlargli; voglio un po' sentire se ha qualche cosa anche per me! vedere quel volto, sentire queste sue parole che fanno sparire le afflizioni.
Voglio vedere se ha ancora quegli occhj che hanno fatto abbassare i miei...
cospetto...
cinquant'anni sono.
Era uno strano giovanetto! E ora che sarà? ne dicono tante cose! Oh sarà peggio d'allora certamente! Ma che ho io paura di brutti musi? Io andare da lui: a che fare? che dirgli? Certo mi mostrerà due occhj più arrovellati di quel giorno...
Non importa: voglio andare a sentire che parole ha costui, per render la gente così allegra.
L'occhiata che aveva fatta tanta impressione e lasciato un così profondo marchio di rimembranza nella mente del Conte era stata data nella occasione che ricorderemo brevemente.
Federigo Borromeo, giovanetto allora di 15 anni si trovava nella chiesa di Giovanni in Conca nel giorno solenne di quel santo; e aveva pregato e invitato poscia dai frati s'era posto a sedere nel presbitero e quivi assisteva pensoso e riverente al rito che si celebrava.
Quando una brigata di giovanetti, di adolescenti delle principali famiglie della città, entrata a turba nella Chiesa per curiosità, e visto in quel luogo il giovane Federigo, che sempre con l'esempio, e talvolta con le parole gli faceva vergognare del loro vivere superbo scioperato molle e violento, s'accordarono di fargli fare una trista figura, di vendicarsi, e di divertirsi un momento a sue spese.
Rotta la folla s'avvicinarono all'altare, e appostatisi in faccia a Federigo, si diedero a fare i più strani e beffardi atti del mondo, storcer le bocche, torcere il collo come chi irride un ipocrita, cacciare un palmo di lingua, sghignazzare.
Il Conte che fu poi del Sagrato era tra essi, anzi queglino erano con lui; perché egli non era mai stato secondo in nessun luogo, e in nessun fatto.
Federigo, contristato e mosso a pietà ed a sdegno nello stesso tempo, ma non confuso, girò su quella turba un'occhiata che esprimeva tutti questi affetti con una gravità tranquilla, ma più potente dell'impeto indisciplinato di quei provocatori; quindi piegate le ginocchia dinanzi all'altare, pregò per essi, i quali partirono col miserabile contegno di chi è stato vinto in una impresa in cui il vincere stesso sarebbe vergognoso.
Torniamo al Conte vecchio: il quale stette in fra due, se doveva prima andare alla stanza di Lucia.
Dopo aver pensato qualche tempo: - no - diss'egli fra sè -: non la vedrò: non voglio obbligarmi a nulla; voglio venirne all'acqua chiara con questo Federigo.
Potrei lasciarla andare, e pentirmi.
Se comincio a fuggire da uno spauracchio, a desistere da un'impresa, è finita, non son più un uomo.
Parlato che avrò con costui, mi convincerò che sono sciocchezze, e sarò più forte di prima...
o se...
costui...
mi facesse...
cangiare...
son sempre a tempo.
Andiamo, sarà quel che sarà.
Chiamò un'altra donna alla quale in presenza del Tanabuso impose che si portasse sola alla stanza di Lucia, che vedesse che nulla le mancasse, e che sopratutto ordinasse alla vecchia guardiana di trattarla con dolcezza e con rispetto: e che nessun uomo ardisse avvicinarsi a quella stanza.
Dato quest'ordine, pensò se dovesse pigliar seco una scorta; e - oh! via, - disse, - per dei preti e per dei contadini? Vergogna! Se vi sarà alcuno che non mi conosca non avrà nulla da dirmi: per quelli che mi conoscono...!
Così il Conte solo, ma tutto armato uscì dal castello, scese l'erta e giunse nella via pubblica, la quale brulicava di viandanti: la turba cresceva ad ogni istante: a misura che la fama del Cardinale arrivato si diffondeva di terra in terra, tutti accorrevano.
Ma in quella via affollata il Conte camminava solo: quegli che se lo vedevano arrivare al fianco, s'inchinavano umilmente, e si scostavano come per rispetto, e allentavano il passo per restargli addietro: taluno di quelli che lo precedevano, rivolgendosi a caso a guardarsi dietro le spalle, lo scorgeva, lo annunziava sotto voce ai compagni, e tutti studiavano il passo, per non trovarglisi in paro.
Giunto al villaggio, sulla piazzetta dov'era la Chiesa, e la casa del Parroco, trovò il Conte una turba dei già arrivati, che aspettavano il momento in cui il Cardinale entrasse nella Chiesa per celebrare gli uficj divini.
E qui pure tutti quelli a cui si avvicinava, svignavano pian piano.
Il Conte affrontò uno di questi prudenti, in modo che non gli potesse sfuggire e gli chiese bruscamente come annojato che era di quel troppo rispetto, dove fosse il Cardinale Borromeo.
«È lì nella casa del curato», rispose riverentemente l'interrogato.
Il Conte si avviò alla casa fra la turba, che si divideva come le acque del Mar Rosso al passaggio degli Ebrei, ed entrò sicuramente nella casa.
Quivi un bisbiglio, una curiosità timida, un'ansia, un non saper come accoglierlo.
Egli, rivolto ad un prete gli disse che voleva parlare col Cardinale, e chiedeva di essergli tosto annunziato.
Il prete che era del paese, fu contento d'avere una commissione del Conte per allontanarsi da lui, e riferì l'imbasciata ad un altro prete del seguito del Cardinale.
Quegli si ritirò a consultare coi suoi compagni; e finalmente di mala voglia entrò per dire a Federigo quale visita si presentava.
CAPITOLO XI
Giunti a questo punto della nostra storia noi ci fermiamo per qualche momento con gioja, come il viaggiatore del deserto s'indugia a diletto alla frescura ristoratrice d'una oasis ombrosa, dov'egli abbia trovata una sorgente di acqua viva.
Poiché ci siamo avvenuti in un personaggio, la memoria del quale apporta una placida commozione di riverenza, una nuova giocondità anche alla mente che già stia contemplando, e scorrendo fra gli uomini i più eletti che abbiano lasciato ricordo di sè sulla terra: or quanto più un po' di riposo nella considerazione di lui debb'essere giocondo a noi che da tanto tempo siamo condotti da questa storia per mezzo ad una rude, stolida, schifosa perversità, dalla quale certamente avremmo da lungo tempo ritirato lo sguardo, se il desiderio del vero non ve lo avesse tenuto a forza intento!
Federigo Borromeo fu uno degli uomini rarissimi in qualunque tempo, i quali adoperarono una lunga vita, un ingegno eccellente, un animo insistente nella ricerca «di ciò che è pudico, di ciò che è giusto, di ciò che è santo, di ciò che è amabile, di ciò che dà buon nome, di ciò che ha seco virtù, e lode di disciplina».
Nato coi più bei doni dell'animo, il primo uso che egli fece della sua ragione fu di coltivarli con ardore e con costanza, di custodirli con una attenzione sospettosa, come se fino d'allora egli ponesse cura a conservare tutta bella, tutta irreprensibile una vita, che in progresso di tempo avrebbe avute età così splendide: e infatti la vita di lui è come un ruscello che esce limpido dalla roccia, e limpido va a sboccare nel fiume: tutto ciò che si sa di lui è gentilezza, e sapienza: e gli errori stessi che la prepotenza dell'universale consenso aveva imposti alla sua mente, sono sempre accompagnati e quasi scusati da una intenzione pura, e l'applicazione di esse alle cose della vita è stata per lui un esercizio di tutte le virtù.
Fanciullo grave e sobrio, giovane pensoso e pudico, uomo operoso quant'altri mai fosse, senza mai nulla intraprendere, né maneggiare, né condurre a fine per un interesse privato di qualsivoglia genere, vecchio soave e candido, egli ebbe in ogni età le virtù più difficili, gli ornamenti più rari, ma non in modo che escludessero i pregi più comuni in quella età a tutti gli uomini.
Nutrito tra le pompe e lo splendore delle ricchezze, fra quel basso corteggio che coglie i fortunati del secolo alle prime porte della vita, per corromperli, per cattivarli, per farli fruttare, egli scorse dai primi suoi giorni che l'umiltà, e la staccatezza sono verità, bellezza, e le prescelse: posto sotto la disciplina del suo celeste cugino San Carlo, in presenza di quella virtù severa, e malinconica, l'animo puerile di Federigo non fu disgustato dalla severità, e sentì l'ammirazione e la docilità volonterosa per la virtù.
Si diede ardentemente allo studio dalla fanciullezza: ma i metodi stolti d'insegnamento, ma la confusione e la stoltezza delle cose insegnate, il sopracciglio comicamente grave dei maestri lo svogliarono dall'apprendere; e fu questo, o doveva essere il primo segno della eccellenza del suo ingegno.
Stomacato dei libri e delle lezioni si diede tutto all'armi e ai cavalli; ma durò in quegli esercizj sol tanto quanto bastasse a mostrarlo disposto ad ogni esercizio che domandi una prontezza di qualunque genere.
Il fanciullo voleva sapere, e andava interrogando tutti quegli che egli credeva sapienti; e da tutti gli veniva risposto, che i libri e la scuola soltanto potevano condurlo alla scienza.
Sospinto da questa uniformità di consenso, egli tornò voglioso ai libri ed ai maestri; e finì a stare con quelli perseverantemente, vincendo con la volontà le ripugnanze delle quali egli non poteva allora comprendere la ragione profonda.
Giovanetto fra i giovanetti nello studio di Pavia, egli trovò quivi stabilite consuetudini, massime, opinioni che distribuivano lode e biasimo alla differente condotta; e non ne fece alcun conto: regolò la sua condotta coi suoi principj, come avrebbe fatto in un eremo, senza esitazione, senza braveria; e solo da prima, opposto quasi in tutto al tipo prescritto dall'opinione, rifiutando tutte le cose che davano la gloria, facendo quelle che rendevano ludibrio, fu in poco tempo oggetto della venerazione dei suoi condiscepoli.
Uomo fatto poi, cardinale, arcivescovo, sempre continuò in quella disciplina, di meditare ciò che fosse il comandato, e il meglio, e di eseguirlo, non riguardando nei giudizj degli uomini se non ciò che potesse essere una vera ed utile correzione per lui, o il segno di una irritazione e di una resistenza dannosa ai resistenti, e che potesse essere impedimento al bene ch'egli intendeva di operare.
Fu quindi moderato ed umile tra il favore e gli applausi, placido e fermo tra i contrasti, non avendo di mira che la cosa da farsi, e il perché, e l'effetto.
Veduta la bellezza, l'utilità, e la possibilità d'un disegno, egli lo intraprendeva, ne curava attentamente il complesso e i minimi particolari con quella unità di attenzione che non sorprende chi rifletta alla unità ch'egli aveva del fine.
Edificò dai fondamenti la biblioteca a cui volle dare il nome di Ambrosiana, la dotò di libri, di manoscritti, di macchine, di monumenti d'arte, vi raccolse professori, e nello stesso tempo poneva cura che le reliquie della sua mensa piuttosto povera che frugale fossero diligentemente raccolte, e date ai poverelli; tutto era per lui benevolenza, e cura degli altri.
Così egli chiamò da lontano professori di lingue orientali per introdurre se avesse potuto, ogni coltura in quella rozza, ostinata, e presuntuosa barbarie nella quale egli sentiva di vivere; spedì uomini dotti quanto allora si poteva per l'Italia, per la Francia, per la Germania, per la Spagna, per la Grecia, nella Siria, a fare incetta di libri, di manoscritti, di ogni cosa che potesse essere stromento di studio e di coltura: e diede ad essi istruzioni, avviamenti, consigli: e per la medesima accuratezza di ben fare, in questa stessa carestia di cui abbiamo già toccato qualche cosa in questa storia, egli oltre i soccorsi che distribuiva, alla sua casa, alle case dei poverelli, pensò anche di mandare attorno sacerdoti, che raccogliessero i poverelli che mancanti di soccorso cadevano sfiniti per le vie, e dessero loro i conforti della religione: e insieme coi sacerdoti mandò facchini che portassero pane, vino, minestra, uova fresche, brodi stillati, aceto, per nutrire, per confortare coloro che cadessero per inedia; e tutti questi particolari erano meditati da lui, perché tutto quello che fosse utile era per lui importante, e l'idea grande e generale della carità era dal suo cuore applicata tutta intera nei minimi suoi particolari.
Così amava egli oltre ogni compagnia quella dei dotti, e dei poveri, per vivere sempre nell'esercizio delle sue più nobili facoltà.
E da tanta operosità, da tante cure del suo ministero, da tanti impicci in cui era tirato dalla confusione che in quelle cure stesse avevano introdotta la confusione delle idee, e le passioni degli uomini, egli sapeva togliere ancora assai tempo per impiegarlo nello studio degli scritti i più stimati di qualunque tempo e di qualunque nazione, e nel lavoro dei molti scritti ch'egli ha lasciati.
Noi non vogliamo qui esaminare tutti i pregi di quest'uomo; basti il dire ch'egli ebbe principalmente le virtù più difficili, cioè le più opposte ai vizj che signoreggiavano la generazione dei suoi contemporanei.
Già forse l'amore dell'argomento ci ha trasportati ad una prolissità nojosa; ma non possiamo a meno di non avvertire una di queste virtù, perché è quella che non certo per la sua importanza ma per la rarità ci sembra degna di osservazione; ed è la tranquillità e il contegno mirabile di Federigo.
In un tempo in cui opinioni, fatti, discussioni, odj, amicizie, delitti, giudizj, tutto era avventato e precipitoso, in cui le virtù stesse avevano qualche cosa per dir così di spiritato, e di fantastico, Federigo fu temperato, aspettatore, ponderato, lento nel credere, nell'operare, nell'affermare, tutto condì con una temperanza, che raddolcì in parte quell'impeto indisciplinato, e fu se non altro ammirata da quegli stessi che ne erano incapaci.
È cosa degna di maraviglia e di osservazione che il nome di un tal uomo, già ai nostri tempi, in una posterità così poco remota, sia non dirò dimenticato, ma certo non ripetuto così sovente come si fa degli uomini più illustri, che a questo nome sia appena associata una idea languida d'un merito incerto, d'una eccellenza indeterminata, che questo nome pronunziato fuori della patria di Federigo, e della società di quelli che più particolarmente si applicano alle cose nelle quali egli fu attore, o passi inavvertito, o riesca anche nuovo, e invece di risvegliare la memoria di una rara preminenza faccia nascere la curiosità di sapere che abbia fatto colui che lo portava, e che l'elogio che noi vi abbiamo unito abbia avuto bisogno di schiarimento e di prove.
E forse ancor più stupore deve nascere al pensare che un uomo dotato di nobilissimo ingegno, avido di cognizioni, e perseverante nello studio, sommamente contemplativo, e nello stesso tempo versato nelle società più varie degli uomini, e attore in affari importanti, abbia posta ogni cura nel comporre opere d'ingegno, ne abbia lasciato un numero che lo ripone tra i più fecondi e i più laboriosi; e che queste opere d'un uomo che aveva tutti i doni per farne d'immortali, non sieno ora quasi conosciute che dai loro titoli, nei cataloghi di quegli scrittori che tengono memoria di tutto ciò che è stato scritto in un tempo, in un paese.
Ma la spiegazione di questo fenomeno si può forse trovare nella condizione dei tempi in cui scrisse Federigo.
A produrre quelle parole o quei fatti che rimangono presso ai posteri oggetto di una ammirazione popolare non basta la potenza di un ingegno né la costanza di una volontà: è duopo che queste facoltà possano esercitarsi sopra una materia la quale abbia da sè qualche cosa di splendido, di memorabile: gli uomini di tutte le età rimasti insigni giunsero a quel grado di fama, o accompagnati da una folla d'uomini non insigni com'essi, ma pure partecipi dei loro studj, curiosi delle stesse cognizioni, ornati in parte della stessa coltura: o almeno combattendo contra errori, abitudini, idee, che avessero qualche cosa d'importante, di problematico, in quelle dottrine che sono un esercizio perpetuo dell'intelletto umano, trovarono in somma una massa di notizie e di opinioni, un complesso di coltura, sul quale fondarsi, dal quale progredire, al quale applicare gli aumenti e le correzioni per cui la memoria del genio rimane.
Che se pure è viva tuttavia la fama e le opere di uomini vissuti in tempi rozzissimi, lo è perché quei tempi erano sommamente originali, e quelle opere ne conservano il carattere, e mostrano ai posteri un ritratto osservabile d'una età che nessun'altra cosa potrebbe rappresentarci.
Ma Federigo Borromeo visse in tempi di somma, universale ignoranza, e di falsa e volgare scienza ad un tratto, fra una brutalità selvaggia ed una pedanteria scolastica, in tempi nei quali l'ingegno che per darsi alle lettere, a qualunque studio di scienza morale, cominciava (ed è questa la sola via) ad informarsi di ciò che era creduto, insegnato, disputato, a porsi a livello della scienza corrente, si trovava ingolfato, confuso in un mare tempestoso di assiomi assurdi, di teorie sofistiche, di questioni alle quali mancava per prima cosa il punto logico, di dubbj frivoli e sciocchi come erano le certezze.
Non v'è ingegno esente dal giogo delle opinioni universali, e già una parte di queste miserie diventava il fondamento della scienza degli uomini i più pensatori.
Che se anche i più acuti, profondi fra essi, avessero veduta e detestata tutta la falsità e la cognizione, di quel sapere, avessero potuto sostituirgli il vero, giungere al punto dove si trovano le idee e le formole potenti, solenni, perpetue; a chi avrebbero eglino parlato? E chi parla lungamente senza ascoltatori? Il genio è verecondo, delicato, e se è lecito così dire, permaloso: le beffe, il clamore, l'indifferenza lo contristano: egli si rinchiude in sè, e tace.
O per dir meglio prima di parlare, prima di sentire in sè le alte cose da rivelarsi, egli ha bisogno di misurare l'intelligenza di quelli a cui saranno rivelate, di trovare un campo dove sia tosto raccolta la sementa delle idee ch'egli vorrebbe far germogliare: la sua fiducia, il suo ardimento, la sua fecondità nasce in gran parte dalla certezza di un assenso, o almeno di una comprensione, o almeno di una resistenza ragionata.
Veggansi per esempio le opere di eloquenza di due sommi ingegni, vissuti in circostanze ben diverse nella età posteriore a quella di Federigo, Segneri e Bossuet.
Veggasi quali idee, quale abitudine di linguaggio, quali pregiudizj anche suppongano le orazioni funebri di questo negli ascoltatori di quelle; veggasi dalle prediche del Segneri che opinioni egli doveva distruggere, in che sfera d'idee egli doveva attignere i suoi mezzi, le sue prove per persuadere quegli ingegni, a quali costumanze egli doveva alludere; nella differenza dei due popoli ascoltanti è certamente in gran parte la spiegazione della somma distanza fra le opere di due ingegni ognuno dei quali era grande.
Prima che un popolo il quale si trova in questo grado d'ignoranza possa produrre uomini per sempre distinti, è d'uopo che molti sorgano a poco a poco da quella universale abiezione, che riportino su gli errori, su la inerzia comune molte vittorie d'ingegno difficili, e che saranno dimenticate; che attirino con grandi sforzi le menti a riconoscere verità che sembrano dover essere volgari, che preparino agli intelletti venturi una congerie d'idee delle quali o contra le quali si possano fare lavori degni di osservazione; e che finalmente col progresso, con la esattezza, con la fermezza e perspicuità delle idee migliorino a poco a poco il linguaggio comune, dimodoché i sommi ingegni possano avere uno stromento che renderanno perfetto, ma che pure hanno trovato adoperevole, possano per quell'istinto d'analogia che ad essi soli è concesso, arrivare a quelle formole inusitate, ma chiare, ardite, ma sommamente ragionevoli, nelle quali sole possono vivere i grandi pensieri.
Questo fa d'uopo; ovvero che la coltura più matura, più perfezionata d'un altro popolo venga ad educare quello di cui abbiamo parlato.
Allora gl'ingegni singolari attirati dalla luce del vero da qual parte ella si mostri, si levano dalla moltitudine dei loro concittadini, e tendono al punto che essi scorgono il più alto.
Cominciano allora le ire di molti, e i lamenti di altri contra l'invasione delle idee barbare, contra la dimenticanza delle cose patrie, contra la servilità agli stranieri, contra il pervertimento del linguaggio e del gusto; e non si può negare che queste ire e questi lamenti non atterriscano alcuni, e non gli contristino a segno di far loro abbandonare la via di studio intrapresa; giacché fargli ritornare al falso conosciuto è cosa impossibile.
Ma v'ha pure di quegli ingegni ai quali è per così dire comandato di fare; e questi tenendosi in comunicazione con un'altra età o con un'altra società d'uomini, dicono ai loro contemporanei cose che questi ascoltano da prima con disprezzo e con indifferenza, quindi in parte pure con qualche curiosità quando la fama viene dallo straniero ad avvertirli che fra loro v'è uno scrittore, imparano un poco mal loro grado, e sono poi quasi tutti concordi sul merito dello scrittore quand'egli ha dato l'ultimo sospiro.
Così, un secolo forse dopo Federigo, cominciò a rinascere in Italia un po' di coltura, e fra quella a sovrastare alcuni scrittori dei quali vivono le opere e la memoria; ma i principj di quel risorgimento non furono un progresso, un perfezionamento delle idee allora dominanti; fu una nuova coltura introdotta in opposizione alle idee predominanti; sul che tutti concordano.
Ma intorno alla sorgente di questa nuova coltura v'ha due opinioni estremamente disparate.
Alcuni, anzi moltissimi, hanno creduto, e detto che dal fondo della ricchezza letteraria del secolo decimosesto e dai pochi sommi scrittori più antichi sieno state tolte le idee le quali hanno rinovellato lo spirito della letteratura, e ricondotto il colto pubblico al senso comune; e che principalmente dai canzonieri del Petrarca e del Costanzo sia stata tolta la luce che dissipò le tenebre del seicento.
Infatti i primi riformatori, si posero, come alla faccenda più premurosa, ad imitare quelle rime che l'immortale Costanzo vergò, per placare, se fosse stato possibile, quell'empia tigre in volto umano, su la quale è così diviso e combattuto il sentimento della posterità.
Poiché, quando si pensa ai dolori intimi, incessanti, cocenti che quella tigre fece tollerare a quel celebre sventurato, non si può a meno di non sentire per essa, voglio dire per la tigre, un certo orrore, un rancore vendicativo.
Ma quando poi si venga a riflettere che senza quei dolori non sarebbero stati partoriti quei sonetti e quelle canzoni, che senza quei sonetti e senza quelle canzoni, l'Italia si rimarrebbe forse forse tuttavia nell'abisso del gusto perverso, allora si prova una certa non solo indulgenza, ma riconoscenza per colei che con la sua crudeltà fu occasione, fu causa d'un tanto utile e glorioso effetto, si vede allora quanto sia vero che le grandi cognizioni non vengono all'intelletto degli uomini che per mezzo di grandi dolori.
Questo è detto nell'ipotesi di coloro i quali tengono che la rivoluzione nelle lettere, il ritorno ad un certo qual senso comune, che ebbe luogo nel principio del secolo decimottavo, abbia cominciato dalla poesia, e sia venuto nella poesia dallo studio ripreso dei cinquecentisti, e del Costanzo in ispecie.
Ma non si deve dissimulare che v'ha alcuni altri (pochissimi invero) i quali tengono invece che la lettura degli insigni scrittori francesi, che fiorirono appunto nel tempo in cui le lettere in Italia erano più stolide e più vuote, cominciò a risvegliare alcuni italiani, a dar loro idea d'una letteratura nutrita di ricerche importanti, di ragionamenti serj, di discussioni sincere, d'invenzioni che somigliassero a qualche cosa di umano, e di reale, diretta a far passare nell'ingegno dei lettori una persuasione ragionata di chi scriveva, a condurre i molti ad un punto più elevato di scienza, di sentimento a cui erano giunti alcuni con una meditazione particolare.
Scorgono costoro che questi italiani cominciarono ad imparare dalla lettura di quei libri, e furono dal confronto nauseati degli scritti, dei giudizj, degli intenti, dei metodi, delle riputazioni, di tutta insomma la letteratura italiana di quel tempo; e cominciarono a porre essi nei loro scritti una cura più esatta a cercare un vero importante, e lo fecero con una mente più disciplinata, più addestrata a questa ricerca, e diffusero a poco a poco nei cervelli dei loro concittadini il buon senso che avevano attinto.
Questa tengono essi che fosse non la sola cagione, ma la principale, la prossima della rivoluzione generale e osservabile nel gusto letterario degli italiani.
I pochi i quali tengono questa opinione, si trovano in un bell'impiccio; perché mettendola fuori, sono certi di acquistarsi il titolo di cattivi cittadini; e fanno compassione; perché è doloroso il trovarsi tra la necessità o di negare la verità conosciuta, o di acquistarsi un titolo brutto e odioso.
E in verità noi vorremmo avere qualche autorità, qualche appicco, qualche entratura coi loro avversari, per poterli pregare di provare soltanto con ragioni di fatto che quella opinione è falsa, e di lasciare da banda quel titolo affatto estraneo alla questione, e fuori di proposito.
E infatti, se fosse a proposito, dovrebbe applicarsi a tutti gli uomini di qualunque nazione sieno, i quali riconoscano che la loro possa essere stata coltivata con gli studj d'un'altra: ora noi non applichiamo generalmente questa misura; poiché quando troviamo negli scritti d'un francese quella opinione che la Francia barbara, incolta, abbia ricevuta la luce delle lettere per mezzo dei grandi scrittori d'Italia; noi non chiamiamo quella opinione una ingiuria fatta da quegli scrittori alla loro patria, ma una generosa confessione del vero; non gli chiamiamo cattivi cittadini, ma uomini veggenti, candidi, imparziali.
Ricordiamoci adunque che l'adoprar peso e peso, misura e misura, è cosa abbominevole; e siamo coi nostri così giusti e indulgenti come siamo con gli stranieri; senza pregiudizio però, giova ripeterlo, delle buone ragioni, che si potranno dire quando a Dio piaccia, per provare a questi nostri che pigliano un granchio.
Per vedere una volta quale di queste due opinioni sia la più ragionevole, bisogna esaminare due gran fatti, o due serie di fatti.
La prima; in che consistesse principalmente la corruttela delle lettere nel seicento, se questa corruttela sia stata una deviazione forzata dalla via tenuta nel cinquecento, quali idee si siano perdute, quali pervertite da un secolo all'altro; giacché la corruttela delle lettere non può essere altro che smarrimento, o pervertimento d'idee, a meno che non si voglia ammettere una letteratura che non sia composta d'idee.
L'altra; quali, dopo quella abbominazione del seicento siano state le idee introdotte negli scritti italiani, le quali hanno riprodotta una letteratura ragionevole e splendida, hanno avvertita l'Europa che le lettere in Italia non erano più come lo erano state per un secolo, una buffoneria, un mestiere guastato, l'hanno costretta a rivolgersi con attenzione a questa parte per udire con la speranza di una istruzione, d'un diletto razionale, quali siano le idee uscite dall'Italia e ricevute in parte del patrimonio comune della coltura Europea.
Raccolti i sommi capi di queste idee della letteratura italiana risorta, bisognerà ancora cercarne la sorgente; vedere se sieno state riprese, svolte dagli scritti del cinquecento, o da che altra parte sieno venute a fare impeto nella letteratura italiana.
Quanto alla prima questione...
ma qui una buona ispirazione ci avverte che siamo fuori di strada; che musando così in ciarle di discussione mentre si tratta di raccontare, noi corriamo rischio di perdere, abbiamo forse già perduti i tre quarti dei nostri lettori; cioè almeno una trentina; tanto più che questa fatale digressione è venuta appunto a gettarsi nella storia nel momento il più critico, sulla fine d'un volume, dove il ritrovarsi ad una stazione è un pretesto, una tentazione fortissima al lettore di non andar più innanzi, dove è mestieri di una nuova risoluzione, d'un generoso proposito per riprendere e quasi ricominciare il penoso mestiere del leggere.
Noi tronchiamo dunque subitamente questa digressione, pregando quei pochi i quali l'avessero letta fin qui a fare le nostre scuse a quelli che per noja avranno gettato il libro a mezzo di questo capitolo, pregandoli anche di assicurarli che saltando tutto il capitolo avrebbero la continuazione della storia, e di prometter loro in nostro nome, che noi vi ci getteremo in mezzo a piè pari al principio del prossimo volume, che la continueremo senza interruzione, seguendo fedelmente il manoscritto, e mescolandovi del nostro il meno che sarà possibile.
TOMO TERZO
CAPITOLO I
Il Cardinale Federigo, secondo il suo costume in tutte le visite, stavasi in quell'ora ritirato in una stanza, dove dopo aver recitate le ore mattutine, impiegava quei momenti di ritaglio a studiare, aspettando che il popolo fosse ragunato nella Chiesa, per uscir poi a celebrarvi gli uficj divini, e le altre funzioni del suo ministero.
Entrò con un passo concitato ed inquieto il cappellano crocifero, e con una espressione di volto tra l'atterrito e il misterioso, disse al Cardinale: «Una strana visita, Monsignore illustrissimo».
«Quale?» richiese il Cardinale con la sua solita placida compostezza.
«Quel famoso bandito, quell'uomo senza paura e che fa paura a tutti...
il Conte del Sagrato...
è qui...
qui fuori, e chiede con istanza d'essere ammesso».
«Egli!» rispose il Cardinale: «è il benvenuto, fatelo tosto entrare».
«Ma...» replicò il cappellano, «Vostra Signoria Illustrissima, lo debbe conoscere per fama; è un uomo carico di scelleratezze...»
«E non è egli una buona ventura», disse il Cardinale, «che ad un tal uomo venga voglia di presentarsi ad un vescovo?»
«È un uomo capace di qualunque cosa», replicò il cappellano.
«E anche di mutar vita», disse il Cardinale.
«Monsignore illustrissimo», insistette il cappellano «lo zelo fa dei nemici, sono arrivate più volte fino al nostro orecchio le minacce di alcuni che si sono vantati...»
«E che hanno fatto?» interruppe Federigo.
«Ma se costui, costui che tiene corrispondenza coi più determinati ribaldi, costui che non si spaventa di nulla, venisse ora...
fosse mandato, Dio sa da chi per fare quello che gli altri...»
«Oh! che disciplina è questa», interruppe ancora sorridendo serenamente il vecchio, «che un officiale raccomandi al suo generale di aver paura? Non sapete voi che la paura, come le altre passioni, ad ogni volta che le si concede qualche cosa, domanda qualche cosa di più? e che a questo modo, di cautela in cautela, bisognerebbe ridursi a non far più nulla dei doveri d'un vescovo?»
«Ma questo è un caso straordinario», continuò il cappellano caparbio per premura: «Vostra Signoria non può così esporre la sua vita.
Costui è un disperato, Monsignore illustrissimo; lo rimandi; troveremo qualche onesta scusa...»
«Ch'io lo rimandi?» rispose con una certa maraviglia severa il Cardinale.
«Per farmene un rimprovero per tutta la vita, e renderne poi conto a Dio? Via via.
Già egli ha troppo aspettato.
Fatelo entrar tosto, e lasciatemi solo con lui».
Il cappellano non ebbe più coraggio di replicare, e fatto un inchino partì per obbedire, dicendo in cuor suo: - non c'è rimedio: tutti i santi sono ostinati -, epiteto che nel senso in cui l'adoperiamo il più sovente significa uno che non vuol fare a modo nostro.
Uscito nella stanza dov'era il Conte, qui pure solo in un canto, mentre tutti gli altri presenti si stavano raggruppati in un altro, a guardarlo e a parlare sommessamente, il cappellano gli si accostò, e gli disse che Monsignore lo aspettava; facendo nello istesso tempo, in modo da non essere veduto dal Conte, un cenno delle spalle e del volto agli altri, che voleva dire: - Quell'uomo benedetto; accoglierebbe Satanasso in persona.
Il Conte allora prese tosto una cintura con la quale teneva appeso l'archibugio, e facendolosi passare sul capo se lo tolse dalla spalla, si cavò dalla cintura dei fianchi due pistole, si staccò uno spadone, e fatto un fascio di tutto, si accostò ad uno dei preti che si trovavano nella stanza, gli consegnò quel fascio dicendo: «sotto la vostra custodia».
«Signor sì», disse il prete, e, non senza impaccio, allargando ben bene le mani, e ponendo cura che nulla ne sfuggisse, lo prese con delicatezza come avrebbe fatto d'un bambino da portarsi al Fonte.
Restava ancora un pugnale, di cui il manico d'avorio intarsiato d'oro sporgeva tra il farsetto e la veste: e gli occhi erano rivolti sul Conte, per osservare se egli compisse la buona opera di disarmarsi e desse anche questo al curato: ma il Conte non n'ebbe pure l'immaginazione: togliersi il pugnale era un pensiero troppo strano per lui: gli sarebbe sembrato di andar nudo.
Il cappellano aperse la portiera, ed introdusse il Conte; il Cardinale si alzò, gli si fece incontro, lo accolse con un volto sereno, e accennò con gli occhi al cappellano che partisse; ed egli partì.
Il Conte s'inchinò bruscamente, e guardò il Cardinale, abbassò gli occhi, tornò ad alzargli in quel venerabile aspetto.
Federigo era stato vezzoso fanciullo, giovane avvenente, bell'uomo; gli anni avevano fatto sparire dal suo volto quel genere di bellezza che al suono di questo nome si ricorda primo al pensiero; e già gran tempo prima ch'egli toccasse la vecchiezza, le astinenze e lo studio, avevano tramutate ed offuscate alquanto le forme di quel volto; ma le astinenze stesse e lo studio, l'abitudine dei solenni e benevoli pensieri, il ritegno e la pace interna d'una lunga vita, il sentimento continuo d'una speranza superiore a tutti i patimenti, avevano sostituita nel volto di Federigo a quella antica bellezza, una per così dire bellezza senile, la quale spiccava ancor più in quella semplicità sontuosa della porpora che nuda di ornamenti ambiziosi tutto ravvolgeva il vecchio.
Stava questi aspettando che il Conte parlasse, onde pigliare dalle prime parole di lui il tuono del discorso; giacché Federigo benché non sentisse quel genere di paura che il suo buon cappellano aveva voluto ispirargli, pure sapeva molto bene che bisbetico, ombroso e restio personaggio avesse dinanzi; e avendo presa di questa venuta una speranza indeterminata di qualche bene, non avrebbe voluto dire né far cosa che potesse guastare.
Stava egli dunque tacito, ed invitava il Conte a parlare con la serenità del volto, con un'aria di aspettazione amica, con quella espressione di benevolenza che fa animo agli irresoluti, e sforza talvolta i dispettosi a dire cose diverse da quelle che avevano pensate; ma il Conte stava sopra di sè, perché era venuto ivi spinto piuttosto da una smania, da una inquietudine curiosa, che dal sentimento distinto di cose ch'egli volesse dire ed udire dal Cardinale.
Dopo qualche momento però, ruppe egli il silenzio con queste parole: «Monsignore illustrissimo...
dico bene? In verità sono da tanto tempo divezzato dai prelati che non so se io adoperi i titoli che si convengono...
che si usano».
«Voi non potete errate», rispose sorridendo gentilmente Federigo, «se mi chiamate un uomo pronto a tutto fare, a tutto soffrire per esservi utile».
«Sì?» rispose il Conte, «davvero, Monsignore? Tale è il linguaggio comune...
dei preti principalmente, i quali dicono sempre che non vivono per altro che per servire altrui.
Ma per voi...
tutti dicono che non è un semplice linguaggio di cerimonia.
Ebbene, se fossi venuto per accertarmene? per vedere se egli è vero che voi siete così dolce, così paziente, così inalterabilmente umile? Se fossi venuto, per soddisfare ad una mia curiosità?»
«No, no», replicò, sempre sorridendo ma con una seria espressione di affetto il buon vescovo, «non è curiosità in voi di vedere quest'uomiciattolo che mi procura la gioja inaspettata di vedervi: sento che una cagione più importante vi conduce».
«Lo sentite, Monsignore? qual cagione di grazia? dicono tanti che voi sapete discernere i pensieri degli uomini? discernetemi il mio, per...
via mi fareste piacere: mostratemi che vedete nel mio cuore più ch'io non vegga: parlate voi per me, che forse, forse, potreste indovinare».
«E che?» disse il Cardinale come affettuosamente rimproverando: «Voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?»
«Una buona nuova! io! una buona nuova! ho l'inferno in cuore, e vi darò una buona nuova! Ah! ah! voi non vedete qua dentro.
Voi non sapete che io son venuto qui strascinato senza sapere da chi, che aveva il bisogno di vedervi, che vorrei parlarvi, e che in questo stesso momento io sento in me una rabbia, una vergogna di essere dinanzi a voi...
così, come una pinzochera...
Oh ditemi un po'; quale è questa buona nuova».
«Che Dio vi ha toccato il cuore, e vuol far di voi un altr'uomo»; rispose tranquillamente il Cardinale.
«Dio? ci siamo», replicò il Conte.
«Dio! quella parola che termina tutte le quistioni.
Dov'è questo Dio?»
«Voi me lo domandate», rispose Federigo, «voi? E chi l'ha più vicino di voi? Non lo sentite in cuore, che vi tormenta, che vi opprime, che vi abbatte, che v'inquieta, che non vi lascia stare; e vi dà nello stesso tempo una speranza ch'Egli vi acquieterà, vi consolerà, solo che lo riconosciate, che lo confessiate?»
«Certo! certo!» rispose dolorosamente il Conte, «ho qualche cosa che mi tormenta, che mi divora! Ma Dio! Che volete che Dio faccia di me? Foss'anche vero tutto quello che dicono, non ho altra consolazione che di pensare che nemmeno il diavolo non mi vorrebbe».
Il Conte accompagnò queste parole con una faccia convulsa, e con gesti da spiritato, ma Federigo con una calma solenne, che comandava il silenzio e l'attenzione, replicò: «Che può far Dio di voi? Quello che d'altri non farebbe.
Ricevere da voi una gloria che altri non gli potrebbe dare.
Fare di voi un gran testimonio della sua forza...
e della sua bontà.
Poiché finalmente, che vi accusino coloro ai quali siete oggetto di terrore, è cosa naturale; è il terrore che parla, e si lamenta, è un giudizio facile, poiché è sopra altrui, fors'anche in taluno sarà invidia; forse v'ha chi vi maledice, perché vorrebbe far terrore anch'egli: ma quando voi accuserete voi stesso, quando il giudizio sarà una confessione, allora Dio sarà glorificato.
Questo può far Dio di voi; e salvarvi».
«No: Dio non vuol salvarmi», replicò il Conte, con un dolore disperato.
«Non vuole?» disse il Cardinale.
«Io che sono un uomo miserabile, mi struggo del desiderio della vostra salute: voi non ne avete dubbio; sento per voi una carità che mi divora; e Dio che me la ispira, quel Dio che ci ha redento, non sarà grande abbastanza, per amarvi più ch'io non vi ami?»
La faccia del Conte fino allora stravolta dall'angoscia e dalla disperazione, si ricompose, si atteggiò al dolore; e i suoi occhi che dall'infanzia non conoscevan le lagrime, si gonfiarono, e il Conte pianse dirottamente.
«Dio grande e buono!» sclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: «che ho mai fatto io servo inutile, pastore sonnolento, perché tu mi facessi degno di assistere ad un sì giocondo prodigio?» Così dicendo, egli stese la mano per prendere quella del Conte.
«No», gridò questi, «no: lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica.
Non sapete quanto sangue è stato lavato da quella che volete stringere?»
«Lasciate», disse Federigo, afferrandogli la mano con amorevole violenza, «lasciate ch'io stringa con tenerezza - e con rispetto - questa mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti poverelli, che si stenderà umile, disarmata, pacifica a tanti nemici».
«È troppo!» disse il Conte singhiozzando.
«Lasciatemi, Monsignore...
buon Federigo: un popolo affollato vi aspetta...
tanti innocenti, tante anime buone...
tanti venuti da lontano per vedervi, per udirvi; e voi vi trattenete...
con chi!»
«Lasciamo le novantanove pecorelle», rispose Federigo amorevolmente; «sono in sicuro, sono sul monte: io voglio ora stare con quella che era smarrita.
Quella buona gente, sarà ora forse più contenta che se avesse tosto veduto il suo vescovo.
Chi sa che Dio il quale ha operato in voi il prodigio della misericordia, non diffonda ora nei cuori loro una gioja di cui non conoscono ancora la cagione? Son forse uniti a noi senza saperlo: forse lo Spirito pone nei loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera, ch'egli esaudisce per voi, un rendimento di grazie, di cui voi siete l'oggetto non ancor conosciuto».
Al fine di queste parole stese egli le braccia al collo del Conte, il quale dopo aver tentato di sottrarsi, dopo aver resistito un momento, cedette come strascinato da quell'impeto di carità, abbracciò egli pure il Cardinale, e abbandonò il suo burbero volto su le spalle di lui.
Le lagrime ardenti del pentito cadevano sulla porpora immacolata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo cingevano quelle membra, premevano quelle vesti su cui da gran tempo non avevano posato che le armi della violenza e del tradimento.
Sciolti da quell'abbraccio, il Cardinale disse con un affetto ansioso al Conte: «parlate: parlate; apritemi il vostro cuore: ditemi i pensieri che più vi tormentano; quello che hanno di più amaro si perderà passando su le vostre labbra; il dolore che vi resterà sarà misto di giocondità, sarà una giocondità esso medesimo: non vi lasceranno altra puntura che il desiderio di riparare al già fatto.
Dite: forse v'è qualche cosa a cui si può riparare ancora:...»
«Ah sì», interruppe il Conte; «v'è una cosa a cui si può riparare tosto: il fatto è turpe, è atroce, ma non è compiuto.
Lodato Dio, che non lo è.
Per farvelo conoscere è d'uopo ch'io appaja dinanzi a voi, per mia confessione, quello ch'io sono: uno scellerato...
e un vile birbone; ma non importa: quello che importa, è di cessare una crudele iniquità».
Federigo stava ansioso attendendo, e il Conte narrò dell'infame contratto di Lucia, del rapimento, dell'arrivo di essa al suo castello, delle sue suppliche, e dei primi pensieri che a cagione di queste gli erano venuti.
Il buon vescovo impallidì alla storia dei patimenti e dei pericoli di quella poveretta; ma quando intese ch'ella si trovava ancora al castello: «Ah!» disse «è salva, è intatta: togliamola tosto da quell'angoscia: ah voi sapete ora che cosa sono le ore dell'angoscia! abbreviamole a questa innocente.
Voi me la date...?»
«Dio!» sclamò il Conte; «che uomo son io, se mi si richiede come un dono ciò ch'io non ho in poter mio che per la più vile prepotenza! se mi si chiede per misericordia di non essere più un infame!»
«Il male è fatto», rispose Federigo: «quello che è da farsi è il bene, e voi lo potete; voi lo volete; Dio vi benedica.
Dio vi ha benedetto.
D'una iniquità, voi potete ancor fare un atto di virtù, e di beneficenza.
Sapete voi di che paese sia questa poveretta?»
Il Conte glielo disse; Federigo allora scosse il suo campanello; alla chiamata entrò con ansietà il cappellano, il quale in tutto quel tempo era stato come sui triboli, e veduta la faccia tramutata, umile, commossa del Conte, e su quella del Cardinale una commozione che pur traspariva da quella sua tranquilla compostezza; restò colla bocca aperta, girando gli occhi dall'uno all'altro; ma il Cardinale lo tolse tosto da quella contemplazione mezzo estatica e mezzo stordita dicendogli: «Fra i parrochi qui radunati vi sarebbe mai quello di...?»
«V'è, Monsignore illustrissimo», rispose il cappellano.
«Lodato Dio!» disse il Cardinale: «chiamatelo, e con lui il curato di questa chiesa».
Il cappellano uscì nell'altra stanza, dove i preti congregati aspettavano il suo ritorno con la speranza di saper qualche cosa d'un colloquio che gli teneva tutti sospesi.
Tutti gli occhi furono rivolti sopra di lui: egli alzò le mani, e movendole l'una contro l'altra con un gesto come involontario, tutto trafelato come se avesse corso due miglia, disse: «Signori, signori: haec mutatio dexterae Excelsi.
Il signor curato della chiesa e il signor curato di...
sono chiamati da Monsignore».
Il curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di sè una memoria illustre, se la virtù sola bastasse a dare la gloria fra gli uomini.
Egli era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in tutte le sue opere: l'amore fervente di Dio e degli uomini era il suo sentimento abituale: la sua cura continua di fare il suo dovere, e la sua idea del dovere era: tutto il bene possibile: credeva egli sempre adunque di rimanere indietro, ed era profondamente umile, senza sapere di esserlo; come l'illibatezza, la carità operosa, lo zelo, la sofferenza, erano virtù ch'egli possedeva in un grado raro, ma che egli si studiava sempre di acquistare.
Se ogni uomo fosse nella propria condizione quale era egli nella sua, la bellezza del consorzio umano oltrepasserebbe le immaginazioni degli utopisti più confidenti.
I suoi parrocchiani, gli abitatori del contorno lo ammiravano, lo celebravano; la sua morte fu per essi un avvenimento solenne e doloroso; essi accorsero intorno al suo cadavere; pareva a quei semplici che il mondo dovess'esser commosso, poiché un gran giusto ne era partito.
Ma dieci miglia lontano di là, il mondo non ne sapeva nulla, non lo sa, non lo saprà mai: e in questo momento io sento un rammarico di non possedere quella virtù che può tutto illustrare, di non poter dare uno splendore perpetuo di fama a queste parole: Prete Serafino Morazzone Curato di Chiuso.
All'udirsi chiamare, egli si spiccò da un cantuccio dove stava pregando tacitamente, e si mosse senz'altra premura che di obbedire, senz'altra curiosità che di vedere se vi fosse per lui qualche opera utile e pia da intraprendere.
L'altro chiamato era quel nostro Don Abbondio, il quale per togliersi d'impiccio era stato in gran parte cagione di tutto questo guazzabuglio: egli non poteva sapere, né avrebbe mai pensato che questa chiamata avesse la menoma relazione con quei tali promessi sposi, dei quali credeva di essere sbrigato per sempre.
Si avanzò anch'egli incerto e curioso, anche inquieto di dovere trovarsi con quel famoso Conte: pure lo rassicurava la faccia ispirata del Cappellano, quelle sue parole che annunziavano oscuramente cose grandi, e ciò che più stava a cuore di Don Abbondio, cose quiete.
Ambedue i curati furono tosto introdotti nella stanza dove il Conte stava col Cardinale.
Don Abbondio s'inchinò umilmente ad entrambi, e guardava l'uno e l'altro ma specialmente il Conte; e aspettava che si dicesse qualche cosa per esser certo che non v'erano imbrogli.
Il Cardinale, prese in disparte il curato di Chiuso, e dettogli brevemente di che si trattava, gli espose la sua intenzione di spedir tosto in lettiga una donna al castello a prender Lucia, affinché questa alla prima nuova della liberazione si trovasse con una donna, il che sarebbe stato per quella poveretta una consolazione e una sicurezza, non meno che decenza per la cosa; e lo pregò di sceglier tosto fra le sue parrocchiane la donna più atta a questo uficio per saviezza, e la più pronta per carità ad assumerlo.
«Ne corro in cerca, Monsignore illustrissimo, e Dio compirà l'opera buona».
Detto questo uscì; i radunati nell'altra stanza lo guardarono curiosamente, ma nessuno lo fermò per interrogarlo, giacché si sapeva ch'egli era così avaro delle parole inutili, come pronto a parlare senza rispetto quando il dovere lo richiedesse.
Il Cardinale si volse allora a Don Abbondio, e con volto lieto gli disse: «Una buona nuova per voi, Signor curato di...
Una vostra pecorella che avrete pianta come perduta, vive, è trovata; e voi avrete la consolazione di ricondurla al vostro ovile, o per ora in quell'asilo di che Dio la provvederà».
«Monsignore illustrissimo, non so niente»; rispose Don Abbondio, il primo pensiero del quale era sempre di scolparsi a buon conto, e di lavarsene le mani.
«Come!» disse Federigo, «non conoscete Lucia Mondella, vostra parrocchiana, che era scomparsa...?»
«Monsignore sì», rispose tosto il curato, che non voleva passare per un pastore spensierato.
«Or bene, rallegratevi», disse il cardinale, «che Dio ce la restituisce: e questo signore» continuò (accennando il Conte) «è lo stromento di che Dio si serve per questa opera buona.
In altro momento voi mi informerete dei casi e delle qualità di questa giovane».
- Ahi! ahi! - pensava fra sè Don Abbondio.
- Bell'impiccio a contare la storia! Questa donna è nata per la mia disperazione.
«Per ora», proseguì Federigo, «quello che preme è di riaverla e di riporla nelle braccia di sua madre, e in casa sua, se potrà esservi sicura.
Andrete voi dunque con questo mio caro amico» (e così dicendo prese la mano del Conte il quale lasciava dire e fare troppo contento che un tal uomo lo governasse e parlasse per lui) «andrete al suo castello accompagnando una buona donna di questo paese che ricondurrà quella giovane nella mia lettiga.
Per far più presto, darò ordine tosto che due delle mie mule sieno bardate per voi e per lui.
Vedete», continuò egli coll'accento di chi è compreso di ciò che dice, «vedete che in mezzo alle tribolazioni, ai contrasti, agli affanni del nostro ministero, Dio ci prepara talvolta consolazioni inaspettate, e servi inutili che noi siamo! pure ci adopera in opere nelle quali il bene è visibile, ci vuole cooperatori della sua provvidenza misericordiosa».
Le parole del Cardinale potevano esser belle, ma in questo caso erano veramente perdute.
Don Abbondio all'udire un tal ordine sentì tutt'altro che consolazione; si trattava di ricondurre in trionfo, alla presenza dell'arcivescovo quella Lucia nelle cui avventure egli si trovava intrigato un po' sporcamente, nella cui storia era parte, e in un modo e per motivi di cui l'ultima persona a cui avrebbe voluto render ragione era certamente quel Federigo Borromeo.
Ma questo non era ancora il peggio: si trattava di far viaggio con quel terribil Conte, di entrare nel suo castello senza saper chiaramente a che fare: tutto ciò che il curato aveva inteso raccontare in tanti anni della audacia, della crudeltà, della bizzarria, della iracondia di costui si affacciava allora alla sua immaginazione: e metteva in moto tutta quella sua naturale paura.
Ma questa timidezza stessa poi non gli permetteva di rifiutare, di fare ostacolo ad un ordine così preciso dell'arcivescovo, in faccia a colui che ne sarebbe offeso.
Vedendo poi quello pigliare amorevolmente la mano del terribil Conte, Don Abbondio stava guatando, come un ospite pauroso vede un padrone di casa accarezzare sicuramente un suo cagnaccio tarchiato, ispido, arrovellato, e famoso per morsi e spaventi dati a cento persone; sente il padrone dire che quel cane è bonaccio di natura, la miglior bestia del mondo; guarda il padrone e non osa contraddire per non offenderlo, e per non esser tenuto un dappoco; guarda il cane e non gli si avvicina perché teme che al menomo atto quel bonaccio non digrigni i denti e non si avventi alla mano che vorrebbe palparlo; non fa moto per allontanarsi perché teme di porgli addosso la furia d'inseguire; e non potendo fare altro, manda giù il cane, il padrone, e la sua sorte che l'ha portato in quel gagno, in quella compagnia: tali erano i sensi e gli atti del nostro povero Don Abbondio.
Pure componendosi al meglio che potè, fece egli un inchino al Cardinale per accennare che obbedirebbe, e un altro inchino al Conte accompagnato con un sorriso che voleva dire: - sono nelle vostre mani: abbiate misericordia: parcere subjectis -.
Ma il Conte tutto assorto nei suoi pensieri, sbalordito egli stesso di tanta mutazione, intento a raccogliersi, a riconoscersi, per così dire, agitato dai rimorsi, dal pentimento, da una certa gioja tumultuosa, corrispose appena macchinalmente con una piegatura di capo, e con un aspetto sul quale si confondevano tutti questi sentimenti in una espressione oscura e misteriosa, che lasciò Don Abbondio ancor più sopra pensiero di prima.
Il Cardinale, si trasse in un angolo della stanza col Conte che teneva per mano, e gli disse: «Vi par egli, amico, che la cosa vada bene così? Siete contento di queste disposizioni?»
«E che?» rispose il Conte commosso e umiliato, «dopo aver tanto tempo fatto il male a modo mio, dovrei ora dubitare di lasciarmi governare nel ripararlo? e da Federigo Borromeo?»
«Da Dio tutti e due», rispose questi, «perché siamo due poveretti.
Andate», continuò poi con tuono affettuoso e solenne; «andate, figliuol mio diletto a toglier di pene una creatura innocente, a gustare i primi frutti della misericordia; io v'aspetto, voi tornerete tosto non è vero? noi passeremo insieme tutte le ore d'ozio che mi saranno concesse in questa giornata?»
«Se io tornerò?» rispose il Conte.
«Ah! se voi mi rifiutaste, io mi rimarrei ostinato alla vostra porta come il mendico.
Ho bisogno di voi! Ho cose che non posso più tener chiuse in cuore, e che non posso dire ad altri che a voi.
Ho bisogno di sentir quelle parole che voi solo potete dirmi».
Federigo in risposta gli strinse la mano, si avvicinò ad un tavolino, scosse un'altra volta il campanello; e tosto entrò un ajutante di camera; cui egli impose che facesse tosto apprestar la lettiga la quale stesse agli ordini del curato di Chiuso, e facesse bardare due mule, che dovevano servire di cavalcatura ai due presenti.
Dato l'ordine, riprese la mano del Conte e s'avviò verso la porta della stanza; ma veduto passando il nostro Don Abbondio che stava tutto pensieroso e come ingrugnato, pensò il buon cardinale che quegli forse avesse avuto per male di vedere quel facinoroso così accarezzato e distinto, e sè negletto in un canto.
Si fermò tosto, e rivolto al curato con un sorriso amorevole, e quasi di scusa, e con quel tratto cortese tanto raro a quei tempi, in cui i modi comuni erano trascuratezza superba, o cortigianeria iperbolica, gli disse: «Figliuolo, voi siete sempre con me nella casa del nostro Padre comune; ma questi, questi...
perierat et inventus est».
Don Abbondio rispose con un sorriso forzato al quale voleva far dire: - certo è una gran consolazione -: ma in cuor suo tra sè e sè, rispose con una frase proverbiale lombarda: - meglio perderlo che trovarlo -.
Il Cardinale si avviò ancora verso la portiera; quando fu presso l'ajutante di camera spalancò le imposte, e Federigo, traendo per mano il Conte che lo seguiva con gli occhi bassi e con la fronte umiliata, uscì nell'altra stanza dove il clero che lo accompagnava nella visita, e quello raccolto dalle parrocchie del contorno, stava ragunato aspettando.
Tutti gli sguardi furono levati in un punto ai volti di quella coppia mirabile, sui quali era dipinta una commozione diversa, ma egualmente profonda: una gioja, una tenerezza, una estasi tranquilla sui tratti venerabili di Federigo, e su quelli del Conte i vestigi d'una grande vittoria e d'un grande combattimento, il contrasto tra le feroci passioni che partivano e le nuove virtù, un abbattimento che mostrava tuttavia il vigore di quella selvaggia e risentita natura.
A più d'uno dei riguardanti sovvenne allora di quelle parole d'Isaia: Il lupo e l'agnello pascoleranno insieme; il leone participerà alla profenda del bue.
Il Cardinale s'arrestò un momento poco al di là della soglia, abbracciò ancora il Conte, il quale non ebbe tempo di ritirarsi, e gli disse: «v'aspetto»; salutò della mano Don Abbondio, e mostrò di volersi avviare alla sacristia: parte del clero lo precedette, altri lo circondarono, alcuni gli tennero dietro, e la comitiva partì, giunse alla sacristia, dove il cardinale si vestì degli abiti solenni, ed uscì nella chiesa affollata a celebrare gli uficj divini.
Quando fu cantato il Vangelo, il Cardinale parlò dall'altare al popolo, come era suo costume.
In quel tempo in cui la carestia era l'idea la più famigliare, e l'affare il più importante, si diffuse egli con eloquenza cordiale a parlare di pazienza e di liberalità; a far sentire ai poverelli il bene che potevano cavare dai patimenti irrimediabili, agli agiati il bene che potevano farsi col rimediare a quei patimenti che avessero potuto: e le parole dell'uomo di Dio, produssero ivi come da per tutto il doppio effetto ch'egli cercava; perché quelle parole erano rese ancor più potenti dal soccorso e dall'esempio.
Le largizioni abituali di Federigo le quali non avevano altro limite che il suo avere, gli avevano data una fama già antica di carità singolare: ma le angustie di quel tempo avevano resa la sua carità ancor più attiva, e più ingegnosa; e da per tutto si parlava del gran numero di poveri da lui nudriti quotidianamente nella città, e dei mezzi da lui trovati per soccorrerli, per non perderne uno se fosse stato possibile.
Peregrinando poi nella diocesi per visitarla, egli non avrebbe avuto il cuore di vedere delle miserie senza sollevarle, di esortare altrui alla pazienza, alla carità, con le mani chiuse: quindi i poverelli dei paesi dov'egli arrivava erano certi di trovare un soccorso, di non patire per quel tempo che avrebbero avuto fra loro il pastore.
Nè questo solo esempio si contentava egli di dare: sobrio in ogni tempo, in quelli della carestia egli si misurava ancor più scarsamente il cibo: voleva detrarre a sè tutto ciò che poteva sollevare altrui; non gli pareva di compatire davvero ai suoi poveri se non pativa con essi; voleva mostrare col fatto che i disagi del vitto erano pur tollerabili, che si poteva anche in mezzo a quelli benedire il Signore, che si poteva non solo sostenerli con rassegnazione, ma eleggerli volonterosamente.
I quali sensi sono espressi in quelle sue belle parole: Sarebbe cosa molto disdicevole vedere grasso il pastore e macilenti le pecore.
Ma nel discorso, che Federigo tenne in quel giorno uscivano di quando a quando come dall'abbondanza del suo cuore parole più magnifiche, più tenere sulla misericordia, sulla conversione, sulla vita futura, le quali erano intese da quelli che lo avevano veduto col Conte, e in parte anche dal popolo, nel quale s'era sparsa confusamente la notizia della gran mutazione: e quelli che erano soliti di udirlo ebbero a dire che in quel giorno v'era nel suo dire qualche cosa d'ispirato e di celeste oltre l'ordinario.
Terminato il discorso, compiuto il Sagrificio, attese egli alle altre funzioni del suo ministero per lunghissima ora, con quell'ardore suo solito, con quella intensità volonterosa e continua, che non lasciava nemmeno da sospettare che vi fosse nelle sue azioni uno sforzo da lodare, un tedio vinto, una tolleranza virtuosa della fatica.
Intanto il Conte e il curato erano rimasti soli nella stanza: e la coppia era in un altro senso non meno mirabile di quella di prima.
Don Abbondio nojato del presente e inquieto dell'avvenire, ruminava fra sè che cosa potesse dire a colui, per assaggiarlo, per conoscere l'umore della bestia, giacché di voglia o di forza, doveva trovarsi con quella, e accompagnarla nella sua caverna: ma il pover uomo non sapeva raccappezzare un pensiero, una frase che stesse bene.
- Potrei, - andava masticando fra sè, - potrei dire: mi rallegro...
buono! se mi domanda di che, come posso rispondere? mi rallegro vuol dire che finora non c'era da rallegrarsi, vuol dire che egli era un gran birbone.
Costui è un matto furioso.
E se la piglia per traverso? È meglio parlare di cose estranee.
- E appena avuta questa ispirazione, Don Abbondio stava per dire: la giornata è un po' rigida; ma non è da stupirsene; siamo tra le montagne e ai ventidue di novembre.
Ma si pentì tosto anche di questa risoluzione: perché diceva egli fra sè: - non vedi come è accipigliato, meditabondo, turbato? Se gli fo motto di simili corbellerie, mi può rispondere in furia, e togliermi il coraggio di andare...
andare! bisogna andare.
Oh che faccenda! oh che impiccio! Oh quando potrò contarla a Perpetua, e dire: è andata bene!
Così si angariava il pover uomo, cercando nella sua mente qualche materia di discorso, e rigettando questa perché troppo ardita, quella perché troppo volgare; come un povero scrittore che abbia a fare con un pubblico difficile.
Se il Conte avesse potuto sospettare che la mente di Don Abbondio era ad una simile tortura, gli avrebbe tosto cercate le parole più atte a dare sicurezza anche ai pusillanimi; avrebbe fatto in modo d'infondere ogni coraggio a Don Abbondio: poiché il timore ch'egli ispirava sarebbe stato per lui in quel momento un rimprovero doloroso, un ricordo di tutto ciò che v'era stato in lui di feroce e d'ingiusto, di ciò ch'egli allora detestava, e voleva riparare.
Ma per disgrazia di Don Abbondio, era il Conte talmente occupato dei suoi pensieri, talmente distratto da tutto ciò che non era, egli, il cardinale, e Lucia, che non si avvedeva per nulla della tempesta che bolliva nell'animo del suo compagno, e a dir vero non si ricordava quasi ch'egli fosse presente.
Giunse alla fine l'ajutante di camera, a dire che tutto erA in pronto.
Don Abbondio guardò allora al Conte, il quale alla prima parola intesa s'avviò; s'accorse allora di Don Abbondio, e lo riverì, come si fa a persona che sopraggiunga; e quindi trovandosi già presso alla porta continuò il suo cammino seguendo l'ajutante di camera.
Don Abbondio che aspettava questo momento per vedere se il Conte gli usasse un atto di cerimonia anzi di civiltà, e pigliarne buon augurio, fu contristato della poca buona creanza del Conte; e gli tenne dietro con l'animo sempre più sconsolato.
Ma il Conte, come abbiam detto, era troppo sopra pensiero per ricordarsi del cerimoniale.
Scesi nel cortiletto della casa parrocchiale, trovarono la lettiga, con entro la donna istrutta dal buon curato; e presso alla lettiga le due mule tenute per la briglia da due palafrenieri.
Salirono entrambi in silenzio; i lettighieri uscirono per porsi sulla via che conduceva al castello, e i due cavalieri su le mule sempre guidate a mano dai due palafrenieri, la cui compagnia fu molto gradita a Don Abbondio, seguirono posatamente la lettiga.
CAPITOLO II
La casipola del curato era, ed è tuttavia, attergata alla chiesicciuola di quel paesello: la cavalcata per porsi in via doveva girare il fianco della chiesa, e passare davanti alla fronte sulla quale è voltato un arco che appoggiandosi dall'altra parte sul muro della strada forma tetto sopra di questa.
Già su la porta del curato cominciava la folla di coloro che non potendo capire in Chiesa, né stare in luogo dove si vedesse quello che vi si faceva, cercavano almeno di starvi più presso che si potesse.
Quella pompa singolare si affacciò alla turba, e i lettighieri che erano contadini del luogo domandarono il passo ai primi che lo impedivano, con un certo garbo inusitato che era loro ispirato dal sentimento indistinto che servivano a qualche cosa di santo e di gentile, dall'aver veduto il cardinale, dalla commozione che appariva su tutti i volti.
La folla faceva largo guardando ognuno quella comitiva con maraviglia e con curiosità, e il Conte con un riserbo che non era più quel solito terrore.
Così pian piano la comitiva si avanzava, quando giunse sotto il portico, dove si dovette rallentare ancor più la marcia per la folla di popolo chiusa fra i due muri; il Conte, guardando nella Chiesa dalla porta che era spalancata, si trasse il suo cappello piumato, e inchinò la fronte fino su la chioma della mula: atto che eccitò un mormorio di gioja e di stupore nel popolo che poteva vederlo, e si propagò per tutta la folla, ognuno raccontandone il motivo ai suoi vicini.
Don Abbondio si trasse pure il suo gran cappello senza piume, s'inchinò, sentì i suoi confratelli che cantavano, e provò forse per la prima volta un sentimento d'invidia in una tale occasione.
- Oh quante volte, - diss'egli in cuor suo, - queste funzioni mi son parute lunghe come la fame; e non vedeva l'ora d'andarmene in sagrestia a piegare la mia cotta; e adesso torrei volontieri di star lì a cantar fino a sera; in quella santa pace; e invece bisogna andare...
Ma Dio benedetto! - sclamò egli internamente come l'uomo che è vivamente penetrato dal sentimento che gli si fa torto, - giacché m'avete ficcato in questo impiccio, almeno almeno, ajutatemi.
Superata tutta la folla, il corteggio seguì pianamente il suo cammino; ma siccome la disposizione d'animo dei due personaggi a cavallo era sempre la stessa, anzi i pensieri dell'uno e dell'altro diventavano sempre più intensi a misura che si avvicinava la meta, così il cammino si faceva in silenzio, e noi non possiamo riferire che i soliloqui dell'uno e dell'altro.
- Gran cosa, (è il soliloquio di Don Abbondio) gran cosa, che a questo mondo vi debbano essere dei ribaldi e dei santi, che gli uni e gli altri debbano avere l'argento vivo addosso, che quando hanno una ribalderia, o un'opera santa da fare, debbano sempre tirare per forza in ballo gli altri, quelli che vorrebbero attendere ai fatti loro; e che tanto gli uni quanto gli altri debbano venir tra i piedi a me, pover'uomo, che non m'impaccio degli affari altrui, e che non cerco altro che di starmene quieto a casa mia! Quel birbone di Don Rodrigo s'ha da ficcare in capo di sturbare un matrimonio, proprio nella mia parrocchia, e m'ha da venire una intimazione di quella sorte! Un pazzo che ha nascita e quattrini, casa ben piantata, e parenti in alto, e potrebbe godersi la sua vita tranquilla, signorilmente: attendere a dare dei buoni pranzi, stare allegro, e fare degli allegri: signor no: ha da desiderare la donna d'altri, tanto per venire a molestarmi.
Oh questa ragazza benedetta vuol essere la mia morte! Deve proprio capitare in mano di costui (e così dicendo guatava sottecchi il Conte quasi per vedere se poteva arrischiarsi a strapazzarlo mentalmente); e costui che è sempre stato lontano dai vescovi come il diavolo dall'acqua santa, ha da venir qui in persona, a cercare l'arcivescovo, senza che nessuno ce lo abbia mandato per forza, proprio per metter me in impaccio: e questo arcivescovo, benedett'uomo che vorrebbe dirizzar le gambe ai cani, a cui pare che il mondo rovini quando la gente sta ferma, che deve sempre far qualche cosa egli, e far fare qualche cosa agli altri; subito, subito, tutto va bene, gran consolazione, la pecora smarrita, credere tutto, darvi dentro, e far trottare il curato.
Che si abbiano concluso fra loro, Dio lo sa: ma, cospetto non bisogna andar così in furia a questo mondo.
La santità non basta, ci vuole un po' di prudenza, e sì che dovrebbe avere imparato: ha avuto delle belle brighe, a forza di cercarne, e di voler fare andar le cose a modo suo: ma pare che vi c'ingrassi: non ne lascia scappare una; la carità va bene; ma la prima carità dovrebb'essere per un povero curato, che un vescovo, un vero vescovo di giudizio lo dovrebbe tener prezioso come la pupilla degli occhj suoi.
Chi sa costui che cosa gli ha contato? che fini ha? potrebb'essere una trappola: ahi! ahi! ahi! Ma se anche, come spero, fosse convertito costui (e qui guardava il Conte) dovrebbe sapere Monsignore illustrissimo che dei peccatori inveterati non è da fidarsi così subito, bisogna provarli: i primi momenti sono bruschi; e la forza dell'abito fa ricadere uno quasi senza che se ne avvegga, e intanto...
chi è sotto è sotto: ahi! ahi! ahi! S'aveva mò a mandar così un povero curato galantuomo sotto la bocca del cannone?
Don Abbondio era a questo punto della sua meditazione quando la cavalcata giunse alla taverna dove cominciava la salita, e ne uscirono bravi secondo il solito, i quali videro con istupore il Conte con un prete dietro una lettiga.
Pensarono che potesse essere, non lo seppero indovinare, e non fecero altro che inchinarsi al Conte, il quale con viso serio proseguì il suo cammino.
Ma Don Abbondio, continuava: - ci siamo.
Oh che faccie! Questa è la porta dell'inferno! E costui vedete che faccie stralunate fa anch'egli! Un po' pare Sant'Antonio nel deserto quando scacciava le tentazioni, un po' pare Oloferne in persona! Dio m'ajuti; e lo deve per giustizia.
Infatti i pensieri che si affollavano nella mente del Conte passavano per dir così rapidamente sulla sua faccia, come le nuvolette spinte dal vento passano in furia a traverso la faccia del sole; alternando ad ogni momento una luce arrabbiata, e una fredda oscurità.
Pensava a quello che avrebbe detto e fatto, mettendo il piede nel suo castello, trovandosi con quegli dai quali in un punto s'era fatto così diverso.
Avrebbe voluto rendere gloria a Dio, confessare il cangiamento che era accaduto nel suo animo, rinnegare la sua scellerata vita in faccia a quelli che ne erano stati i testimonj, i complici, gli stromenti.
- Ma...
- diceva un altro pensiero, - guai se costoro, credono un momento ch'io non sia più quello da stendere in terra colui che ardisse resistermi!
Così pensando egli pose macchinalmente la mano al luogo dov'era solito tenere una pistola, e si ricordò di averle lasciate con le altre armi in casa del curato.
- Ohe! - continuava fra sè - Perché mi obbedirebbero costoro? e se veggiono che questo pane infame è finito per loro, chi sa che cosa la rabbia può suggerire a costoro! E quello che importa è di non far parole, di non perder tempo, di ricondurre Lucia tranquillamente: quella poveretta! il pegno del mio perdono! - Se in questa casa, se in questa caverna, cessa un momento la disciplina, il terrore del padrone, diventa un inferno! peggio di prima! Costoro saltano il confine, e sono in sicuro: eh gli ho avvezzi io così! - Ma che! dovrò io dunque umiliarmi a fingere dinanzi a costoro! a questi scellerati! Scellerati? costoro? chi sono costoro? i miei scolari, i miei amici, quelli che ho ammaestrati io! Facciamo il bene per l'unica via che è aperta.
Bisogna dissimulare; si dissimuli.
- Così pensando egli si guardò attorno, e visto che nessuno dei suoi era in vicinanza, alzò la voce, ordinò ai lettighieri di restare, scese da cavallo, si avvicinò alla lettiga, e salutata la buona donna che v'era seduta le disse sottovoce: «L'opera di carità che voi fate ora, vuol esser condotta con prudenza assai.
Lasciatevi regolare da me in tutto; e sopra ogni cosa non dite parola che a quella poveretta, e a chi ardisse interrogarvi, dite che parli con me.
Voi entrerete nella stanza dov'è quella giovane, le direte brevemente che siete venuta a liberarla; non ne dubiterà, quando vedrà il suo curato: sarà spaventata, poveretta! vedete di annunziarle la cosa in modo che la sorpresa non le faccia male; la lettiga verrà nella stanza, e ripartiremo tosto».
La buona donna rispose che farebbe come le era detto.
Mentre il Conte le dava questa istruzione Don Abbondio, il quale fino allora si era spaventato ad ogni bravo che s'incontrava, e che per consolarsi guardava ai lettighieri e ai palafrenieri, stava tutto in incertezza per questa fermata, e sospirava.
Il Conte spiccatosi dalla lettiga si avvicinò alla mula di Don Abbondio che aspettava quello che avvenisse con gli occhi sbarrati, e gli disse sotto voce: «Signor Curato; ella non ha bisogno che io le insegni ad esser prudente; ma in questa casa, è necessaria una prudenza che io solo pur troppo posso conoscere appieno.
Se le sta a cuore la riuscita di questo pio disegno, non dica parola, non faccia cenno che possa dare a divedere nulla a costoro, né di quello che si vuol fare, né di quello ch'io penso.
Perdoni, signor curato, se non le dico di più, se non le faccio più scuse dell'incomodo ch'ella patisce per mia cagione, ma Ella ne spera la ricompensa dal cielo, e verrà tempo in cui io potrò tranquillamente esprimerle la mia riconoscenza».
La voce dell'uomo che sgombra le rovine e le macerie, e che chiama il poveretto che è stato colto dalla caduta d'una fabbrica, e vi si trova sepolto vivo, è appena più dolce al suo orecchio che fosse quella del Conte al povero nostro Don Abbondio.
«Ah! signor Conte», diss'egli, confondendo il sentimento che voleva esprimere con quello che provava realmente, «Ella mi dà la vita.
Dio sia benedetto! queste sono grazie di lassù.
Tocca a me farle scusa se sono stato incivile...»
«Zitto, per amor del cielo», interruppe il Conte: «ad altro tempo le cerimonie: Ella non faccia vista di nulla, si contenga in modo che nessuno possa sapere qui s'ella giunge in casa d'un amico...
o d'un tiranno».
«Lasci fare, lasci fare a me»; rispose Don Abbondio.
Il Conte salì di nuovo su la mula, e volto ai lettighieri, e ai palafrenieri disse loro: «Silenzio, e obbedienza: non dite né rispondete una parola in quel castello; non parlate nemmeno fra voi; silenzio insomma...
e il primo di voi che fiata...
Ma no!» continuò, ravvedendosi, in tuono più dolce, «figliuoli non fiatate, perché potreste far molto male a voi e ad altri.
Andiamo».
I lettighieri che deposta la lettiga avevano ascoltata a bocca aperta questa arringa, ripresero le cinghie su le spalle, continuarono la loro strada, le mule seguirono: e si giunse alla porta del castello.
Gli scherani del Conte che al suo avvicinarsi al castello s'incontravano sempre più frequenti, già stupiti di quel suo uscir solo al mattino in un giorno di tanto movimento e di tanto concorso, lo erano ancor più allora di vederlo tornare al seguito d'una lettiga chiusa, a paro d'un prete, con quelle cavalcature sconosciute: ma quello che portava al sommo il loro stupore si era di vedere il loro padrone senz'armi.
Quella partenza aveva dato luogo a molte congetture, e fatta nascere una aspettazione di qualche cosa di nuovo, ma il ritorno invece di soddisfare la curiosità la cresceva e la impacciava davantaggio.
Era una preda? Come l'aveva fatta il padrone solo? e perché il vincitore tornava disarmato? O che diamine era? Chinandosi umilmente davanti al padrone che passava, cercavano essi di spiare sul suo volto qualche indizio di questa faccenda, ma il volto del Conte era impenetrabile: e gli scherani rimanevano a guardarsi l'un l'altro con la bocca aperta.
Alla porta, il Conte scese dalla mula, e fece cenno di fare altrettanto a Don Abbondio che lo guardava attentamente, appunto per non perdere un cenno; e veduto questo si lasciò tosto sdrucciolare dalla sua mula.
Il Conte disse ai palafrenieri: «aspettate qui»; disse al curato di seguire la lettiga; andò egli dinanzi, e disse ai lettighieri: «seguitemi».
Tutto si fece com'egli aveva imposto: il Conte entrò col suo seguito nel cortile, si avviò alla stanza dov'era Lucia, ed entrato in quella che le era vicina; fece restare i lettighieri, si chiuse dentro, e comandò che la lettiga fosse posta a terra.
Aprì allora lo sportello, diede la mano alla buona donna, la fece uscire e disse sotto voce in modo da non essere inteso che da quelli che lo vedevano: «In quella stanza è la giovane da condursi via: e con lei una vecchia malandrina...
una vecchia.
Io la chiamerò fuori: voi entrate, e voi pure Signor Curato.
Annunziate a quella giovane che è libera, che deve partir tosto con voi, che la cosa deve passare quietamente; non perdete tempo: quando ha inteso, quando è disposta, bussate, la lettiga verrà nella stanza: fatela sedere in essa, ponetevi al suo fianco, tirate le cortine, e venite qui: io vi aspetto: andrò innanzi, poi la lettiga, poi il signor curato; dritto alla porta; quivi saliremo sulle nostre mule, e ripartiremo.
E voi», disse rivolto ai lettighieri: «zitti».
Così detto condusse la buona donna e il curato sulla soglia della porta chiusa che dava alla stanza di Lucia, bussò: s'udì la voce della vecchia che disse: «chi è egli?» «Io»: rispose il Conte: la vecchia aprì, e vide le due facce inaspettate col padrone, restò come incantata.
«Uscite» le disse il Conte; quella uscì tosto, e i due salvatori entrarono.
«Fermatevi qui» disse allora il Conte alla vecchia; e non disse altro: egli la vecchia e i lettighieri stettero tutti immobili, egli a tender l'orecchio e a numerare i momenti, i lettighieri ad aspettare, e la vecchia a smemorare.
Lucia aveva passata la notte in un letargo agitato da sogni tormentosi e da risvegliamenti più tormentosi ancora.
Al mattino la vecchia destandosi, aveva chiamata Lucia, e non udendo risposta, s'era levata in fretta aveva aperte le finestre, e avvicinatasi alla captiva, chinatasi a guardarla, le aveva chiesto se dormisse, se volesse togliersi da quel cantuccio, e ristorarsi di cibo che doveva averne bisogno.
«No, lasciatemi quieta, ricordatevi del vostro padrone», era stata la sola risposta di Lucia.
La vecchia brontolando s'era ritirata, e per far qualche cosa s'era posta a rifare il suo letto; quindi era andata ad una tavola dov'erano le reliquie della cena, vi si era seduta, e s'era messa a mangiare, accompagnando questa operazione con le parole e con gli atti ch'ella credeva più opportuni ad eccitare l'emulazione di Lucia, e a vincere il suo proposito: poiché la vecchia non poteva supporre che si resistesse a lungo ad una tentazione di questa fatta, principalmente dopo un lungo digiuno come quello che aveva patito Lucia.
Cominciò dunque a sclamare: «Ih! quanta roba! ce n'è per quattro bravi! e che grazia di Dio!» Quindi stese un mantile e cominciò a trinciare un pezzo di stufato, regolando ogni movimento in modo che il romore eccitasse nella mente di Lucia una immagine chiara di quello ch'ella faceva.
E questa sua cura era spinta al segno (la delicatezza dei lettori ci perdoni se per seguire fedelmente il manoscritto in tutto ciò che può essere una rappresentazione del costume, ripetiamo anche questa particolarità) che postasi a mangiare, ella andava rimasticando nella sua bocca sdentata il boccone, producendo con affettazione quei suoni, che a ragione proscrive Monsignor della Casa; perché ella s'immaginava che in quei suoni vi fosse qualche cosa di appetitoso: la sua educazione, e le sue antiche abitudini avevano talmente elevata sopra le sue idee l'idea di mangiare di quei bocconi che non sono concessi a tutti, che tutto ciò che era associato a questa idea era per lei, importante, leggiadro, irresistibile.
«Buono!» diceva di tratto in tratto.
«Buono! viva l'abbondanza! muoja la carestia! Bella cosa vivere in casa dei signori!» E pure di tratto in tratto dava una occhiata alla sfuggita al cantuccio, ma vedendo Lucia insensibile, si adirava dell'inutilità dei suoi artifici così reconditi; e mescolava alle esclamazioni di ammirazione e di gioia, un brontolio sordo di «ehn! ehn! smorfia, smorfia, smorfia!» Venne finalmente all'ultima prova e al più forte esperimento: prese con la sua destra rugosa e scarnata un fiasco che stava sulla tavola, con la sinistra un bicchiere, e fattili prima cozzare un tratto e tintinnire, sollevò il fiasco, lo inclinò sul bicchiere, lo riempì, se lo pose alla bocca, tracannò un sorso, ritirò il bicchiere, battè due o tre volte un labbro contra l'altro, e sclamò: «Ah! questo risusciterebbe un morto! Bella felicità averne dinanzi un buon fiasco! Al diavolo i rangoli, e i pensieri! Non mi duole più nemmeno d'esser vecchia; ma se fossi giovane ih! come vorrei godermela!» Detto questo ripose il bicchiero alla bocca, lo vuotò, e cheta cheta si volse al cantuccio, e rimase tra lo stupore e la stizza, vedendo che anche l'incanto più forte non aveva prodotto alcun effetto.
«Non volete mangiare un boccone e bere un sorso?» diss'ella a Lucia.
«No»: fu la risposta proferita in modo da non lasciare alla vecchia la lusinga che la insistenza produrrebbe maggior effetto.
Finalmente la vecchia si levò dalla tavola, prese una scranna, la portò presso una finestra, e tolta la sua rocca si pose a filare, pensando ai casi suoi ed aspettando la venuta del padrone con molta inquietudine.
Per comprendere i pensieri stranamente molesti che ronzavano nella mente della vecchia filatrice è necessario avere una idea di quella mente, e dei casi che l'avevano modificata.
Era costei nata (come dice il volgo di Lombardia) sotto le tegole del Conte, o per dir meglio del padre del Conte, dieci anni prima di questo.
Ciò ch'ella aveva inteso, ciò ch'ella aveva veduto dai suoi primi anni le avevano dato un concetto grande, indeterminato, predominante del potere e del lustro dei suoi padroni.
La massima principale ch'ella aveva attinta dalle istruzioni, dagli esempj, da tutto, era che bisognava obbedir loro: che ciò fosse per dovere, fosse per interesse, fosse per destino erano questioni che non s'erano mai presentate al suo spirito: ella sapeva che bisognava obbedire.
Ebbe ella poi l'onore di sposare il custode del castello quando i padroni non facevano ivi che una breve villeggiatura, abitando in Milano la maggior parte dell'anno.
L'uficio del marito doveva presentare cento occasioni che rinforzassero ed estendessero l'idea che la nostra allora giovane donna aveva del potere della famiglia per lei sovrana; e le parti ch'ella doveva prendere nei servizj del marito le furono occasione di applicare la sua obbedienza, di esercitarla, e di avvezzarla a tutto.
Quando il Conte divenne padrone, quel potere divenne ancor più grande e più attivo, in proporzione dell'attività violenta dell'animo di lui; e coloro che erano ministri di questo potere dovettero divenire ancor più obbedienti, e più soperchiatori, essere più spaventati e fare più spavento; pochi servitori ai quali la coscienza disse che era troppo, si ritirarono; quegli che rimasero crebbero nella perversità, come una pianta velenosa cresce di grandezza e di forza malefica quando si trova in un terreno confacente.
Il marito della nostra eroina episodica fu di quelli che rimasero.
Quando poi il Conte, carico già di delitti, e bandito capitalmente venne ad abitare stabilmente il castello, che fu per lui un asilo ed un campo allo stesso tempo, per condurvi quella vita della quale abbiamo dato un cenno, è facile immaginarsi quale dovesse essere allora l'attività e l'obbedienza di coloro che stavano al suo servizio e presso a lui.
La sciagurata fu madre di una figlia che a suo tempo fu sposata ad uno scherano del Conte, e di due figli che furono scherani, e furono soprannominati il Nato-in-casa e lo Spettinato.
Alla morte del marito, ella rimase senza servizio determinato, ma destinata a tutti quelli, che potevano essere prestati da una donna accostumata com'ell'era.
Tener disposto il pranzo pei bravi a qualunque ora tornassero da una spedizione, medicare i feriti, accudire insomma ad essi, era la sua occupazione più ordinaria: quasi tutte le sue idee erano ricavate dai loro colloquj; ma tutte erano dominate da una idea principale, quella di non dispiacere al padrone.
Le impressioni della infanzia l'avevano abituata ad una riverenza tremante per lui, vissuta ai suoi servizj ella non poteva immaginare che fuori di lui vi potesse essere per essa un asilo, un sostegno; e aveva tanto inteso dire, tanto aveva veduto degli effetti della collera di lui, che il minimo grado di quella collera la metteva in un'angoscia mortale.
In tutto ciò che ella aveva a fare e a dire non aveva quindi da gran tempo altra cura che di accontentarlo, ogni altra regola taceva dinanzi a questo unico interesse che era quasi divenuto un istinto: anzi ogni altra regola si era a poco a poco quasi smarrita affatto dalle sue idee.
Quei pochi pensieri e documenti di religione che le erano stati dati confusamente nella infanzia erano obliterati dal disuso, dal non sentirli mai rammemorare; e l'idea di giusto e d'ingiusto che pure è deposta come un germe nel cuore di tutti gli uomini, svolta nel suo, fin dal principio insieme con le passioni del terrore e della cupidigia servile, accomodata per abito ai principj che tuttogiorno sentiva predicare, ed alle azioni che vedeva compiersi e alle quali ella partecipava, era divenuta una applicazione mostruosa di tutte queste idee e di tutte quelle passioni.
La volontà capricciosa, irregolare, violenta del Conte era per lei una specie di giustizia fatale; spiacergli era colpa o sventura, male insomma.
La ragione o il torto stavano per essa nella approvazione o nel malcontento del terribile padrone: poiché quale altro motivo di ragione comune poteva aver luogo in quella casa, e fra quelle persone? quale principio generale di equità avrebbe potuto essere invocato da coloro che non li riconoscevano nei rapporti con gli altri, che li violavano tutti? E come mai avrebbe potuto aver ragione una volta quella che servendo alle soperchierie, e rallegrandosene rinunziava di fatto ad ogni principio di diritto, e nello stesso tempo non aveva forza alcuna, non aveva una minaccia per sostenere un diritto quando il suo interesse la portasse a sentirlo e ad ammetterlo? A tutte queste abitudini di servitù, e di annegazione perversa, si aggiungeva un sentimento, in origine migliore, che li rinforzava; il sentimento della riconoscenza.
Avvezza costei a ricevere il suo sostentamento dal Conte, riconosceva la vita come un dono della volontà di lui: come un beneficio della sua potenza.
E avvezza pure a risguardarsi dalla infanzia come cosa del suo signore provava un certo orgoglio di consenso per quella sua potenza, pel terrore ch'egli incuteva, le pareva di essere qualche parte di un sistema molto importante.
La gioja orrenda ch'ella aveva provata tante volte nella sua vita pel buon successo delle imprese del Conte, gioja che nasceva da tutti i sentimenti abituali che abbiamo descritti, l'avevano resa non indifferente, ma propensa ai patimenti altrui, ed ella gli procurava con compiacenza ogni volta che il timore del padrone le avesse permesso o consigliato di farlo.
Bersaglio sovente degli strapazzi e degli scherni dei bravi, ella aveva imparato a tollerare, rodendosi quando non poteva ripetere; ma quelle poche volte che le era lecito di straziarli impunemente senza dispiacere del padrone, le uscivano dalla bocca cose tanto argute, tanto profonde, tanto inaspettate, che il diavolo vi avrebbe trovato da imparare.
Intendete ora perché la vecchia guardando Lucia, faceva saltare il fuso con istizza, e di tempo in tempo lo lasciava oscillare penzolone per aria, tutta assorta nei pensieri del terrore? Dagli ordini che il padrone le aveva dati partendo, e dal tuono con cui gli aveva proferiti, ella aveva compreso, che al padrone premeva quella ragazza, ch'egli l'aveva fatta pigliare e la riteneva chi sa perché?, ma che voleva ch'ella fosse contenta.
Vedendo ora che tutti i suoi tentativi per raddolcirla erano inutili, che la obbedienza, il garbo quasi servile, gl'inviti amichevoli non avevano servito a nulla, stava in angoscia pensando a quello che avrebbe detto il padrone, quando tornando avrebbe trovata Lucia in quello stato di abbattimento.
Poter dire: - io non ci ho colpa - non era un pensiero che rassicurasse la vecchia, perché ella era solita a vedere che il padrone misurava il suo tratto con gli uomini dalla soddisfazione o dalla noja che sentiva, e non da altro.
Che colpa avevano tanti ch'egli aveva mandati all'altro mondo? e alla sorte dei quali ella stessa aveva applaudito? Tentava ella dunque di tempo in tempo Lucia con qualche parola dolce, nella quale a dir vero ella stessa poneva poca fiducia, dopo d'aver veduto Lucia resistere alla tentazione del mangiare: e in fatti non otteneva da Lucia altra risposta che un «no» talvolta replicato, al quale ella ammutoliva: e si stava come abbiam detto, aspettando con la venuta del padrone la rivelazione del destino.
Ma la povera Lucia, come nella notte non aveva mai fatto un sonno pieno, intero, e per dirla con un calzante modo milanese non aveva mai potuto dormire serrato, così a giorno fatto, nella luce chiara, non era desta perfettamente.
Le memorie, i terrori, le speranze si agitavano e si succedevano nella sua mente con quell'impeto volubile, con quel vigore incerto dei sogni, e il corpo sbattuto, estenuato dai travagli, dal digiuno e dalla febbre non concedeva allo spirito il pieno esercizio della coscienza.
In questo stato era Lucia sempre rannicchiata, quando fu bussato dal Conte, la porta s'aperse, la vecchia uscì, e la buona donna entrò con Don Abbondio.
Tutto questo fu un istante; ma un istante di nuovo batticuore per Lucia alla quale se lo stato presente era intollerabile, ogni mutazione era però una contingenza di spavento.
Fissò ella gli occhi nei sopravvegnenti, vide una donna e si rincorò, vide un prete, e le sue speranze si accrebbero; guardò più attentamente: - è egli o non è? son'io trasognata? È il mio curato! - La buona donna si avvicinò a Lucia che senza quasi pensarvi si alzò, e salutatala con un volto di pietà cortese, si pose l'indice della destra su le labbra, e stesa la manca la abbassava e la rialzava lentamente come si dipinge il Salvatore che acquieta i flutti del mare di Tiberiade, e disse con voce sommessa, allegramente: «veniamo a liberarvi».
«È dunque la Madonna che vi manda?» disse Lucia con un giubilo ancora incerto, ma pur vivissimo.
«Può essere», rispose la buona donna.
«Chi siete? come avete potuto...?» cominciò Lucia alla buona donna; indi tosto rapita da un'altra brama di sapere, si rivolse al curato, e continuò: «e lei, signor curato: come...?»
«Ah! vedete?» rispose Don Abbondio: «son qui io, il vostro curato, a liberarvi, dal lago dei leoni, senza riguardi per me, in una giornata fredda, a cavallo...»
«E mia madre?» domandò ancora Lucia, a cui le idee si succedevano in folla.
«La vedrete presto, oggi», rispose Don Abbondio: «ma prima dovete vedere ben altro personaggio...»
«Chi? dove?» richiese Lucia.
«Monsignore illustrissimo, che ci aspetta, che vuol vedervi.
Ma abbiate giudizio: badate a quel che dite; voi non potete avere pratica di quello che va detto e taciuto ai signori grandi.
Vi chiederà delle vostre vicende: non istate a troppo ciarlare: vi può far del bene; ma bisogna guardarsi dal toccar certe corde: non parlate del matrimonio, perché, vedete, se sapesse che avete voluto sorprendere il curato, fare un matrimonio clandestino, guai, guai...!»
«Chi è Monsignore illustrissimo?» domandò Lucia.
«È il cardinale arcivescovo», rispose Don Abbondio, «un uomo di Dio, ma bisogna saperlo pigliare, perché...»
«Andiamo tosto», disse la buona donna.
«È vero», disse Don Abbondio, «andiamo perché qui non è troppo sano stare: ma ricordatevi di quello che v'ho detto».
«Come faremo ad uscire?» disse Lucia: «e se ci veggono?»
«Non temete», disse la buona donna: «il padrone del castello viene egli stesso a cavarvene: qui fuori è la lettiga, voi entrerete con me, e partiremo col signor curato».
«Ho da vederlo ancora il padrone?» chiese ansiosamente Lucia, per la quale il Conte era ridivenuto orrendo, da poich'ella aveva veduti due visi umani.
E continuò: «ho paura di lui: ho paura».
«Che paura?» disse Don Abbondio, «siete con me, ed è mio amico.
Risolvetevi».
«Non lo vedrete», disse la buona donna: «noi ci chiudiamo nella lettiga e si parte, e in un momento siamo a Chiuso».
«Ah! Chiuso!» sclamò Lucia: «dov'è quel buon curato! andiamo, andiamo.
Oh Madonna santissima, vi ringrazio! Me lo sentiva in cuore che non mi avreste abbandonata!»
La buona donna aperse un filo della porta tanto da poter far un cenno, che fu tosto veduto dal Conte, il quale comandò ai lettighieri di andare nell'altra stanza.
Queglino vi portarono la lettiga, Lucia vi entrò, e la buona donna dopo lei, si tirarono le cortine, i lettighieri uscirono, il curato dietro: nell'altra stanza il Conte si accompagnò con lui, disse alla vecchia: «aspettatemi qui un'ora, e se non torno andate a fare i fatti vostri».
Nel cortile, alla porta del castello, il Conte e il curato a cavallo, la lettiga davanti, giù per la discesa, e diritto a Chiuso.
A misura che la caravana si avanzava nel suo viaggio, tutti quelli che la componevano, respiravano più liberamente.
Appena la buona donna fu nella lettiga, al momento che i portatori la sollevavano per partire, ella raccomandò a Lucia di non parlare finch'ella non gliene desse avviso.
Ma poi che dallo scalpito delle mule che seguivano s'accorse che era varcata la soglia, cominciò a guardare un po' fuori delle cortine, e vista la strada libera, ruppe ella stessa il silenzio dicendo a Lucia: «Povera giovane! l'avete passata brutta! Ma Dio ha pensato a voi, e tutto è finito».
Queste parole diedero campo a Lucia d'interrogare la buona donna; che cercava di soddisfare alle sue domande, dicendo quel poco che sapeva, e come lo sapeva.
Lucia a poco a poco vedeva un po' più di lume nelle sue strane e terribili avventure: le risposte della buona donna la rimettevano sulla via, e l'ajutavano a spiegare tanti misteri della sua sventura e della sua inaspettata salute; tanto che in quel viaggio Lucia potè farsi una idea del suo stato, comprendere qualche cosa, ed uscire da quella affannosa confusione d'idee nella quale lo strano, l'insolito, di quello che si vede e si soffre non lascia riposare la mente in alcuna, non lascia altra certezza che quella di esistere, e questa stessa diviene un tormento.
«Oh quando potrò vedere mia madre!» sclamò Lucia appena si sentì rassicurata, e potè discernere quello che era reale, quello che era possibile.
La buona donna le promise che appena suo marito tornerebbe dalla Chiesa, ella lo determinerebbe ad andarne in cerca, ad informarla, a condurla presso di lei.
Don Abbondio pigliava fiato ad ogni passo; la conferenza che il Cardinale avrebbe con Lucia, gli dava un po' di briga per le cose che si dovevano rivangare di quel tale matrimonio: vedeva in lontano dei pericoli per parte di Don Rodrigo; ma il sentimento predominante era allora la gioja di uscire sano e salvo da quella spedizione.
Pieno di questo sentimento, Don Abbondio aveva una parlantina che nessuno gli avrebbe supposta vedendolo così silenzioso nella prima andata; e non avrebbe rifinito di ciarlare col Conte, se questi avesse fatto tenore ai suoi inviti.
Ma il Conte benché lieto di ricondurre Lucia al Cardinale, era tuttavia troppo compreso da tanti sentimenti per prestarsi alla garrulità di Don Abbondio.
Ed oltre il resto era anche un po' umiliato internamente dell'inquietudine che aveva provata nella spedizione, delle precauzioni che aveva prese in casa sua, di una prudenza che gli pareva pusillanimità.
Ma il Conte non si conosceva: s'era fatta nel suo animo una rivoluzione della quale egli non s'era reso ben conto: v'eran nati dei sentimenti, vi s'erano svolte delle disposizioni ch'egli non aveva ancora potuto ben raffigurare: e non s'avvedeva che questa pusillanimità era una nuova sollecitudine pia e gentile per una debole innocente, una delicatezza fin allora estrania all'animo suo, un timore che non si sarebbe presentato a quell'animo se non si fosse trattato che d'un proprio pericolo.
Giunsero a Chiuso che il Cardinale, il clero e il popolo erano ancora nella Chiesa.
La buona donna fece andar la lettiga a casa sua, dove discese, e condusse Lucia già tutta rassicurata, e tosto le fece animo a ristorarsi dopo un sì lungo digiuno.
L'invito era ben altrimenti gradevole che non nella bocca della vecchia del castello, e Lucia, che sentiva il bisogno di nutrimento, accondiscese con riconoscenza.
Intanto Don Abbondio e il Conte entrarono nella casa del curato, e quivi si stettero ad aspettare il Cardinale.
Questi non tardò molto a venire, precedendo velocemente il clero che gli faceva codazzo, ed entrato nella stanza, e veduti i due tornati, chiese tosto con ansietà: «È qui?»
«È qui», rispose il Conte.
«L'abbiamo condotta sanamente», rispose Don Abbondio.
«Dio sia lodato!» sclamò il cardinale: «e ve ne rimeriti entrambi».
E preso in disparte il Conte, mentre gli altri si ritiravano: «Non siete più contento ora?» gli chiese.
«Vedete, se Dio ancor non sa che fare di voi?» Quindi per quella gentile e minuta sollecitudine ch'egli metteva anche nelle cose più gravi: «voi dovete essere affaticato», disse al Conte, «certo voi non mi abbandonerete oggi: e...
ma questa mattina voi non avete certo pensato a far colazione?»
«No davvero», rispose il Conte.
«Bene, bene», rispose il Cardinale, «io voglio cominciare a provare se posso farmi obbedire da voi», e traendolo per la mano si avvicinò al buon curato di Chiuso, che se ne stava cheto fra gli altri, e gli disse, con aria sorridente:
«Signor curato, voi siete tanto umile che sarebbe dabbenaggine il non far da padrone in casa vostra.
Io invito il signor Conte a pranzare con noi».
Il curato che non lasciava mai scappare l'occasione di rispondere con un testo della Bibbia, disse levando le mani al cielo, e poi stendendole amorevolmente verso il Conte: «Benedictus qui venit in nomine Domini».
Don Abbondio invitato anch'egli, si rifiutò dicendo di non volere abbandonare per lungo tempo il suo ovile; uscì dalla casa del curato, entrò in quella dove era ricoverata Lucia, alla quale raccomandò ancora fortemente di non parlare di matrimonio col cardinale, quindi, se ne andò a casa.
Intanto la refezione fu pronta, e il cardinale si sedette a mensa, tenendosi presso da un lato il curato, dall'altro il Conte e poscia gli altri ecclesiastici del suo seguito in un ordine consueto.
La frugalità di Federigo era tanto al di qua della temperanza, che virtù in lui, sarebbe divenuta indiscrezione se egli avesse voluto imporla agli altri: quindi nel suo palazzo la mensa dei famigliari non si misurava dalla sua; anzi in paragone di questa si poteva dir lauta.
Quando poi visitando la diocesi egli era ospite dei parrochi, questi sapevano troppo bene che un trattamento fastoso non era il mezzo di entrare in grazia a quell'uomo, e si regolavano in conseguenza.
Il curato di Chiuso poi aveva un modo di pensare molto singolare.
Egli riteneva che trattare sontuosamente un uomo il quale predicava a tutta possa la povertà e la modestia, sarebbe stato un dirgli coi fatti se non in parole: - io vi credo un ipocrita -.
Per altra parte, la borsa del curato era ordinariamente e tanto più in quell'anno, fornita a un di presso come quella d'un figlio scialacquatore che abbia il padre spilorcio: e l'aspetto poi della miseria universale era tanto terribile, e tanto presente ad ogni momento che un trattamento fastoso avrebbe fatto ribrezzo anche a chi non avesse avuta la carità delicata e profonda del Cardinale Federigo e del Curato di Chiuso.
Da tutti questi fatti venne di conseguenza che la tavola di quel giorno somigliò molto più alla tavola ordinaria del cardinale che a quella dei suoi famigliari.
Ma quella conversazione, resa così singolare dalla presenza del Conte, fu gioconda.
Il Cardinale, benché atterrato dalle fatiche e angustiato dalle cure continue, e da
...
[Pagina successiva]