FERMO E LUCIA, di Alessandro Manzoni - pagina 50
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Lucia vedendo che le preghiere riuscivano inutili come la resistenza, e stanca dell'ambascia, e dello stento, incrocicchiò le braccia sul petto, si strinse nell'angolo della carrozza, in silenzio: e perduta ogni speranza di soccorso umano, si rivolse a Dio da cui tutto sperava; e pregò fervidamente da prima col cuore; indi cavato di tasca il rosario che teneva sempre con sè, cominciò a recitarlo con voce sommessa.
I bravi tacevano, guardando di tratto in tratto quello ch'ella faceva, e sospirando tutti il fine di quella spedizione: e Lucia di tempo in tempo fermandosi nella sua preghiera a Dio, per voltarsi a coloro in forza dei quali ella si trovava, e ricominciava a supplicarli: ma non udiva rispondersi altro che: «non possiamo».
La sua preghiera era esaudita, ma il momento non era venuto.
Erano già due ore che la carrozza correva, sempre per istrade deserte, attraversando boscaglie, e campi abbandonati alla felce ed alla scopa (una gran parte del territorio milanese era allora ridotta a quello stato dalle guerre, dalle gravezze insopportabili, dall'ignoranza, dalla specie di barbarie insomma in cui erano gli abitanti, e i legislatori).
Il sole declinava verso l'orizzonte quando Lucia sentì un romore continuo sempre crescente, come di un'acqua rapidamente corrente.
Era l'Adda infatti a cui la carrozza si avvicinava: il bravo che stava sulla serpe accanto al cocchiere urtò col gomito chiamando quelli di dentro; uno di essi pose la testa fuori dello sportello, e l'altro gli disse: «il battello c'è».
«Ah! bravo» dissero tutti e tre quei di dentro.
Lucia, vedendo che si stava per fare qualche cosa da cui doveva decidersi il suo destino, ricominciò le sue preghiere, ma il vicino lieto di essere alla fine della sua incombenza, e di non aver più a combattere con le istanze di quella infelice, le impose silenzio dicendo: «Zitto zitto; abbiamo altro in capo che di darvi retta ora: siamo occupati».
La carrozza si fermò presso la riva, quel della serpe fece un segno a cui fu risposto dal battello, e tosto ne uscirono tre bravi con una vecchia, e si avviarono verso la carrozza.
Lucia strillava, i bravi le comandavano di tacere replicando: «non abbiate paura, e già tutto è inutile; son tutti nostri amici».
Lucia allora si rannicchiò tutta alla carrozza invocando la Vergine nel cuore, e proponendo di lasciarsi piuttosto uccidere che di uscire volontariamente da quel luogo, il quale per quanto orrendo le fosse le pareva un asilo poiché vi aveva passate due ore, e non sapeva dove, a che sarebbe strascinata quando ne fosse fuori.
Mentre si stava così tutta rannicchiata, udì chiamarsi da una voce femminile, aperse gli occhi e vide allo sportello la vecchia rivolta verso di lei.
Una donna parve in quel momento a Lucia un angiolo del paradiso: si sollevò, e con volto supplichevole, e con una certa fiducia le disse: «Oh brava donna, che fate voi qui? ajutatemi, se questi sono vostri amici pregateli che mi lascino venire con voi; salvatemi, salvatemi».
«Scendete e venite con me», rispose la vecchia; indi rivolta ai bravi raggrinzando la fronte e scontorcendo la bocca: «Maladetti», disse, «le avete fatto paura?»
«Ma la vedete sana e salva...?» rispondeva il capo; quando Lucia, chinandosi e sporgendosi dalla carrozza a prendere con le mani le braccia della vecchia: «non dite niente», interruppe, «quel che è stato è stato, purché mi lascino venire con voi».
«Scendete, venite», disse la vecchia.
«Ma con voi sola», rispose Lucia.
«Andiamo andiamo», disse ancora la vecchia, e presa Lucia la strascinava, mentre i bravi della carrozza l'ajutavano a scendere quasi portandola.
«No no», disse Lucia.
«Zitto, zitto», disse la vecchia, «venite colle buone».
«Ma voi siete d'accordo con questi scellerati», gridava Lucia.
«Zitto zitto», continuava a dire la vecchia, e così Lucia fu portata al battello.
Guardò intorno e non vide altro che la boscaglia la riva e il fiume e il battello; alzò gli occhi, e vide al di sopra delle cime dei monti la cima tagliata a sega del Resegone, alle falde del quale era la sua casa, dov'era sua madre, dove aveva passati i primi suoi anni nella pace; e l'accoramento le tolse anco la forza di gridare; tutta grondante di lagrime, affannata, quasi fuor di sè, fu posta a sedere nel battello sotto la tenda: la vecchia le si pose accanto: il capo di quelli che erano venuti in carrozza saltò pure nel battello, stette al di fuori coi bravi venuti per acqua; i quali tosto puntati i remi alla riva ne fecero allontanare il battello, pigliarono l'alto del fiume, diedero dei remi nell'acqua, e il battello partì.
Appena Lucia ebbe ripreso un po' di fiato, si pose ginocchioni dinanzi la vecchia, domandandole dov'era condotta, pregandola di farla deporre su qualche riva, pregandola pei nomi i più temuti ed amati dai cristiani; ma la vecchia inflessibile, immobile, non rispose altro che «zitto, zitto».
Lucia ricominciò a pregare Colui che ode anche quando non risponde, si abbandonò alla sua provvidenza.
Dopo forse due altre ore di viaggio, il battello approdò: la notte precipitava, e Lucia sbigottita, tremante, non sapeva più in che mondo si fosse: fu tolta in questo stato dal battello, posta in una lettiga, e portata al castello del Conte del Sagrato.
La vecchia accompagnava la lettiga, entrò insieme in casa, la fece deporre in una stanza, dove rimase sola con Lucia, dicendo a coloro che l'avevano portata, che andassero ad avvertire il Signor Conte.
Ma il Signor Conte aveva già intesa dal Tanabuso la relazione del rapimento, del viaggio e dell'arrivo.
«Ebbene», aveva egli detto al Tanabuso, «fatto?»
«Fatto», rispose Tanabuso.
«A dovere?»
«A dovere».
«Non c'è stato bisogno di spiegar le unghie?»
«Tutto è andato quietamente»; e qui fece il Tanabuso la sua narrazione.
E aggiunse: «Tutto è corso a verso, com'ella vede, signor padrone; ma una sola cosa ci ha dato un po' di disturbo».
«Che è?» chiese il Conte.
«Quella ragazza», rispose il Tanabuso...
«quella povera ragazza...
un tal guaire, un tal piangere, un tal pregare...
restar lì come morta..., guardarci un po' come diavoli, un po' con gli occhi pietosi...
che...
che...»
«Che?» disse il Conte; «sentiamo un po' questa che vuol essere nuova, ribaldonaccio».
«Che mi ha fatto compassione».
«Ohe!» disse il Conte, «bisognerà che ti dia doppia mancia per quello che ha patito il tuo povero cuore».
«Possa io diventare un birro se non è così», rispose il Tanabuso; «mi ha fatto compassione.
Dico la verità Signor padrone, avrei avuto più caro che l'ordine fosse stato di darle una schioppettata, alla lontana, prima di sentirla discorrere».
«Ora», riprese il Conte, «lascia da parte la compassione, cacciati la via tra le gambe, vanne diritto al castello di quel Don Rodrigo...
Sai dov'è posto?».
Il Tanabuso accennò di sì: «fagli dire che sei mandato da me, dagli questo segno nelle mani, e torna a casa.
La giornata è stata faticosa, ma tu sai che il tuo padrone vuole esser servito ma sa anche pagare...»
«Oh illustrissimo!...»
«Taci, e vanne tosto...
ma no, aspetta: dimmi un poco come ha fatto costei per moverti a compassione.
Che abbia un patto col demonio?»
«Niente, niente, signor padrone, era proprio il crepacuore che aveva quella povera ragazza.
Se non avessi avuto un comando del mio padrone...»
«Ebbene?...»
«L'avrei lasciata andare».
«Oh! andiamo a vederla costei; e tu aspetta, partirai domattina...
dopo aver ricevuto i miei ordini...
tanto fa che quello inspagnolato aspetti qualche ora di più...
Domattina sii all'erta per tempo».
Il Tanabuso partì, facendo un inchino, e il Conte s'avviò alla stanza dove Lucia stava in guardia della vecchia.
Bussò, disse: «son io», e tosto il chiavistello di dentro corse romoreggiando negli anelli, e la porta fu spalancata.
Lucia si stava seduta sul pavimento, acquattata, accosciata nell'angolo della stanza il più lontano dalla porta, nel luogo che entrando le era sembrato il più nascosto, si stava quivi aggomitolata, con la faccia occultata, e compressa nelle palme, tutta tremante di spavento, e quasi fuor di sè: al romore che fece la porta, alla pedata del Conte che entrava trasalì, ma non levò la faccia, non mosse membro, anzi fece uno sforzo per ristringersi ancor più tutta insieme; e stette con un battito sempre crescente aspettando e paventando quello che avvenisse.
«Dov'è questa ragazza?» disse il Conte alla vecchia.
«Eccola», rispose umilmente la malnata.
«Come?» disse il Conte, «l'avete gettata là come un sacco di cenci».
«Oh s'è posta dove ha voluto».
«Ehi! quella giovane», disse il Conte avvicinandosi a Lucia: «dove diavolo vi siete posta a sedere? alzatevi; non voglio farvi male...
lasciatevi vedere».
Lucia non si mosse.
«Peggio per voi», disse il Conte; «se volete fare il bell'umore.
Ah! ah! non sapete dove siete.
Pretendereste voi di resistermi? Abbassate subito quelle mani ch'io voglio vedervi».
Queste parole furono dette con un tuono così minaccioso, che le mani di Lucia obbedirono quasi senza il comando della volontà: e Lucia lasciò vedere la sua faccia spaventata e dolente.
Alzò ella allora gli occhi al volto del Conte che la stava guardando attentamente; e dopo un momento, gli disse con una voce, in cui al tremito dello sgomento era mista la sicurezza d'una indignazione disperata: «Che male gli ho fatto io?»
«E che male voglio io fare a voi, scioccherella?» rispose il Conte, con voce più mite.
«Credete forse d'essere condotta al macello? Verrà un giorno che riderete di tutto questo vostro spavento, e riderete forse anche di me, che vi rispondo ora così sul serio».
«Ridere! oh Dio!» rispose Lucia «ridere!» e guardando un momento come smemorata, diede in un nuovo scoppio di pianto.
«Sì sì, tutte voi altre fate così», replicò il Conte.
«Ma perché», riprese Lucia, «mi fa ella patire le pene dell'inferno? Mi dica che cosa le ho fatto? Oh non mi faccia più patire così: Dio glielo potrebbe rendere un giorno...»
«Dio: Dio: sempre Dio coloro, che non hanno niente altro: sempre rinfacciar questo Dio, come se gli avessero parlato.
Dov'è questo vostro Dio?»
«È da per tutto, è qui», rispose Lucia: «è qui a vedere s'ella si muove a pietà di me, per usarle pietà in ricambio un giorno.
Oh abbia misericordia d'una poveretta, mi lasci andare, lasci ch'io mi ricoveri in qualche Chiesa, su le montagne, in un bosco.
Oh lo vedo; tutto dipende da lei: con una parola ella mi può salvare: dica questa parola.
Non so dove sono, ma troverò la strada per andare da mia madre.
Oh Dio! non è forse lontana: ho visto i miei monti: oh s'ella sentisse quel ch'io patisco! non conviene ad un uomo che ha da morire, far tanto patire una creatura innocente: mi lasci andare; oh se pregherò Dio per lei! la benedirò sempre».
E animata nel suo discorso si levò da sedere, si pose in ginocchio, giunse le mani al petto, e continuò: «Che cosa le costa dire una parola? Non iscacci una buona ispirazione, un sentimento di pietà.
Oh Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia!»
- Che pazza curiosità ho avuto di venirla a vedere - pensava tra sè il Conte.
- Dugento doppie! ne ho bisogno.
Costoro vogliono esser ben pagati; eh! hanno ragione: espongono la loro vita: ma vorrei piuttosto toglierne cinquanta a quattro usuraj, e farli scannare tutti e quattro.
«Non mi dica di no», continuava Lucia, sempre singhiozzando, «sono una povera figlia.
S'ella provasse a pregare, a pregare, a cercar misericordia senza poterla ottenere! E se le accadesse una disgrazia!...
ma no, no io pregherò per lei il Signore e la Vergine...
mi lasci andare...»
«State di buon animo», rispose il Conte, senza intenzione di nulla promettere, senza sapere egli stesso che senso avessero le sue parole, ma spinto da un bisogno di far cessare quell'angoscia e quel lamento, di consolare quella creatura.
«Oh», disse Lucia, «Dio la benedica, ella mi lascia andare».
«State di buon animo», ripetè il Conte, «cercate di riposare...
domani...
parleremo...»
«E voi», rivolto alla vecchia, «voi», disse, «fate ch'ella non abbia da lagnarsi pure di una parola torta.
Ora vi si allestirà la cena...
ristoratevi, e dormite tranquilla».
«No, no», rispose Lucia, «mi lasci andar subito...»
«Domani...
domani ci parleremo», replicò il Conte, e con un rapido movimento andò verso la porta, ed uscì.
Lucia, tutta piena della speranza di ottenere la sua liberazione si alzò, e volle correr dietro al Conte, ma quando si trovò sull'uscio non ardì movere un passo più in là, né chiamare: tornò indietro come spaventata, e si raccosciò di nuovo nel suo angolo.
«Volete dunque cenare?» le disse la vecchia.
«No no; badate bene a non partire di qua» rispose Lucia, «ricordatevi di quello che vi ha detto il vostro padrone: chiudete la porta».
La vecchia obbedì, e tornata: «mettetevi a letto e dormite dunque», disse.
«No: io non mi voglio movere di qui» replicò Lucia.
«Che pazzie?...»
«Non voglio», replicò di nuovo Lucia, risolutamente: quel coraggio di disperazione ch'ella si sentiva da quando a quando era stato accresciuto e corroborato da quella compassione ch'ella aveva veduta nel Conte, dalle parole di speranza che egli le aveva date, e dagli ordini ch'egli aveva lasciati con impero alla vecchia.
- Ih! ih! che fummo ha costei, - disse tra sè la mala vecchia.
- Maladette le giovani che hanno sempre ragione e quando sono svergognate e quando fanno le smorfiose.
«Badate a non ispegnere quella lucerna», disse Lucia.
«Sì sì», rispose la vecchia, e senza più rivolger la parola a Lucia si coricò brontolando.
Lucia rimase nel suo angolo.
Era questo per lei, in quella orrenda giornata il primo momento di riposo; ma quale riposo.
I pensieri che l'avevano assalita tumultuosamente, ad intervalli nel giorno, tornarono tutti in una volta ad assediare la povera sua mente.
Le memorie così recenti, così vive, così atroci di quelle ore, di quel viaggio, di quell'arrivo, si affollavano alla sua fantasia; l'avrebbero oppressa se fossero state memorie d'un pericolo trascorso: e che dovevano fare, nel mezzo del pericolo stesso, nella durata, nella orribile incertezza dell'avvenimento! Qual passato! e qual presente! quel silenzio, quella compagnia, quel luogo.
Qual notte! e per giungere a qual domani! L'infelice intravedeva ben qualche cosa della orditura spaventosa del laccio dove era stata tirata, ma rifuggiva dal pensiero di scoprirne più in là.
Di quando in quando le parole di speranza del Conte la rincoravano: le andava ripetendo fra sè, s'immaginava di essere l'indomani fuori di quell'antro con sua madre, ma un altro avvenire possibile rispingeva questa immaginazione, e a tutta forza veniva a collocarsi nella sua mente.
Tremava, si faceva animo, sperava, disperava, pregava: le forze del corpo finalmente cedettero ad un tale combattimento dell'animo, e Lucia fu presa da una febbre violenta.
Le sue idee divennero più vive, più forti, ma più interrotte, più mescolate, più varie, si urtarono più rapidamente, e la confusione togliendole una parte della coscienza, rese sofferibile una angoscia che altrimenti ella non avrebbe potuto sofferire e vivere.
Nel calore della febbre, le parve ad un tratto che la preghiera sarebbe stata più accetta, certamente esaudita, se con la preghiera ella avesse offerte in sagrificio quelle che altre volte erano state le sue più liete speranze.
L'unica speranza di quel momento, quella di uscire da quel pericolo, le parve con questo divenire più fondata, più ferma: aperse gli occhj, li girò con sospetto e con ansietà nel barlume di quella stanza; tese l'orecchio, e non udì altro che il russare della vecchia; si levò chetamente, stette ginocchioni; e votò alla Vergine di viver casta, senza nozze terrene, s'ella poteva uscire intatta da quel pericolo.
Proferito il voto, o, quello che a Lucia parve tale, ella si sentì come racconsolata; si raccosciò nel suo angolo, e passò il resto della notte in un letargo febbrile, interrotto da sussulti, e da vaneggiamenti.
Il Conte partito da quella stanza andò secondo il suo costume a visitare i posti del suo castello, a vedere se le guardie erano poste ai luoghi stabiliti, se tutto era in ordine, e si chiuse nella sua stanza.
Ma l'immagine di Lucia non l'aveva mai abbandonato nel suo giro; ma quando egli si trovò solo nella sua stanza, senza più nulla da fare che d'ascoltare i suoi pensieri, e di dormire se avesse potuto, quella immagine più viva, più potente si pose a sedere nella sua mente, e vi stette.
- Che sciocca curiosità da femminetta, m'è venuta, - andava egli pensando, - di andare a vedere questa giovane? Ho dovuto sentire dalla sua bocca di quelle cose che nessun uomo vivente avrebbe ardito dirmi sul volto.
Le ho sentite, e mi seccano.
Perché non è figlia d'uno spagnuolo? o di qualcuno di quei sozzi birbanti che m'hanno bandito: che avrei goduto di sentirla guaire, di vederla tremante ai miei piedi.
Ma costei non mi ha mai fatto male...
Ecco, lo andava ripetendo...
pareva sapesse che questa era la corda da toccare per farmi compassione...
Compassione!...
ma certo io ho avuto compassione: la sento ancora...
e qualche cosa di peggio...
Che diavolo ho io addosso questa notte?...
Ha fatto compassione perfino al Tanabuso! Oh aveva ragione quella bestia, quando disse che sarebbe stato men male averle data una schiopettata...
Poveretta! una schiopettata...
no credo che mi avrebbe fatto compassione anche morta.
Eh sciocchezza! i morti almeno non si stanno a guardare, non si sentono, non vi si mettono ginocchioni davanti...
è un conto saldato.
Dicono mo' i preti che un giorno hanno a risuscitar tutti quanti! Poh! imposture! imposture, non è vero, non è vero.
Vorrebb'essere una bella processione.
E qui cominciarono a schierarsi dinanzi alla sua memoria tutti quelli ch'egli aveva cacciati o fatti cacciare dal mondo, dal primo, ch'egli essendo ancor giovanetto aveva passato con una stoccata per una rivalità d'amore, fino all'ultimo che aveva fatto scannare per servire alla vendetta di un suo corrispondente; tutti coi loro volti, nell'atto del morire, e quelli che egli non aveva veduti, ma uccisi soltanto col comando, la sua fantasia dava loro i volti e gli atti.
- Via, via, sciocchezze, - diceva: - sono io diventato un ragazzo? domani a giorno chiaro riderò di me.
E se domani a sera costoro mi tornassero in mente? che dovessi passar sempre la notte così? Diavolo! comincio ad invecchiare: vorrebb'essere un tristo vivere, e un tristo...
morire.
Che cosa m'ha detto quella poveretta? «Oh Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia...» Che sa mai quella contadina? L'ha inteso dire dal curato e lo ha creduto.
Imposture.
Ho sempre detto imposture, e quando aveva proferita questa parola, bastava...
ma adesso non serve...
tornano sempre quei pensieri.
Sono io quello? Sono stato tanto tempo un uomo, non ci ho pensato; ho avuto l'animo di farne tante, tante...
Ebbene! ne ho fatte troppe...
se non le avessi fatte...
in verità sarebbe meglio.
A buon conto l'opera di misericordia sono in tempo di farla.
Poniamo che appena fatto il giorno io entri nella sua stanza: la poveretta si spaventa; ma io le dirò subito, subito: «vi lascio in libertà, vi farò condurre a casa».
Oh come si cangerà in volto! che cose mi dirà! mi darà delle benedizioni che mi faranno bene.
Voglio badar bene a tutto quello che mi dirà.
e ricordarmene per pensarvi la notte.
Oh! sono fanciullaggini...
ma a buon conto io non posso dormire.
Ma quando verrà giorno! Che notte eterna! Mi pare quella notte ch'io passai ad agguatare dietro un angolo quel temerario di Vercellino che doveva tornare dal festino di corte...
Ecco, io stava lì cheto, cheto; quando sentiva una pesta, guardava fiso, fiso; non era egli, ed io ritto e cheto nel mio angolo: sento una pedata che mi par quella, sporgo il capo, guardo, è colui: fuori, addosso col mio stocco: mandò un gemito, e mi cadde sulle gambe, gli diedi una spinta, e me ne andai...
Oh che coraggio aveva allora! era un uomo! e in un momento sono diventato...
che cosa son diventato? che è accaduto? non son sempre quello? Ecco anche quel Vercellino vorrei non averlo ammazzato.
Se doveva pensare così un giorno, era meglio che avessi pensato così sempre.
Vieni o luce maledetta, ch'io possa uscire da questo covaccio di triboli, e andare a vedere quella ragazza.
Ma devo lasciarla andare? Vedremo: vedremo come mi sentirò.
Se potessi dormire almeno un'ora, forse mi sveglierei coll'animo di questa mattina!
In questi e simili pensieri passò il Conte del Sagrato quasi tutta la notte; finalmente, non essendo il giorno lontano, la stanchezza lo vinse, e si assopì.
Ma i pensieri che avevano riempiuta la sua veglia, trasmutati ora alquanto e rivestiti di forme più strane e più terribili lo accompagnarono nel sonno.
Era già levato il sole, e il Conte stava affannoso sotto il giogo di quei sogni rammentatori, quando a poco a poco egli cominciò a risentirsi scosso come e quasi chiamato da un romore monotono, continuo, insolito: stette alquanto tra il sonno e la veglia, e finalmente tutto desto, e gettato un gran sospiro, riconobbe un suono festoso di campane, e pensò che potesse essere, né gli sovvenne di cosa che potesse essere allora cagione di festa.
Si alzò, si vestì rapidamente, e prima d'andare alla stanza di Lucia (che la risoluzione gliene era rimasta) si fece alla finestra della sua stanza che dominava il pendio, prima rapido, poi più lento e quasi piano fino al lago; e qua e là villaggi sparsi, e case solitarie.
Guardò intorno, e vide contadini e contadine in abito da festa per tutti i viottoli avviarsi verso la strada che conduceva al Milanese; altri uscire dalle porte, e parlarsi quelli che s'incontravano in aria di premura e di festa.
- Che diavolo hanno in corpo costoro? - diss'egli fra sè, e tosto chiamato uno de' suoi fidati, domandò la cagione di quel movimento e di quel concorso; e intese che s'era risaputo la sera antecedente che il Cardinale Federigo Borromeo arcivescovo di Milano era giunto improvvisamente a Lecco per visitare le parrocchie di quei contorni; che quella mattina doveva trovarsi ad una chiesa (che nominò, ed era alla metà della via, distante circa due miglia dal castello) e che tutti accorrevano a vedere quell'uomo il quale dovunque si portasse attraeva sempre folla.
Il Conte congedò con un cenno del capo il fidato, e rimase ancora un momento alla finestra a guardare, dicendo fra sè: - Come sono contenti costoro! E perché? Perché è arrivato un uomo che si porrà un bell'abito, e darà loro delle parole, e alzerà le mani tagliando l'aria in croce.
Oh! come saltano: sembrano cavriuoli: eh! avranno forse..., certo, dormito meglio di me! Tanto contenta questa canaglia...
ed io...
Voglio andare anch'io; voglio veder quest'uomo, che li fa esser tanto vogliosi, tanto contenti.
Andrò, andrò.
Voglio parlargli; voglio un po' sentire se ha qualche cosa anche per me! vedere quel volto, sentire queste sue parole che fanno sparire le afflizioni.
Voglio vedere se ha ancora quegli occhj che hanno fatto abbassare i miei...
cospetto...
cinquant'anni sono.
Era uno strano giovanetto! E ora che sarà? ne dicono tante cose! Oh sarà peggio d'allora certamente! Ma che ho io paura di brutti musi? Io andare da lui: a che fare? che dirgli? Certo mi mostrerà due occhj più arrovellati di quel giorno...
Non importa: voglio andare a sentire che parole ha costui, per render la gente così allegra.
L'occhiata che aveva fatta tanta impressione e lasciato un così profondo marchio di rimembranza nella mente del Conte era stata data nella occasione che ricorderemo brevemente.
Federigo Borromeo, giovanetto allora di 15 anni si trovava nella chiesa di Giovanni in Conca nel giorno solenne di quel santo; e aveva pregato e invitato poscia dai frati s'era posto a sedere nel presbitero e quivi assisteva pensoso e riverente al rito che si celebrava.
Quando una brigata di giovanetti, di adolescenti delle principali famiglie della città, entrata a turba nella Chiesa per curiosità, e visto in quel luogo il giovane Federigo, che sempre con l'esempio, e talvolta con le parole gli faceva vergognare del loro vivere superbo scioperato molle e violento, s'accordarono di fargli fare una trista figura, di vendicarsi, e di divertirsi un momento a sue spese.
Rotta la folla s'avvicinarono all'altare, e appostatisi in faccia a Federigo, si diedero a fare i più strani e beffardi atti del mondo, storcer le bocche, torcere il collo come chi irride un ipocrita, cacciare un palmo di lingua, sghignazzare.
Il Conte che fu poi del Sagrato era tra essi, anzi queglino erano con lui; perché egli non era mai stato secondo in nessun luogo, e in nessun fatto.
Federigo, contristato e mosso a pietà ed a sdegno nello stesso tempo, ma non confuso, girò su quella turba un'occhiata che esprimeva tutti questi affetti con una gravità tranquilla, ma più potente dell'impeto indisciplinato di quei provocatori; quindi piegate le ginocchia dinanzi all'altare, pregò per essi, i quali partirono col miserabile contegno di chi è stato vinto in una impresa in cui il vincere stesso sarebbe vergognoso.
Torniamo al Conte vecchio: il quale stette in fra due, se doveva prima andare alla stanza di Lucia.
Dopo aver pensato qualche tempo: - no - diss'egli fra sè -: non la vedrò: non voglio obbligarmi a nulla; voglio venirne all'acqua chiara con questo Federigo.
Potrei lasciarla andare, e pentirmi.
Se comincio a fuggire da uno spauracchio, a desistere da un'impresa, è finita, non son più un uomo.
Parlato che avrò con costui, mi convincerò che sono sciocchezze, e sarò più forte di prima...
o se...
costui...
mi facesse...
cangiare...
son sempre a tempo.
Andiamo, sarà quel che sarà.
Chiamò un'altra donna alla quale in presenza del Tanabuso impose che si portasse sola alla stanza di Lucia, che vedesse che nulla le mancasse, e che sopratutto ordinasse alla vecchia guardiana di trattarla con dolcezza e con rispetto: e che nessun uomo ardisse avvicinarsi a quella stanza.
Dato quest'ordine, pensò se dovesse pigliar seco una scorta; e - oh! via, - disse, - per dei preti e per dei contadini? Vergogna! Se vi sarà alcuno che non mi conosca non avrà nulla da dirmi: per quelli che mi conoscono...!
Così il Conte solo, ma tutto armato uscì dal castello, scese l'erta e giunse nella via pubblica, la quale brulicava di viandanti: la turba cresceva ad ogni istante: a misura che la fama del Cardinale arrivato si diffondeva di terra in terra, tutti accorrevano.
Ma in quella via affollata il Conte camminava solo: quegli che se lo vedevano arrivare al fianco, s'inchinavano umilmente, e si scostavano come per rispetto, e allentavano il passo per restargli addietro: taluno di quelli che lo precedevano, rivolgendosi a caso a guardarsi dietro le spalle, lo scorgeva, lo annunziava sotto voce ai compagni, e tutti studiavano il passo, per non trovarglisi in paro.
Giunto al villaggio, sulla piazzetta dov'era la Chiesa, e la casa del Parroco, trovò il Conte una turba dei già arrivati, che aspettavano il momento in cui il Cardinale entrasse nella Chiesa per celebrare gli uficj divini.
E qui pure tutti quelli a cui si avvicinava, svignavano pian piano.
Il Conte affrontò uno di questi prudenti, in modo che non gli potesse sfuggire e gli chiese bruscamente come annojato che era di quel troppo rispetto, dove fosse il Cardinale Borromeo.
«È lì nella casa del curato», rispose riverentemente l'interrogato.
Il Conte si avviò alla casa fra la turba, che si divideva come le acque del Mar Rosso al passaggio degli Ebrei, ed entrò sicuramente nella casa.
Quivi un bisbiglio, una curiosità timida, un'ansia, un non saper come accoglierlo.
Egli, rivolto ad un prete gli disse che voleva parlare col Cardinale, e chiedeva di essergli tosto annunziato.
Il prete che era del paese, fu contento d'avere una commissione del Conte per allontanarsi da lui, e riferì l'imbasciata ad un altro prete del seguito del Cardinale.
Quegli si ritirò a consultare coi suoi compagni; e finalmente di mala voglia entrò per dire a Federigo quale visita si presentava.
CAPITOLO XI
Giunti a questo punto della nostra storia noi ci fermiamo per qualche momento con gioja, come il viaggiatore del deserto s'indugia a diletto alla frescura ristoratrice d'una oasis ombrosa, dov'egli abbia trovata una sorgente di acqua viva.
Poiché ci siamo avvenuti in un personaggio, la memoria del quale apporta una placida commozione di riverenza, una nuova giocondità anche alla mente che già stia contemplando, e scorrendo fra gli uomini i più eletti che abbiano lasciato ricordo di sè sulla terra: or quanto più un po' di riposo nella considerazione di lui debb'essere giocondo a noi che da tanto tempo siamo condotti da questa storia per mezzo ad una rude, stolida, schifosa perversità, dalla quale certamente avremmo da lungo tempo ritirato lo sguardo, se il desiderio del vero non ve lo avesse tenuto a forza intento!
Federigo Borromeo fu uno degli uomini rarissimi in qualunque tempo, i quali adoperarono una lunga vita, un ingegno eccellente, un animo insistente nella ricerca «di ciò che è pudico, di ciò che è giusto, di ciò che è santo, di ciò che è amabile, di ciò che dà buon nome, di ciò che ha seco virtù, e lode di disciplina».
Nato coi più bei doni dell'animo, il primo uso che egli fece della sua ragione fu di coltivarli con ardore e con costanza, di custodirli con una attenzione sospettosa, come se fino d'allora egli ponesse cura a conservare tutta bella, tutta irreprensibile una vita, che in progresso di tempo avrebbe avute età così splendide: e infatti la vita di lui è come un ruscello che esce limpido dalla roccia, e limpido va a sboccare nel fiume: tutto ciò che si sa di lui è gentilezza, e sapienza: e gli errori stessi che la prepotenza dell'universale consenso aveva imposti alla sua mente, sono sempre accompagnati e quasi scusati da una intenzione pura, e l'applicazione di esse alle cose della vita è stata per lui un esercizio di tutte le virtù.
Fanciullo grave e sobrio, giovane pensoso e pudico, uomo operoso quant'altri mai fosse, senza mai nulla intraprendere, né maneggiare, né condurre a fine per un interesse privato di qualsivoglia genere, vecchio soave e candido, egli ebbe in ogni età le virtù più difficili, gli ornamenti più rari, ma non in modo che escludessero i pregi più comuni in quella età a tutti gli uomini.
Nutrito tra le pompe e lo splendore delle ricchezze, fra quel basso corteggio che coglie i fortunati del secolo alle prime porte della vita, per corromperli, per cattivarli, per farli fruttare, egli scorse dai primi suoi giorni che l'umiltà, e la staccatezza sono verità, bellezza, e le prescelse: posto sotto la disciplina del suo celeste cugino San Carlo, in presenza di quella virtù severa, e malinconica, l'animo puerile di Federigo non fu disgustato dalla severità, e sentì l'ammirazione e la docilità volonterosa per la virtù.
Si diede ardentemente allo studio dalla fanciullezza: ma i metodi stolti d'insegnamento, ma la confusione e la stoltezza delle cose insegnate, il sopracciglio comicamente grave dei maestri lo svogliarono dall'apprendere; e fu questo, o doveva essere il primo segno della eccellenza del suo ingegno.
Stomacato dei libri e delle lezioni si diede tutto all'armi e ai cavalli; ma durò in quegli esercizj sol tanto quanto bastasse a mostrarlo disposto ad ogni esercizio che domandi una prontezza di qualunque genere.
Il fanciullo voleva sapere, e andava interrogando tutti quegli che egli credeva sapienti; e da tutti gli veniva risposto, che i libri e la scuola soltanto potevano condurlo alla scienza.
Sospinto da questa uniformità di consenso, egli tornò voglioso ai libri ed ai maestri; e finì a stare con quelli perseverantemente, vincendo con la volontà le ripugnanze delle quali egli non poteva allora comprendere la ragione profonda.
Giovanetto fra i giovanetti nello studio di Pavia, egli trovò quivi stabilite consuetudini, massime, opinioni che distribuivano lode e biasimo alla differente condotta; e non ne fece alcun conto: regolò la sua condotta coi suoi principj, come avrebbe fatto in un eremo, senza esitazione, senza braveria; e solo da prima, opposto quasi in tutto al tipo prescritto dall'opinione, rifiutando tutte le cose che davano la gloria, facendo quelle che rendevano ludibrio, fu in poco tempo oggetto della venerazione dei suoi condiscepoli.
Uomo fatto poi, cardinale, arcivescovo, sempre continuò in quella disciplina, di meditare ciò che fosse il comandato, e il meglio, e di eseguirlo, non riguardando nei giudizj degli uomini se non ciò che potesse essere una vera ed utile correzione per lui, o il segno di una irritazione e di una resistenza dannosa ai resistenti, e che potesse essere impedimento al bene ch'egli intendeva di operare.
Fu quindi moderato ed umile tra il favore e gli applausi, placido e fermo tra i contrasti, non avendo di mira che la cosa da farsi, e il perché, e l'effetto.
Veduta la bellezza, l'utilità, e la possibilità d'un disegno, egli lo intraprendeva, ne curava attentamente il complesso e i minimi particolari con quella unità di attenzione che non sorprende chi rifletta alla unità ch'egli aveva del fine.
Edificò dai fondamenti la biblioteca a cui volle dare il nome di Ambrosiana, la dotò di libri, di manoscritti, di macchine, di monumenti d'arte, vi raccolse professori, e nello stesso tempo poneva cura che le reliquie della sua mensa piuttosto povera che frugale fossero diligentemente raccolte, e date ai poverelli; tutto era per lui benevolenza, e cura degli altri.
Così egli chiamò da lontano professori di lingue orientali per introdurre se avesse potuto, ogni coltura in quella rozza, ostinata, e presuntuosa barbarie nella quale egli sentiva di vivere; spedì uomini dotti quanto allora si poteva per l'Italia, per la Francia, per la Germania, per la Spagna, per la Grecia, nella Siria, a fare incetta di libri, di manoscritti, di ogni cosa che potesse essere stromento di studio e di coltura: e diede ad essi istruzioni, avviamenti, consigli: e per la medesima accuratezza di ben fare, in questa stessa carestia di cui abbiamo già toccato qualche cosa in questa storia, egli oltre i soccorsi che distribuiva, alla sua casa, alle case dei poverelli, pensò anche di mandare attorno sacerdoti, che raccogliessero i poverelli che mancanti di soccorso cadevano sfiniti per le vie, e dessero loro i conforti della religione: e insieme coi sacerdoti mandò facchini che portassero pane, vino, minestra, uova fresche, brodi stillati, aceto, per nutrire, per confortare coloro che cadessero per inedia; e tutti questi particolari erano meditati da lui, perché tutto quello che fosse utile era per lui importante, e l'idea grande e generale della carità era dal suo cuore applicata tutta intera nei minimi suoi particolari.
Così amava egli oltre ogni compagnia quella dei dotti, e dei poveri, per vivere sempre nell'esercizio delle sue più nobili facoltà.
E da tanta operosità, da tante cure del suo ministero, da tanti impicci in cui era tirato dalla confusione che in quelle cure stesse avevano introdotta la confusione delle idee, e le passioni degli uomini, egli sapeva togliere ancora assai tempo per impiegarlo nello studio degli scritti i più stimati di qualunque tempo e di qualunque nazione, e nel lavoro dei molti scritti ch'egli ha lasciati.
Noi non vogliamo qui esaminare tutti i pregi di quest'uomo; basti il dire ch'egli ebbe principalmente le virtù più difficili, cioè le più opposte ai vizj che signoreggiavano la generazione dei suoi contemporanei.
Già forse l'amore dell'argomento ci ha trasportati ad una prolissità nojosa; ma non possiamo a meno di non avvertire una di queste virtù, perché è quella che non certo per la sua importanza ma per la rarità ci sembra degna di osservazione; ed è la tranquillità e il contegno mirabile di Federigo.
In un tempo in cui opinioni, fatti, discussioni, odj, amicizie, delitti, giudizj, tutto era avventato e precipitoso, in cui le virtù stesse avevano qualche cosa per dir così di spiritato, e di fantastico, Federigo fu temperato, aspettatore, ponderato, lento nel credere, nell'operare, nell'affermare, tutto condì con una temperanza, che raddolcì in parte quell'impeto indisciplinato, e fu se non altro ammirata da quegli stessi che ne erano incapaci.
È cosa degna di maraviglia e di osservazione che il nome di un tal uomo, già ai nostri tempi, in una posterità così poco remota, sia non dirò dimenticato, ma certo non ripetuto così sovente come si fa degli uomini più illustri, che a questo nome sia appena associata una idea languida d'un merito incerto, d'una eccellenza indeterminata, che questo nome pronunziato fuori della patria di Federigo, e della società di quelli che più particolarmente si applicano alle cose nelle quali egli fu attore, o passi inavvertito, o riesca anche nuovo, e invece di risvegliare la memoria di una rara preminenza faccia nascere la curiosità di sapere che abbia fatto colui che lo portava, e che l'elogio che noi vi abbiamo unito abbia avuto bisogno di schiarimento e di prove.
E forse ancor più stupore deve nascere al pensare che un uomo dotato di nobilissimo ingegno, avido di cognizioni, e perseverante nello studio, sommamente contemplativo, e nello stesso tempo versato nelle società più varie degli uomini, e attore in affari importanti, abbia posta ogni cura nel comporre opere d'ingegno, ne abbia lasciato un numero che lo ripone tra i più fecondi e i più laboriosi; e che queste opere d'un uomo che aveva tutti i doni per farne d'immortali, non sieno ora quasi conosciute che dai loro titoli, nei cataloghi di quegli scrittori che tengono memoria di tutto ciò che è stato scritto in un tempo, in un paese.
Ma la spiegazione di questo fenomeno si può forse trovare nella condizione dei tempi in cui scrisse Federigo.
A produrre quelle parole o quei fatti che rimangono presso ai posteri oggetto di una ammirazione popolare non basta la potenza di un ingegno né la costanza di una volontà: è duopo che queste facoltà possano esercitarsi sopra una materia la quale abbia da sè qualche cosa di splendido, di memorabile: gli uomini di tutte le età rimasti insigni giunsero a quel grado di fama, o accompagnati da una folla d'uomini non insigni com'essi, ma pure partecipi dei loro studj, curiosi delle stesse cognizioni, ornati in parte della stessa coltura: o almeno combattendo contra errori, abitudini, idee, che avessero qualche cosa d'importante, di problematico, in quelle dottrine che sono un esercizio perpetuo dell'intelletto umano, trovarono in somma una massa di notizie e di opinioni, un complesso di coltura, sul quale fondarsi, dal quale progredire, al quale applicare gli aumenti e le correzioni per cui la memoria del genio rimane.
Che se pure è viva tuttavia la fama e le opere di uomini vissuti in tempi rozzissimi, lo è perché quei tempi erano sommamente originali, e quelle opere ne conservano il carattere, e mostrano ai posteri un ritratto osservabile d'una età che nessun'altra cosa potrebbe rappresentarci.
Ma Federigo Borromeo visse in tempi di somma, universale ignoranza, e di falsa e volgare scienza ad un tratto, fra una brutalità selvaggia ed una pedanteria scolastica, in tempi nei quali l'ingegno che per darsi alle lettere, a qualunque studio di scienza morale, cominciava (ed è questa la sola via) ad informarsi di ciò che era creduto, insegnato, disputato, a porsi a livello della scienza corrente, si trovava ingolfato, confuso in un mare tempestoso di assiomi assurdi, di teorie sofistiche, di questioni alle quali mancava per prima cosa il punto logico, di dubbj frivoli e sciocchi come erano le certezze.
Non v'è ingegno esente dal giogo delle opinioni universali, e già una parte di queste miserie diventava il fondamento della scienza degli uomini i più pensatori.
Che se anche i più acuti, profondi fra essi, avessero veduta e detestata tutta la falsità e la cognizione, di quel sapere, avessero potuto sostituirgli il vero, giungere al punto dove si trovano le idee e le formole potenti, solenni, perpetue; a chi avrebbero eglino parlato? E chi parla lungamente senza ascoltatori? Il genio è verecondo, delicato, e se è lecito così dire, permaloso: le beffe, il clamore, l'indifferenza lo contristano: egli si rinchiude in sè, e tace.
O per dir meglio prima di parlare, prima di sentire in sè le alte cose da rivelarsi, egli ha bisogno di misurare l'intelligenza di quelli a cui saranno rivelate, di trovare un campo dove sia tosto raccolta la sementa delle idee ch'egli vorrebbe far germogliare: la sua fiducia, il suo ardimento, la sua fecondità nasce in gran parte dalla certezza di un assenso, o almeno di una comprensione, o almeno di una resistenza ragionata.
Veggansi per esempio le opere di eloquenza di due sommi ingegni, vissuti in circostanze ben diverse nella età posteriore a quella di Federigo, Segneri e Bossuet.
Veggasi quali idee, quale abitudine di linguaggio, quali pregiudizj anche suppongano le orazioni funebri di questo negli ascoltatori di quelle; veggasi dalle prediche del Segneri che opinioni egli doveva distruggere, in che sfera d'idee egli doveva attignere i suoi mezzi, le sue prove per persuadere quegli ingegni, a quali costumanze egli doveva alludere; nella differenza dei due popoli ascoltanti è certamente in gran parte la spiegazione della somma distanza fra le opere di due ingegni ognuno dei quali era grande.
Prima che un popolo il quale si trova in questo grado d'ignoranza possa produrre uomini per sempre distinti, è d'uopo che molti sorgano a poco a poco da quella universale abiezione, che riportino su gli errori, su la inerzia comune molte vittorie d'ingegno difficili, e che saranno dimenticate; che attirino con grandi sforzi le menti a riconoscere verità che sembrano dover essere volgari, che preparino agli intelletti venturi una congerie d'idee delle quali o contra le quali si possano fare lavori degni di osservazione; e che finalmente col progresso, con la esattezza, con la fermezza e perspicuità delle idee migliorino a poco a poco il linguaggio comune, dimodoché i sommi ingegni possano avere uno stromento che renderanno perfetto, ma che pure hanno trovato adoperevole, possano per quell'istinto d'analogia che ad essi soli è concesso, arrivare a quelle formole inusitate, ma chiare, ardite, ma sommamente ragionevoli, nelle quali sole possono vivere i grandi pensieri.
Questo fa d'uopo; ovvero che la coltura più matura, più perfezionata d'un altro popolo venga ad educare quello di cui abbiamo parlato.
Allora gl'ingegni singolari attirati dalla luce del vero da qual parte ella si mostri, si levano dalla moltitudine dei loro concittadini, e tendono al punto che essi scorgono il più alto.
Cominciano allora le ire di molti, e i lamenti di altri contra l'invasione delle idee barbare, contra la dimenticanza delle cose patrie, contra la servilità agli stranieri, contra il pervertimento del linguaggio e del gusto; e non si può negare che queste ire e questi lamenti non atterriscano alcuni, e non gli contristino a segno di far loro abbandonare la via di studio intrapresa; giacché fargli ritornare al falso conosciuto è cosa impossibile.
Ma v'ha pure di quegli ingegni ai quali è per così dire comandato di fare; e questi tenendosi in comunicazione con un'altra età o con un'altra società d'uomini, dicono ai loro contemporanei cose che questi ascoltano da prima con disprezzo e con indifferenza, quindi in parte pure con qualche curiosità quando la fama viene dallo straniero ad avvertirli che fra loro v'è uno scrittore, imparano un poco mal loro grado, e sono poi quasi tutti concordi sul merito dello scrittore quand'egli ha dato l'ultimo sospiro.
Così, un secolo forse dopo Federigo, cominciò a rinascere in Italia un po' di coltura, e fra quella a sovrastare alcuni scrittori dei quali vivono le opere e la memoria; ma i principj di quel risorgimento non furono un progresso, un perfezionamento delle idee allora dominanti; fu una nuova coltura introdotta in opposizione alle idee predominanti; sul che tutti concordano.
Ma intorno alla sorgente di questa nuova coltura v'ha due opinioni estremamente disparate.
Alcuni, anzi moltissimi, hanno creduto, e detto che dal fondo della ricchezza letteraria del secolo decimosesto e dai pochi sommi scrittori più antichi sieno state tolte le idee le quali hanno rinovellato lo spirito della letteratura, e ricondotto il colto pubblico al senso comune; e che principalmente dai canzonieri del Petrarca e del Costanzo sia stata tolta la luce che dissipò le tenebre del seicento.
Infatti i primi riformatori, si posero, come alla faccenda più premurosa, ad imitare quelle rime che l'immortale Costanzo vergò, per placare, se fosse stato possibile, quell'empia tigre in volto umano, su la quale è così diviso e combattuto il sentimento della posterità.
Poiché, quando si pensa ai dolori intimi, incessanti, cocenti che quella tigre fece tollerare a quel celebre sventurato, non si può a meno di non sentire per essa, voglio dire per la tigre, un certo orrore, un rancore vendicativo.
Ma quando poi si venga a riflettere che senza quei dolori non sarebbero stati partoriti quei sonetti e quelle canzoni, che senza quei sonetti e senza quelle canzoni, l'Italia si rimarrebbe forse forse tuttavia nell'abisso del gusto perverso, allora si prova una certa non solo indulgenza, ma riconoscenza per colei che con la sua crudeltà fu occasione, fu causa d'un tanto utile e glorioso effetto, si vede allora quanto sia vero che le grandi cognizioni non vengono all'intelletto degli uomini che per mezzo di grandi dolori.
Questo è detto nell'ipotesi di coloro i quali tengono che la rivoluzione nelle lettere, il ritorno ad un certo qual senso comune, che ebbe luogo nel principio del secolo decimottavo, abbia cominciato dalla poesia, e sia venuto nella poesia dallo studio ripreso dei cinquecentisti, e del Costanzo in ispecie.
Ma non si deve dissimulare che v'ha alcuni altri (pochissimi invero) i quali tengono invece che la lettura degli insigni scrittori francesi, che fiorirono appunto nel tempo in cui le lettere in Italia erano più stolide e più vuote, cominciò a risvegliare alcuni italiani, a dar loro idea d'una letteratura nutrita di ricerche importanti, di ragionamenti serj, di discussioni sincere, d'invenzioni che somigliassero a qualche cosa di umano, e di reale, diretta a far passare nell'ingegno dei lettori una persuasione ragionata di chi scriveva, a condurre i molti ad un punto più elevato di scienza, di sentimento a cui erano giunti alcuni con una meditazione particolare.
Scorgono costoro che questi italiani cominciarono ad imparare dalla lettura di quei libri, e furono dal confronto nauseati degli scritti, dei giudizj, degli intenti, dei metodi, delle riputazioni, di tutta insomma la letteratura italiana di quel tempo; e cominciarono a porre essi nei loro scritti una cura più esatta a cercare un vero importante, e lo fecero con una mente più disciplinata, più addestrata a questa ricerca, e diffusero a poco a poco nei cervelli dei loro concittadini il buon senso che avevano attinto.
Questa tengono essi che fosse non la sola cagione, ma la principale, la prossima della rivoluzione generale e osservabile nel gusto letterario degli italiani.
I pochi i quali tengono questa opinione, si trovano in un bell'impiccio; perché mettendola fuori, sono certi di acquistarsi il titolo di cattivi cittadini; e fanno compassione; perché è doloroso il trovarsi tra la necessità o di negare la verità conosciuta, o di acquistarsi un titolo brutto e odioso.
E in verità noi vorremmo avere qualche autorità, qualche appicco, qualche entratura coi loro avversari, per poterli pregare di provare soltanto con ragioni di fatto che quella opinione è falsa, e di lasciare da banda quel titolo affatto estraneo alla questione, e fuori di proposito.
E infatti, se fosse a proposito, dovrebbe applicarsi a tutti gli uomini di qualunque nazione sieno, i quali riconoscano che la loro possa essere stata coltivata con gli studj d'un'altra: ora noi non applichiamo generalmente questa misura; poiché quando troviamo negli scritti d'un francese quella opinione che la Francia barbara, incolta, abbia ricevuta la luce delle lettere per mezzo dei grandi scrittori d'Italia; noi non chiamiamo quella opinione una ingiuria fatta da quegli scrittori alla loro patria, ma una generosa confessione del vero; non gli chiamiamo cattivi cittadini, ma uomini veggenti, candidi, imparziali.
Ricordiamoci adunque che l'adoprar peso e peso, misura e misura, è cosa abbominevole; e siamo coi nostri così giusti e indulgenti come siamo con gli stranieri; senza pregiudizio però, giova ripeterlo, delle buone ragioni, che si potranno dire quando a Dio piaccia, per provare a questi nostri che pigliano un granchio.
Per vedere una volta quale di queste due opinioni sia la più ragionevole, bisogna esaminare due gran fatti, o due serie di fatti.
La prima; in che consistesse principalmente la corruttela delle lettere nel seicento, se questa corruttela sia stata una deviazione forzata dalla via tenuta nel cinquecento, quali idee si siano perdute, quali pervertite da un secolo all'altro; giacché la corruttela delle lettere non può essere altro che smarrimento, o pervertimento d'idee, a meno che non si voglia ammettere una letteratura che non sia composta d'idee.
L'altra; quali, dopo quella abbominazione del seicento siano state le idee introdotte negli scritti italiani, le quali hanno riprodotta una letteratura ragionevole e splendida, hanno avvertita l'Europa che le lettere in Italia non erano più come lo erano state per un secolo, una buffoneria, un mestiere guastato, l'hanno costretta a rivolgersi con attenzione a questa parte per udire con la speranza di una istruzione, d'un diletto razionale, quali siano le idee uscite dall'Italia e ricevute in parte del patrimonio comune della coltura Europea.
Raccolti i sommi capi di queste idee della letteratura italiana risorta, bisognerà ancora cercarne la sorgente; vedere se sieno state riprese, svolte dagli scritti del cinquecento, o da che altra parte sieno venute a fare impeto nella letteratura italiana.
Quanto alla prima questione...
ma qui una buona ispirazione ci avverte che siamo fuori di strada; che musando così in ciarle di discussione mentre si tratta di raccontare, noi corriamo rischio di perdere, abbiamo forse già perduti i tre quarti dei nostri lettori; cioè almeno una trentina; tanto più che questa fatale digressione è venuta appunto a gettarsi nella storia nel momento il più critico, sulla fine d'un volume, dove il ritrovarsi ad una stazione è un pretesto, una tentazione fortissima al lettore di non andar più innanzi, dove è mestieri di una nuova risoluzione, d'un generoso proposito per riprendere e quasi ricominciare il penoso mestiere del leggere.
Noi tronchiamo dunque subitamente questa digressione, pregando quei pochi i quali l'avessero letta fin qui a fare le nostre scuse a quelli che per noja avranno gettato il libro a mezzo di questo capitolo, pregandoli anche di assicurarli che saltando tutto il capitolo avrebbero la continuazione della storia, e di prometter loro in nostro nome, che noi vi ci getteremo in mezzo a piè pari al principio del prossimo volume, che la continueremo senza interruzione, seguendo fedelmente il manoscritto, e mescolandovi del nostro il meno che sarà possibile.
TOMO TERZO
CAPITOLO I
Il Cardinale Federigo, secondo il suo costume in tutte le visite, stavasi in quell'ora ritirato in una stanza, dove dopo aver recitate le ore mattutine, impiegava quei momenti di ritaglio a studiare, aspettando che il popolo fosse ragunato nella Chiesa, per uscir poi a celebrarvi gli uficj divini, e le altre funzioni del suo ministero.
Entrò con un passo concitato ed inquieto il cappellano crocifero, e con una espressione di volto tra l'atterrito e il misterioso, disse al Cardinale: «Una strana visita, Monsignore illustrissimo».
«Quale?» richiese il Cardinale con la sua solita placida compostezza.
«Quel famoso bandito, quell'uomo senza paura e che fa paura a tutti...
il Conte del Sagrato...
è qui...
qui fuori, e chiede con istanza d'essere ammesso».
«Egli!» rispose il Cardinale: «è il benvenuto, fatelo tosto entrare».
«Ma...» replicò il cappellano, «Vostra Signoria Illustrissima, lo debbe conoscere per fama; è un uomo carico di scelleratezze...»
«E non è egli una buona ventura», disse il Cardinale, «che ad un tal uomo venga voglia di presentarsi ad un vescovo?»
«È un uomo capace di qualunque cosa», replicò il cappellano.
«E anche di mutar vita», disse il Cardinale.
«Monsignore illustrissimo», insistette il cappellano «lo zelo fa dei nemici, sono arrivate più volte fino al nostro orecchio le minacce di alcuni che si sono vantati...»
«E che hanno fatto?» interruppe Federigo.
«Ma se costui, costui che tiene corrispondenza coi più determinati ribaldi, costui che non si spaventa di nulla, venisse ora...
fosse mandato, Dio sa da chi per fare quello che gli altri...»
«Oh! che disciplina è questa», interruppe ancora sorridendo serenamente il vecchio, «che un officiale raccomandi al suo generale di aver paura? Non sapete voi che la paura, come le altre passioni, ad ogni volta che le si concede qualche cosa, domanda qualche cosa di più? e che a questo modo, di cautela in cautela, bisognerebbe ridursi a non far più nulla dei doveri d'un vescovo?»
«Ma questo è un caso straordinario», continuò il cappellano caparbio per premura: «Vostra Signoria non può così esporre la sua vita.
Costui è un disperato, Monsignore illustrissimo; lo rimandi; troveremo qualche onesta scusa...»
«Ch'io lo rimandi?» rispose con una certa maraviglia severa il Cardinale.
«Per farmene un rimprovero per tutta la vita, e renderne poi conto a Dio? Via via.
Già egli ha troppo aspettato.
Fatelo entrar tosto, e lasciatemi solo con lui».
Il cappellano non ebbe più coraggio di replicare, e fatto un inchino partì per obbedire, dicendo in cuor suo: - non c'è rimedio: tutti i santi sono ostinati -, epiteto che nel senso in cui l'adoperiamo il più sovente significa uno che non vuol fare a modo nostro.
Uscito nella stanza dov'era il Conte, qui pure solo in un canto, mentre tutti gli altri presenti si stavano raggruppati in un altro, a guardarlo e a parlare sommessamente, il cappellano gli si accostò, e gli disse che Monsignore lo aspettava; facendo nello istesso tempo, in modo da non essere veduto dal Conte, un cenno delle spalle e del volto agli altri, che voleva dire: - Quell'uomo benedetto; accoglierebbe Satanasso in persona.
Il Conte allora prese tosto una cintura con la quale teneva appeso l'archibugio, e facendolosi passare sul capo se lo tolse dalla spalla, si cavò dalla cintura dei fianchi due pistole, si staccò uno spadone, e fatto un fascio di tutto, si accostò ad uno dei preti che si trovavano nella stanza, gli consegnò quel fascio dicendo: «sotto la vostra custodia».
«Signor sì», disse il prete, e, non senza impaccio, allargando ben bene le mani, e ponendo cura che nulla ne sfuggisse, lo prese con delicatezza come avrebbe fatto d'un bambino da portarsi al Fonte.
Restava ancora un pugnale, di cui il manico d'avorio intarsiato d'oro sporgeva tra il farsetto e la veste: e gli occhi erano rivolti sul Conte, per osservare se egli compisse la buona opera di disarmarsi e desse anche questo al curato: ma il Conte non n'ebbe pure l'immaginazione: togliersi il pugnale era un pensiero troppo strano per lui: gli sarebbe sembrato di andar nudo.
Il cappellano aperse la portiera, ed introdusse il Conte; il Cardinale si alzò, gli si fece incontro, lo accolse con un volto sereno, e accennò con gli occhi al cappellano che partisse; ed egli partì.
Il Conte s'inchinò bruscamente, e guardò il Cardinale, abbassò gli occhi, tornò ad alzargli in quel venerabile aspetto.
Federigo era stato vezzoso fanciullo, giovane avvenente, bell'uomo; gli anni avevano fatto sparire dal suo volto quel genere di bellezza che al suono di questo nome si ricorda primo al pensiero; e già gran tempo prima ch'egli toccasse la vecchiezza, le astinenze e lo studio, avevano tramutate ed offuscate alquanto le forme di quel volto; ma le astinenze stesse e lo studio, l'abitudine dei solenni e benevoli pensieri, il ritegno e la pace interna d'una lunga vita, il sentimento continuo d'una speranza superiore a tutti i patimenti, avevano sostituita nel volto di Federigo a quella antica bellezza, una per così dire bellezza senile, la quale spiccava ancor più in quella semplicità sontuosa della porpora che nuda di ornamenti ambiziosi tutto ravvolgeva il vecchio.
Stava questi aspettando che il Conte parlasse, onde pigliare dalle prime parole di lui il tuono del discorso; giacché Federigo benché non sentisse quel genere di paura che il suo buon cappellano aveva voluto ispirargli, pure sapeva molto bene che bisbetico, ombroso e restio personaggio avesse dinanzi; e avendo presa di questa venuta una speranza indeterminata di qualche bene, non avrebbe voluto dire né far cosa che potesse guastare.
Stava egli dunque tacito, ed invitava il Conte a parlare con la serenità del volto, con un'aria di aspettazione amica, con quella espressione di benevolenza che fa animo agli irresoluti, e sforza talvolta i dispettosi a dire cose diverse da quelle che avevano pensate; ma il Conte stava sopra di sè, perché era venuto ivi spinto piuttosto da una smania, da una inquietudine curiosa, che dal sentimento distinto di cose ch'egli volesse dire ed udire dal Cardinale.
Dopo qualche momento però, ruppe egli il silenzio con queste parole: «Monsignore illustrissimo...
dico bene? In verità sono da tanto tempo divezzato dai prelati che non so se io adoperi i titoli che si convengono...
che si usano».
«Voi non potete errate», rispose sorridendo gentilmente Federigo, «se mi chiamate un uomo pronto a tutto fare, a tutto soffrire per esservi utile».
«Sì?» rispose il Conte, «davvero, Monsignore? Tale è il linguaggio comune...
dei preti principalmente, i quali dicono sempre che non vivono per altro che per servire altrui.
Ma per voi...
tutti dicono che non è un semplice linguaggio di cerimonia.
Ebbene, se fossi venuto per accertarmene? per vedere se egli è vero che voi siete così dolce, così paziente, così inalterabilmente umile? Se fossi venuto, per soddisfare ad una mia curiosità?»
«No, no», replicò, sempre sorridendo ma con una seria espressione di affetto il buon vescovo, «non è curiosità in voi di vedere quest'uomiciattolo che mi procura la gioja inaspettata di vedervi: sento che una cagione più importante vi conduce».
«Lo sentite, Monsignore? qual cagione di grazia? dicono tanti che voi sapete discernere i pensieri degli uomini? discernetemi il mio, per...
via mi fareste piacere: mostratemi che vedete nel mio cuore più ch'io non vegga: parlate voi per me, che forse, forse, potreste indovinare».
«E che?» disse il Cardinale come affettuosamente rimproverando: «Voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?»
«Una buona nuova! io! una buona nuova! ho l'inferno in cuore, e vi darò una buona nuova! Ah! ah! voi non vedete qua dentro.
Voi non sapete che io son venuto qui strascinato senza sapere da chi, che aveva il bisogno di vedervi, che vorrei parlarvi, e che in questo stesso momento io sento in me una rabbia, una vergogna di essere dinanzi a voi...
così, come una pinzochera...
Oh ditemi un po'; quale è questa buona nuova».
«Che Dio vi ha toccato il cuore, e vuol far di voi un altr'uomo»; rispose tranquillamente il Cardinale.
«Dio? ci siamo», replicò il Conte.
«Dio! quella parola che termina tutte le quistioni.
Dov'è questo Dio?»
«Voi me lo domandate», rispose Federigo, «voi? E chi l'ha più vicino di voi? Non lo sentite in cuore, che vi tormenta, che vi opprime, che vi abbatte, che v'inquieta, che non vi lascia stare; e vi dà nello stesso tempo una speranza ch'Egli vi acquieterà, vi consolerà, solo che lo riconosciate, che lo confessiate?»
«Certo! certo!» rispose dolorosamente il Conte, «ho qualche cosa che mi tormenta, che mi divora! Ma Dio! Che volete che Dio faccia di me? Foss'anche vero tutto quello che dicono, non ho altra consolazione che di pensare che nemmeno il diavolo non mi vorrebbe».
Il Conte accompagnò queste parole con una faccia convulsa, e con gesti da spiritato, ma Federigo con una calma solenne, che comandava il silenzio e l'attenzione, replicò: «Che può far Dio di voi? Quello che d'altri non farebbe.
Ricevere da voi una gloria che altri non gli potrebbe dare.
Fare di voi un gran testimonio della sua forza...
e della sua bontà.
Poiché finalmente, che vi accusino coloro ai quali siete oggetto di terrore, è cosa naturale; è il terrore che parla, e si lamenta, è un giudizio facile, poiché è sopra altrui, fors'anche in taluno sarà invidia; forse v'ha chi vi maledice, perché vorrebbe far terrore anch'egli: ma quando voi accuserete voi stesso, quando il giudizio sarà una confessione, allora Dio sarà glorificato.
Questo può far Dio di voi; e salvarvi».
«No: Dio non vuol salvarmi», replicò il Conte, con un dolore disperato.
«Non vuole?» disse il Cardinale.
«Io che sono un uomo miserabile, mi struggo del desiderio della vostra salute: voi non ne avete dubbio; sento per voi una carità che mi divora; e Dio che me la ispira, quel Dio che ci ha redento, non sarà grande abbastanza, per amarvi più ch'io non vi ami?»
La faccia del Conte fino allora stravolta dall'angoscia e dalla disperazione, si ricompose, si atteggiò al dolore; e i suoi occhi che dall'infanzia non conoscevan le lagrime, si gonfiarono, e il Conte pianse dirottamente.
«Dio grande e buono!» sclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: «che ho mai fatto io servo inutile, pastore sonnolento, perché tu mi facessi degno di assistere ad un sì giocondo prodigio?» Così dicendo, egli stese la mano per prendere quella del Conte.
«No», gridò questi, «no: lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica.
Non sapete quanto sangue è stato lavato da quella che volete stringere?»
«Lasciate», disse Federigo, afferrandogli la mano con amorevole violenza, «lasciate ch'io stringa con tenerezza - e con rispetto - questa mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti poverelli, che si stenderà umile, disarmata, pacifica a tanti nemici».
«È troppo!» disse il Conte singhiozzando.
«Lasciatemi, Monsignore...
buon Federigo: un popolo affollato vi aspetta...
tanti innocenti, tante anime buone...
tanti venuti da lontano per vedervi, per udirvi; e voi vi trattenete...
con chi!»
«Lasciamo le novantanove pecorelle», rispose Federigo amorevolmente; «sono in sicuro, sono sul monte: io voglio ora stare con quella che era smarrita.
Quella buona gente, sarà ora forse più contenta che se avesse tosto veduto il suo vescovo.
Chi sa che Dio il quale ha operato in voi il prodigio della misericordia, non diffonda ora nei cuori loro una gioja di cui non conoscono ancora la cagione? Son forse uniti a noi senza saperlo: forse lo Spirito pone nei loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera, ch'egli esaudisce per voi, un rendimento di grazie, di cui voi siete l'oggetto non ancor conosciuto».
Al fine di queste parole stese egli le braccia al collo del Conte, il quale dopo aver tentato di sottrarsi, dopo aver resistito un momento, cedette come strascinato da quell'impeto di carità, abbracciò egli pure il Cardinale, e abbandonò il suo burbero volto su le spalle di lui.
Le lagrime ardenti del pentito cadevano sulla porpora immacolata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo cingevano quelle membra, premevano quelle vesti su cui da gran tempo non avevano posato che le armi della violenza e del tradimento.
Sciolti da quell'abbraccio, il Cardinale disse con un affetto ansioso al Conte: «parlate: parlate; apritemi il vostro cuore: ditemi i pensieri che più vi tormentano; quello che hanno di più amaro si perderà passando su le vostre labbra; il dolore che vi resterà sarà misto di giocondità, sarà una giocondità esso medesimo: non vi lasceranno altra puntura che il desiderio di riparare al già fatto.
Dite: forse v'è qualche cosa a cui si può riparare ancora:...»
«Ah sì», interruppe il Conte; «v'è una cosa a cui si può riparare tosto: il fatto è turpe, è atroce, ma non è compiuto.
Lodato Dio, che non lo è.
Per farvelo conoscere è d'uopo ch'io appaja dinanzi a voi, per mia confessione, quello ch'io sono: uno scellerato...
e un vile birbone; ma non importa: quello che importa, è di cessare una crudele iniquità».
Federigo stava ansioso attendendo, e il Conte narrò dell'infame contratto di Lucia, del rapimento, dell'arrivo di essa al suo castello, delle sue suppliche, e dei primi pensieri che a cagione di queste gli erano venuti.
Il buon vescovo impallidì alla storia dei patimenti e dei pericoli di quella poveretta; ma quando intese ch'ella si trovava ancora al castello: «Ah!» disse «è salva, è intatta: togliamola tosto da quell'angoscia: ah voi sapete ora che cosa sono le ore dell'angoscia! abbreviamole a questa innocente.
Voi me la date...?»
«Dio!» sclamò il Conte; «che uomo son io, se mi si richiede come un dono ciò ch'io non ho in poter mio che per la più vile prepotenza! se mi si chiede per misericordia di non essere più un infame!»
«Il male è fatto», rispose Federigo: «quello che è da farsi è il bene, e voi lo potete; voi lo volete; Dio vi benedica.
Dio vi ha benedetto.
D'una iniquità, voi potete ancor fare un atto di virtù, e di beneficenza.
Sapete voi di che paese sia questa poveretta?»
Il Conte glielo disse; Federigo allora scosse il suo campanello; alla chiamata entrò con ansietà il cappellano, il quale in tutto quel tempo era stato come sui triboli, e veduta la faccia tramutata, umile, commossa del Conte, e su quella del Cardinale una commozione che pur traspariva da quella sua tranquilla compostezza; restò colla bocca aperta, girando gli occhi dall'uno all'altro; ma il Cardinale lo tolse tosto da quella contemplazione mezzo estatica e mezzo stordita dicendogli: «Fra i parrochi qui radunati vi sarebbe mai quello di...?»
«V'è, Monsignore illustrissimo», rispose il cappellano.
«Lodato Dio!» disse il Cardinale: «chiamatelo, e con lui il curato di questa chiesa».
Il cappellano uscì nell'altra stanza, dove i preti congregati aspettavano il suo ritorno con la speranza di saper qualche cosa d'un colloquio che gli teneva tutti sospesi.
Tutti gli occhi furono rivolti sopra di lui: egli alzò le mani, e movendole l'una contro l'altra con un gesto come involontario, tutto trafelato come se avesse corso due miglia, disse: «Signori, signori: haec mutatio dexterae Excelsi.
Il signor curato della chiesa e il signor curato di...
sono chiamati da Monsignore».
Il curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di sè una memoria illustre, se la virtù sola bastasse a dare la gloria fra gli uomini.
Egli era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in tutte le sue opere: l'amore fervente di Dio e degli uomini era il suo sentimento abituale: la sua cura continua di fare il suo dovere, e la sua idea del dovere era: tutto il bene possibile: credeva egli sempre adunque di rimanere indietro, ed era profondamente umile, senza sapere di esserlo; come l'illibatezza, la carità operosa, lo zelo, la sofferenza, erano virtù ch'egli possedeva in un grado raro, ma che egli si studiava sempre di acquistare.
Se ogni uomo fosse nella propria condizione quale era egli nella sua, la bellezza del consorzio umano oltrepasserebbe le immaginazioni degli utopisti più confidenti.
I suoi parrocchiani, gli abitatori del contorno lo ammiravano, lo celebravano; la sua morte fu per essi un avvenimento solenne e doloroso; essi accorsero intorno al suo cadavere; pareva a quei semplici che il mondo dovess'esser commosso, poiché un gran giusto ne era partito.
Ma dieci miglia lontano di là, il mondo non ne sapeva nulla, non lo sa, non lo saprà mai: e in questo momento io sento un rammarico di non possedere quella virtù che può tutto illustrare, di non poter dare uno splendore perpetuo di fama a queste parole: Prete Serafino Morazzone Curato di Chiuso.
All'udirsi chiamare, egli si spiccò da un cantuccio dove stava pregando tacitamente, e si mosse senz'altra premura che di obbedire, senz'altra curiosità che di vedere se vi fosse per lui qualche opera utile e pia da intraprendere.
L'altro chiamato era quel nostro Don Abbondio, il quale per togliersi d'impiccio era stato in gran parte cagione di tutto questo guazzabuglio: egli non poteva sapere, né avrebbe mai pensato che questa chiamata avesse la menoma relazione con quei tali promessi sposi, dei quali credeva di essere sbrigato per sempre.
Si avanzò anch'egli incerto e curioso, anche inquieto di dovere trovarsi con quel famoso Conte: pure lo rassicurava la faccia ispirata del Cappellano, quelle sue parole che annunziavano oscuramente cose grandi, e ciò che più stava a cuore di Don Abbondio, cose quiete.
Ambedue i curati furono tosto introdotti nella stanza dove il Conte stava col Cardinale.
Don Abbondio s'inchinò umilmente ad entrambi, e guardava l'uno e l'altro ma specialmente il Conte; e aspettava che si dicesse qualche cosa per esser certo che non v'erano imbrogli.
Il Cardinale, prese in disparte il curato di Chiuso, e dettogli brevemente di che si trattava, gli espose la sua intenzione di spedir tosto in lettiga una donna al castello a prender Lucia, affinché questa alla prima nuova della liberazione si trovasse con una donna, il che sarebbe stato per quella poveretta una consolazione e una sicurezza, non meno che decenza per la cosa; e lo pregò di sceglier tosto fra le sue parrocchiane la donna più atta a questo uficio per saviezza, e la più pronta per carità ad assumerlo.
«Ne corro in cerca, Monsignore illustrissimo, e Dio compirà l'opera buona».
Detto questo uscì; i radunati nell'altra stanza lo guardarono curiosamente, ma nessuno lo fermò per interrogarlo, giacché si sapeva ch'egli era così avaro delle parole inutili, come pronto a parlare senza rispetto quando il dovere lo richiedesse.
Il Cardinale si volse allora a Don Abbondio, e con volto lieto gli disse: «Una buona nuova per voi, Signor curato di...
Una vostra pecorella che avrete pianta come perduta, vive, è trovata; e voi avrete la consolazione di ricondurla al vostro ovile, o per ora in quell'asilo di che Dio la provvederà».
«Monsignore illustrissimo, non so niente»; rispose Don Abbondio, il primo pensiero del quale era sempre di scolparsi a buon conto, e di lavarsene le mani.
«Come!» disse Federigo, «non conoscete Lucia Mondella, vostra parrocchiana, che era scomparsa...?»
«Monsignore sì», rispose tosto il curato, che non voleva passare per un pastore spensierato.
«Or bene, rallegratevi», disse il cardinale, «che Dio ce la restituisce: e questo signore» continuò (accennando il Conte) «è lo stromento di che Dio si serve per questa opera buona.
In altro momento voi mi informerete dei casi e delle qualità di questa giovane».
- Ahi! ahi! - pensava fra sè Don Abbondio.
- Bell'impiccio a contare la storia! Questa donna è nata per la mia disperazione.
«Per ora», proseguì Federigo, «quello che preme è di riaverla e di riporla nelle braccia di sua madre, e in casa sua, se potrà esservi sicura.
Andrete voi dunque con questo mio caro amico» (e così dicendo prese la mano del Conte il quale lasciava dire e fare troppo contento che un tal uomo lo governasse e parlasse per lui) «andrete al suo castello accompagnando una buona donna di questo paese che ricondurrà quella giovane nella mia lettiga.
Per far più presto, darò ordine tosto che due delle mie mule sieno bardate per voi e per lui.
Vedete», continuò egli coll'accento di chi è compreso di ciò che dice, «vedete che in mezzo alle tribolazioni, ai contrasti, agli affanni del nostro ministero, Dio ci prepara talvolta consolazioni inaspettate, e servi inutili che noi siamo! pure ci adopera in opere nelle quali il bene è visibile, ci vuole cooperatori della sua provvidenza misericordiosa».
Le parole del Cardinale potevano esser belle, ma in questo caso erano veramente perdute.
Don Abbondio all'udire un tal ordine sentì tutt'altro che consolazione; si trattava di ricondurre in trionfo, alla presenza dell'arcivescovo quella Lucia nelle cui avventure egli si trovava intrigato un po' sporcamente, nella cui storia era parte, e in un modo e per motivi di cui l'ultima persona a cui avrebbe voluto render ragione era certamente quel Federigo Borromeo.
Ma questo non era ancora il peggio: si trattava di far viaggio con quel terribil Conte, di entrare nel suo castello senza saper chiaramente a che fare: tutto ciò che il curato aveva inteso raccontare in tanti anni della audacia, della crudeltà, della bizzarria, della iracondia di costui si affacciava allora alla sua immaginazione: e metteva in moto tutta quella sua naturale paura.
Ma questa timidezza stessa poi non gli permetteva di rifiutare, di fare ostacolo ad un ordine così preciso dell'arcivescovo, in faccia a colui che ne sarebbe offeso.
Vedendo poi quello pigliare amorevolmente la mano del terribil Conte, Don Abbondio stava guatando, come un ospite pauroso vede un padrone di casa accarezzare sicuramente un suo cagnaccio tarchiato, ispido, arrovellato, e famoso per morsi e spaventi dati a cento persone; sente il padrone dire che quel cane è bonaccio di natura, la miglior bestia del mondo; guarda il padrone e non osa contraddire per non offenderlo, e per non esser tenuto un dappoco; guarda il cane e non gli si avvicina perché teme che al menomo atto quel bonaccio non digrigni i denti e non si avventi alla mano che vorrebbe palparlo; non fa moto per allontanarsi perché teme di porgli addosso la furia d'inseguire; e non potendo fare altro, manda giù il cane, il padrone, e la sua sorte che l'ha portato in quel gagno, in quella compagnia: tali erano i sensi e gli atti del nostro povero Don Abbondio.
Pure componendosi al meglio che potè, fece egli un inchino al Cardinale per accennare che obbedirebbe, e un altro inchino al Conte accompagnato con un sorriso che voleva dire: - sono nelle vostre mani: abbiate misericordia: parcere subjectis -.
Ma il Conte tutto assorto nei suoi pensieri, sbalordito egli stesso di tanta mutazione, intento a raccogliersi, a riconoscersi, per così dire, agitato dai rimorsi, dal pentimento, da una certa gioja tumultuosa, corrispose appena macchinalmente con una piegatura di capo, e con un aspetto sul quale si confondevano tutti questi sentimenti in una espressione oscura e misteriosa, che lasciò Don Abbondio ancor più sopra pensiero di prima.
Il Cardinale, si trasse in un angolo della stanza col Conte che teneva per mano, e gli disse: «Vi par egli, amico, che la cosa vada bene così? Siete contento di queste disposizioni?»
«E che?» rispose il Conte commosso e umiliato, «dopo aver tanto tempo fatto il male a modo mio, dovrei ora dubitare di lasciarmi governare nel ripararlo? e da Federigo Borromeo?»
«Da Dio tutti e due», rispose questi, «perché siamo due poveretti.
Andate», continuò poi con tuono affettuoso e solenne; «andate, figliuol mio diletto a toglier di pene una creatura innocente, a gustare i primi frutti della misericordia; io v'aspetto, voi tornerete tosto non è vero? noi passeremo insieme tutte le ore d'ozio che mi saranno concesse in questa giornata?»
«Se io tornerò?» rispose il Conte.
«Ah! se voi mi rifiutaste, io mi rimarrei ostinato alla vostra porta come il mendico.
Ho bisogno di voi! Ho cose che non posso più tener chiuse in cuore, e che non posso dire ad altri che a voi.
Ho bisogno di sentir quelle parole che voi solo potete dirmi».
Federigo in risposta gli strinse la mano, si avvicinò ad un tavolino, scosse un'altra volta il campanello; e tosto entrò un ajutante di camera; cui egli impose che facesse tosto apprestar la lettiga la quale stesse agli ordini del curato di Chiuso, e facesse bardare due mule, che dovevano servire di cavalcatura ai due presenti.
Dato l'ordine, riprese la mano del Conte e s'avviò verso la porta della stanza; ma veduto passando il nostro Don Abbondio che stava tutto pensieroso e come ingrugnato, pensò il buon cardinale che quegli forse avesse avuto per male di vedere quel facinoroso così accarezzato e distinto, e sè negletto in un canto.
Si fermò tosto, e rivolto al curato con un sorriso amorevole, e quasi di scusa, e con quel tratto cortese tanto raro a quei tempi, in cui i modi comuni erano trascuratezza superba, o cortigianeria iperbolica, gli disse: «Figliuolo, voi siete sempre con me nella casa del nostro Padre comune; ma questi, questi...
perierat et inventus est».
Don Abbondio rispose con un sorriso forzato al quale voleva far dire: - certo è una gran consolazione -: ma in cuor suo tra sè e sè, rispose con una frase proverbiale lombarda: - meglio perderlo che trovarlo -.
Il Cardinale si avviò ancora verso la portiera; quando fu presso l'ajutante di camera spalancò le imposte, e Federigo, traendo per mano il Conte che lo seguiva con gli occhi bassi e con la fronte umiliata, uscì nell'altra stanza dove il clero che lo accompagnava nella visita, e quello raccolto dalle parrocchie del contorno, stava ragunato aspettando.
Tutti gli sguardi furono levati in un punto ai volti di quella coppia mirabile, sui quali era dipinta una commozione diversa, ma egualmente profonda: una gioja, una tenerezza, una estasi tranquilla sui tratti venerabili di Federigo, e su quelli del Conte i vestigi d'una grande vittoria e d'un grande combattimento, il contrasto tra le feroci passioni che partivano e le nuove virtù, un abbattimento che mostrava tuttavia il vigore di quella selvaggia e risentita natura.
A più d'uno dei riguardanti sovvenne allora di quelle parole d'Isaia: Il lupo e l'agnello pascoleranno insieme; il leone participerà alla profenda del bue.
Il Cardinale s'arrestò un momento poco al di là della soglia, abbracciò ancora il Conte, il quale non ebbe tempo di ritirarsi, e gli disse: «v'aspetto»; salutò della mano Don Abbondio, e mostrò di volersi avviare alla sacristia: parte del clero lo precedette, altri lo circondarono, alcuni gli tennero dietro, e la comitiva partì, giunse alla sacristia, dove il cardinale si vestì degli abiti solenni, ed uscì nella chiesa affollata a celebrare gli uficj divini.
Quando fu cantato il Vangelo, il Cardinale parlò dall'altare al popolo, come era suo costume.
In quel tempo in cui la carestia era l'idea la più famigliare, e l'affare il più importante, si diffuse egli con eloquenza cordiale a parlare di pazienza e di liberalità; a far sentire ai poverelli il bene che potevano cavare dai patimenti irrimediabili, agli agiati il bene che potevano farsi col rimediare a quei patimenti che avessero potuto: e le parole dell'uomo di Dio, produssero ivi come da per tutto il doppio effetto ch'egli cercava; perché quelle parole erano rese ancor più potenti dal soccorso e dall'esempio.
Le largizioni abituali di Federigo le quali non avevano altro limite che il suo avere, gli avevano data una fama già antica di carità singolare: ma le angustie di quel tempo avevano resa la sua carità ancor più attiva, e più ingegnosa; e da per tutto si parlava del gran numero di poveri da lui nudriti quotidianamente nella città, e dei mezzi da lui trovati per soccorrerli, per non perderne uno se fosse stato possibile.
Peregrinando poi nella diocesi per visitarla, egli non avrebbe avuto il cuore di vedere delle miserie senza sollevarle, di esortare altrui alla pazienza, alla carità, con le mani chiuse: quindi i poverelli dei paesi dov'egli arrivava erano certi di trovare un soccorso, di non patire per quel tempo che avrebbero avuto fra loro il pastore.
Nè questo solo esempio si contentava egli di dare: sobrio in ogni tempo, in quelli della carestia egli si misurava ancor più scarsamente il cibo: voleva detrarre a sè tutto ciò che poteva sollevare altrui; non gli pareva di compatire davvero ai suoi poveri se non pativa con essi; voleva mostrare col fatto che i disagi del vitto erano pur tollerabili, che si poteva anche in mezzo a quelli benedire il Signore, che si poteva non solo sostenerli con rassegnazione, ma eleggerli volonterosamente.
I quali sensi sono espressi in quelle sue belle parole: Sarebbe cosa molto disdicevole vedere grasso il pastore e macilenti le pecore.
Ma nel discorso, che Federigo tenne in quel giorno uscivano di quando a quando come dall'abbondanza del suo cuore parole più magnifiche, più tenere sulla misericordia, sulla conversione, sulla vita futura, le quali erano intese da quelli che lo avevano veduto col Conte, e in parte anche dal popolo, nel quale s'era sparsa confusamente la notizia della gran mutazione: e quelli che erano soliti di udirlo ebbero a dire che in quel giorno v'era nel suo dire qualche cosa d'ispirato e di celeste oltre l'ordinario.
Terminato il discorso, compiuto il Sagrificio, attese egli alle altre funzioni del suo ministero per lunghissima ora, con quell'ardore suo solito, con quella intensità volonterosa e continua, che non lasciava nemmeno da sospettare che vi fosse nelle sue azioni uno sforzo da lodare, un tedio vinto, una tolleranza virtuosa della fatica.
Intanto il Conte e il curato erano rimasti soli nella stanza: e la coppia era in un altro senso non meno mirabile di quella di prima.
Don Abbondio nojato del presente e inquieto dell'avvenire, ruminava fra sè che cosa potesse dire a colui, per assaggiarlo, per conoscere l'umore della bestia, giacché di voglia o di forza, doveva trovarsi con quella, e accompagnarla nella sua caverna: ma il pover uomo non sapeva raccappezzare un pensiero, una frase che stesse bene.
- Potrei, - andava masticando fra sè, - potrei dire: mi rallegro...
buono! se mi domanda di che, come posso rispondere? mi rallegro vuol dire che finora non c'era da rallegrarsi, vuol dire che egli era un gran birbone.
Costui è un matto furioso.
E se la piglia per traverso? È meglio parlare di cose estranee.
- E appena avuta questa ispirazione, Don Abbondio stava per dire: la giornata è un po' rigida; ma non è da stupirsene; siamo tra le montagne e ai ventidue di novembre.
Ma si pentì tosto anche di questa risoluzione: perché diceva egli fra sè: - non vedi come è accipigliato, meditabondo, turbato? Se gli fo motto di simili corbellerie, mi può rispondere in furia, e togliermi il coraggio di andare...
andare! bisogna andare.
Oh che faccenda! oh che impiccio! Oh quando potrò contarla a Perpetua, e dire: è andata bene!
Così si angariava il pover uomo, cercando nella sua mente qualche materia di discorso, e rigettando questa perché troppo ardita, quella perché troppo volgare; come un povero scrittore che abbia a fare con un pubblico difficile.
Se il Conte avesse potuto sospettare che la mente di Don Abbondio era ad una simile tortura, gli avrebbe tosto cercate le parole più atte a dare sicurezza anche ai pusillanimi; avrebbe fatto in modo d'infondere ogni coraggio a Don Abbondio: poiché il timore ch'egli ispirava sarebbe stato per lui in quel momento un rimprovero doloroso, un ricordo di tutto ciò che v'era stato in lui di feroce e d'ingiusto, di ciò ch'egli allora detestava, e voleva riparare.
Ma per disgrazia di Don Abbondio, era il Conte talmente occupato dei suoi pensieri, talmente distratto da tutto ciò che non era, egli, il cardinale, e Lucia, che non si avvedeva per nulla della tempesta che bolliva nell'animo del suo compagno, e a dir vero non si ricordava quasi ch'egli fosse presente.
Giunse alla fine l'ajutante di camera, a dire che tutto erA in pronto.
Don Abbondio guardò allora al Conte, il quale alla prima parola intesa s'avviò; s'accorse allora di Don Abbondio, e lo riverì, come si fa a persona che sopraggiunga; e quindi trovandosi già presso alla porta continuò il suo cammino seguendo l'ajutante di camera.
Don Abbondio che aspettava questo momento per vedere se il Conte gli usasse un atto di cerimonia anzi di civiltà, e pigliarne buon augurio, fu contristato della poca buona creanza del Conte; e gli tenne dietro con l'animo sempre più sconsolato.
Ma il Conte, come abbiam detto, era troppo sopra pensiero per ricordarsi del cerimoniale.
Scesi nel cortiletto della casa parrocchiale, trovarono la lettiga, con entro la donna istrutta dal buon curato; e presso alla lettiga le due mule tenute per la briglia da due palafrenieri.
Salirono entrambi in silenzio; i lettighieri uscirono per porsi sulla via che conduceva al castello, e i due cavalieri su le mule sempre guidate a mano dai due palafrenieri, la cui compagnia fu molto gradita a Don Abbondio, seguirono posatamente la lettiga.
CAPITOLO II
La casipola del curato era, ed è tuttavia, attergata alla chiesicciuola di quel paesello: la cavalcata per porsi in via doveva girare il fianco della chiesa, e passare davanti alla fronte sulla quale è voltato un arco che appoggiandosi dall'altra parte sul muro della strada forma tetto sopra di questa.
Già su la porta del curato cominciava la folla di coloro che non potendo capire in Chiesa, né stare in luogo dove si vedesse quello che vi si faceva, cercavano almeno di starvi più presso che si potesse.
Quella pompa singolare si affacciò alla turba, e i lettighieri che erano contadini del luogo domandarono il passo ai primi che lo impedivano, con un certo garbo inusitato che era loro ispirato dal sentimento indistinto che servivano a qualche cosa di santo e di gentile, dall'aver veduto il cardinale, dalla commozione che appariva su tutti i volti.
La folla faceva largo guardando ognuno quella comitiva con maraviglia e con curiosità, e il Conte con un riserbo che non era più quel solito terrore.
Così pian piano la comitiva si avanzava, quando giunse sotto il portico, dove si dovette rallentare ancor più la marcia per la folla di popolo chiusa fra i due muri; il Conte, guardando nella Chiesa dalla porta che era spalancata, si trasse il suo cappello piumato, e inchinò la fronte fino su la chioma della mula: atto che eccitò un mormorio di gioja e di stupore nel popolo che poteva vederlo, e si propagò per tutta la folla, ognuno raccontandone il motivo ai suoi vicini.
Don Abbondio si trasse pure il suo gran cappello senza piume, s'inchinò, sentì i suoi confratelli che cantavano, e provò forse per la prima volta un sentimento d'invidia in una tale occasione.
- Oh quante volte, - diss'egli in cuor suo, - queste funzioni mi son parute lunghe come la fame; e non vedeva l'ora d'andarmene in sagrestia a piegare la mia cotta; e adesso torrei volontieri di star lì a cantar fino a sera; in quella santa pace; e invece bisogna andare...
Ma Dio benedetto! - sclamò egli internamente come l'uomo che è vivamente penetrato dal sentimento che gli si fa torto, - giacché m'avete ficcato in questo impiccio, almeno almeno, ajutatemi.
Superata tutta la folla, il corteggio seguì pianamente il suo cammino; ma siccome la disposizione d'animo dei due personaggi a cavallo era sempre la stessa, anzi i pensieri dell'uno e dell'altro diventavano sempre più intensi a misura che si avvicinava la meta, così il cammino si faceva in silenzio, e noi non possiamo riferire che i soliloqui dell'uno e dell'altro.
- Gran cosa, (è il soliloquio di Don Abbondio) gran cosa, che a questo mondo vi debbano essere dei ribaldi e dei santi, che gli uni e gli altri debbano avere l'argento vivo addosso, che quando hanno una ribalderia, o un'opera santa da fare, debbano sempre tirare per forza in ballo gli altri, quelli che vorrebbero attendere ai fatti loro; e che tanto gli uni quanto gli altri debbano venir tra i piedi a me, pover'uomo, che non m'impaccio degli affari altrui, e che non cerco altro che di starmene quieto a casa mia! Quel birbone di Don Rodrigo s'ha da ficcare in capo di sturbare un matrimonio, proprio nella mia parrocchia, e m'ha da venire una intimazione di quella sorte! Un pazzo che ha nascita e quattrini, casa ben piantata, e parenti in alto, e potrebbe godersi la sua vita tranquilla, signorilmente: attendere a dare dei buoni pranzi, stare allegro, e fare degli allegri: signor no: ha da desiderare la donna d'altri, tanto per venire a molestarmi.
Oh questa ragazza benedetta vuol essere la mia morte! Deve proprio capitare in mano di costui (e così dicendo guatava sottecchi il Conte quasi per vedere se poteva arrischiarsi a strapazzarlo mentalmente); e costui che è sempre stato lontano dai vescovi come il diavolo dall'acqua santa, ha da venir qui in persona, a cercare l'arcivescovo, senza che nessuno ce lo abbia mandato per forza, proprio per metter me in impaccio: e questo arcivescovo, benedett'uomo che vorrebbe dirizzar le gambe ai cani, a cui pare che il mondo rovini quando la gente sta ferma, che deve sempre far qualche cosa egli, e far fare qualche cosa agli altri; subito, subito, tutto va bene, gran consolazione, la pecora smarrita, credere tutto, darvi dentro, e far trottare il curato.
Che si abbiano concluso fra loro, Dio lo sa: ma, cospetto non bisogna andar così in furia a questo mondo.
La santità non basta, ci vuole un po' di prudenza, e sì che dovrebbe avere imparato: ha avuto delle belle brighe, a forza di cercarne, e di voler fare andar le cose a modo suo: ma pare che vi c'ingrassi: non ne lascia scappare una; la carità va bene; ma la prima carità dovrebb'essere per un povero curato, che un vescovo, un vero vescovo di giudizio lo dovrebbe tener prezioso come la pupilla degli occhj suoi.
Chi sa costui che cosa gli ha contato? che fini ha? potrebb'essere una trappola: ahi! ahi! ahi! Ma se anche, come spero, fosse convertito costui (e qui guardava il Conte) dovrebbe sapere Monsignore illustrissimo che dei peccatori inveterati non è da fidarsi così subito, bisogna provarli: i primi momenti sono bruschi; e la forza dell'abito fa ricadere uno quasi senza che se ne avvegga, e intanto...
chi è sotto è sotto: ahi! ahi! ahi! S'aveva mò a mandar così un povero curato galantuomo sotto la bocca del cannone?
Don Abbondio era a questo punto della sua meditazione quando la cavalcata giunse alla taverna dove cominciava la salita, e ne uscirono bravi secondo il solito, i quali videro con istupore il Conte con un prete dietro una lettiga.
Pensarono che potesse essere, non lo seppero indovinare, e non fecero altro che inchinarsi al Conte, il quale con viso serio proseguì il suo cammino.
Ma Don Abbondio, continuava: - ci siamo.
Oh che faccie! Questa è la porta dell'inferno! E costui vedete che faccie stralunate fa anch'egli! Un po' pare Sant'Antonio nel deserto quando scacciava le tentazioni, un po' pare Oloferne in persona! Dio m'ajuti; e lo deve per giustizia.
Infatti i pensieri che si affollavano nella mente del Conte passavano per dir così rapidamente sulla sua faccia, come le nuvolette spinte dal vento passano in furia a traverso la faccia del sole; alternando ad ogni momento una luce arrabbiata, e una fredda oscurità.
Pensava a quello che avrebbe detto e fatto, mettendo il piede nel suo castello, trovandosi con quegli dai quali in un punto s'era fatto così diverso.
Avrebbe voluto rendere gloria a Dio, confessare il cangiamento che era accaduto nel suo animo, rinnegare la sua scellerata vita in faccia a quelli che ne erano stati i testimonj, i complici, gli stromenti.
- Ma...
- diceva un altro pensiero, - guai se costoro, credono un momento ch'io non sia più quello da stendere in terra colui che ardisse resistermi!
Così pensando egli pose macchinalmente la mano al luogo dov'era solito tenere una pistola, e si ricordò di averle lasciate con le altre armi in casa del curato.
- Ohe! - continuava fra sè - Perché mi obbedirebbero costoro? e se veggiono che questo pane infame è finito per loro, chi sa che cosa la rabbia può suggerire a costoro! E quello che importa è di non far parole, di non perder tempo, di ricondurre Lucia tranquillamente: quella poveretta! il pegno del mio perdono! - Se in questa casa, se in questa caverna, cessa un momento la disciplina, il terrore del padrone, diventa un inferno! peggio di prima! Costoro saltano il confine, e sono in sicuro: eh gli ho avvezzi io così! - Ma che! dovrò io dunque umiliarmi a fingere dinanzi a costoro! a questi scellerati! Scellerati? costoro? chi sono costoro? i miei scolari, i miei amici, quelli che ho ammaestrati io! Facciamo il bene per l'unica via che è aperta.
Bisogna dissimulare; si dissimuli.
- Così pensando egli si guardò attorno, e visto che nessuno dei suoi era in vicinanza, alzò la voce, ordinò ai lettighieri di restare, scese da cavallo, si avvicinò alla lettiga, e salutata la buona donna che v'era seduta le disse sottovoce: «L'opera di carità che voi fate ora, vuol esser condotta con prudenza assai.
Lasciatevi regolare da me in tutto; e sopra ogni cosa non dite parola che a quella poveretta, e a chi ardisse interrogarvi, dite che parli con me.
Voi entrerete nella stanza dov'è quella giovane, le direte brevemente che siete venuta a liberarla; non ne dubiterà, quando vedrà il suo curato: sarà spaventata, poveretta! vedete di annunziarle la cosa in modo che la sorpresa non le faccia male; la lettiga verrà nella stanza, e ripartiremo tosto».
La buona donna rispose che farebbe come le era detto.
Mentre il Conte le dava questa istruzione Don Abbondio, il quale fino allora si era spaventato ad ogni bravo che s'incontrava, e che per consolarsi guardava ai lettighieri e ai palafrenieri, stava tutto in incertezza per questa fermata, e sospirava.
Il Conte spiccatosi dalla lettiga si avvicinò alla mula di Don Abbondio che aspettava quello che avvenisse con gli occhi sbarrati, e gli disse sotto voce: «Signor Curato; ella non ha bisogno che io le insegni ad esser prudente; ma in questa casa, è necessaria una prudenza che io solo pur troppo posso conoscere appieno.
Se le sta a cuore la riuscita di questo pio disegno, non dica parola, non faccia cenno che possa dare a divedere nulla a costoro, né di quello che si vuol fare, né di quello ch'io penso.
Perdoni, signor curato, se non le dico di più, se non le faccio più scuse dell'incomodo ch'ella patisce per mia cagione, ma Ella ne spera la ricompensa dal cielo, e verrà tempo in cui io potrò tranquillamente esprimerle la mia riconoscenza».
La voce dell'uomo che sgombra le rovine e le macerie, e che chiama il poveretto che è stato colto dalla caduta d'una fabbrica, e vi si trova sepolto vivo, è appena più dolce al suo orecchio che fosse quella del Conte al povero nostro Don Abbondio.
«Ah! signor Conte», diss'egli, confondendo il sentimento che voleva esprimere con quello che provava realmente, «Ella mi dà la vita.
Dio sia benedetto! queste sono grazie di lassù.
Tocca a me farle scusa se sono stato incivile...»
«Zitto, per amor del cielo», interruppe il Conte: «ad altro tempo le cerimonie: Ella non faccia vista di nulla, si contenga in modo che nessuno possa sapere qui s'ella giunge in casa d'un amico...
o d'un tiranno».
«Lasci fare, lasci fare a me»; rispose Don Abbondio.
Il Conte salì di nuovo su la mula, e volto ai lettighieri, e ai palafrenieri disse loro: «Silenzio, e obbedienza: non dite né rispondete una parola in quel castello; non parlate nemmeno fra voi; silenzio insomma...
e il primo di voi che fiata...
Ma no!» continuò, ravvedendosi, in tuono più dolce, «figliuoli non fiatate, perché potreste far molto male a voi e ad altri.
Andiamo».
I lettighieri che deposta la lettiga avevano ascoltata a bocca aperta questa arringa, ripresero le cinghie su le spalle, continuarono la loro strada, le mule seguirono: e si giunse alla porta del castello.
Gli scherani del Conte che al suo avvicinarsi al castello s'incontravano sempre più frequenti, già stupiti di quel suo uscir solo al mattino in un giorno di tanto movimento e di tanto concorso, lo erano ancor più allora di vederlo tornare al seguito d'una lettiga chiusa, a paro d'un prete, con quelle cavalcature sconosciute: ma quello che portava al sommo il loro stupore si era di vedere il loro padrone senz'armi.
Quella partenza aveva dato luogo a molte congetture, e fatta nascere una aspettazione di qualche cosa di nuovo, ma il ritorno invece di soddisfare la curiosità la cresceva e la impacciava davantaggio.
Era una preda? Come l'aveva fatta il padrone solo? e perché il vincitore tornava disarmato? O che diamine era? Chinandosi umilmente davanti al padrone che passava, cercavano essi di spiare sul suo volto qualche indizio di questa faccenda, ma il volto del Conte era impenetrabile: e gli scherani rimanevano a guardarsi l'un l'altro con la bocca aperta.
Alla porta, il Conte scese dalla mula, e fece cenno di fare altrettanto a Don Abbondio che lo guardava attentamente, appunto per non perdere un cenno; e veduto questo si lasciò tosto sdrucciolare dalla sua mula.
Il Conte disse ai palafrenieri: «aspettate qui»; disse al curato di seguire la lettiga; andò egli dinanzi, e disse ai lettighieri: «seguitemi».
Tutto si fece com'egli aveva imposto: il Conte entrò col suo seguito nel cortile, si avviò alla stanza dov'era Lucia, ed entrato in quella che le era vicina; fece restare i lettighieri, si chiuse dentro, e comandò che la lettiga fosse posta a terra.
Aprì allora lo sportello, diede la mano alla buona donna, la fece uscire e disse sotto voce in modo da non essere inteso che da quelli che lo vedevano: «In quella stanza è la giovane da condursi via: e con lei una vecchia malandrina...
una vecchia.
Io la chiamerò fuori: voi entrate, e voi pure Signor Curato.
Annunziate a quella giovane che è libera, che deve partir tosto con voi, che la cosa deve passare quietamente; non perdete tempo: quando ha inteso, quando è disposta, bussate, la lettiga verrà nella stanza: fatela sedere in essa, ponetevi al suo fianco, tirate le cortine, e venite qui: io vi aspetto: andrò innanzi, poi la lettiga, poi il signor curato; dritto alla porta; quivi saliremo sulle nostre mule, e ripartiremo.
E voi», disse rivolto ai lettighieri: «zitti».
Così detto condusse la buona donna e il curato sulla soglia della porta chiusa che dava alla stanza di Lucia, bussò: s'udì la voce della vecchia che disse: «chi è egli?» «Io»: rispose il Conte: la vecchia aprì, e vide le due facce inaspettate col padrone, restò come incantata.
«Uscite» le disse il Conte; quella uscì tosto, e i due salvatori entrarono.
«Fermatevi qui» disse allora il Conte alla vecchia; e non disse altro: egli la vecchia e i lettighieri stettero tutti immobili, egli a tender l'orecchio e a numerare i momenti, i lettighieri ad aspettare, e la vecchia a smemorare.
Lucia aveva passata la notte in un letargo agitato da sogni tormentosi e da risvegliamenti più tormentosi ancora.
Al mattino la vecchia destandosi, aveva chiamata Lucia, e non udendo risposta, s'era levata in fretta aveva aperte le finestre, e avvicinatasi alla captiva, chinatasi a guardarla, le aveva chiesto se dormisse, se volesse togliersi da quel cantuccio, e ristorarsi di cibo che doveva averne bisogno.
«No, lasciatemi quieta, ricordatevi del vostro padrone», era stata la sola risposta di Lucia.
La vecchia brontolando s'era ritirata, e per far qualche cosa s'era posta a rifare il suo letto; quindi era andata ad una tavola dov'erano le reliquie della cena, vi si era seduta, e s'era messa a mangiare, accompagnando questa operazione con le parole e con gli atti ch'ella credeva più opportuni ad eccitare l'emulazione di Lucia, e a vincere il suo proposito: poiché la vecchia non poteva supporre che si resistesse a lungo ad una tentazione di questa fatta, principalmente dopo un lungo digiuno come quello che aveva patito Lucia.
Cominciò dunque a sclamare: «Ih! quanta roba! ce n'è per quattro bravi! e che grazia di Dio!» Quindi stese un mantile e cominciò a trinciare un pezzo di stufato, regolando ogni movimento in modo che il romore eccitasse nella mente di Lucia una immagine chiara di quello ch'ella faceva.
E questa sua cura era spinta al segno (la delicatezza dei lettori ci perdoni se per seguire fedelmente il manoscritto in tutto ciò che può essere una rappresentazione del costume, ripetiamo anche questa particolarità) che postasi a mangiare, ella andava rimasticando nella sua bocca sdentata il boccone, producendo con affettazione quei suoni, che a ragione proscrive Monsignor della Casa; perché ella s'immaginava che in quei suoni vi fosse qualche cosa di appetitoso: la sua educazione, e le sue antiche abitudini avevano talmente elevata sopra le sue idee l'idea di mangiare di quei bocconi che non sono concessi a tutti, che tutto ciò che era associato a questa idea era per lei, importante, leggiadro, irresistibile.
«Buono!» diceva di tratto in tratto.
«Buono! viva l'abbondanza! muoja la carestia! Bella cosa vivere in casa dei signori!» E pure di tratto in tratto dava una occhiata alla sfuggita al cantuccio, ma vedendo Lucia insensibile, si adirava dell'inutilità dei suoi artifici così reconditi; e mescolava alle esclamazioni di ammirazione e di gioia, un brontolio sordo di «ehn! ehn! smorfia, smorfia, smorfia!» Venne finalmente all'ultima prova e al più forte esperimento: prese con la sua destra rugosa e scarnata un fiasco che stava sulla tavola, con la sinistra un bicchiere, e fattili prima cozzare un tratto e tintinnire, sollevò il fiasco, lo inclinò sul bicchiere, lo riempì, se lo pose alla bocca, tracannò un sorso, ritirò il bicchiere, battè due o tre volte un labbro contra l'altro, e sclamò: «Ah! questo risusciterebbe un morto! Bella felicità averne dinanzi un buon fiasco! Al diavolo i rangoli, e i pensieri! Non mi duole più nemmeno d'esser vecchia; ma se fossi giovane ih! come vorrei godermela!» Detto questo ripose il bicchiero alla bocca, lo vuotò, e cheta cheta si volse al cantuccio, e rimase tra lo stupore e la stizza, vedendo che anche l'incanto più forte non aveva prodotto alcun effetto.
«Non volete mangiare un boccone e bere un sorso?» diss'ella a Lucia.
«No»: fu la risposta proferita in modo da non lasciare alla vecchia la lusinga che la insistenza produrrebbe maggior effetto.
Finalmente la vecchia si levò dalla tavola, prese una scranna, la portò presso una finestra, e tolta la sua rocca si pose a filare, pensando ai casi suoi ed aspettando la venuta del padrone con molta inquietudine.
Per comprendere i pensieri stranamente molesti che ronzavano nella mente della vecchia filatrice è necessario avere una idea di quella mente, e dei casi che l'avevano modificata.
Era costei nata (come dice il volgo di Lombardia) sotto le tegole del Conte, o per dir meglio del padre del Conte, dieci anni prima di questo.
Ciò ch'ella aveva inteso, ciò ch'ella aveva veduto dai suoi primi anni le avevano dato un concetto grande, indeterminato, predominante del potere e del lustro dei suoi padroni.
La massima principale ch'ella aveva attinta dalle istruzioni, dagli esempj, da tutto, era che bisognava obbedir loro: che ciò fosse per dovere, fosse per interesse, fosse per destino erano questioni che non s'erano mai presentate al suo spirito: ella sapeva che bisognava obbedire.
Ebbe ella poi l'onore di sposare il custode del castello quando i padroni non facevano ivi che una breve villeggiatura, abitando in Milano la maggior parte dell'anno.
L'uficio del marito doveva presentare cento occasioni che rinforzassero ed estendessero l'idea che la nostra allora giovane donna aveva del potere della famiglia per lei sovrana; e le parti ch'ella doveva prendere nei servizj del marito le furono occasione di applicare la sua obbedienza, di esercitarla, e di avvezzarla a tutto.
Quando il Conte divenne padrone, quel potere divenne ancor più grande e più attivo, in proporzione dell'attività violenta dell'animo di lui; e coloro che erano ministri di questo potere dovettero divenire ancor più obbedienti, e più soperchiatori, essere più spaventati e fare più spavento; pochi servitori ai quali la coscienza disse che era troppo, si ritirarono; quegli che rimasero crebbero nella perversità, come una pianta velenosa cresce di grandezza e di forza malefica quando si trova in un terreno confacente.
Il marito della nostra eroina episodica fu di quelli che rimasero.
Quando poi il Conte, carico già di delitti, e bandito capitalmente venne ad abitare stabilmente il castello, che fu per lui un asilo ed un campo allo stesso tempo, per condurvi quella vita della quale abbiamo dato un cenno, è facile immaginarsi quale dovesse essere allora l'attività e l'obbedienza di coloro che stavano al suo servizio e presso a lui.
La sciagurata fu madre di una figlia che a suo tempo fu sposata ad uno scherano del Conte, e di due figli che furono scherani, e furono soprannominati il Nato-in-casa e lo Spettinato.
Alla morte del marito, ella rimase senza servizio determinato, ma destinata a tutti quelli, che potevano essere prestati da una donna accostumata com'ell'era.
Tener disposto il pranzo pei bravi a qualunque ora tornassero da una spedizione, medicare i feriti, accudire insomma ad essi, era la sua occupazione più ordinaria: quasi tutte le sue idee erano ricavate dai loro colloquj; ma tutte erano dominate da una idea principale, quella di non dispiacere al padrone.
Le impressioni della infanzia l'avevano abituata ad una riverenza tremante per lui, vissuta ai suoi servizj ella non poteva immaginare che fuori di lui vi potesse essere per essa un asilo, un sostegno; e aveva tanto inteso dire, tanto aveva veduto degli effetti della collera di lui, che il minimo grado di quella collera la metteva in un'angoscia mortale.
In tutto ciò che ella aveva a fare e a dire non aveva quindi da gran tempo altra cura che di accontentarlo, ogni altra regola taceva dinanzi a questo unico interesse che era quasi divenuto un istinto: anzi ogni altra regola si era a poco a poco quasi smarrita affatto dalle sue idee.
Quei pochi pensieri e documenti di religione che le erano stati dati confusamente nella infanzia erano obliterati dal disuso, dal non sentirli mai rammemorare; e l'idea di giusto e d'ingiusto che pure è deposta come un germe nel cuore di tutti gli uomini, svolta nel suo, fin dal principio insieme con le passioni del terrore e della cupidigia servile, accomodata per abito ai principj che tuttogiorno sentiva predicare, ed alle azioni che vedeva compiersi e alle quali ella partecipava, era divenuta una applicazione mostruosa di tutte queste idee e di tutte quelle passioni.
La volontà capricciosa, irregolare, violenta del Conte era per lei una specie di giustizia fatale; spiacergli era colpa o sventura, male insomma.
La ragione o il torto stavano per essa nella approvazione o nel malcontento del terribile padrone: poiché quale altro motivo di ragione comune poteva aver luogo in quella casa, e fra quelle persone? quale principio generale di equità avrebbe potuto essere invocato da coloro che non li riconoscevano nei rapporti con gli altri, che li violavano tutti? E come mai avrebbe potuto aver ragione una volta quella che servendo alle soperchierie, e rallegrandosene rinunziava di fatto ad ogni principio di diritto, e nello stesso tempo non aveva forza alcuna, non aveva una minaccia per sostenere un diritto quando il suo interesse la portasse a sentirlo e ad ammetterlo? A tutte queste abitudini di servitù, e di annegazione perversa, si aggiungeva un sentimento, in origine migliore, che li rinforzava; il sentimento della riconoscenza.
Avvezza costei a ricevere il suo sostentamento dal Conte, riconosceva la vita come un dono della volontà di lui: come un beneficio della sua potenza.
E avvezza pure a risguardarsi dalla infanzia come cosa del suo signore provava un certo orgoglio di consenso per quella sua potenza, pel terrore ch'egli incuteva, le pareva di essere qualche parte di un sistema molto importante.
La gioja orrenda ch'ella aveva provata tante volte nella sua vita pel buon successo delle imprese del Conte, gioja che nasceva da tutti i sentimenti abituali che abbiamo descritti, l'avevano resa non indifferente, ma propensa ai patimenti altrui, ed ella gli procurava con compiacenza ogni volta che il timore del padrone le avesse permesso o consigliato di farlo.
Bersaglio sovente degli strapazzi e degli scherni dei bravi, ella aveva imparato a tollerare, rodendosi quando non poteva ripetere; ma quelle poche volte che le era lecito di straziarli impunemente senza dispiacere del padrone, le uscivano dalla bocca cose tanto argute, tanto profonde, tanto inaspettate, che il diavolo vi avrebbe trovato da imparare.
Intendete ora perché la vecchia guardando Lucia, faceva saltare il fuso con istizza, e di tempo in tempo lo lasciava oscillare penzolone per aria, tutta assorta nei pensieri del terrore? Dagli ordini che il padrone le aveva dati partendo, e dal tuono con cui gli aveva proferiti, ella aveva compreso, che al padrone premeva quella ragazza, ch'egli l'aveva fatta pigliare e la riteneva chi sa perché?, ma che voleva ch'ella fosse contenta.
Vedendo ora che tutti i suoi tentativi per raddolcirla erano inutili, che la obbedienza, il garbo quasi servile, gl'inviti amichevoli non avevano servito a nulla, stava in angoscia pensando a quello che avrebbe detto il padrone, quando tornando avrebbe trovata Lucia in quello stato di abbattimento.
Poter dire: - io non ci ho colpa - non era un pensiero che rassicurasse la vecchia, perché ella era solita a vedere che il padrone misurava il suo tratto con gli uomini dalla soddisfazione o dalla noja che sentiva, e non da altro.
Che colpa avevano tanti ch'egli aveva mandati all'altro mondo? e alla sorte dei quali ella stessa aveva applaudito? Tentava ella dunque di tempo in tempo Lucia con qualche parola dolce, nella quale a dir vero ella stessa poneva poca fiducia, dopo d'aver veduto Lucia resistere alla tentazione del mangiare: e in fatti non otteneva da Lucia altra risposta che un «no» talvolta replicato, al quale ella ammutoliva: e si stava come abbiam detto, aspettando con la venuta del padrone la rivelazione del destino.
Ma la povera Lucia, come nella notte non aveva mai fatto un sonno pieno, intero, e per dirla con un calzante modo milanese non aveva mai potuto dormire serrato, così a giorno fatto, nella luce chiara, non era desta perfettamente.
Le memorie, i terrori, le speranze si agitavano e si succedevano nella sua mente con quell'impeto volubile, con quel vigore incerto dei sogni, e il corpo sbattuto, estenuato dai travagli, dal digiuno e dalla febbre non concedeva allo spirito il pieno esercizio della coscienza.
In questo stato era Lucia sempre rannicchiata, quando fu bussato dal Conte, la porta s'aperse, la vecchia uscì, e la buona donna entrò con Don Abbondio.
Tutto questo fu un istante; ma un istante di nuovo batticuore per Lucia alla quale se lo stato presente era intollerabile, ogni mutazione era però una contingenza di spavento.
Fissò ella gli occhi nei sopravvegnenti, vide una donna e si rincorò, vide un prete, e le sue speranze si accrebbero; guardò più attentamente: - è egli o non è? son'io trasognata? È il mio curato! - La buona donna si avvicinò a Lucia che senza quasi pensarvi si alzò, e salutatala con un volto di pietà cortese, si pose l'indice della destra su le labbra, e stesa la manca la abbassava e la rialzava lentamente come si dipinge il Salvatore che acquieta i flutti del mare di Tiberiade, e disse con voce sommessa, allegramente: «veniamo a liberarvi».
«È dunque la Madonna che vi manda?» disse Lucia con un giubilo ancora incerto, ma pur vivissimo.
«Può essere», rispose la buona donna.
«Chi siete? come avete potuto...?» cominciò Lucia alla buona donna; indi tosto rapita da un'altra brama di sapere, si rivolse al curato, e continuò: «e lei, signor curato: come...?»
«Ah! vedete?» rispose Don Abbondio: «son qui io, il vostro curato, a liberarvi, dal lago dei leoni, senza riguardi per me, in una giornata fredda, a cavallo...»
«E mia madre?» domandò ancora Lucia, a cui le idee si succedevano in folla.
«La vedrete presto, oggi», rispose Don Abbondio: «ma prima dovete vedere ben altro personaggio...»
«Chi? dove?» richiese Lucia.
«Monsignore illustrissimo, che ci aspetta, che vuol vedervi.
Ma abbiate giudizio: badate a quel che dite; voi non potete avere pratica di quello che va detto e taciuto ai signori grandi.
Vi chiederà delle vostre vicende: non istate a troppo ciarlare: vi può far del bene; ma bisogna guardarsi dal toccar certe corde: non parlate del matrimonio, perché, vedete, se sapesse che avete voluto sorprendere il curato, fare un matrimonio clandestino, guai, guai...!»
«Chi è Monsignore illustrissimo?» domandò Lucia.
«È il cardinale arcivescovo», rispose Don Abbondio, «un uomo di Dio, ma bisogna saperlo pigliare, perché...»
«Andiamo tosto», disse la buona donna.
«È vero», disse Don Abbondio, «andiamo perché qui non è troppo sano stare: ma ricordatevi di quello che v'ho detto».
«Come faremo ad uscire?» disse Lucia: «e se ci veggono?»
«Non temete», disse la buona donna: «il padrone del castello viene egli stesso a cavarvene: qui fuori è la lettiga, voi entrerete con me, e partiremo col signor curato».
«Ho da vederlo ancora il padrone?» chiese ansiosamente Lucia, per la quale il Conte era ridivenuto orrendo, da poich'ella aveva veduti due visi umani.
E continuò: «ho paura di lui: ho paura».
«Che paura?» disse Don Abbondio, «siete con me, ed è mio amico.
Risolvetevi».
«Non lo vedrete», disse la buona donna: «noi ci chiudiamo nella lettiga e si parte, e in un momento siamo a Chiuso».
«Ah! Chiuso!» sclamò Lucia: «dov'è quel buon curato! andiamo, andiamo.
Oh Madonna santissima, vi ringrazio! Me lo sentiva in cuore che non mi avreste abbandonata!»
La buona donna aperse un filo della porta tanto da poter far un cenno, che fu tosto veduto dal Conte, il quale comandò ai lettighieri di andare nell'altra stanza.
Queglino vi portarono la lettiga, Lucia vi entrò, e la buona donna dopo lei, si tirarono le cortine, i lettighieri uscirono, il curato dietro: nell'altra stanza il Conte si accompagnò con lui, disse alla vecchia: «aspettatemi qui un'ora, e se non torno andate a fare i fatti vostri».
Nel cortile, alla porta del castello, il Conte e il curato a cavallo, la lettiga davanti, giù per la discesa, e diritto a Chiuso.
A misura che la caravana si avanzava nel suo viaggio, tutti quelli che la componevano, respiravano più liberamente.
Appena la buona donna fu nella lettiga, al momento che i portatori la sollevavano per partire, ella raccomandò a Lucia di non parlare finch'ella non gliene desse avviso.
Ma poi che dallo scalpito delle mule che seguivano s'accorse che era varcata la soglia, cominciò a guardare un po' fuori delle cortine, e vista la strada libera, ruppe ella stessa il silenzio dicendo a Lucia: «Povera giovane! l'avete passata brutta! Ma Dio ha pensato a voi, e tutto è finito».
Queste parole diedero campo a Lucia d'interrogare la buona donna; che cercava di soddisfare alle sue domande, dicendo quel poco che sapeva, e come lo sapeva.
Lucia a poco a poco vedeva un po' più di lume nelle sue strane e terribili avventure: le risposte della buona donna la rimettevano sulla via, e l'ajutavano a spiegare tanti misteri della sua sventura e della sua inaspettata salute; tanto che in quel viaggio Lucia potè farsi una idea del suo stato, comprendere qualche cosa, ed uscire da quella affannosa confusione d'idee nella quale lo strano, l'insolito, di quello che si vede e si soffre non lascia riposare la mente in alcuna, non lascia altra certezza che quella di esistere, e questa stessa diviene un tormento.
«Oh quando potrò vedere mia madre!» sclamò Lucia appena si sentì rassicurata, e potè discernere quello che era reale, quello che era possibile.
La buona donna le promise che appena suo marito tornerebbe dalla Chiesa, ella lo determinerebbe ad andarne in cerca, ad informarla, a condurla presso di lei.
Don Abbondio pigliava fiato ad ogni passo; la conferenza che il Cardinale avrebbe con Lucia, gli dava un po' di briga per le cose che si dovevano rivangare di quel tale matrimonio: vedeva in lontano dei pericoli per parte di Don Rodrigo; ma il sentimento predominante era allora la gioja di uscire sano e salvo da quella spedizione.
Pieno di questo sentimento, Don Abbondio aveva una parlantina che nessuno gli avrebbe supposta vedendolo così silenzioso nella prima andata; e non avrebbe rifinito di ciarlare col Conte, se questi avesse fatto tenore ai suoi inviti.
Ma il Conte benché lieto di ricondurre Lucia al Cardinale, era tuttavia troppo compreso da tanti sentimenti per prestarsi alla garrulità di Don Abbondio.
Ed oltre il resto era anche un po' umiliato internamente dell'inquietudine che aveva provata nella spedizione, delle precauzioni che aveva prese in casa sua, di una prudenza che gli pareva pusillanimità.
Ma il Conte non si conosceva: s'era fatta nel suo animo una rivoluzione della quale egli non s'era reso ben conto: v'eran nati dei sentimenti, vi s'erano svolte delle disposizioni ch'egli non aveva ancora potuto ben raffigurare: e non s'avvedeva che questa pusillanimità era una nuova sollecitudine pia e gentile per una debole innocente, una delicatezza fin allora estrania all'animo suo, un timore che non si sarebbe presentato a quell'animo se non si fosse trattato che d'un proprio pericolo.
Giunsero a Chiuso che il Cardinale, il clero e il popolo erano ancora nella Chiesa.
La buona donna fece andar la lettiga a casa sua, dove discese, e condusse Lucia già tutta rassicurata, e tosto le fece animo a ristorarsi dopo un sì lungo digiuno.
L'invito era ben altrimenti gradevole che non nella bocca della vecchia del castello, e Lucia, che sentiva il bisogno di nutrimento, accondiscese con riconoscenza.
Intanto Don Abbondio e il Conte entrarono nella casa del curato, e quivi si stettero ad aspettare il Cardinale.
Questi non tardò molto a venire, precedendo velocemente il clero che gli faceva codazzo, ed entrato nella stanza, e veduti i due tornati, chiese tosto con ansietà: «È qui?»
«È qui», rispose il Conte.
«L'abbiamo condotta sanamente», rispose Don Abbondio.
«Dio sia lodato!» sclamò il cardinale: «e ve ne rimeriti entrambi».
E preso in disparte il Conte, mentre gli altri si ritiravano: «Non siete più contento ora?» gli chiese.
«Vedete, se Dio ancor non sa che fare di voi?» Quindi per quella gentile e minuta sollecitudine ch'egli metteva anche nelle cose più gravi: «voi dovete essere affaticato», disse al Conte, «certo voi non mi abbandonerete oggi: e...
ma questa mattina voi non avete certo pensato a far colazione?»
«No davvero», rispose il Conte.
«Bene, bene», rispose il Cardinale, «io voglio cominciare a provare se posso farmi obbedire da voi», e traendolo per la mano si avvicinò al buon curato di Chiuso, che se ne stava cheto fra gli altri, e gli disse, con aria sorridente:
«Signor curato, voi siete tanto umile che sarebbe dabbenaggine il non far da padrone in casa vostra.
Io invito il signor Conte a pranzare con noi».
Il curato che non lasciava mai scappare l'occasione di rispondere con un testo della Bibbia, disse levando le mani al cielo, e poi stendendole amorevolmente verso il Conte: «Benedictus qui venit in nomine Domini».
Don Abbondio invitato anch'egli, si rifiutò dicendo di non volere abbandonare per lungo tempo il suo ovile; uscì dalla casa del curato, entrò in quella dove era ricoverata Lucia, alla quale raccomandò ancora fortemente di non parlare di matrimonio col cardinale, quindi, se ne andò a casa.
Intanto la refezione fu pronta, e il cardinale si sedette a mensa, tenendosi presso da un lato il curato, dall'altro il Conte e poscia gli altri ecclesiastici del suo seguito in un ordine consueto.
La frugalità di Federigo era tanto al di qua della temperanza, che virtù in lui, sarebbe divenuta indiscrezione se egli avesse voluto imporla agli altri: quindi nel suo palazzo la mensa dei famigliari non si misurava dalla sua; anzi in paragone di questa si poteva dir lauta.
Quando poi visitando la diocesi egli era ospite dei parrochi, questi sapevano troppo bene che un trattamento fastoso non era il mezzo di entrare in grazia a quell'uomo, e si regolavano in conseguenza.
Il curato di Chiuso poi aveva un modo di pensare molto singolare.
Egli riteneva che trattare sontuosamente un uomo il quale predicava a tutta possa la povertà e la modestia, sarebbe stato un dirgli coi fatti se non in parole: - io vi credo un ipocrita -.
Per altra parte, la borsa del curato era ordinariamente e tanto più in quell'anno, fornita a un di presso come quella d'un figlio scialacquatore che abbia il padre spilorcio: e l'aspetto poi della miseria universale era tanto terribile, e tanto presente ad ogni momento che un trattamento fastoso avrebbe fatto ribrezzo anche a chi non avesse avuta la carità delicata e profonda del Cardinale Federigo e del Curato di Chiuso.
Da tutti questi fatti venne di conseguenza che la tavola di quel giorno somigliò molto più alla tavola ordinaria del cardinale che a quella dei suoi famigliari.
Ma quella conversazione, resa così singolare dalla presenza del Conte, fu gioconda.
Il Cardinale, benché atterrato dalle fatiche e angustiato dalle cure continue, e dalla vista continua dei mali, pure aveva sentita in quel giorno una consolazione che traspariva nella sua faccia, e si diffondeva nei suoi discorsi, e passava nei suoi commensali.
Il Conte stesso, quantunque la sua vita intera pesasse in quel giorno su la sua memoria, quantunque tanti fatti si presentassero alla sua mente, spogliati di quella maschera con cui gli aveva veduti nel momento della esecuzione, e lasciassero ora vedere la loro forma vera e spaventosa, pure sentiva una certa pace in quel nuovo consorzio fra quelle idee che gli facevano intravedere una nuova vita di mente, un nuovo interesse, una serie di pensieri coi quali si potesse vivere.
Dopo la mensa usava il Cardinale nelle sue visite di prendere un breve riposo, e poi di continuare le faccende pastorali per le quali era venuto.
Ma in quel giorno non v'era riposo per lui che nello stare più che poteva unito all'animo del Conte per uniformarlo al suo; e la vigna di quel buon prete Morazzone era tanto ben coltivata che aveva poco bisogno della ispezione di Federigo.
Si levò egli dunque, e preso per mano il Conte che lo seguì volenteroso, si chiuse in una stanza con lui.
Del colloquio ivi tenutosi non v'è traccia nel nostro manoscritto, né a dir vero noi ne facciamo carico all'autore, maravigliati come siamo ch'egli abbia potuto pescar qualche cosa di quel primo abboccamento; quando il Ripamonti stesso, un famigliare del Cardinale, e biografo di lui protesta che delle cose passate tra questo e il Conte nel secondo colloquio nulla ha trapelato.
Quel poco però che il Ripamonti dice degli effetti di questo secondo colloquio serve molto a dare una idea della importanza della mutazione d'un uomo in quei tempi, e a dipinger meglio il Conte.
Noi crediamo far cosa opportuna traducendo quel poco dal bel latino di quello scrittore poco conosciuto, e che meriterebbe certamente di esserlo più di tanti altri, e perché in tanta perversità di idee, di cognizioni, di giudizj, e di stile, egli (che che ne dica molto leggiermente il Tiraboschi) fu uno di quelli che più si avvicinarono a quella castigatezza e a quella semplicità che da se stessa si attacca alle parole dove è espresso il vero; e perché in qualche parte delle sue storie, e principalmente nella vita del Card.
Borromeo, e nella Descrizione della peste di Milano, si trovano osservazioni e pitture, di costume, che invano si cercherebbero altrove, e che possono arricchire la storia tanto scarsa dell'animo umano.
Ecco il passo del Ripamonti.
«Che sia stato detto in quel colloquio, non è a nostra notizia; perché, né fra noi v'era chi fosse ardito d'inchiederne il Cardinale; né mai quell'altro ne fece motto con chicchessia.
Certo dopo il colloquio, tanta e sì repentina fu la mutazione d'animo e di costumi di quell'uomo, che nessuno dubitò di attribuire il prodigio alla efficacia di quel colloquio; e tutta quella famiglia di scherani vide in quel fatto la mano del Cardinale, e lo colse in odio come colui che le aveva tolto il suo guadagno.
L'altra famiglia pure che sparsa ed appostata nei due Stati viveva degli ordini sanguinolenti di costui, s'accorse dal cessare delle orribili paghe della nuova mansuetudine di lui.
Ad un tempo, molti dei principali della città uniti con lui in occulta società di atroci consigli e di funeste faccende, poiché videro le faccende già accordate e avviate rimanersi a mezzo abbandonate da lui, s'apposero tosto ch'egli aveva cangiato vita, né poterono disconoscere l'autore d'un tanto cangiamento.
E dovettero pure avvertirlo alcuni principi stranieri che da lontano avevano adoperato quest'uomo a qualche grande uccisione, e gli avevano più volte mandati ajuti, e ministri: ma sospesi andavano fantasticando la cagione del cangiamento; fin che fu loro manifestata dalla fama.
Io, siccome non avrei voluto per ingrandire il fatto aggiungervi nulla del mio; così non debbo pure toglier fede a ciò che è toccato con mano.
Vidi io stesso poco dopo quell'uomo ancora in salda e rubesta vecchiezza; non aveva dell'antica ferocia che i vestigj e le marche con che la natura manifesta le inclinazioni e le pecche d'ognuno: ma queste marche stesse apparivano temperate e quasi coperte dalla recente mansuetudine: e indicavano una natura disciplinata e vinta, come da una forza poderosa».
Le notizie, che si ricavano da questo passo, quantunque ravvolte in termini tanto generali, ci sono sembrate adatte a supplire almeno in parte alla scarsezza del nostro autore, il quale dopo aver eccitata tanta curiosità su quel personaggio e sulla sua conversione, non ne accenna altro effetto che la liberazione di Lucia; forse perché gli altri gli sono paruti estranei al suo racconto, o fors'anche perché a parlarne, gli conveniva rimescolare più maneggj, e toccare più persone che non comportasse la sua squisita prudenza.
Riferisce egli però compendiosamente le prime disposizioni che il Conte diede in quel giorno stesso al nuovo governo della sua famiglia; e noi le ripeteremo dietro la sua relazione.
Staccatosi dal Cardinale egli si avviò solo, a piede, e disarmato com'era al castello, e fece la strada e l'entrata con quella sicurezza e fortezza d'animo che non aveva avuta nella spedizione del mattino: perché egli non aveva ora una innocente da mettere in salvo: i pericoli se ve ne aveva, erano tutti per lui; e il disprezzo dei pericoli fatto già in lui un sentimento abituale, acquistava allora una nuova forza, una nuova ragione dai suoi nuovi pensieri.
La sua condotta di tanti anni lo aveva posto in una situazione tale che per assicurare la sua vita, egli aveva mestieri di molto più mezzi e riguardi che non abbisognassero al comune degli uomini; e una delle prime riflessioni che gli erano occorse dopo il suo proposito di nuova condotta si era che una gran parte di questi mezzi non poteva più conciliarsi con questa sua nuova condotta.
Ma egli aveva sentito con persuasione (e probabilmente fu questo uno dei capi che egli discusse in quel colloquio col Cardinale), aveva sentito che le ingiustizie passate non potevano rendergli necessarie nuove ingiustizie, che egli doveva assicurare la propria vita solo perché questo era un dovere, e che era un dovere soltanto fin dove per adempirlo, non si dovesse ricorrere che a mezzi leciti; che i pericoli che potevano nascere per lui nel suo nuovo genere di vita inoffensiva ed espiatoria erano una conseguenza del male da lui fatto a man salva per sì lungo tempo, una punizione ch'egli doveva subire.
Quindi tutta la vigoria d'animo ch'egli impiegava altre volte nell'offendere, s'era ora trasformata in una vigorosa disposizione a tollerare: era un dissimile ma eguale anzi più forte coraggio: e continuò a produrre l'effetto solito di questo dono, quello di far rispettare colui che ne è fornito.
Entrato il Conte nel castello, comandò che si ragunassero tutti i suoi...
non sapeva trovare un nome che tutti gli abbracciasse...
«Tutti gli uomini» disse, dopo d'avere esitato un momento.
L'apparizione misteriosa del mattino, la ripartita e l'assenza avevano destata una grande curiosità: erano già corsi fino al castello romori che annunziavano la conversione del Conte, e il tripudio di tutti gli abitanti del vicinato, e di quelli che erano concorsi in quel giorno all'arrivo del Cardinale: tutti i bravi, che si trovavano al castello, o nei primi dintorni, vennero alla chiamata con molta ansietà.
Congregati che furono, il Conte con viso fermo, con voce risoluta, e senza tergiversare, dichiarò a tutti ch'egli aveva proposto di mutar vita, che si doleva e si vergognava della passata, che a tutti chiedeva perdono degli orribili esempj, e degli incitamenti che aveva loro dati a mal fare, che quanto era in lui egli gli avrebbe tutti ajutati con un nuovo esempio, e coi mezzi ch'erano in sua facoltà ad operare diversamente: che quelli i quali fossero del suo parere, rimanendo con lui, potevano esser certi ch'egli avrebbe avvisato tosto al modo d'impiegare la loro opera in un modo utile ed onesto, e ad ogni modo avrebbe diviso con essi fino all'ultimo tozzo di pane; ma che protezione per ribalderie non ne avrebbe più data ad alcuno: e che finalmente quelli ai quali non piacesse di sottoporsi a questa nuova regola, dovessero partirsi dal suo servizio, ch'egli era dolente di perdergli, ma risoluto.
La più studiata orazione di Demostene non produsse mai tanto varie e forti impressioni nel popolo d'Atene, quanto il breve discorso del Conte in quel picciolo popolo selvaggio.
Ma per quanto diversi fossero i pensieri che sorbollivano in quei cervelli ad un tale annunzio, l'effetto esterno fu un solo: un cupo silenzio.
Molti di quei ragunati erano contadini del Conte, stabiliti sui suoi poderi, avvezzi dall'infanzia ad obbedirgli, e taluni fra di essi erano divenuti scellerati per obbedienza, tutti questi non vedevano un avvenire un po' sicuro che rimanendo con lui, e questi risolvettero di sottomettersi alle nuove condizioni, e di rassegnarsi a divenire galantuomini.
Altri fuorusciti di mestiere, venuti da altri paesi, senza famiglia, né avviamento, bestemmiavano in cuor loro la risoluzione del padrone, ma tanto era il predominio che il carattere di lui aveva preso sull'animo loro, che non ardivano fare un motto di lamento.
Questa idea di conversione era confusa nei loro cervellacci, e non potevano nemmeno immaginarsi che in un uomo come il Conte potesse produrre l'effetto di fargli sopportare una risposta arrogante: pensavano che una temerità usatagli produrrebbe il solito effetto, con la sola differenza che il temerario morrebbe ora per le mani d'un santo.
Così incerti l'uno dell'altro, nessuno osava fiatare il primo; e la sommissione dei primi che si manifestava sui loro volti e nel contegno, toglieva ancor più a quei secondi l'animo di poter dire o far nulla che potesse spiacere al Conte.
Quel tripudio poi, quel rincoramento che s'era manifestato nella popolazione gli rendeva ancor più irresoluti, avrebbero potuto ridersi di questa gioja impotente finché avevano il Conte per loro, alla lor testa, ma quando la folla era con lui, e sarebbe stata contra loro, si trovavano come smarriti.
Dopo quel breve silenzio, il Conte si rivolse a quello che più gli era vicino, e gli chiese risolutamente quale fosse il partito ch'egli sceglieva, e così di mano in mano con tutti.
Dava lodi e promesse a quelli che chiedevano di rimanere, ammoniva gli altri, e quando ripetevano di voler partire, chiedeva loro quanta parte di salario fosse loro dovuta; vi aggiungeva una gratificazione, scriveva la somma sur una cartolina che teneva nella mano sinistra, la dava a colui che voleva partire, gli comandava di andare dall'intendente a farsi pagare, e di uscir tosto dal castello.
Tutti pigliavano la carta, e se ne andavano senza far motto.
In tutti questi parlamenti il carattere del Conte aveva fatto naturalmente, e senza che il Conte lo sapesse bene, ciò che fatto a disegno sarebbe stato un miracolo di presenza di spirito e di artificiosa prudenza, e forse non avrebbe potuto così bene riuscire.
Nelle ammonizioni ch'egli dava a coloro, nelle esortazioni a meglio riflettere, nelle preghiere stesse, fino nelle scuse non v'era mai un momento in cui il suo interlocutore potesse sentire una superiorità, intravedere in lui punto di debolezza, d'irresoluzione, di abbassamento, che invitasse nemmeno uno di quegli animi ad elevarsi e a cadergli addosso.
Quale divenisse il castello dopo la partenza di quei più facinorosi, il manoscritto non lo dice, né ci è venuto fatto di trovarne notizia altrove.
Il nostro autore dice che il Conte andò ogni giorno ad abboccarsi col Cardinale finché durò la visita di esso in quei contorni: di un solo di questi abboccamenti egli riferisce le particolarità, e il nome del Conte del Sagrato non ricompare poi più nel manoscritto.
CAPITOLO III
Quando il Cardinale, terminate le funzioni di quella mattina, si ritirò dalla Chiesa nella casa del curato, tutto il popolo che era stivato nella chiesa, o ammucchiato al di fuori, si sciolse poco a poco, e ognuno s'avviò a casa.
Quando il marito della buona donna entrò nella sua, la donna gli corse incontro, gli presentò la ospite inaspettata, e gliene fece in succinto la storia.
Il marito fu molto lieto che la sua donna fosse stata prescelta a quell'uficio, ed avesse una parte nella storia di quel giorno, e fu anche tocco assai dalle sventure della nostra Lucia: di modo che quando la donna gli propose di andare al paese di Lucia, ch'era discosto circa tre miglia, e di annunziare ad Agnese ciò ch'era accaduto, e di condurla alla figlia, l'uomo accolse la proposta con giubilo: le funzioni, la predica del Cardinale, la solennità e la pompa straordinaria avevano messo un certo entusiasmo nell'animo d'ognuno degli spettatori: e questo sentimento, messo in comune in quel concorso di popolo, ritornava con maggior forza sull'animo di tutti: non è quindi da farsi maraviglia, se Tommaso Dalceppo, all'udirsi proporre una faccenda che era tanto in armonia con quel suo sentimento, non pensò né alla fatica, né all'incomodo, ma gioì nella conformità di quello che sentiva e di quello che doveva fare.
Mangiò un boccone in piedi, tolse una mula che aveva in istalla, e partì di volo.
La buona donna (perché la bontà vera e abituale ispira tutti i pensieri della gentilezza, la quale non è altro che l'espressione o la finzione della bontà) la buona donna pensò che Lucia dopo tante scosse avrebbe gustata volentieri la solitudine e il riposo, e offerse di ritirarsi in un'altra stanza.
Lucia accettò l'invito al riposo con nuove parole di riconoscenza, e rimase soletta.
Ma quantunque per gli orrendi disagj del giorno e della notte antecedente il suo corpo avesse bisogno di quiete, pure Lucia non dormì, né cercò di dormire, e il riposo non consistette in altro che nella facoltà di trattenersi coi suoi pensieri senza quel battito continuo, senza sussulti, senza terrore, non però con giocondità.
V'ha dei mali e dei pericoli ai quali succede la gioja in chi gli ha sofferti o veduti da presso: tali sono, le burrasche di mare, gli stenti e i rischi della guerra, la rabbia di Scilla, e i sassi dei Ciclopi, quelle cose di cui Enea disse benissimo: forsan et haec meminisse iuvabit, e che il Caro tradusse un po' lunghettamente:
E verrà tempo
Un dì, che tante e così rie venture
Non che altro, vi saran dolce ricordo.
Il cuore si rallegra doppiamente nel paragone d'una quiete presente con una angoscia passata, le immagini della quale sono grandi, semplici, forti, e miste del ricordo di una certa fortezza.
Ma v'ha un'altra specie di mali e di pericoli, i quali dopo avere orribilmente tormentato con la presenza, restano nojosi anche nella memoria: quei mali e quei pericoli nei quali vi si è rivelato un grado ignorato di perversità umana, aumento di scienza molto tristo: nei quali si è conosciuta in sè una suscettibilità di profondo ed amaro patire, che diventa esperienza, che porta ad osservare, a distinguere in tutti gli oggetti, in tutti i casi ciò che potrebbero avere di penoso, e si associa così a tutte le idee: quei mali e quei pericoli, nei quali non v'è stato nessuno splendido esercizio di attività morale, che destano una pietà senza maraviglia, che non si possono sentire a rammemorare senza ribrezzo, e senza vergogna, persino da chi vi si è trovato e n'è uscito innocente; e i mali di Lucia erano di questa seconda specie.
Certo nella inaspettata salute di quel giorno v'era per Lucia una gioja, e la riconoscenza all'ajuto del cielo che santificava quella gioja, la rendeva ancora più viva: ma era stata una gioja ben turbolenta e confusa nei primi momenti; ed ora col crescere della calma quella gioja era alterata continuamente dalle rimembranze recenti e dai pensieri dell'avvenire.
L'animo che è liberato da una grande sventura, è come la terra daddove è sterpato un grand'albero: per qualche tempo ella appare sgombra, e vuota: ma a poco a poco comincia ad esser segnata qua e là di piccioli germogli, quindi a coprirsi di erbacce, e mostra chiaramente che quello che si chiama riposo della terra è una metafora, o un errore.
Così i guai che erano stati sepolti e come soffocati nell'animo quando una grande sciagura lo riempiva e per dir così, lo aduggiava, cominciano a spuntare e a ricomparire poco da poi che la sventura è cessata.
Lucia ripensava con amarezza i mezzi che l'infame Rodrigo aveva saputi mettere in opera a perseguitarla, e si angustiava di quello che avrebbe potuto fare nell'avvenire.
Come essere al riparo di un sì scellerato tiranno, vivendo presso a lui? o dove andare? come trovare il sostentamento in quei tempi così scarsi, e quando i risparmj degli anni addietro fossero tutti consumati? Ma l'idea più penosa per Lucia, e quella che rendeva tutte le altre più penose (giacché abbiamo promesso di non tacer nulla al lettore di quello che è venuto a nostra notizia) il pensiero invano respinto, e che si mesceva a tutti gli altri, era quello del voto fatto nella notte antecedente.
Lucia non confessava a se stessa d'esserne pentita, ma lo era; le sembrava orribile sconoscenza il rammaricarsi dell'offerta posta sull'altare per ottenere un gran dono, rammaricarsene quando il dono era ottenuto, le sembrava che questo sentimento le avrebbe attirate nuove sventure, e queste meritate, e quindi riprovava il sentimento, ma non poteva farlo scomparire.
L'invincibile di tutte le difficoltà, l'amaro di tutte le privazioni, l'inestricabile di tutti gl'impacci le pareva che venisse dal non poter essere di Fermo; con lui tanti inconvenienti sarebbero svaniti, e tutti gli altri sarebbero divenuti tollerabili! ma il pensiero di Fermo era per lei una tentazione, quasi un delitto, e doveva sempre rispingerlo.
La poveretta non era istrutta abbastanza per conoscere che quella promessa fatta in una agitazione febbrile, senza meditazione, quasi senza piena coscienza non era un voto; e che ella già legata con una promessa solenne a Fermo non aveva il diritto di sciogliere senza consenso e senza colpa di lui, un legame già stretto da due volontà libere e concordi; e ignorava anche i mezzi, che la religione la quale consacra i voti dell'uomo, offre per liberarlo dai voti, quando il loro adempimento invece d'essere una occasione di maggior bene, divenga un ostacolo.
Lucia aspettava con ansietà amorosa di rivedere la madre, ma tremava di doverla abbracciare con questo segreto nel cuore, ripugnava di rivelarglielo; e sentiva che il silenzio sarebbe stato impossibile.
Era la poveretta in questi pensieri, e sa il cielo fin quando vi avrebbe durato, quando lo scalpito d'un quadrupede che si fermò nel cortiletto, un salire precipitoso per la scaletta di legno, le annunziò Agnese: la porta si aprì impetuosamente; Lucia fu nelle braccia di sua madre, e tutte le altre idee svanirono.
Noi non descriveremo le sensazioni delle due donne in quel rivedersi.
Questa è la frase della quale si servono tutti i narratori quando si trovano ad un punto simile al nostro; e fanno bene.
Il lettore conosce i casi e il carattere di quelle due poverette, e deve immaginarsi ciò che hanno sentito e detto.
Dopo i primi sfoghi cominciarono le inchieste e i racconti, e il soggetto di essi è pure già conosciuto.
Una sola di queste rivelazioni vuol essere ricordata particolarmente: Lucia non sapeva nulla della fuga di Fermo, e questa notizia che la madre le diede, le cagionò le più varie e opposte commozioni.
L'assenza di Fermo era certo dolorosa per lei; ma quando seppe ch'egli era in sicuro, provò quasi una torbida consolazione nel pensiero che la tentazione era lontana, che l'esecuzione del suo voto diveniva più facile, che se non altro non verrebbe così presto la necessità di parlarne.
Lucia ed Agnese erano in colloquio, quando il buon curato entrò nella casa, cercò di Tommaso (perché egli non s'intratteneva col bel sesso che in casi di somma necessità), e gli disse che il Cardinale domandava Lucia, e la buona donna che era stata a prenderla.
Questa andò ad avvertire le donne della chiamata: Lucia si alzò per partire, la madre le tenne naturalmente dietro, e le tre donne uscirono dalla casa, e attraversando una folla di curiosi, giunsero alla casa del curato, e furono condotte alla presenza di Federigo.
Quando il buon vescovo doveva parlar con donne, cosa che lo impacciava pure alquanto, aveva per massima di non riceverne mai una sola, quando non fosse decrepita, e voleva che una matrona le fosse sempre di compagnia.
Nel caso presente invece d'una matrona ve n'aveva due, e tutto era più che in regola.
Pure secondo il suo costume egli fece tenere spalancata la porta, e si pose in un luogo dove potesse esser veduto da chi era nell'altra stanza, e così accolse le tre donne che erano impacciate almeno al pari di lui, ma per tutt'altri motivi.
Il riserbo abituale, e il contegno modesto di Federigo non potè fare che non gli apparisse sul volto un non so che di affetto soave nell'accogliere Lucia e nel farle animo: ringraziò pure cordialmente la buona donna del pio uficio da lei prestato, e chiese chi fosse la terza: quando seppe che era la madre di Lucia, si rallegrò pure con lei, e la salutò cortesemente.
Quindi pregate le due ultime di scostarsi alquanto si trattenne con Lucia sulle sue vicende, interrogandola con quella delicatezza che richiedeva il pudore di Lucia e il suo; poiché in quella canizie egli conservava la purità ombrosa di una fanciulla.
Ma le inchieste ch'egli faceva a Lucia non erano mosse da una vana curiosità, e ne pure dal solo interessamento per quella infelice innocente: erano venute all'orecchio di Federigo voci sorde, confuse sul conto della Signora, che gli davano da pensare: e in questa occasione egli sospettava con angoscia che la condotta della Signora con Lucia potrebbe rivelare qualche cosa di quella donna che era per lui un tristo mistero.
Lucia con tanto più di schiettezza e di libertà, quanto essa non sospettava nemmeno di accusare, credeva anzi di lodare, soddisfece alle domande di Federigo, nel quale il sospetto crebbe.
Fin qui per Don Abbondio le cose andavano benone.
Le circostanze essenziali della storia stavano senza parlare del matrimonio ricusato, e Lucia aborriva il discorso del matrimonio.
Ma il Cardinale che disegnava di riparlare altra volta con Lucia e non voleva in quel giorno così burrascoso per lei tenerla più a lungo, chiamò a sè le due donne presenti e lontane; e disse a ciascuna ciò che era più opportuno: ringraziò di nuovo la buona donna, consolò Agnese, e l'animò ad ammirare la provvidenza che dopo d'averle dato tanti timori per la figlia, l'aveva liberata con modi inaspettati, e l'aveva fatta conoscere ad uno che aveva il dovere, e qualche mezzo per proteggerla.
Quella benedetta Agnese fra le risposte che diede con un imbarazzo che in lei era un po' comico, perché voleva non averne, disse anche queste tremende parole: «Già, la colpa in gran parte è del Signor curato».
«Come? di che curato?» domandò il Cardinale.
«Oh bella! del nostro», rispose Agnese.
Il Cardinale domandò una spiegazione, e Agnese spiattellò tutta la storia del matrimonio, senza far motto del clandestino.
Federigo che non voleva fare alcuna dimostrazione prima d'avere inteso il curato, per non manifestare un giudizio che forse avrebbe dovuto ritrattare, tacque, ma si legò al dito anche questa.
Si rivolse alla buona donna, e le chiese se fino a tanto ch'egli avesse provveduta Lucia d'un asilo, non le sarebbe stato grave di tenerla presso di sè.
La buona donna fu contentissima, il Cardinale la ringraziò; e pensò a darle qualche segno di ricompensa; e veduto dal suo abito e dal contegno che un dono di moneta l'avrebbe umiliata, prese da un picciolo scrigno un libretto di orazioni ben ornato, e un rosario prezioso, e la pregò di ritenere queste memorie della sua riconoscenza.
La buona donna ripose con molta gioja il dono che si conserva tuttavia dai suoi discendenti con molta pietà, e si fa vedere con molto amor proprio.
Le donne partirono: Federigo accudì a quello che gli rimaneva di faccende per la visita; e sul far della sera partì da Chiuso accompagnato da una gran folla, e s'incamminò alla volta di Maggianico, paese famoso per le sue campane.
Ma quella dea che ha (mirabile a dirsi!) tanti occhi quante penne, e tante lingue quanti occhi, e (ma questo pare più naturale) tante bocche quante lingue, e finalmente tante orecchie quanti occhi lingue e bocche (debb'essere una bella dea) questa ultima sorella di Ceo e di Encelado, partorita dalla Terra in un momento di collera, veloce al passo e al volo, che cammina sul suolo e nasconde il capo tra le nuvole, che vola di notte per l'ombra del cielo e della terra, né mai vela gli occhi al sonno; e di giorno siede sui comignoli dei tetti o su le torri, e spaventa le città, portando attorno il finto e il vero indifferentemente, costei aveva già prima della notte diffusa nei paesi circonvicini la storia delle avventure di quel giorno.
Per fare intendere al lettore questa particolarità, abbiamo usurpato formole che a dir vero appartengono esclusivamente alla poesia, ma saremo scusati da coloro, i quali sanno che ad imprimere vivamente una immagine nelle fantasie il mezzo più efficace è l'allegoria, e singolarmente quella già nota e consecrata delle antiche favole: poiché quando si vuol fare immaginar bene una cosa, bisogna rappresentarne un'altra: così fatto è l'ingegno umano quando è coltivato con diligenza.
Siccome però a voler cavare dalle allegorie il senso vero ed ultimo, quello che si vuol trasmettere, è necessario in ultimo pensare alle cose che le allegorie fanno intendere, così non lasceremo di dire che tutti gli abitanti del contorno, che erano convenuti quel giorno in Chiuso, tornando la sera alle case loro, raccontarono ciò che avevano veduto, ripeterono ciò che avevano inteso, commentarono le circostanze che per sè non avrebbero bastato a dare idea d'un fatto compiuto, e inventarono gli episodj che erano indispensabili per dare continuità alla storia.
Ma il fondo delle loro relazioni era vero; e questo fondo aveva abbondantemente di che eccitare una grande maraviglia e un grande interesse.
Il Conte del Sagrato era nome d'una terribile celebrità nei contorni, e assai più lontano; e una conversione tanto inaspettata, e che doveva portare tanti cangiamenti era un argomento all'universale di una pia maraviglia, di esultazione, e di riconoscenza a Dio, e di nuova venerazione per l'uomo di Dio che ne era stato lo stromento.
E quello che rendeva ancor più interessante quella conversione era l'averne veduto un effetto immediato, un testimonio vivo, già tanto interessante per sè: una povera giovane restituita volontariamente dal carcere privato alla libertà e alle braccia di sua madre.
Ma pei parrocchiani di Don Abbondio, l'interesse era ancor più grande che per gli altri; per essi la povera giovane era Lucia, quella Lucia che avevano veduta fra loro modesta, bella, irreprensibile, allegra, che avevano pianta sommessamente smarrita, della quale si sussurravano mille notizie diverse, e tutte lagrimevoli, e della quale ora i suoi vicini potevano dire: «l'abbiamo veduta noi oggi con Agnese andare dal Cardinale che le voleva parlare in persona».
Al mattino seguente la fama si posò anche sul comignolo del castellotto di Don Rodrigo; ed è facile immaginarsi che la novella ch'ella portava fece sull'animo suo tutt'altro effetto che sull'animo di quella povera moltitudine.
Quella Lucia ch'egli aspettava da un giorno all'altro d'avere segretamente negli artigli, ora pubblicamente libera; sventate e divolgate ad un punto le sue trame abbominevoli; e quel suo alleato nel quale egli fidava, che con la sua cooperazione doveva dare l'autorità del terrore al fatto, e far morire il biasimo anche nelle bocche dei più arditi, ora disertato, divenuto un oggetto di fiducia per gli avversarj.
Don Rodrigo si sforzava di ridere, e guardava in faccia ai suoi bravi per attingere coraggio o indifferenza; ma s'accorgeva che i bravi guardavano in faccia a lui con la stessa intenzione; e per non trovare il coraggio, il mezzo più sicuro è d'essere in molti a cercarlo: anche quel poco che ognuno si sentiva, se ne va: il Griso stesso era avvilito.
Costoro s'erano tutti radunati nel castello, come in un asilo, perché non pareva loro di star bene in nessun altro luogo.
Girando il mattino, s'erano avveduti che tirava un'aria estrania, inusitata: avevano osservata su tutti i volti, una esaltazione, una risolutezza che aveva abbattuta la loro che veniva in gran parte dall'abitudine di mostrarla soli.
Prima d'allora quando un contadino s'avveniva in uno scherano, e vedeva in lui non solo la forza sua e le armi che portava, ma tutta la potenza dei suoi compagni e del capo, passava a canto con una umile riverenza; se fosse stato insultato lo avrebbe tollerato in pace, perché era certo che gli altri che lo avessero veduto, sarebbero stati molto contenti di esserne fuori, e non avrebbe avuto un ausiliario: ora l'occasione di esternare un sentimento unanime aveva fatta sentire a tutti una fratellanza, una comunione di idee e di causa; ognuno era certo che la cosa era intesa da mille come da lui; e ognuno comunicando agli altri il suo nuovo coraggio, ne riceveva da essi, per la ragione inversa di quello che era accaduto ai bravi e a Don Rodrigo.
La liberazione di Lucia era l'argomento dei discorsi di tutti quelli che s'incontravano; la gente si fermava in crocchj a parlarne; un bravo che passasse in veduta dei crocchj, aveva tutti gli occhj addosso a sè: e la espressione di tutti quegli sguardi era una, quella dell'orrore.
Tutti parlavano sicuramente della pietà che avevano provata, del timore che avevano avuto per quella innocente, mettevano fuori i pensieri che avevano compressi, o comunicati sotto voce, alla sfuggita, e trovando una conformità negli altri, sentivano che a quei pensieri era unita una forza.
La giustizia aveva trionfato, il cielo s'era manifestato per l'innocente, e questa manifestazione che pareva una promessa d'aiuto accresceva ancor più l'animo di tutti.
Un potente scellerato aveva pubblicamente abjurata col fatto la iniquità, e l'aveva così vilipesa e indebolita nello stesso tempo.
L'iniquità era conosciuta, e perdendo un protettore terribile, aveva acquistato un nemico pur terribile: un Cardinale, un santo, un nobile, uno che aveva mezzi di persuasione, di forza, di autorità, di aderenze.
Quella poi che rinforzava l'effetto di tutte queste considerazioni, era la notizia sparsa che il Cardinale veniva a visitare anche quella parrocchia, che si fermerebbe qualche tempo nei contorni, che ci sarebbe folla d'uomini condotti dallo stesso sentimento pio, avverso alla ingiustizia.
E già si diceva che il castellano di Lecco, quello Spagnuolo di cui il podestà aveva tanta stima, si disponeva ad incontrare il Cardinale, in gran pompa, coi suoi soldati: tutta la forza, tutto lo splendore era per la pietà e per la giustizia.
Ognuno pensava che gli scellerati avrebbero dovuto convertirsi come il Conte, o perdersi d'animo, e fuggire.
Don Rodrigo, dopo una breve esitazione, prese quest'ultimo partito.
La violenza quando è assistita dalla fortuna, ama a mostrarsi, ella ha con sè come un argomento della sua bontà, o della sua ragionevolezza, poiché ottiene il suo intento; ma quando è abbandonata dalla fortuna, quando non valgono altri argomenti che quelli del diritto, del senso universale della giustizia, che le mancano, quando appare non solo come ingiustizia, ma come sbaglio, allora la violenza vorrebbe nascondersi anche a se stessa.
Don Rodrigo pensava che cosa mai avrebbe potuto fare di conveniente, che stesse bene in quei giorni, e non trovava nulla, nemmeno un soggetto di discorso con chi venisse a visitarlo.
E d'altra parte s'immaginava bene che nessuno sarebbe venuto.
Quei signori che lo avevano adulato fin allora, si sarebbero allora avveduti ch'egli era un ribaldo, il podestà doveva in quei momenti far dimenticare le sue relazioni con l'uomo che avrebbe dovuto reprimere e punire; al più il dottor Duplica, il quale non voleva mai inimicarsi senza speranza un signore, sarebbe stato quei giorni a poltrire in letto, per potergli dire un giorno che una malattia gli aveva tolto il bene di ossequiare il Signor Don Rodrigo.
Questi non vedeva così distintamente tutte queste disposizioni, ma le sentiva confusamente come per istinto.
D'altra parte, come condursi col Cardinale? Tutti i signori del contorno sarebbero andati a visitarlo, ed egli rimanersi solo a casa? Che direbbe lo Zio del consiglio segreto? Andare dinanzi al Cardinale, egli? gran Dio!
Ordinò dunque che tutto si apparecchiasse pel ritorno in città, e al più presto.
Quando la carrozza fu pronta, vi fece salire tre bravi: il Griso come il più terribile fu posto alla vanguardia sulla serpe, tutto armato; al resto della famiglia fu dato ordine di venire a Milano l'indomani, e si partì.
Dopo i primi passi Don Rodrigo vide coi suoi occhi, la via piena di viandanti che andavano in folla a Maggianico, altri per vedere il Cardinale, per assistere alla solennità: giovani, vecchi, benestanti, e poveri in quantità che sapevano di non tornare con le mani vuote.
Guardò alla sfuggita, e conobbe in un punto su tanti volti quale era il sentimento universale per lui: fremette, si promise di vendicarsi, ma s'accorse che la menoma dimostrazione in quel momento poteva far nascere una guerra della quale l'evento finale non sarebbe stato dubbio: dissimulò dunque, ritirò la testa nella carrozza, guardò i suoi bravi, e lesse sui loro volti pallidi il desiderio di esser fuori di quella processione e lontani dal paese.
Sentì un romore dietro, stette in silenzio tendendo l'orecchio, e comprese ch'erano urli e fischi.
Allora mormorò fra i denti: - vorrei che il Griso avesse giudizio, che non mi facesse scene -.
Avrebbe voluto dare al Griso questo consiglio della paura, ma la paura gli comandava di non muoversi, di non farsi vedere; e stette in quella ansietà inoperosa fino a che la carrozza, giunta al punto dove la strada si divideva, imboccò quella che conduceva a Milano, e si separò dalla folla che traeva a Maggianico.
Don Rodrigo e i suoi scherani respirarono allora dallo spavento; ma i pensieri che rimasero a Don Rodrigo non furono molto più sereni.
Il cocchiere sferzò i cavalli per allontanarsi al più presto, e tutti i viaggiatori, senza dir motto, lo lodarono in cuore, e si rallegrarono, sentendo che la carrozza andava celeremente, senza impedimenti in una strada solitaria.
Buon viaggio!
Intanto il buon Federigo attendeva in Maggianico a spicciare le faccende e a celebrare le funzioni solite della visita.
Il Conte del Sagrato era venuto quivi di buon mattino con la folla, e dopo il Cardinale era egli il personaggio che traeva a sè tutti gli sguardi.
I terrazzani e i concorsi si avvicinavano a lui per curiosità e per interesse, e si ritraevano per una antica abitudine di spavento; ma visto poi il curato che passando su la piazza, e accorto del Conte gli si accostò, e si fermò a salutarlo cordialmente, più rassicurati si ravvicinavano ancora, come una troppa di pulcini ombrosi non avvezzi ancora a conoscere la massaja fuggono in confusione al suo comparire, poi vedendola tranquilla senz'atto di minaccia, e vedendo la chiocchia alla quale si riparavano, andarle vicino senza sospetto, le tengono dietro, e tornano, però non senza esitazione, all'oggetto che gli aveva spaventati.
Federigo aveva dato ordine che appena giunto il Conte gli fosse annunziato, e lo accolse nei primi momenti di riposo.
Frattanto egli e Lucia erano il soggetto di tutti i discorsi: i paesani di quella chiedevano avidamente notizie della ultima storia della poveretta, e raccontavano in cambio le sue prime vicende.
Questi discorsi furono riferiti al Cardinale, che fu lieto assai della partenza di Don Rodrigo; e si fermò sempre più nel disegno di far tornare Lucia alla sua casa per avvisare poi ivi ai mezzi di porla per sempre in sicuro.
Prima di partire da Maggianico pregò egli il curato di portarsi a Chiuso, e di far sapere a Lucia ch'egli pensava a lei, e che stesse di buon animo
...
Dopo due, tre o quattro giorni spesi dal Cardinale nella visita di altrettante Chiese (questa indeterminazione è nel manoscritto); venne la volta di Don Abbondio; il quale non dico che desiderasse questa visita; ma se l'aspettava.
Quando si seppe che sul vespro di quel giorno il Cardinale arriverebbe al paese, coloro che erano rimasti a casa (giacché una gran parte del popolo andava quotidianamente dov'egli si trovava) si suscitarono e ragunati si mossero per andargli incontro.
Don Abbondio era stato quei dì un po' malato; giacché credo di avere accennato altrove, che la sua salute era soggetta ad alterazioni improvvise quanto quella d'un diplomatico: ma in quel giorno dovette risolversi di star bene; si pose alla testa di quella folla, e andò sulla via per la quale Federigo doveva venire.
Non erano ancora molto distanti dal paese quando si cominciò a vedere l'altra folla che veniva, e a distinguere la lettiga e il corteggio a cavallo; l'incontro e l'accompagnamento si avvicinarono, i due romori si mischiarono, le due turbe si trasfusero in una, e nel mezzo si trovò la lettiga ferma del Cardinale, e Don Abbondio allo sportello a fare il suo complimento.
Nelle accoglienze e nelle risposte di Federigo cercò il nostro scaltrito Don Abbondio di scrutinare se Lucia avesse chiaccherato qualche cosa del matrimonio: ma invano: la sincerità ponderata di Federigo rendeva il suo volto impenetrabile come avrebbe potuto fare la più imperturbata dissimulazione.
Nella sua lunga e affaccendata carriera aveva egli da gran tempo imparato con quella scienza sperimentale che fa sapere e sentire, e conoscere le cose, delle quali si aveva prima soltanto la formola, aveva dico imparato che le relazioni d'una parte sola non mettono mai chi le ascolta in caso di dare un giudizio, che la parte la quale parla la prima o maliziosamente o senza volerlo altera sempre gli elementi necessarj di questo giudizio: di modo che, se uno da questa prima relazione riceve una persuasione, e la dimostra, quando poi ascolta l'altra parte è per lo più costretto a dire con un'aria un po' scimunita: «Ah! io non sapeva; non m'immaginava; non mi avevano detto».
E aveva esperimentato che molte volte da due relazioni contraddittorie, ed egualmente confuse o artificiose, aveva ricavato facilmente il mezzo di venire a quella verità che non era stata nudamente espressa né dall'una né dall'altra; più facilmente che non l'avesse potuto mai ricavare da una sola relazione fatta con la buona fede e giudiziosamente.
Si era quindi fatta una legge di sospendere realmente il suo giudizio fin che non avesse inteso colui di che altri si doleva; e di non contare intanto per nulla quello che gli era stato riferito.
Quindi non aveva ancora una opinione in mente su questo fatto, e sincero com'era, non lasciava trasparire nessuna opinione: a segno che Don Abbondio non vedendo negli atti e nel volto di lui nulla che indicasse malcontento o sospetto, tenne per fermo che il Cardinale non sapesse nulla, e ne fu molto consolato.
Il corteggio raddoppiato andò verso la Chiesa, e quivi il Cardinale entrato come potè tra i plausi e gli urti, e pregato alquanto, cominciò le sue funzioni da un breve discorso ch'era uso di fare al popolo sulla visita ch'egli stava per intraprendere, e quindi si ritirò nella casa del Curato.
Per quanto quei buoni terrazzani avessero voglia di accogliere il loro vescovo con dimostrazioni straordinarie di venerazione e di affetto premuroso, non lo poterono fare, perché i plausi e gli urti fino all'ultimo grado erano diventati l'accoglimento ordinario per lui, e quel primo entrare nelle Chiese, ch'egli andava a visitare, non era la minima delle sue pastorali fatiche, né il più leggiero pericolo.
Da per tutto era mestieri prima di tutto ch'egli avesse molta sofferenza, e quindi che quelli del suo corteggio gli servissero da guardie, diradando la turba come potevano, allontanando quelli che volevano baciare o tirare la sua veste, facendo in modo in somma che a forza d'amore e d'ossequio il buon uomo non fosse sconquassato.
Questa amorevole persecuzione, ormai antica, aveva cominciato per lui dai primi giorni del suo episcopato: poiché, quando egli fece il suo ingresso nel Duomo di Milano (che, a dirla senza vanità, è un ampio edificio) egli fu talmente compresso che molti nobili che lo circondavano trassero le spade per allontanare la folla; tanto v'era allora d'incomposto anche nella riverenza e nella protezione; e malgrado questa minaccia, forse invece d'un vescovo santo, sarebbe rimasta in duomo una reliquia, se due preti tarchiati e giovani non avessero tolto da quella stretta il Cardinale, e sollevatolo sulle loro braccia non l'avessero portato in salvo fino all'altare.
Come dovessero poi stare le ossa di quei due galantuomini ognuno se lo può immaginare.
Ma se le accoglienze dei paesani di Lucia al Cardinale non poterono essere più clamorose né più calde che le altre, avevano però una espressione di una riconoscenza speciale, che Federigo potè distinguere: anzi egli intese più d'una volta nelle benedizioni che gli erano date, unito al suo nome suonare quello di Lucia.
Il buon vecchio tripudiò in cuore, e per quella gioja che dà sempre agli onesti il vedere l'espressione pubblica d'un sentimento onesto ed umano, e perché con un tal favore del popolo gli parve che Lucia potesse con sicurezza tornare almeno per allora a casa sua.
Ritiratosi pertanto come abbiam detto nella casa di Don Abbondio, il Cardinale s'informò da lui e da qualche altro prete su lo stato delle cose per rapporto a Lucia, e potè esser certo che ogni pericolo era cessato per lei, giacché il suon gran nimico, e gli scherani di questo se n'erano iti con la coda tra le gambe, e quand'anche fossero stati sfrontati a segno di rimanere, i difensori di Lucia sarebbero stati dieci volte in numero più del bisogno.
Quando ebbe questa certezza Federigo ordinò che l'indomani di buon mattino la sua lettiga andasse a prendere Lucia e la madre, e impose all'ajutante di camera che si portassero provvigioni di vitto alla casetta delle donne perché le poverette e Lucia principalmente non provasse quei mancamenti e quei disagi che le avrebbero renduti increscevoli i primi momenti del ritorno, e prolungato in certo modo il sentimento amaro dell'assenza.
All'indomani alzatosi al solito di buon mattino, attese il Cardinale alle consuete operazioni, s'intrattenne alquanto col Conte del Sagrato, il quale non aveva mancato di venire a quella stazione della visita, come negli altri giorni; poscia andò nella Chiesa come era uso.
Le funzioni non erano ancora terminate che Lucia giunse con Agnese alla soglia della casetta paterna.
Agnese aveva parlato per tutta la strada; la sua gioja pel ritorno trionfale, la gioja di ricondurre salva a casa la figlia da tanti pericoli, quella d'esser divenuta conoscenza di Monsignore illustrissimo, l'aspettazione dell'accoglimento che le farebbero i parenti, i conoscenti, tutti i paesani, erano sentimenti espansivi e distinti, che si prestavano assai bene alla sua loquacità naturale.
Ma i sentimenti di Lucia erano misti, intralciati, ripugnanti: erano di quelli sui quali la mente s'appoggia con una insistenza dolorosa, per distinguerli e per dominarli: di quei sentimenti che non cercano di esser comunicati, né trovano ancora la parola che li rappresenti.
Rivedeva ella la sua casa, quella dove aveva passati tanti anni tranquilli, che aveva tanto desiderato e sì poco sperato di rivedere; ma quella casa che non era stata per lei un asilo, quella casa dove aveva data una promessa che non credeva di poter attenere, dove aveva tante volte fantasticato un avvenire, divenuto ora impossibile.
Era terribilmente in forse di Fermo: Agnese non le aveva potuto dire se non quello ch'ella stessa sapeva confusamente; che Fermo cioè, dopo il tumulto di Milano del giorno di San Martino, aveva dovuto fuggire dalla città, e uscire dallo Stato per porsi in salvo.
E quand'anche Fermo fosse tornato tranquillamente, le ansietà di Lucia si sarebbero cangiate, ma non avrebbero cessato, perché ella non poteva più esser sua.
Tremava ancora nel pensiero che Fermo potesse essere informato del suo ratto, della sua prigionia, e non sapere esattamente com'ella aveva fuggito ogni pericolo: la poveretta mentre aveva rinunziato a Fermo, avrebbe voluto ch'egli sapesse ch'ella era in tutto degna di lui.
Avrebbe voluto che Fermo fosse informato del voto ch'ella aveva fatto senza ch'ella glielo dicesse, che egli l'approvasse con dolore, che non pensasse mai ad altra, né più a lei, o per meglio dire (giacché questa non era l'idea precisa di Lucia) avrebbe voluto che Fermo facesse tutti i giorni una risoluzione di non più pensare a lei.
L'assenza del Padre Cristoforo accresceva ed esacerbava tutti questi cordoglj: le mancava l'aiuto, e il consiglio; quegli a cui ella confidava anche i mezzi pensieri, quegli le cui parole la rendevano sempre più tranquilla, e più conscia di se stessa.
Quanto a Don Rodrigo, egli era messo almeno per qualche tempo fuori del caso di far paura; e la rimembranza di quest'uomo, trista certo e schifosa per Lucia, non accresceva però le sue inquetudini.
Pensava però che Don Rodrigo sarebbe tornato, e rimasto, e che il Cardinale non avrebbe potuto sempre aver l'occhio sopra di lei per difenderla; e da questo pensiero deduceva la necessità di trovare qualche dimora più sicura, e sperava che il Cardinale stesso ne avrebbe tolto l'incarico.
Così dopo d'avere abbracciata la Zia che l'accolse piangendo, Lucia la lasciò con Agnese che se ne impadronì per raccontarle tante tante cose, e si ritirò nella sua stanza.
Ivi dopo d'aver ringraziato Dio dell'averla ricondotta quivi oltre e contra la speranza, si mise a rivisitare tutte le sue masserizie, come per provare se potesse ricominciare la sua vita passata; ma non v'era oggetto nella casa, non v'era angolo al quale non fossero associate idee divenute dolorose e ripugnanti.
Lucia prese come macchinalmente il suo arcolajo, e sedette a dipanare la matassa di seta che aveva lasciata a mezzo quando Fermo venne a pigliarla per la spedizione del matrimonio clandestino.
Dopo pochi momenti, ecco giungere Perpetua affannata a dire che Monsignore tornato di Chiesa aveva chiesto se Lucia era arrivata, e che udendo di sì aveva ordinato che fosse tosto chiamata.
«Il signor Curato poi», aggiunse Perpetua sottovoce, «mi ha imposto di dirvi o Lucia che vi ricordiate del parere che vi ha dato a Chiuso: ehn? sapete? di non dir nulla di quel tale affare; Agnese m'intendete? del matrimonio? guardatevi dal parlarne, perché, perché, i Cardinali passano, e i curati restano».
Le due donne si guatarono in viso come per dire l'una all'altra: - ora mò? non siamo più in tempo -.
Ma Agnese fatta una faccia tosta disse a Lucia: «certo non bisogna dir nulla»; e mettendo la bocca all'orecchio di Lucia, continuò: «del matrimonio clandestino.
Guaj, vedi, è un guajo grosso».
Lucia con queste due ingiunzioni l'una delle quali era ineseguibile, e l'altra poteva dipendere dalle domande che il Cardinale le avrebbe fatte, s'incamminò, tutta pensierosa e agitata, con le due donne alla casa del curato.
Per la via incontrarono la folla che uscita, dalla Chiesa si diffondeva nel contorno; e Lucia fu accolta con acclamazioni, e fermata ad ogni passo con saluti, fra quali vergognosa con gli occhi bassi e gonfj, entrò nella casa parrocchiale, e fu tosto condotta nella stanza dov'era Federigo, il quale la ricevè con le solite precauzioni.
Dopo alcune inchieste cortesi sul suo viaggio, sul piacere ch'ella aveva provato nel rivedere la sua casa, Federigo la interrogò di nuovo sull'affare del matrimonio: Lucia dovette rispondere, e raccontò tutta la faccenda fino al clandestino, dove si fermò come un cavallo che ha veduto un'ombra, e ristà con una sosta improvvisa e singolare che non è quella solita d'allora che è giunto al termine del suo viaggio.
Federigo, che s'avvide di qualche cosa, domandò a Lucia che risoluzione avesse presa ella, sua madre, lo sposo quando si videro chiusa la via a quella unione che desideravano e che chiedevano legittimamente.
Agnese, udendo questo cominciò a far certi visacci a Lucia cercando di non lasciarli scorgere al Cardinale (cosa non molto facile), e questi visacci volevano dire: - rispondi: «niente, abbiamo aspettato con pazienza».
- Lucia stava interdetta: Federigo che vedeva tutto (l'avrebbe veduto un cieco nato), disse ad Agnese con un contegno tranquillo e serio: «Perché non lasciate essere sincera la vostra figlia?» e volto a Lucia: «parlate liberamente», continuò: «Dio vi ha assistita: dategli gloria col dire la verità».
Lucia allora spiattellò tutta la storia del clandestino; e la narrazione divenne allora liscia, verisimile, e ben congegnata.
«Avete confessata una colpa», disse tranquillamente Federigo: «Dio ve la perdoni, e...
a chi v'ha dato una tentazione così forte di commetterla.
Ma d'ora in poi, buona figliuola, e voi buona donna, non fate più di quelle cose, che non raccontereste volentieri».
Quindi passò a chiedere a Lucia dove fosse Fermo; che ora il matrimonio poteva e doveva esser tosto conchiuso.
Questo era un punto ancor più rematico.
«Le dirò io...» cominciava Agnese, ma il Cardinale le diede un'occhiata la quale significava ch'egli sperava la verità più da Lucia che da lei, onde Agnese ammutì; e Lucia singhiozzando rispose: «Fermo, povero giovane non è qui: s'è trovato in quei garbugli di Milano, e ha dovuto fuggire; ma son certa ch'egli non ha fatto male, perché era un giovane di timor di Dio».
«Ma che ha fatto in quel giorno?» chiese ancora il Cardinale: «quale è la sua colpa?»
«Non ne sappiamo di più», rispose Lucia.
Il Cardinale giacché altri non v'era a cui domandare, si volse ad Agnese la quale rianimata disse: «Se volessi, potrei inventare una storia per contentare Vossignoria illustrissima, ma sono incapace d'ingannare una gran persona come Ella è; e non sappiamo proprio niente di più».
«Dio buono!» disse il Cardinale: «insidie, colpe, sciagure, incertezze, ecco il mondo dei grandi e dei piccioli.
Ma voi», disse a Lucia, «che pensate adunque di fare intanto?»
«Io», rispose Lucia, «io vedo che il Signore ha deciso altrimenti di me, che non mi vuole in quello stato; e ho messo il mio cuore in pace.
E se trovassi dove vivere tranquillamente, fuor d'ogni pericolo..., se potessi esser ricevuta conversa in un monastero...: consecrarmi a Dio...»
«Oh che furia!» sclamò Agnese.
«Voi vi siete promessa, buona giovane», disse Federigo: «vi siete allora risoluta a promettere senza riflessione, leggiermente?»
«Questo no», disse Lucia arrossando.
«Bene», disse Federigo: «potrebbe ora dunque esser leggiero il ritrattarvi.
Se quest'uomo fosse innocente, se potesse sposarvi, che mutamento è accaduto nelle vostre relazioni? Nessun altro che una serie di sventure ad ambedue, e non è questa una ragione per separarvi.
Questo non è il momento di pigliare una risoluzione.
Sospendete, fate ricerche, aspettate che Iddio vi riveli più chiaramente la sua volontà.
L'asilo intanto ve lo troverò io».
Lucia fu tentata più d'una volta di rivelare il voto, ma una vergogna insuperabile la ritenne.
Federigo l'assicurò che non sarebbe partito da quei contorni prima d'avere stabilito qualche cosa per lei, e dopo qualche altra parola di consolazione e di avviso, la lasciò partire con Agnese.
Fece poscia venire a sè il curato, il quale, inchinandosi al Cardinale gli guardò in faccia per vedere se v'era scritto il matrimonio, ma non potè rilevar nulla.
La sua incertezza però fu breve, giacché le prime parole di Federigo furono queste: «Signor curato, perché non avete voi unita in matrimonio quella giovane Lucia col suo promesso sposo?»
- Donne ciarlone! - voleva sclamare Don Abbondio, ma s'avvide tosto che questa non era una risposta che stesse bene, né una risposta; e disse titubando: «Monsignore illustrissimo, mi scusi...
ma non posso parlare».
«Come?» disse il Cardinale con volto serio e dignitoso: «non sentite che voi siete ora qui per render conto al vostro superiore? e che avendo tralasciato, negato di fare ciò che nella via ordinaria, era il vostro dovere, avete a dirne una buona ragione, o a confessarvi colpevole?»
Queste parole fecero tosto rientrare in sè Don Abbondio.
Egli aveva peritanza dell'arcivescovo, e paura di Don Rodrigo, e come questo sentimento era incomparabilmente più forte nell'animo suo, così aveva quasi fatto svanire il primo.
Pensava Don Abbondio che Federigo rimproverava, ma che Don Rodrigo dava, e al paragone i rimproveri gli parevano poca cosa, e l'autorità stessa non gl'imponeva troppo quando pensava al rischio della persona.
Ma quando vide l'autorità spiegarsi, e volere essere riconosciuta si trovò come annichilato: la riverenza presente divenne in quel momento più forte del terrore lontano.
Replicò adunque umilmente: «Monsignore, io sono il più sommesso degli inferiori di Vossignoria illustrissima...
ma ho detto così...
Vede bene, Monsignore, ognuno ha cara la sua pelle.
Non tutti i signori sono santi, come Vossignoria.
Basta, dirò tutto: ma so che parlo ad un prelato prudente, che non vorrebbe perdere un povero curato».
«Dite sicuramente», replicò il Cardinale, «io desidero di trovarvi senza colpa».
«Deve dunque sapere Monsignore illustrissimo», ripigliò Don Abbondio «che la vigilia appunto del giorno stabilito per quel benedetto matrimonio (parlo a Vossignoria, come in confessione) io me ne tornava a casa tranquillamente, senza una cattiva intenzione al mondo, sallo Dio, quando...
quando mi si presentarono in su la via, (al mio Superiore e ad un Signore tanto discreto, dico tutto) mi si presentarono faccia a faccia, come sono solo io ora dinanzi a Vossignoria illustrissima, due uomini, per parlare onestamente, con certi visi...
parevano coloro che posero San Vincenzo su la graticola; con archibugi, pistole, spadoni, spuntoni..., parati a festa insomma...
Vossignoria non ha mai veduto nulla di somigliante, e mi si affacciarono, dico, mi fermarono, e mi intimarono in nome d'un certo Signore (i nomi non servono a nulla) che io mi guardassi bene, per quanto aveva cara la vita (mi pare che fosse un parlar chiaro) dal fare quel tal matrimonio.
Ecco la storia genuina.
Io adunque ho stimato che l'ostinarmi contra la forza sarebbe stato un dare occasione a costoro di commettere un sacrilegio, e che, io mi sarei renduto reo d'un vero suicidio».
«Non avete avuto altro motivo?» domandò pacatamente Federigo.
«Non basta, Monsignore?» replicò Don Abbondio.
«O forse mi sono male spiegato: dico che se avessi fatto il matrimonio, costoro mi avrebbero data una schioppettata nella schiena.
Eh! Monsignore!»
«E vi par questa una ragione bastante per ommettere un dovere preciso?»
«No?» disse precipitosamente Don Abbondio con una sorpresa tanto viva che quasi sarebbe paruta stizza.
«La pelle! la pelle! non è una ragione bastante?»
Il Cardinale, alzando gli occhi in faccia a Don Abbondio disse con una indegnazione composta: «Ma quando vi siete presentato alla Chiesa, alla Chiesa dei martiri per ricevere questa missione che esercitate, quando avete assunti volontariamente questi doveri del ministero, la Chiesa vi ha ella fatto conto della pelle? Vi ha ella detto che quei doveri erano senza pericoli? Vi ha detto che dove il pericolo cominciasse ivi cesserebbe il dovere? O non v'ha espressamente dichiarato che vi mandava come un agnello fra i lupi? Vi ha promessa la sicurezza temporale per ricompensa? o la vita eterna? Non sapevate voi che v'erano dei violenti nel mondo? La pelle! Offeritela per le mani dei violenti in sagrificio alla fede e alla carità, e la Chiesa la raccoglierà come un nobile tesoro, la conserverà di generazione in generazione, di sacerdozio in sacerdozio, come un oggetto di culto, come un testimonio della forza che le è stata data dall'alto, come un tempio dove lo Spirito avrà operate le sue maraviglie.
Ma per conservarla qualche tempo di più, per salvarla a spese della carità e del dovere! non faceva certo mestieri della unzione santa, della imposizione delle mani, della grazia del sacerdozio.
Come! al soldato che riceve pochi soldi di paga, che combatte per una causa che non conosce non è lecito dire: ho voluto salvare la vita! non è lecito, è turpe; supporre ch'egli lo possa pensare, è una ingiuria e non una scusa! e sarà scusa per noi! Dio buono, per noi che predichiamo le parole della vita, che rimproveriamo ai fedeli il loro attacco alle cose terrene, che facciam loro vergogna, che gli chiamiamo ciechi perché non sentono il valore della promessa, o perché operano come se non lo avessero compreso! Che più? per questa stessa vita del tempo, la Chiesa non ha ella pensato a voi? non vi nutrisce ella della sostanza dei poveri? non vi munisce di riverenza e d'ossequio? non vi copre ella d'un abito, che prima pure che si sieno vedute le vostre opere vi attrae la venerazione, perché vi segna come un uomo trascelto, come uno di quegli che non hanno altra professione che di fare il bene? E perché vi distingue ella così, se non a fine che possiate farlo? QUEGLI da cui abbiamo la missione e l'esempio, il precetto e la forza di eseguirlo, quando venne su la terra ad illuminare i ciechi, a congregare i dispersi, ad evangelizzare i poveri, a curar quelli che hanno il cuore spezzato, a ben fare, a salvare, pose Egli per condizione di aver salva la vita?»
Don Abbondio teneva bassi gli occhi, il capo, le mani; il suo spirito si dibatteva tra quelli argomenti, come un pulcino negli artigli del falco che lo tengono elevato in una regione sconosciuta, in un'aria che non ha mai respirato.
Vedendo poi che il Cardinale taceva come chi aspetti una risposta, dopo aver molto cercato, articolò finalmente queste parole: «Non so che dire: avrò fallato: è giusto che i superiori abbiano ragione.
Quando la vita non si ha da contare per nulla, non so che dire.
Vossignoria illustrissima parla bene...
Bisognerebbe però», aggiunse con voce meno spiegata «essersi trovato al busillis».
CAPITOLO IV
Ebbe appena Don Abbondio proferite queste ultime parole che se ne pentì, s'accorse d'aver detta una insolenza, e si aspettò che questa volta Monsignore monterebbe affatto in bestia.
Ma alzando dubbiosamente lo sguardo, fu molto maravigliato in vedere la faccia di quell'uomo, ch'egli era destinato a non poter mai né indovinare né comprendere, in vederla passare da quella gravità riprensiva ad una gravità tutta compunta e pensosa.
«Pur troppo!» disse il Cardinale: «tale è la nostra miseria.
Dobbiamo ripetere dagli altri quello che forse non sapremmo dare noi; dobbiamo riprendere altrui, e sa Dio quello che avremmo fatto noi nel caso stesso.
Ma guaj se io dovessi prender la mia debolezza per misura del dovere altrui! Pure è certo ch'io vi debbo l'esempio: non debbo essere il fariseo che impone altrui insopportabili carichi, ch'egli non vuol pure toccare colla punta del dito.
Or bene: se voi m'avete veduto trascurare qualche mia obbligazione per pusillanimità, ditemelo francamente, correggetemi, fatemi ravvedere».
Vedendo Federigo che Don Abbondio non rispondeva, e sospettando ch'egli forse fosse rattenuto dal timore di offenderlo, riprese con tuono umile e cordiale: «Dite, che dinanzi a quel Dio che ci ascolta, io vi protesto, che non che sdegnarmene, vi sarò grato, e v'avrò più caro che mai non vi avessi».
Ma i pensieri di Don Abbondio erano tutt'altri da quelli che s'immaginava il Cardinale.
- Oh che tribolatore! - pensava Don Abbondio.
- Anche sopra di sè! purché frughi, rimescoli, esamini, critichi, è contento.
Ora io andrò a fargli l'esame di coscienza! Farebbe meglio a non farmi tanta inquisizione sui fatti miei, che dei suoi io non mi piglio briga.
- Ma come bisognava pure dir qualche cosa ad alta voce, ecco ciò che disse Don Abbondio.
«Oh Monsignore, mi burla! Chi non conosce il petto forte, l'animo coraggioso di Vossignoria illustrissima?» A questa dichiarazione fece poi nel suo cuore Don Abbondio questo commento: - Anche troppo, che un po' di giudizio starebbe meglio: lasciare andar l'acqua all'ingiù, e non andare a comprarsi le brighe, nelle faccende cercare tutti i musi duri per cozzare e fino nelle visite andare a pescare tutti i pericoli, schivare le strade piane, e andare in cerca dei greppi e dei precipizi per fiaccarsi l'osso del collo.
Il Cardinale rispose al complimento di Don Abbondio: «Io non vi domandava una lode che mi fa tremare, perché chi può sapere come mi giudichi Chi vede tutto? ma voi dovete sapere che quando a servire il prossimo in quelle cose, dove egli ha ragione nei nostri servigj è necessaria una risoluzione coraggiosa, allora questa risoluzione è di stretto dovere.
Ditemi dunque: che avete voi fatto dopo quella intimazione che avete detto?»
«Che ho fatto, Monsignore?» disse Don Abbondio.
«Mi son messo a letto con la febbre».
E aggiunse in cuor suo: - Stiamo a vedere che rimprovero mi farà per aver avuta la febbre.
«Vi tolse essa il sentimento e la favella?» domandò il Cardinale.
«Monsignor no», rispose Don Abbondio: «ma le so dire che fu una febbre fiera: sono spaventi che non gli auguro a nessuno».
«La carne è inferma», ripigliò Federigo: «ed è questa la nostra miserabile condizione: ma lo spirito fu egli pronto? Che avete voi fatto per quei due poveretti, dei quali voi, e voi solo allora conoscevate il pericolo?»
«Ma che cosa doveva fare, col nome di Dio?» disse Don Abbondio.
«Debbo io dunque dirvelo?» ripigliò Federigo: «non l'avete sentito? non lo sentite pur ora? Al vedere un tanto pericolo venir sopra due anime innocenti, che vi sono date in custodia, le vostre viscere non si sono commosse? Non avete tremato per essi? Non avete provato il tormento della carità? Il vostro corpo si abbattè sotto lo spavento: guai al tristo superbo, che ne pigliasse argomento di beffa e di dispregio: per questa debolezza che non è della vostra volontà, non sento altro che una pietà rispettosa: ma nella umiliazione del vostro terrore, ma nelle angosce della vostra infermità, come non avete pensato alle angosce che erano minacciate a quelli sui quali voi dovevate vegliare? Che! il lupo s'era mostrato, le pecore pascevano con sicurezza, e voi non avete pensato, non dico a difenderle, ma né pure a farle avvertite.
Coi cenni l'avreste dovuto, quando la parola vi fosse mancata».
«Ecco come vanno le cose», disse Don Abbondio: «io mi confondo davanti a Vossignoria illustrissima, e faccio torto alla mia causa, per non saper ben dire le mie ragioni.
Non le ho detto che quei due (due lì presenti, ma a contarli tutti, sono un reggimento) quei due mi hanno proibito espressamente, sotto pena della vita di parlare».
«Dio buono!» riprese Federigo, «voi avete creduto, voi credete ancora, voi sostenete dinanzi a me che una tale proibizione dovesse essere per voi un comandamento? Che doveste obbedire? Così dunque basterebbe un violento in ogni parrocchia per fare che il ministero fosse tutto sospeso, i pastori muti e schiavi? i deboli abbandonati? Che dovevate voi fare? Chiedere a Dio la forza che vi era necessaria, e Dio ve l'avrebbe accordata; non perdere un momento: avvertire quei due poveretti della iniquità potente che stava all'erta contra di loro, strascinarvi in Chiesa, e fare a malgrado dell'uomo quello che Dio vi comandava, consacrare la loro unione, e chiamare sopra di loro la benedizione del cielo: dovevate soccorrerli di consiglio, di mezzi per porsi al riparo con la fuga, cercar loro un asilo, fare quello che implorereste se foste perseguitato da un più forte di voi: dovevate informar tosto il vostro vescovo del loro, del vostro pericolo, dell'impedimento che una violenza infame poneva all'esercizio del vostro ministero.
Io, io allora avrei tremato per voi; io avrei posto in opera tutto quello che Dio mi ha dato di ajuti, di aderenze, di autorità, per difendervi: io non avrei dormito fin che non fossi certo che non vi sarebbe torto un capello.
Ah! per quanto l'iniquità trionfi, v'è pure ancora un po' di forza per la giustizia: ma i poverelli, inesperti, ignari, sfidati, non sanno dove andarla a cercare: bussano alla prima porta; e se la trovano chiusa, sorda, crudele, si disanimano affatto, e non sanno come adoprarsi.
Quell'uomo che ardì tanto credete voi che avrebbe tanto ardito se avesse saputo che le sue trame, le sue violenze erano note fuor di qui, note a me? Vi dico che sarebbe stato contento di ritrarsi, e voi dopo aver fatto il debito vostro, sareste stato sicuro.
Quella inquetudine che avete provata, l'avrei provata io, incessante, intensa, ingegnosa: io vi avrei promosso in luogo, fin dove certo le braccia di costui non si sarebbero allungate.
Ma voi non avete fatto nulla.
Nulla! Dio ha salvata questa innocente senza di voi: l'ha salvata...
se dico troppo, se il mio giudizio è temerario, smentitemi, che mi consolerete...
l'ha salvata a mal vostro grado».
Don Abbondio taceva: il Cardinale continuò: «È doloroso il terrore, sono increscevoli le angosce, è amara la pressura: voi lo sapete: ma sapete voi misurare la paura e le angosce che ha sofferte una vostra parrocchiana innocente?»
Don Abbondio, dagli anni della pubertà in poi, non aveva mai occupato tanto poco di spazio come in quel momento: ad ogni parola del Cardinale egli si andava ristringendo, impicciolendo, avrebbe voluto sparire.
Tacque egli per qualche momento, non trovando ragione da opporre in quel campo dove il Cardinale aveva posta la questione, e dove la teneva a forza.
Finalmente per dir qualche cosa pensò a cangiarla e a ricriminare.
Disse dunque con quella debolezza ostile che fa svanire anche la pietà che la debolezza ecciterebbe naturalmente:
«Quelli che vengono a rapportare, ad accusare, non dicono tutto, Monsignore illustrissimo.
Questo bel fiore di virtù, questa povera giovane è venuta per sorprendere il parroco e per fare un matrimonio clandestino.
E quel suo sposo, era una buona lana, è andato a Milano, e sa il...
cielo che cosa ha fatto: a buon conto ha dovuto fuggire».
«Io lo sapeva», disse il Cardinale; «ma voi come osate parlare di questi fatti che aggravano la vostra colpa, che ne sono la conseguenza? Voi chiudete a dei poverelli la via legittima per giungere ad un fine legittimo, e siete voi quello che fate lor carico se ne hanno presa una illecita? Certo il vostro rifiuto non gli scusa: ma pensate voi bene in questo momento quale sia l'animo di colui a cui si nega quello che gli è dovuto? L'uomo è tanto artificioso per giustificare i mezzi, che lo possono condurre ai suoi desiderj! che debb'esser quando i desiderj sono giusti? Non è questa la più forte delle tentazioni? Mal fa chi soccombe anche a questa: ma che dite di colui che la dà? E quello sventurato giovane; bene avete detto, sa il cielo che cosa ha fatto! Ah! tutti errano pur troppo, anche quelli che dovrebbero raddrizzare gli errori altrui: v'ha tanti scellerati impuniti, Dio volesse che la pena, che il terrore della pena non cadesse mai sugli innocenti! Ma che ch'egli abbia fatto, egli profugo, esacerbato, col sentimento della giustizia negata, pregate Dio, io prego per lui e voi, che gli perdoni, e non vi accagioni di quello che egli possa aver fatto.
Era egli prima d'ora uomo di risse, e di misfatti? e di rivolta? Io lo domando a voi, e Dio ascolta la vostra risposta».
«Questo non lo posso dire», rispose Don Abbondio.
«E voi non tremate?» ripigliò il cardinale.
«Voi non pensate che se quest'anima la quale era stata affidata a voi, s'è pervertita, voi avete una terribile parte nel suo pervertimento? Un tiranno l'aveva contristata, provocata, esacerbata: era una tentazione: ma non la più forte; ma poteva divenire una occasione di offerta, di sagrificio, di rassegnazione.
I poverelli sanno, debbono pur troppo saperlo, che v'ha dei soverchiatori violenti: hanno inteso dire fino dall'infanzia che Dio gli lascia spaziare alcun tempo su la terra per esercizio dei buoni, hanno appreso ad adorare, anche nella iniquità degli uomini, la giustizia, e la misericordia di Dio entrambe infallibili, ma riserbate entrambe a momenti ch'Egli solo conosce.
E quante volte la persecuzione dell'empio non accresce in essi la fede? Ma quello che la turba, quello che inverte la loro coscienza, quello che travolge il loro proposito, è l'abbandono per parte di coloro che predicano la fede, la coscienza, il proposito.
Un tiranno ha sbalzato questo sventurato giovane lontano dalla sua casa, l'ha staccato da quei mezzi, da quelle consuetudini, da quella vita nella quale egli poteva esser facilmente onesto.
Ah! allora più che mai egli ha avuto bisogno di consiglio, e di soccorso! Allora una voce forte e amorosa doveva farsi sentire a quell'anima tentata; doveva dirle: bada! l'iniquità trionfante non ti confonda: ella non è eterna: la tua collera non ti vinca: ella non è giusta, perché non ha ancora veduto la fine.
Quell'infelice era sopraffatto dallo spettacolo dell'ingiustizia d'un uomo; un altr'uomo doveva rendergli visibile la carità, perch'egli la credesse, perché l'amasse, perché non si staccasse da essa.
Chi doveva esser quest'uomo? - Ma egli ha veduta, ha sentita l'ingiustizia sola, l'ha veduta impunita, temuta: ha veduto colui dal quale aveva imparato a detestarla, ritirarsi, cedere, assecondarla, quando si è mostrata nella sua forza; dopo averla abborrita, egli ne è stato abbagliato, ne ha fatto il suo Dio.
Non dite ch'egli era disposto alla perversità, e che ha colta la prima occasione per darsi ad essa.
Sarebbe questa una scusa dolorosa, ma una scusa per voi, se aveste fatto quello che per voi si poteva, qualche cosa, per ritrarlo da quella via, per ritenere nel bene i suoi pensieri dubbiosi.
Che avete voi fatto? Che conforto, che ricordo, che esempio ha egli portato con sè, partendosi? Che ha egli avuto da voi? Un rifiuto.
Chi non ha cura dei suoi, ha negato la fede, è peggiore dell'infedele.
La sentenza è terribile, ma non viene da me: è del vostro Maestro, e del mio».
Il Cardinale cessò di parlare, ma nel suo volto composto al silenzio si dipingevano ancora i sentimenti che avevano mosse le sue parole, e che le sue parole avevano accresciuti: l'ira senza peccato, la commiserazione, un riflesso di terrore sopra se stesso al ricordo di quei doveri, che gli erano comuni con quello ch'egli riprendeva dell'averli sconosciuti.
Don Abbondio sulle prime, quando aveva veduto che s'intonava un rabbuffo, aveva sentito un turbamento, una stizza, una tristezza tutta carnale; non poneva mente al senso della ammonizione, ma al tuono con cui era fatta: e non s'affannava d'altro che di sentirla finire.
Ma dalle dalle, la pioggia continua di quelle parole dopo d'avere sdrucciolato su quella terra arida, l'aveva pure penetrata: erano conseguenze impensate, applicazioni nuove, ma d'una dottrina antica pur nella mente di Don Abbondio; il quale cominciò davvero a comprendere quanto la sua condotta fosse stata diversa da quella legge, ch'egli stesso aveva sempre predicata.
Taceva egli; ma non più di quel silenzio impersuasibile e dispettoso: taceva come quegli che ha più cose da pensare che non da dire.
Il Cardinale s'accorse dell'effetto delle sue parole; ne sentì consolazione e pietà, in un punto, e riprese:
«Queste però, signor curato, non debbono essere le ultime nostre parole su questo affare.
Sa il cielo come io avrei desiderato di tener con voi tutt'altro discorso.
Siam vecchi entrambi: sa il cielo se m'è doluto di dover contristare con rimproveri questa vostra canizie; quanto avrei voluto piuttosto racconsolarmi con voi delle nostre cure comuni, dei nostri guaj, col pensiero della beata speranza, alla quale già già tocchiamo.
La mezza notte è vicina; lo Sposo non può tardare: colmiamo d'olio le nostre lampade, affinché non sieno estinte al suo arrivo.
Riempiamo il nostro cuore di carità: essa sola è eterna; essa sola può raddolcire quel momento.
Amiamo, e sarem forti; amiamo e le debolezze, che pur ci rimarranno, saranno coperte e perdonate».
Federigo fece ancora pausa a queste parole: Don Abbondio non ruppe il silenzio, ma il Cardinale vide ch'egli gli assentiva con l'animo, e continuò:
«Il male avvenuto è irrevocabile; ma non irreparabile; speriamo.
Le sventure di quei due poveretti possono ancora tornare in loro bene, e in bene vostro.
Chi sa quante occasioni Dio vi prepara di soccorrerli, di divenir per essi un padre, di compensare il torto che la vostra negligenza può loro aver fatto.
Deh! non le lasciate sfuggire.
Deh! non indurate il vostro cuore; non restituite loro, nelle occasioni, l'amarezza che può avervi data questa riprensione, che io v'ho fatta, sa il cielo, per amor vostro non meno che pel loro.
Pur troppo, io l'ho più volte esperimentato in questa difficile altezza: il debole che si richiama al superiore, che gli fa conoscere la sua ragione, che ottiene una giustizia, troppo spesso momentanea, peggiora spesso la sua condizione.
Quegli che è stato ripreso per sua cagione, tace dinanzi alla riprensione, cede al suo maggiore, ma trova poi il mezzo di fare espiare al debole quel breve trionfo.
Son tanti i mezzi di fare avere torto al debole! e colui che ne aveva assunta la protezione, è tanto distratto da altre cure, di sì corta vista, che è facile fargli credere ch'egli si è ingannato alla prima, che ha protetto un immeritevole.
Deh! non fate così: poiché quand'anche riusciste a farmi travedere, non sono io quello che v'ha da giudicare.
Amate quegli infelici perché son vostri figli, per quello che hanno sofferto, per l'occasione che v'hanno data di udir la voce sincera del vostro pastore, per l'amore che possono attirarvi da Dio.
Amateli cordialmente, e saprete sempre quello che avrete da fare per essi».
«Monsignore», disse Don Abbondio, con voce commossa, «dinanzi a voi e dinanzi a Dio prometto di fare per essi tutto quello che potrò.
Ma Vossignoria illustrissima pensi a mettere un buon guinzaglio a quel cane.
Vossignoria ha avuta la degnazione di dirmi che avrebbe tremato per me povero prete: sappia, Monsignore, che v'è da tremare ancora, perché quando Vossignoria sarà a far del bene altrove, costui tornerà qui a fare alla peggio».
«Dio l'ha già atterrito senza di voi, senza di me», interruppe Federigo, «voi lo avete veduto fuggire: non è questo un pegno dell'aiuto celeste? Ma io non lascerò di mettere in opera ogni mezzo umano che sia in poter mio.
Porrò in sicuro quella povera giovane, che non lo sarebbe forse qui: chiederò conto di quegli che le era promesso; e s'egli è innocente...
se le mie parole possono giovargli...
Dio buono son tanto sospette le parole in bocca nostra! Pure io spero in Dio.
Quanto a quel Signore, spero pure di poter fargli sentire che v'è chi non ha paura di lui, e può fargliene.
Ad ogni modo, ricordatevi ch'egli non può uccidere che il corpo, e temete Quel solo che può perdere il corpo e l'anima».
«Ah l'anima! è vero pur troppo!» disse Don Abbondio, lasciando interrotta la frase che il suo pensiero compì a questo modo: - ma se quel birbante mi dovesse uccidere il corpo, sarebbe dura -.
«A proposito del corpo», disse poi dopo un momento, «non per dare un parere a Vossignoria illustrissima, ma per amore di quella regolarità che tanto le piace, mi faccio lecito di avvertirla che l'ora è avanzata, e che il mio povero pranzo non aspetta che Vossignoria».
«Andiamo», disse il Cardinale, con un sospiro.
Abbiamo detto che il Conte del Sagrato era venuto ogni mattina a quella Chiesa che il Cardinale visitava in quel giorno.
Stava alquanto con lui in quell'ora di riposo che precedeva il pranzo, e poi ripartiva.
Ma in questo giorno egli era venuto con un disegno che fu cagione di farlo rimanere più tardi.
Sapeva il Conte che Lucia doveva tornare alla sua casa: il Cardinale lo aveva informato di questo, anzi gliene aveva chiesto consiglio: perché, dove si trattava di pericoli, e di cautela, di bravi e di tiranni, non v'era uomo più al caso di dare un buon consiglio: e il Conte aveva confortato il Cardinale ad installare pure sicuramente Lucia nel suo pacifico albergo.
Prevedendo egli dunque che quel giorno Lucia si sarebbe trovata dal Cardinale, non vi si presentò all'ora consueta, ma stette nella Chiesa aspettando l'ora in cui il Cardinale era solito di desinare, e quando questa gli parve dover esser giunta, entrò nella cucina, dove Perpetua stava in grandi faccende, e le chiese con umile affabilità di poter ivi trattenersi ad attendere che il pranzo fosse finito per chiedere udienza a Monsignore.
Chi entra in una cucina in un giorno di cerimonia, è sempre il mal venuto; ma il Conte aveva una antica riputazione di ribalderia, e una recente di santità, che imposero anche a Perpetua, la quale per levarsi dattorno nel modo più gentile quell'incomodo arnese, propose al Conte d'entrare nella sala del pranzo.
«Si faccia avanti», diss'ella «sulla mia parola: Monsignore la vedrà molto volentieri; e anche il mio padrone, e tutta la compagnia: non faccia cerimonie».
Ma il Conte disse di nuovo che desiderava di attendere ivi in un canto.
Perpetua lo fece sedere al posto d'onore della cucina nel banco sotto la cappa del camino; dicendo: «Vossignoria starà come potrà: veramente avrebbe fatto meglio d'entrare coi signori, che quello è il suo posto: basta, com'ella vuole: mi scusi se non posso fare il mio dovere a tenerle compagnia, perché oggi ho tante faccende: ella vede».
Il Conte sedette, ringraziò, e cavato un tozzo di pane che aveva portato con sè, si diede a mangiare.
Quando Perpetua vide questo, non lo volle patire.
«Come?, un signore suo pari! non sarà mai detto ch'ella faccia questo torto alla mia cucina.
Ecco, si serva: mangi di questo: e lasci fare a me per mandare in tavola il piatto, senza un segno: non faccia complimenti: che serve?» E come il Conte rifiutava, Perpetua gli si avvicinò all'orecchio, e gli disse a bassa voce: «Via, Signor Conte; che scrupoli son questi? so quello che posso fare: la padrona sono io qui».
Ma tutto fu inutile.
Il Conte ringraziò di nuovo, e continuò a rodere ostinatamente il suo pane.
Quando poi da quello che accadeva in cucina, s'avvide che erano cessati i cibi e levate le mense, fece chiedere udienza a Federigo, dal quale fu tosto fatto introdurre.
«Monsignore», diss'egli, quando gli fu in presenza, «questo è un giorno di festa singolare per questo paese e per voi, ma in questa allegrezza comune, io, io ho una parte ben diversa da tutti gli altri; il gaudio puro e sgombro della liberazione d'una innocente non è per colui che l'aveva vilmente oppressa, angariata.
A me conviene dunque un contegno e un linguaggio particolare; lasciate ch'io faccia oggi la mia parte; approvate che io vada ad implorare un perdono da quella innocente, ch'io mi umilj dinanzi a lei, che le confessi il mio orribile torto, e che riceva dalla sua bocca innocente dei rimproveri che non saranno certo condegni alla mia iniquità, ma che serviranno in parte ad espiarla».
Federigo intese con gioja questa proposizione; e pel Conte a cui questo passo sarebbe un progresso nel bene e una consolazione nello stesso tempo; per Lucia, alla quale lo spettacolo della forza umiliata volontariamente sarebbe un conforto, un rincoramento dopo tanti terrori, e pel trionfo della pietà, e per l'edificazione dei buoni; e finalmente perché una riparazione pubblica e clamorosa attirerebbe ancor più gli sguardi sopra Lucia, e sul suo pericolo, sarebbe una più aperta manifestazione del soccorso che Dio le aveva dato, la renderebbe come sacra, e così più sicura da ogni nuovo attentato dello sciarrato suo persecutore.
Approvò egli adunque con vive e liete parole la proposizione, e aggiunse: «Dite: dite se l'offesa la più ardentemente bramata, la più lungamente meditata, la meglio riuscita reca mai tanta dolcezza quanto una umile e volontaria riparazione?»
«Ah! la dolcezza sarebbe intera», rispose il Conte, «se la riparazione potesse esserlo; se il pentimento, se l'espiazione la più operosa, la più laboriosa, potesse fare che il male non fosse fatto, che i dolori non fossero stati sentiti».
«Ma v'è ben Quegli», rispose Federigo, «che può far di più; che può cavare il bene dal male, dare pei dolori sofferti il centuplo di gioja, fargli benedire a chi gli ha sofferti.
E quando voi fate per Lui e con Lui, quel poco che v'è concesso di fare, Egli farà il resto: Egli farà che del male passato non resti a quella poveretta che un argomento di riconoscenza e di speranza, e a Voi di una afflizione umile e salutare».
Detto questo il Cardinale, chiamò il curato, e gl'impose che facesse avvisare Lucia del disegno del Conte, e le dicesse ch'egli stesso la pregava di accoglierlo.
Partito il curato, Federigo richiese il Conte che aspettasse tanto che Lucia potesse essere avvertita.
Dopo qualche momento il Conte uscì dalla casa di Don Abbondio e s'avviò a quella di Lucia tra una folla di spettatori, fra i quali era già corsa la notizia di ciò che si preparava.
La forza che spontanea, non vinta, non strascinata, non minacciata si abbassa dinanzi alla giustizia, che riconosce nella innocenza debole un potere, e domanda grazia da essa, è un fenomeno tanto bello e tanto raro, che beato chi può ammirarlo una volta in sua vita.
Quei buoni terrieri (in quel momento erano tutti buoni) non si saziavano di guardare il Conte, lo seguivano, lo circondavano in tumulto, lo colmavano di benedizioni.
Tanta è la bellezza della giustizia: per tarda ch'ella sia, innamora sempre quando è volontaria: quelli che dopo aver fatti patir gli uomini si vendicano dell'odio loro che gli tormenta col fargli patire ancor più, non pensano che quell'odio è pronto a cangiarsi in favore, in riconoscenza, al momento che una risoluzione pietosa, un ravvedimento anche senza confessione faccia cessare i patimenti.
Il Conte camminava ad occhi bassi e col volto infiammato, tutto compunto e tutto esaltato, che poteva sembrare un re condotto in catene al trionfo, o il capitano trionfatore.
Don Abbondio camminava al suo fianco, e pareva...
Don Abbondio.
Giunti alla casetta di Lucia, il curato fece entrare il Conte, e con ambe le mani ritenne la folla, o almeno le comandò che si rattenesse, tanto che potè chiuder l'uscio, e lasciarla al di fuori.
Lucia, tutta vergognosa condotta dalla madre si fece incontro al Conte, il quale, trattenendosi vicino alla porta nell'atteggiamento di un colpevole, le disse con voce sommessa: «Perdono: io son quello che v'ha offesa, tormentata: ho messe le mani sopra di voi, vilmente, a tradimento, senza pietà, senza un pretesto, perché era un iniquo: ho sentite le vostre preghiere, e le ho rifiutate; ho vedute le vostre lagrime, e son partito da voi senza esaudirvi, vi ho fatta tremare senza che voi m'aveste offeso, perché era più forte di voi, e scellerato.
Perdonatemi quel viaggio, perdonatemi quel colloquio, perdonatemi quella notte; perdonatemi se potete».
«S'io le perdono!» rispose Lucia.
«Dio s'è servito di lei per salvarmi.
Io era nelle unghie di chi mi voleva perdere, e ne sono uscita col suo ajuto.
Dal momento ch'ella m'è comparsa innanzi, che io ho potuto parlarle, ho cominciato a sperare: sentiva in cuore qualche cosa che mi diceva ch'ella mi avrebbe fatto del bene.
Così Dio mi perdoni, come io le perdono».
«Brava figliuola!» disse Don Abbondio, «così si deve parlare: fate bene a perdonare, perché Dio lo comanda; e già quando anche non voleste, che utile ve ne verrebbe? Voi non potete vendicarvi, e non fareste altro che rodervi inutilmente.
Oh se tutti pensassero a questo modo, sarebbe un bel vivere a questo mondo!».
«È vero», disse Agnese, «che questa mia poveretta ha patito molto...
ma bisogna poi anche dire che noi poveretti non siamo avvezzi a vedere i signori venirci a domandar perdono».
«Dio vi benedica», disse il Conte, «e vi compensi con altrettanta e con più consolazione i mali che io vi ho fatti, tutti quelli che avete sofferti».
Indi soggiunse titubando: «Come sarei contento se potessi far qualche cosa per voi!»
«Preghi per me», disse Lucia, «ora ch'è divenuto santo».
«Quello ch'io sono stato, lo so pur troppo anch'io: quello ch'io ora sia, Dio solo lo sa!» rispose il Conte...
«Ma voi, in questa vostra orribile sciagura...
in questa mia scelleratezza...
non avete avuto soltanto timori, e crepacuori...
La vostra famiglia...
una famiglia quieta e stabilita...
i vostri lavori, l'avviamento...
voi avete sofferti danni d'ogni genere...
se osassi...
se potessi parlare di compensar questi, io che v'ho fatto tanto male che non potrò compensar mai...
ma Dio è ricco...
frattanto: datemi questa prova di perdono...
accettate», e qui cavò con peritanza quasi puerile, un rotolo di tasca...
«accettate questa picciola restituzione...
non mi umiliate con un rifiuto».
«No no», disse Lucia: «Dio mi ha provveduta abbastanza: v'ha tanti poverelli che patiscono la fame: io non ho bisogno...»
«Deh! non mi rifiutate...» replicò il Conte con umile istanza: «se sapeste! questa somma...
questo numero...
pesa tanto in mano mia...
e sarei tanto sollevato se l'accettaste...
Non mi farete questa grazia, per mostrarmi che m'avete perdonato?» e vedendo che il volto d'Agnese esprimeva il consenso che il volto e le parole di Lucia negavano, presentò alla madre il rotolo, implorando pur con lo sguardo il consenso di Lucia.
«Grazie», disse Agnese al Conte; «e tu», continuò rivolta a Lucia, «ora non parli bene.
Questo signore lo fa pel bene dell'anima sua, e noi poveri non dobbiamo esser superbi».
Così dicendo svolse il rotolo, e sclamò: «Oro!»
«Vostra madre ha ragione», disse Don Abbondio: «accettate quello che Dio vi manda, e se vorrete farne del bene non mancheranno occasioni.
Così facessero tutti! Così Iddio toccasse il cuore a qualchedun altro e gli ispirasse di compensare anche me povero prete, delle spese che ho dovuto fare in medicine per quella maledetta...» Voleva dire - paura - ma ebbe paura di parlare imprudentemente e si fermò.
«Vi ringrazio della vostra degnazione», disse il Conte a Lucia, «e del vostro perdono.
E se mai in qualunque caso voi credete ch'io possa esservi utile, voi sapete...
pur troppo...
dove io dimoro.
Il giorno in cui mi sarà dato di fare qualche cosa per voi, sarà un giorno lieto per me: mi parrà allora che Dio mi abbia veramente perdonato».
«Ecco che cosa vuol dire avere studiato!» disse Agnese: «appena Dio tocca il cuore, si parla subito come un predicatore».
Lucia ringraziò pure il Conte, il quale dopo d'aver ripetute parole di scusa e di umiliazione e di tenerezza, si congedò, uscì con Don Abbondio, e sulla porta si divisero.
Il Conte tra le acclamazioni della folla prese la via che conduceva al suo castello, e Don Abbondio tornò a casa.
Appena le due donne furono sole, Agnese svolse il rotolo, e in fretta in fretta si diede a noverare.
«Dugento scudi d'oro!» sclamò poi: «quanta grazia di Dio! Non patiremo più la fame certamente».
«Mamma», disse Lucia, «poiché quel signore ci ha costrette ad accettare questo dono, e ha preteso che fosse una restituzione...
quei denari non sono tutti nostri.
Non siamo noi sole che abbiamo sofferti danni...
non sono io sola che abbia dovuto fuggire, intralasciare i miei lavori.
Io sono tornata finalmente...
e se non istarò qui, ho almeno chi pensa a me, chi non mi lascerà mancare di nulla...
Un altro è lontano, e che Dio sa quando potrà tornare.
Mi parrebbe di aver rubati quei denari, se almeno almeno non gli dividessi con lui».
«Glieli porterai in dote», disse Agnese, studiandosi di rotolare come prima gli scudi, che facendo pancia da una parte o dall'altra sfuggivano dalle sue mani inesperte.
«Non parliamo di queste cose, mamma», disse Lucia sospirando; «non ne parliamo.
Se Dio avesse voluto...
ah! le cose non sarebbero andate a quel modo.
Non era destinato che fossimo...
non ci pensiamo per carità».
«Ma s'egli torna», voleva cominciare Agnese.
«È lontano, è profugo, ramingo...
ah! c'è altro da pensare: forse egli stenta, forse non ha pane da mangiare.
Forse con questo ajuto, egli potrà collocarsi bene altrove, farsi un avviamento, uno stato...»
«Ohe!» disse Agnese, «tu non pensi più a lui?...»
«Penso a toglierlo d'angustia, e di bisogno», rispose in fretta Lucia.
«Questo lo possiamo fare, al resto provvederà Iddio».
Agnese era onesta e buona, e per quanto le piacessero quei begli scudi giallognoli, non avrebbe potuto possederli con un contento puro e tranquillo quando le fossero divenuti in mano un testimonio di dura e bassa avarizia.
Consentì ella dunque a destinarne la metà a Fermo, e promise a Lucia che avrebbe cercato tosto il mezzo di farglieli tenere sicuramente.
Ma Agnese era rimasta colpita di quella nuova rassegnazione di Lucia all'assenza del suo promesso sposo, e non lasciò di tentarla con interrogazioni, dirette, tortuose, calzanti, subdole, per venirne all'acqua chiara.
Lucia però seppe per allora e per qualche tempo schermirsi dal soddisfare alla curiosità materna, allegando sempre che era inutile il pensare a cose che le circostanze rendevano impossibili.
Il Cardinale aveva risoluto di partire quella sera di là, per portarsi ad una parrocchia vicina; ma partiva col dispiacere di non avere ancora potuto provvedere Lucia d'un asilo; e quantunque tutto paresse ivi sicuro per essa, pure il cuore del buon vecchio non era abbastanza tranquillo.
Per avere la certezza che desiderava, egli non si rivolse a Don Abbondio; perché teneva per fermo (e nessuno dirà ch'egli giudicasse temerariamente) che Don Abbondio per rispondere «Monsignor sì» o «Monsignor no», avrebbe consultato piuttosto l'interesse e la sicurezza sua propria che quella di Lucia.
Commise egli adunque al suo Cappellano crocifero di aggirarsi fra il popolo, e di osservare lo stato delle cose, la disposizione degli animi, di vedere se v'era rimasta in paese gente di mala intenzione, se insomma si poteva partire col cuore quieto, lasciando Lucia nel luogo, dove alcuni giorni prima non era stata sicura.
Il Cappellano fece ciò che gli era stato imposto; parlò al sagrestano, agli anziani, al console, e da tutti fu accertato che nulla v'era da temere.
Anzi appena si ebbe sentore di questa inquietudine del Cardinale, in un momento giovani e vecchi s'offersero di guardare la casa di Lucia; con quella risoluzione, con quell'ardore con cui si veggono offrire le alleanze ad un principe vittorioso.
«Son qua io», diceva l'uno...
«tocca a me», diceva l'altro: «io son cugino», gridava un terzo: «io io che non ho paura di brutti musi», schiamazzava il quarto, e così fino al centesimo.
Non si sarebbe potuto credere che Lucia pochi giorni prima avesse dovuto fuggire segretamente da quello stesso paese.
Perché costoro non si presentavano quando v'era il bisogno? Eh! perché v'era il bisogno.
Avuta questa sicurezza, il Cardinale partì, facendo ancora ripetere a Lucia, ch'egli non si sarebbe scostato da quei contorni prima d'aver provveduto alla sua sorte.
Infatti egli andò sempre in quei giorni ripensando al modo di compire questa sua opera, e ricercando in ogni persona, in ogni circostanza se poteva farne un mezzo al suo benefico intento.
A forza di attendere e di ricercare, l'occasione si presentò.
Visitando una di quelle parrocchie, ricevette Federigo fra le altre visite che accorrevano da ogni parte, quella d'una famiglia potente di Milano che villeggiava in quelle vicinanze.
Don Valeriano, capo di casa, Donna Margherita sua moglie, Donna Ersilia loro unica figlia, e Donna Beatrice sorella del capo di casa, rimasta vedova nel primo anno di matrimonio, e ritornata a vivere ritiratamente in casa.
Dei primi tre il Cardinale non aveva conoscenza molto vicina: sapeva soltanto che la famiglia benché molto distinta, pure non faceva terrore, che Don Valeriano non aveva riputazione di soverchiante e di tiranno; e questo merito negativo bastava in quei tempi a conciliare ad una famiglia potente la stima e la fiducia dei più savj.
Oltre di che, Donna Beatrice era nota a Federigo assai più da vicino; le abitudini di una vita tutta consecrata alla pietà e alla assistenza dei poveri le avevano data senza ch'ella se ne curasse, una riputazione di santità, e il Cardinale in più occasioni incontrandosi con essa nelle stesse intenzioni, e nelle stesse occupazioni aveva avuto campo di accertarsi che quella riputazione non era menzognera.
Quando adunque questa visita gli fu annunziata, propose egli di trovare il modo che Lucia andasse in quella casa; ma non dovette studiar molto a condurre il discorso dov'egli desiderava; perché l'affare di Lucia era stato tanto clamoroso che Don Valeriano non mancò di parlarne per fare un complimento al suo liberatore.
Questi allora dopo d'aver modestamente rifiutate le lodi ch'egli sapeva di non meritare, raccontando semplicemente il fatto, e togliendone tutto ciò che la fama vi aveva aggiunto in suo onore, aggiunse che però tutto non era finito, che quella povera giovane uscita da un tanto pericolo non era pure in sicuro, non aveva un asilo, e che certamente avrebbe compiuta una opera incominciata da Dio chi l'avesse raccolta.
Don Valeriano guardò in faccia a Donna Margherita, la quale assentì con una occhiata: Donna Beatrice, non guardata da loro, gli guardò entrambi con ansietà per vedere se avevano inteso, se avrebbero fatto vista d'intendere: Donna Ersilia continuò a guardare la croce del Cardinale, la porpora, a seguire con l'occhio la mano per osservare l'anello, che erano le cose per le quali s'era fatta una festa di venire a far quella visita.
Don Valeriano offerse al Cardinale di prendere Lucia al servizio della casa, o come il Cardinale avrebbe desiderato.
Il Cardinale accettò lietamente: fece avvertire Lucia ed Agnese, le quali vennero all'obbedienza: Lucia fu consegnata a Donna Margherita, e posta ai servigj di Ersilia.
Don Valeriano fu molto contento d'avere esercitata una protezione, Donna Margherita di avere in casa sua una persona alla quale potè metter nome: quella giovane che mi è stata affidata dal signor Cardinale arcivescovo, Donna Beatrice di vedere in sicuro una innocente, e di poterla soccorrere e consolare, Donna Ersilia, d'avere una donna al suo servizio, con la quale potere parlare senza che le fosse dato sulla voce.
Lucia pure fu contenta di avere una destinazione che la toglieva da quel contrasto doloroso tra il voto e il cuore; Agnese di vedere la sua figlia in salvo, e in casa di signori, e finalmente il Cardinale di aver messa quella pecorella al sicuro dalle zanne del lupo.
Noi profittiamo di questa contentezza dei nostri personaggi d'antica e di nuova conoscenza, e prendiamo questo momento, in cui anche la buona ed infelice Lucia trova un po' di riposo in una qualunque conformità tra la sua situazione e lo stato dell'animo suo, per lasciarla con la sua nuova compagnia, e parlare d'altri fatti indispensabili alla integrità della storia.
Prima però di staccarci da Federigo, non possiamo a meno di non raccontare un tratto accaduto nella visita da lui fatta in quei contorni; perché questo racconto quale lo troviamo nel nostro manoscritto e altrove, serve assai a dipingere i costumi di quel tempo tanto lontani dai nostri, e osservabilissimi per una certa pienezza d'entusiasmo, per una esplosione di sentimenti, clamorosa, per un impeto veemente, come troppo spesso al male, così pure qualche volta verso ciò che era veramente stimabile.
Oltre di che Federigo è personaggio tanto amabile, nelle sue azioni anche le più comuni v'è sempre una tale espressione di gentilezza, di bontà, che fa riposarvi sopra la fantasia con diletto; e cogliere ogni pretesto per rimanere il più che si possa in una tale compagnia.
Che se qualche lettore osasse dire che noi ve lo abbiamo trattenuto troppo a lungo, osasse confessare d'aver provato un momento di noja, bisognerebbe concluderne delle due cose l'una: o che noi raccontiamo in modo da annojare anche con una materia interessante; o che questo lettore ha un animo ineducato al bello morale, avverso al decente, al buono, istupidito nelle basse voglie, curvo all'istinto irrazionale.
Ma il primo di questi due supposti è manifestamente improbabile, a parer nostro.
Veniamo al racconto.
Dalle Chiese delle quali abbiamo parlato si era Federigo trasportato a visitar quelle della valle di San Martino che era allora nel dominio veneto e nella diocesi milanese; e per tutto dov'egli si andava fermando, oltre la folla dei parrocchiani, la chiesa, la piazza, la terra formicolavano di moltitudine accorsa dai luoghi circonvicini.
In una di quelle terre avendo egli sbrigate nella sera stessa del suo arrivo, le principali faccende, aveva egli disegnato di partire prima del pranzo, per giungere più tosto alla stazione vicina.
Era la chiesa dov'egli si trovava, posta sulla cima d'un lento pendio che terminava in una vasta pianura.
Celebrati i santi misteri si volse egli dall'altare per favellare al popolo, e stendendo dinanzi a sè il guardo che dalla elevazione dell'altare poteva trascorrere per la porta spalancata sul pendio e nel piano sottoposto, vide dalla balaustrata del presbitero, nella chiesa, sul pendio, nel piano, una calca non interrotta, come un selciato continuo di teste e di volti; se non che al di fuori quella superficie uniforme era interrotta da tende alzate che facevano parere quel luogo un campo, o una fiera; guardando poi più fisamente scerse fra quella moltitudine abiti diversi di ricchezza e di foggia che dinotavano una varietà di condizioni e di paesi.
Chiese egli a chi lo serviva più da vicino che cosa volesse dire quel concorso; e gli fu detto che era gente accorsa da tutta la diocesi di Bergamo, e dalla città stessa per vederlo, per udirlo.
«E perché» diss'egli, «non gli accoglieremo noi gentilmente come si conviene con ospiti?» Quindi dette alcune parole di insegnamento e di salute ai popolani che non avendo avuto viaggio da fare avevano i primi occupata tutta la chiesa, propose loro che facessero gli onori di casa, e cedessero il luogo a quegli estranei che erano venuti da lontano per sentire un vescovo.
La voce corse tosto per la chiesa e per lo spazio di fuori; questi uscivano e cedevano il luogo con pronta cortesia, quegli entravano con ritegno e con rendimenti di grazie: contadini e signori parevano in quel momento gente bene educata.
Cangiata a poco a poco l'udienza, il Cardinale parlò a quei sopravvenuti come gli dettava la sua abituale carità, e la simpatia particolare che aveva eccitata in lui quella ardente e comune volontà la quale egli si sforzava di credere mossa in tutto dal suo ministero e per nulla da una inclinazione alla sua persona.
Terminato il discorso, benedisse egli tutto quel concorso, lo accomiatò, e si dispose a partire.
Salito sulla sua mula, si mosse col suo seguito in mezzo a quella moltitudine, ma dopo alquanto viaggio, quando credeva d'abbandonarla, s'avvide che la moltitudine lo seguiva.
Si volse egli allora, ristette in faccia a quella, e la benedisse di nuovo come per congedarla ultimamente.
Ma rimessosi in via, s'accorse che non era niente, e che la processione continuava.
Li fece pregare di ritornarsene, e di non aggravare inutilmente la stanchezza del cammino già fatto, ma tutto fu inutile: gli era come un dire al fiume, torna indietro.
Si erano già fatte più miglia di cammino, l'ora era tarda, quando il Cardinale che era digiuno e già da lungo tempo combatteva con la fame, sentendo mancarsi le forze, e visto che quel giorno gli era forza desinare in pubblico, si fermò sulla cima d'una salita dove vide spicciare una sorgente da una roccia che fiancheggiava il cammino: e chiese così a cavallo che gli fosse servito il pranzo.
L'ajutante di camera tolse da un cestello un pezzo di pane, e glielo presentò, Federigo lo prese indi chiese che gli fosse riempiuto un bicchiere a quella sorgente.
Mentre questo si faceva, cominciò Federigo a banchettare, non senza un qualche pudore per tutti quegli spettatori, e chiuse il banchetto col bicchiere d'acqua che gli fu porto.
Quando tutta quella folla vide quali erano le mense d'un uomo così dovizioso, e così affaticato, insorse un grido di maraviglia, un gemito di compunzione: e questi sentimenti crebbero quando fra quegli accorsi alcuni i quali conoscevano più degli altri le costumanze del Cardinale, affermarono che questo era il suo solito pranzo, quando doveva farlo in cammino, e che quello che gli era imbandito in casa non ne differiva di molto.
I poveri si rimproveravano la loro intolleranza del disagio, i ricchi la loro intemperanza; e quivi tosto molti fra questi distribuirono ai bisognosi i danari che si trovavano indosso.
Il Cardinale così ristorato pregò i più vicini che finalmente tornassero, e persuadessero gli altri a tornare, e alzata la mano su tutta la turba che egli dominava da quella altura, la benedisse di nuovo, stendendo poi verso di quella affettuosamente ambe le mani in atto di saluto.
La turba rispose con nuove acclamazioni, e non osando più resistere al desiderio di quell'uomo, si rivolse, e tornò addietro.
Federigo proseguì il suo cammino.
Venga ora un uomo ben eloquente e si provi a dare uno splendore di gloria a quel pranzo del Cardinale, a renderlo un argomento frequente di ammirazione e di memoria: non gli verrà fatto.
È forse da dire che queste virtù di semplicità e di temperanza non danno mai alla fantasia degli uomini di che ammirare? Non già; poiché si parla tuttavia delle magre cene di quel Curio mal pettinato, come lo chiamò Orazio; è viva e comune la memoria del salino di Fabricio, e del suo piattello sostenuto da un picciuoletto di corno.
E perché dunque il tozzo di pane di Federigo e il suo bicchier d'acqua non potranno ottenere una simile immortalità di gloria? Se alcuno ha in pronto una cagione ragionevole di questa differenza, la dica; per me non ho potuto trovarne che una, ed è: che il Cardinale Federigo non ha mai ammazzato nessuno.
La più parte degli uomini, parlo degli uomini colti, non consente ad ammirare le virtù frugali ed astinenti che in coloro i quali eccitano con virtù feroci un'altra ammirazione di terrore: non considera quelle come virtù che quando sieno unite ad un profondo sentimento d'orgoglio, e di disprezzo per qualche parte del genere umano.
Se quel tozzo di pane fosse stato mangiato da un generale in presenza di venti mila cadaveri, sarebbe in tutti i discorsi, in tutti i libri; nessun fedele umanista avrebbe potuto evitare di farvi sopra almeno una amplificazione in vita sua.
Eppure la ragione dice che quel tozzo di pane, solo cibo d'un uomo che avrebbe potuto nuotare nelle delizie, e che se ne asteneva per un sentimento profondo della dignità umana, e per dar pane a chi ne mancava, quel tozzo di pane mangiato tra le fatiche d'un ministero di misericordia, di pace, e di pietà, dovrebb'essere una rimembranza più cara agli uomini che non quel salino e quel piattello che copriva la mensa d'un uomo che era sobrio per potere esser forte contra gli uomini; che godeva di essere un povero Fabricio per essere un potente Romano.
Le idee di cui si componeva il sentimento temperante di questo erano superbe, ostili, sprezzanti, superficiali: quelle di Federigo umane, gentili, benevole, profonde.
In quello stesso convito di Pirro, dove Fabricio diede quelle prove della sua fermezza e della sua astinenza, lasciò egli trasparire manifestamente quel suo animo: ivi all'udire le dottrine epicuree esposte da Cinea, disse egli quelle atroci parole, tanto lodate dagli antichi, e, chi lo crederebbe? dai moderni: «Oh Ercole!» (il santo era degno del voto) «Oh Ercole!» diss'egli: «fa che queste dottrine sieno ricevute dai Sanniti e da Pirro fin tanto che saranno nemici del popolo romano».
Ma il nostro mangiator di pane avrebbe avuto orrore di sè, se avesse potuto anche un momento desiderare la perversità ai suoi nemici, ai nemici del suo popolo.
Egli desiderava la giustizia, la fortezza, la sobrietà a tutti, la desiderava per loro, per sè, per la gloria del Dio di tutti, la desiderava, e tutta la sua vita fu spesa a promuoverla.
La sua benevolenza non era nazionale, né aristocratica, egli non aveva bisogno di odiare una parte del genere umano per amarne un'altra: si faceva povero non per insultare, non per dominare, ma per dividere la condizione dei suoi fratelli poveri, e per migliorarla.
A dispetto di tutta la storia, di tutta la morale, di tutta la rettorica, Federigo Borromeo era più grand'uomo che Fabricio; o per meglio dire Federigo era veramente grand'uomo, per quanto un sì magnifico epiteto può stare con un sì misero sostantivo.
CAPITOLO V
Ho visto più volte un caro fanciullo, (vispo a dir vero più del bisogno, ma che a tutti i segnali promette d'essere un galantuomo) l'ho visto affaccendato sulla sera, a cacciare al coperto un suo gregge di porcellini d'India che egli aveva lasciato spaziare il giorno in un giardinetto.
Il fanticino avrebbe voluto farli andar tutti di brigata al covile, ma era fatica perduta; uno si sbandava a destra, e mentre il picciolo pastore correva per raggiungerlo, un altro, due tre, uscivano dalla frotta a sinistra; dopo qualche impazienza egli si persuadeva che non sarebbe riuscito a quel modo; spingeva dentro prima i più vicini, e poi tornava a pigliar gli altri ad uno a due a tre, come gli veniva fatto.
Così pure abbiamo dovuto far noi coi nostri personaggi: per seguire Lucia nelle sue dolorose vicende, ci è stato forza perder di vista Fermo: ora che Lucia è uscita dal pericolo, e posta in sicuro, e gli altri tutti qual più qual meno allogati, noi torneremo indietro sulle tracce del suo promesso sposo.
L'abbiamo lasciato che s'avviava da Monza a Milano, munito d'una lettera del Padre Cristoforo ad un padre Bonaventura, il mattino del giorno undici di novembre.
Al dolore di avere abbandonata la casa, al rancore d'averla abbandonata per la violenza d'un ribaldo, al tribolo di trovarsi tapino sur una strada senza sapere dove si poserebbe il capo, ai patimenti, ai disagi, alle stizze, agli sconcerti della notte passata s'era aggiunto ora un dolore, che esacerbava tutti gli altri; il distacco da Lucia, e un pensiero che diceva: - chi sa quando ci rivedremo -.
Andava dunque il povero Fermo tutto sconsolato, pensando a tutti i suoi guai, e in capo a tutti questi pensieri si trovava sempre quel Don Rodrigo che era la prima cagione dei guaj: e Fermo allora lo malediceva con tutti i tiranni, con tutti i dottori, con tutti quelli che avrebbero dovuto proteggere il povero, e lo lasciavano opprimere.
I curati non li malediceva, ma ritirava da loro la sua benedizione.
Si ricordava poi di Domeneddio, e del Padre Cristoforo, questo gli accadeva ad ogni volta che si abbatteva in una qualche immagine dipinta sur una di quelle cappellette che erano allora frequentissime su le strade: allora Fermo tornava in sè, e si sforzava di perdonare: di modo che, in quel viaggio, egli ebbe ammazzato in cuore Don Rodrigo e risuscitatolo almeno venti volte.
A misura che Fermo si allontanava dalle colline e si avvicinava alla città, l'aspetto del cielo e del paese gli diveniva più triste e saturnino: di tempo in tempo la via profonda fra due ripe, solcata da rotaje che erano diventate rigagnoli, e tutta fango negli altri spazj era presso che impraticabile: a quei passi un sentiero erto a guisa di scaglioni su la ripa, segnava che altri passeggeri si erano fatta una via nei campi, costeggiando quella che avrebbe dovuto essere la via.
Fermo salito il primo di questi sentieri, da quel luogo più elevato, guardando dinanzi a sè, vide la guglia del Duomo, e ristette attonito: conobbe tosto quello che doveva essere, e ristette ancora a rimirare, dimentico per un momento di tutti i suoi travagli e assorto in quella contemplazione: poiché, come tutti i contadini di Lombardia, egli aveva fino dalla infanzia inteso parlare di quel Duomo, come della maraviglia del mondo: e in allora i viaggi erano così rari, e le comunicazioni così infrequenti, che Fermo dubitava assai se in vita sua avrebbe veduta mai quella maraviglia.
Ma dopo qualche momento d'estasi, guardandosi intorno, e seguendo la catena dei monti, vide sorgere fra gli altri le punte del suo Resegone e si sentì tutto rimescolare il sangue, si mosse macchinalmente per correre da quella parte, e tosto ravveduto gli volse le spalle, e continuò tristamente il suo cammino.
Ad ognuno in cui si abbatteva, domandava egli se quella era la via che conduceva a Milano, non tanto per esser certo della via quanto per assaggiare quegli abitatori sconosciuti, per sentire il loro linguaggio, giacché gli pareva di trovarsi in un paese strano, e per dirla nel suo linguaggio pareva perduto.
Gli era risposto che andava bene, ed egli continuava.
Finalmente cominciò a vedere campanili, cupole, torri, tetti e si accorse d'esser vicino.
Allora s'accostò ad un viandante che veniva da Milano, e detto umilmente: «in grazia, Vossignoria», gli fece una domanda più precisa, e alla quale egli, con le sue idee contadinesche, stimava che ogni milanese dovesse saper rispondere: «Dove si va», disse Fermo, «per andare dal Padre Bonaventura?»
L'uomo a cui Fermo s'era voltato e ch'egli aveva pigliato per un cittadino, era un agiato abitante del contorno, il quale andato quel mattino alla città per sue faccende, ne tornava senza aver fatto nulla, e non vedeva l'ora di trovarsi a casa sua.
«Caro giovane», rispose questi con una dolcezza studiata, e dissimulando la noja che gli dava l'essere fermato, «caro giovane, bisognerebbe che mi spiegaste più chiaramente chi è questo Padre Bonaventura che voi cercate».
«Non lo conosce?» replicò Fermo: «è il Padre Bonaventura cappuccino».
«Ve n'ha tanti!» disse l'interrogato; «sapreste dirmi di che convento egli sia?»
Fermo allora si trasse di seno la lettera del Padre Cristoforo, e la mostrò a quel signore, il quale letto sulla soprascritta: nel convento della Concezione in Porta Orientale, disse a Fermo: «Bravo giovane, siete fortunato, il convento è qui vicino: pigliate questo viottolo a mancina; è una scorciatoia: vi troverete tosto all'angolo di una fabbrica lunga e bassa: camminate lungo il rigagnolo, e vi troverete alla porta orientale.
Entrate, pigliate ancora la mancina, e dopo forse cento passi, vedrete una piazzetta con dei bei faggi; ivi è il convento di quei buoni padri.
Dio vi accompagni».
Ciò detto, fece egli un grazioso saluto con la mano, e continuò il suo cammino lasciando Fermo stupefatto del garbo con cui i cittadini parlavano ai foresi: perché i modi, il volto, il tuono di quel signore non erano di una semplice cortesia ospitale; v'era un non so che di riverente e di cortigianesco; si sarebbe detto che quel signore parlava ad un uomo d'alto affare, e che voleva farglisi vedere amico sviscerato.
Ma Fermo non sapeva che quello era un giorno d'eccezione, in cui le cappe s'inchinavano ai farsetti.
Entrò egli nel viottolo che gli era stato additato, e dopo un breve cammino si trovò all'angolo del Lazzeretto; e dinanzi alla porta orientale.
Non bisogna però che a questo nome il lettore si lasci correre per la fantasia le immagini che ora gli sono associate: ma che cerchi di raffigurare con la mente gli oggetti quali erano al tempo di Fermo.
Al di fuori della porta, invece dell'ampia e diritta via fiancheggiata di pioppi che si vede al presente, una stretta e tortuosa strada la quale da principio seguiva la linea del lazzeretto, e poi correva sghemba fra due siepi.
Una portaccia sostenuta da due pilastri, coperta da una tettoia per riparare le imposte, e fiancheggiata da una casipola pei gabellieri.
A destra e a sinistra di chi entrava due salite ai bastioni, non come ora inclinate regolarmente, fra due cordoni paralleli, ed orlate d'alberi, ma tortuose, non battute, con una superficie ineguale di rottami e di cocci gettati a caso.
Il corso, ampio e irregolare come al presente, aveva nel mezzo un fossatello, che fra due rive erbose prosaicamente, senza esser campestri, menava un'acqua lenta, bruna e carica d'immondizie: di modo che il corso era partito in due strade strette e torte, coperte or di fanghiglia ora di polvere secondo l'ora del tempo e la stagione.
A pochi passi dalla porta, dove è ancora la contrada di Borghetto (chi non la conosce è un tartaro) questo fossatello passava sotto una volta, e lasciando libero il mezzo riusciva lungo alcune casipole a destra di chi entrava, e quindi passando in un'altra tomba, attraversava sotterraneamente la salita del bastione, e si gettava nel fosso che lambe il muro della città.
Al primo entrare si affacciavano a destra le casipole di cui abbiamo parlato, e ch'erano abitazioni di lavandaj, addossate all'abbazia di San Dionigi la quale occupava una parte di quello che ora è giardino pubblico: verso il mezzo del giardino attuale v'era allora una strada che divideva il terreno dell'abbazia dal terreno d'un monastero, di cui il chiostro rimane tuttavia in piedi, con una facciata la quale vorrebbe dire: - sono un palazzo -, con tre altri lati che par che dicano: - siamo un casolare dirupato -, ed un complesso che non sa bene quello che si voglia dire.
Questa via era posta quasi dirimpetto a quella di Borghetto, tuttavia esistente; nel mezzo del quadrivio era una colonna con una croce, e si chiamava la croce di San Dionigi.
Delle fabbriche poi che allora costeggiavano il corso, ben poche rimangono ancora, e sono le più povere e disadatte: i palazzi, e le case ornate che ora si veggono son tutte nate molto tempo dopo.
Quando Fermo entrò vide la casa dei doganieri deserta, e deserta quella prima parte del corso; e se non avesse inteso un romore lontano che accennava un grande movimento, avrebbe creduto d'entrare in una città abbandonata.
Guardandosi indietro, come accade a chi trova solitudine dinanzi a sè, mentre aspettava di trovar folla, vide troppe di gente che veniva.
Andando innanzi lungo le case dei lavandaj, senza saper che cosa pensare di quello che gli appariva, vide egli lunghe strisce bianche, che avrebbe credute esser neve se fosse stata egualmente diffusa; ma erano strisce le quali terminavano a quella e a questa porta di quelle casipole.
Abbassandosi a guardare più attentamente, e toccando si accertò che ell'era farina, e disse tra sè: - Grande abbondanza dev'essere in Milano, se in quest'anno vi si sciupa la grazia di Dio a questo modo.
- Procedendo così come trasecolato, e passando presso la croce per attraversare il corso e incamminarsi dal lato destro, dov'era il convento, parve di vedere al piè della colonna, e sugli scaglioni del piedestallo, certe cose sparse qua e là, che non erano ciottoli, e se fossero state sul banco d'un fornaio, egli non avrebbe dubitato un momento di chiamarle pani: ma non ardiva creder così tosto ai suoi occhi, perché per esser pani eran troppo fuor di luogo.
Guardò più da vicino, si abbassò, ne ricolse uno: era un pane tondo, bellissimo, e d'una pasta, di cui Fermo non ne aveva ancor mangiato molte volte: «È pane davvero!» sclamò egli ad alta voce, tanto ne fu maravigliato.
«Così lo seminano in questo paese? e non si fermano a raccorlo quando cade? che venga da sè come i funghi?»
Fermo aveva camminato dieci miglia, e sentiva appetito; e già al primo entrare si era proposto di fermarsi alla prima bottega di fornajo che avrebbe incontrata: ché non sapeva che in quel giorno a quell'ora in Milano v'era pane da per tutto quasi fuorché da' fornaj.
Trovandone ora così a proposito, stette egli un momento a pensare se gli fosse lecito profittare di quella ventura; e disse tosto: - L'hanno gettato alla balìa dei cani che passano: è meglio che ne profitti un cristiano: alla fin fine, se viene il padrone, glielo pagherò.
- Fatto questo proponimento raccolse un pane, se lo pose in una tasca, ne raccolse un secondo, e lo pose nell'altra; e raccolto il terzo cominciò a mangiare.
Frattanto vide gente che veniva dall'interno della città, e adocchiò curiosamente i più vicini, avido di scoprire qualche cosa che gli rendesse chiaro quel poco che aveva veduto fino allora.
Erano un uomo e una donna che si traevano dietro un ragazzotto, tutti e tre curvati sotto una carica, e in un aspetto strano.
Avevano l'abito e il volto infarinato, il volto per sopra più stravolto, camminavano come affaticati e dogliosi, come se fossero stati pesti, e parevano venire da qualche trambusto.
L'uomo portava a fatica su le spalle un sacco di farina, che bucato qua e là ne lasciava sfuggire degli sprazzi ad ogni intoppo del portatore.
Il ragazzotto teneva fermo sul capo con ambe le mani un cesto colmo di pani: il ragazzotto non potendo fare il passo lungo a paro dei suoi genitori rimaneva indietro di tempo in tempo, e quando egli affrettava il passo per raggiungerli, e giungeva balzelloni, qualche pane cadeva.
Ma la figura la più strana e la più sconcia era quella della donna.
Mostrava essa tutte le gambe fino al ginocchio, e queste gambe si vedevano uscire da un gran corpo che procedeva barcollando; da lontano sarebbe sembrato una pancia immensa; ma Fermo vide che la donna teneva con le due mani il lembo della gonna rivolta in su, e piena di farina, la quale pure traboccava ad ogni passo, e lasciava il segno di quel viaggio faticoso.
Mentre Fermo guatava quello spettacolo singolare, sopraggiunsero alcuni che venivano da fuori, e accostatisi a quei caricati, chiesero dove si andava a pigliare il pane.
«Innanzi, innanzi», rispose la donna.
Quando quegli furono passati, Fermo intese la donna mormorare: «Questi foresi birboni, verranno a portarci via tutto».
«Un po' per uno», disse l'uomo: «abbondanza, abbondanza».
«Se tu lasci ancor cadere uno di quei pani, brutto dappoco...» disse la madre, digrignando i denti, e raggrinzando il naso verso il ragazzo, che in un salterello ne aveva seminato un paio.
«Come ho da fare?» rispose il ragazzo.
«Eh! buon per te che ho le mani impedite!» ripigliò la donna, e così dicendo, dimenò i pugni, come se desse una buona spellicciatura al poveretto; e con quel movimento fece volare uno spruzzo di farina, da farne più che i due pani lasciati cadere dal ragazzo.
«Via, via», disse l'uomo: «qualcheduno gli raccoglierà: abbiamo stentato tanto tempo, ora che viene un po' d'abbondanza, godiamola in santa pace».
La conversazione non si sarà probabilmente terminata a quelle parole; ma gl'interlocutori s'allontanavano da Fermo, ed egli non potè intenderne altro.
Da quel poco però ch'egli aveva inteso, e veduto, e che vedeva tuttavia, potè egli comprendere che il popolo era sollevato, e che quello era un giorno di conquista eroica, vale a dire, che ognuno pigliava secondo le sue forze, dando busse in vece di danari.
Nel nostro sistema d'imparzialità, e di fedeltà storica, noi dobbiamo confessare che il primo sentimento di Fermo fu un sentimento di compiacenza.
Egli aveva tanto patito nello stato ordinario della società; l'aveva veduto così favorevole e comodo per la iniquità, e provato così inerte e senza ajuto per la ragione debole, che si sentiva naturalmente inclinato ad ogni cosa che lo rivolgesse, e lo cangiasse.
Il cangiamento al far dei conti, poteva essere un male peggiore, ma intanto non era più quel male di prima, ma intanto i pari di Don Rodrigo, si trovavano una volta nelle angosce che avevano date agli altri, e i pari di Fermo facevano valere le loro ragioni.
Per altra parte Fermo, come tutti quelli che avevano sofferto della carestia, ne accagionava principalmente la scelleratezza di alcuni, e la negligenza crudele, o la connivenza di alcuni altri; e gli pareva giusto che la forza venisse in ajuto della parte oppressa dalla scelleratezza e dalla connivenza.
Gli passava bene per la mente che quella cuccagna non sarebbe stata che pei birboni più vigorosi e più svergognati, che i veri languenti per fame non si sarebbero gettati in quel tumulto, e così la parte la più debole e la più degna di soccorso avrebbe continuato a patire, e in quel giorno principalmente sarebbe stata forzatamente priva anche dei soccorsi della carità volonterosa, ma impotente; vedeva bene col suo buon senso che quell'orrendo sciupio non avrebbe certo diminuita la scarsezza, e che quella farina calpesta per le vie non sarebbe più andata in nutrimento di nessuno; ma queste riflessioni fugaci, e quasi inavvertite non bastavano a soffocare quel gaudio del garbuglio e dell'anarchia che si alzava nel cuore buono, ma irritato, e nella mente non perversa ma pregiudicata di Fermo.
Nulladimeno egli propose di starsene fuori, e si rallegrò di essere raccomandato ad un cappuccino; il quale gli darebbe ricovero, e buoni pareri.
Passato dinanzi alla croce, si portò egli sulla sinistra del corso, camminando lentamente verso il convento: ad ogni passo vedeva egli arrivare nuova gente alla rinfusa; altri trionfante e carico delle spoglie, altri che quatto quatto si ritirava dal tumulto.
Dove sorge ora quel bel palazzo con una ampia loggia v'era allora, e v'era ancora non son molti anni, una piazzetta, e in fondo ad essa la chiesa dei cappuccini, e la porta del convento: noi facciamo i nostri complimenti a quei lettori i quali non hanno veduto niente di tutto questo; ciò vuol dire che son molto giovani; ed essendo al mondo da poco tempo avranno fatto anche poche minchionerie.
Quel compito signore a cui Fermo aveva domandato del Padre Bonaventura gli aveva dato così chiaro indirizzo che era impossibile andare in fallo: del resto tutte le chiese e i conventi dei cappuccini avevano come una fisonomia speciale, e chi ne aveva veduto uno ne avrebbe riconosciuto un altro a prima vista.
Fermo s'avvicinò alla porta, cavò la lettera di seno, e tirò il campanello.
S'aperse lo sportello, e il portinajo alla grata domandò chi era.
«Uno di fuori che ha una lettera pel padre Bonaventura», rispose Fermo.
«Non è in convento», disse il portinaio.
«Mi lasci entrare, e starò ad aspettarlo», replicò Fermo.
«Fate una cosa», disse il frate: «andate ad aspettare in Chiesa, o dove volete, che per ora non si entra»; e, detto questo, chiuse lo sportello.
Fermo rimase interdetto: egli si era proposto quel convento come un punto di riposo, e un ricovero dai pericoli di una città nella quale egli non conosceva nessuno, non aveva che fare, e che era in tumulto.
Sulla prima egli volle seguire il consiglio del portinajo, e ricoverarsi in chiesa; ma lo spettacolo di quella moltitudine sciolta da ogni legge, di quella attività clamorosa, di quella fratellanza di tanti che non avevan fra loro altra relazione che la complicità di quel momento, lo attirava; la curiosità vinse, e Fermo disse fra sè: - andiamo a vedere -.
Mentre egli si avvia tra la folla al centro della città e del trambusto, noi parleremo brevemente, se sarà possibile, delle cose che furono l'origine e il pretesto di esso.
Era quello il secondo anno di scarso raccolto: nel primo era stata piuttosto scarsità che carestia: le provvigioni rimaste degli anni grassi antecedenti avevano supplito tanto o quanto al difetto di quello, e la popolazione era giunta al nuovo raccolto, non satolla, e non affamata; ma certo affatto sprovveduta.
Ora, il nuovo raccolto nel quale erano riposte tutte le speranze, fu scarso, come abbiam detto, e lo fu d'assai più del primo, in parte per maggiore contrarietà delle stagioni, e in parte per colpa orrenda degli uomini.
Si guerreggiava allora in Italia, e non lontano dal Milanese; il quale si trovò soggetto ad alloggiamenti di truppe e a gravezze straordinarie.
Queste furono tanto intollerabili, e le estorsioni, le rubberie, il guasto della soldatesca portati a tal segno, che molte possessioni rimasero abbandonate, molte campagne incolte, e molti contadini andarono accattando quel vitto che avrebbero procacciato a sè e ad altri col lavoro delle loro braccia.
E dove pure s'era coltivato, le seminagioni erano state scarse, perché l'agricoltore, tentato dall'urgente bisogno aveva sottratta e consumata una parte e la migliore del grano che doveva esser destinato a quelle.
Ottenuto appena il raccolto, la guerra stessa che era stata la principale cagione a renderlo scarso, fu la prima a divorarne una gran parte.
Le depredazioni parziali, le provvigioni per l'esercito, e lo sprecamento infinito delle une e dell'altre fecero tosto un tale squarcio in quel misero raccolto, che la fame fu preveduta, quasi sentita sotto la messe stessa.
I territorj che circondano il milanese, in parte afflitti dalla guerra, e tutti dalla sterilità comune di quell'anno, non lasciavano speranza di cavarne ajuto di viveri.
Sorse quindi quel sentimento di ansia e di terrore nei più, di gioja avara e crudele in alcuni, che nasce da una cognizione confusa ma viva della sproporzione tra il bisogno di nutrimento, e i mezzi di soddisfarlo, tra il grano e la fame: e questo sentimento produsse il suo effetto naturale, inevitabile: la ricerca premurosa, e l'offerta stentata del grano; quindi il rincaramento.
Questa sproporzione è uno di quei mali che spaventano la terra, perché pesano ad un tempo sur una moltitudine: quando un tal male esiste, i migliori mezzi per alleggerirlo (giacché toglierlo non è in potere dell'uomo) sono tutte quelle cose che possono diffonderlo più equabilmente, farne sopportare al maggior numero, a tutti i viventi, se fosse possibile, una picciola porzione, affinché nessuno ne abbia una porzione superiore alle forze dell'uomo, fare che quel male sia un incomodo per tutti piuttosto che l'angoscia mortale per molti, e la morte per alcuni.
Quindi il primo, il più certo, e il più semplice mezzo di alleggiamento comune è l'astinenza volontaria dei doviziosi, che si privino di una parte di nutrimento per lasciarne di più alla massa del consumo universale.
Poi tutto quello che può aumentare nelle mani degl'indigenti i mezzi di acquistarsi il vitto, in proporzione dell'aumento delle difficoltà, cioè del rincaramento.
Aumento quindi delle mercedi, e nuovi guadagni offerti per mezzo di nuovi lavori ai molti a cui cessano in quelle circostanze i lavori e i guadagni usati.
Questo mezzo però sarebbe uno scarso rimedio, sarebbe anzi un accrescimento del male, se non fosse accompagnato dalla cura attenta, assidua di somministrare il vitto anche a quei molti che per debolezza, o per infermità non lo possono ottenere col lavoro: si avrebbero allora dei lavoratori ben nutriti, e degli impotenti morti di fame: e la beneficenza sarebbe crudele per molti.
A questi ultimi non si può provvedere altrimenti che con l'elemosina tanto sapientemente comandata dalla religione: quella elemosina di cui molti scrittori hanno enumerati, e censurati amaramente gli abusi.
Nè a torto; poiché è utile scoprire e censurare gli abusi dovunque s'intrudano: è però cosa trista e dannosa che in un soggetto di tanta importanza non si sieno quasi considerati che gli abusi; e sarebbe da desiderare che alcuno pigliasse la bella e forse nuova impresa di ragionare del buon uso della elemosina, di mostrare com'ella sia uno dei mezzi più potenti, più semplici, e certo più irreprensibili a tutti quei fini che si propone una saggia e ragionata economia pubblica.
Questi che abbiamo accennati sono certamente i principali e più sicuri rimedj alla penuria delle sussistenze; e quando si fossero posti in opera, il meglio da farsi, sarebbe sopportare quella parte inevitabile di patimento con tranquillità, e con rassegnazione, giacché tutte le ire, tutte le declamazioni, tutti i falsi ragionamenti non ponno far nascere una spiga di frumento né accelerare di cinque minuti il nuovo raccolto che deve mettere alla disposizione degli uomini una nuova massa di sussistenze.
Ma oltre i mezzi per render tollerabile quel male, ve n'ha pur troppo, e moltissimi, per esacerbarlo, per accrescerlo, per rendere più trista e complicata una situazione che lo è già tanto per sè; e questi mezzi sono stati per l'ordinario più adoprati dei primi; e si possono ridurre a due capi principali: le idee del popolo, e i provvedimenti dei magistrati.
Nella epoca di cui parliamo, le idee e i provvedimenti concorsero potentemente a produrre quel tristo effetto in un grado singolare.
Nei tempi di carestia, la carestia è il soggetto di tutti i discorsi: fatto ben naturale, ma degno di molta osservazione, e di commento.
Tutti ragionano delle cause del male, tutti propongono i veri rimedj, tutti dissertano di principi generali, di commercio, di monopolio, di accapparramento, di importazione, di esportazione, di circolazione.
Ma la maggior parte non si è occupata mai in vita sua di questa materia: i primi pensieri sono giudizj, e l'applicazione dei principj precede alla ricerca di essi.
Guaj allora a quegli che hanno pensato a questi principj nel tempo in cui nessuno vi pensava; guaj a quegli che danno più degli altri un senso preciso a quelle parole che tutti proferiscono, guaj a quegli che hanno esaminati con una vista generale i fatti che sono l'argomento della discussione comune! Essi soli non sono ammessi a parlare: essi debbono vedere pazientemente discorrere i sofismi precipitati, e baldanzosi della ignoranza, perché chi può fermare il sofisma? la ragione in bocca loro è paradosso, e quando non si avesse altro da opporle, basterebbe quella accusa che le si fa di essere stata sui libri.
La parola che suona alto, che signoreggia in quelle dolorose circostanze è quella della irriflessione: ma cessata la carestia, cessano tutti i discorsi: nessuno ne vuol più parlare né sentire a parlare: i libri, se quell'epoca ne ha prodotti che trattino di quella materia, sono per lo più un soggetto di contraddizione per un momento, e rimangono dopo quasi dimenticati: la società è in quel caso simile ad un povero scapestrato, il quale trovandosi all'estremo, non ha parlato d'altro che di novissimi e di penitenza: convalescente accoglie ancora il prete per urbanità; guarito allontana da sè tutti i pensieri di quel momento del terrore.
Cessi il cielo che alcuno rinfacci ostilmente l'ignoranza ad un popolo che non ha mai avuto maestri né ozio, l'irritazione fanatica ad un popolo che non trova pane col suo lavoro.
Ma quegli che meritano rimproveri acerbi, e severi, quegli che per bene loro e d'altrui vorrebbero essere sborbottati come ragazzacci caparbj, tanto che si correggessero, sono coloro, i quali potrebbero meditare a loro agio sui fatti simili, esaminare le conseguenze, i giudizj, i sistemi che ne hanno cavati gli scrittori, pesare le osservazioni e le opinioni, e procacciarsi così una opinione ragionata; e non lo fanno mai; ma al momento del serra serra escono in campo a sentenziare furiosamente, cominciano a pensare con la voce e studiano dalla cattedra, coprono, vilipendono, calunniano le voci che nascono da un antico pensiero, ripetono, in un linguaggio meno incolto e più strano i giudizj storti, le idee appassionate del popolo, e diffondono ed accrescono la stortura e la passione, si oppongono ferocemente a tutti quei raziocinj che potrebbero illuminare l'opinione dell'universale sulla natura e sulla misura del male, ricondurre gli spiriti ad una riflessione più tranquilla, e stornare quelle risoluzioni che lo peggiorano: e infervorati in queste degne imprese, non si spaventano col pensiero della loro ignoranza; anzi ne cavano argomento di gloria, e di fiducia; e a tutte le obiezioni, (o alla metà delle obiezioni perché di rado lasciano terminare una frase ad un galantuomo) rispondono con quell'inverecondo sproposito: «noi non vogliamo teorie»; non riflettendo nemmeno che quelle che essi sputano tutto il dì sono pur teorie, diverse da quelle dei loro avversarj, in ciò soltanto che non sono fondate sulla cognizione, o almeno sulla ricerca dei fatti.
Le storture del popolo, e di questi che abbiamo detto intorno alla carestia sono moltiplici per sè, e infinite nelle loro applicazioni e nei loro rivolgimenti; molte si possono vedere enumerate in alcuni libri che le hanno esaminate e ribattute con più sagacità e pazienza che profitto; ma si possono forse ridurre a due capi principali.
Il primo è l'opinione che il male non esista, che il difetto di sussistenze sia soltanto una apparenza nata da combinazioni perfide degli uomini.
Questa opinione viene sempre espressa e ripetuta con una formola concisa, come tutte quelle che racchiudono un errore o un equivoco: - il grano c'è -.
Proposizione ambigua che può intendere una verità fatua e inconcludente, o una affermazione temeraria e fanatica.
Poiché se con quelle inconsiderate parole si vuol dire che esiste una indeterminata quantità di biade, si dice il vero, ma che cosa s'insegna? che cosa si vuol concludere? quella non è, né può essere la questione.
Ognun sa che i grani si raccolgono una volta l'anno, o a certe distanze, e che si consumano alla giornata: tra l'un raccolto e l'altro ci debbe dunque esser grano più o meno: se non ce ne fosse assolutamente, non si parlerebbe più di stentare, ma di morire, e tutti, e in pochi giorni.
Se poi dicendo: - il grano c'è -, s'intende (come s'intende) che ne esista una quantità eguale al consumo ordinario, proporzionata al bisogno, o al desiderio della popolazione; come mai una tal cosa si afferma senza conoscere, senza poter conoscere, senza cercar di conoscere il fatto su cui si forma il giudizio: la quantità del grano esistente? Eppure un fatto che con le più minute indagini, coi calcoli più scrupolosi, con l'esame il più freddo non si conosce mai con precisione, è continuamente affermato con sicurezza, senza indagini, senza calcoli, senza esame: un fatto che appena si può conoscere approssimativamente per gli indizj del prezzo, della ricerca, della distribuzione, del consumo, si afferma assolutamente contra la testimonianza di tutti questi indizj.
L'altra stortura, conseguente da questa, e pur madornale è nel supporre che il male sia il caro prezzo del grano: mentre questo non è che un effetto del male vero, la sproporzione tra il grano e il bisogno; è un effetto, e un doloroso, deplorabile, funesto, acerbo, accumulate quanti epiteti vorrete; non saranno mai troppi; ma il sostantivo è: rimedio.
Il caro prezzo è un rimedio, considerato parzialmente per un territorio, perché vi attrae il grano dai paesi dove è meno scarso, e quindi a minor costo: è rimedio considerato generalmente, perché, forzando pur troppo migliaja d'uomini a diffalcare una parte del consumo ordinario, è cagione che si risparmj, si distribuisca per tutto l'anno fino al raccolto la scarsa e mancante vittovaglia.
Se una forza qualunque, potesse illudere, addormentare fino alla fine tutti i terrori, tutte le cupidigie, di modo che in un anno scarso generalmente, il prezzo rimanesse basso come negli anni abbondanti, ne avverrebbe certamente che il consumo, fin che grano vi fosse, sarebbe eguale a quello degli anni abbondanti: si viverebbe lietamente a discrezione per qualche tempo: e l'ultimo effetto di questo terribile beneficio sarebbe di fare sparire tutta la provvigione qualche mese prima del raccolto.
Il linguaggio di coloro che hanno ben fitte in testa queste due storture è accetto al popolo che patisce; e la cosa è troppo naturale: non riconoscendo il male nella natura delle cose, attribuendolo tutto alla perversità umana, essi mostrano nello stesso tempo una compassione che pare più sincera per chi soffre, un grande orrore per chi fa soffrire, e fanno sempre intravedere la possibilità d'un rimedio pronto ed assoluto.
Ma quegli i quali veggono chiaramente la realtà del male, non hanno cose gradite da dire a chi lo sopporta; poiché chi dopo d'aver suggeriti alcuni rimedj per minorare il male, confessa che molto è senza rimedio, e raccomanda la rassegnazione, può difficilmente far credere che compatisce; chi nega all'addolorato che la causa prima, unica del suo dolore sia nella volontà scellerata di alcuni, converrà che abbia ben fama di onesto e di umano perché l'addolorato si contenti di crederlo cieco e insensato, e non lo chiami atroce, fautore, complice di quelli che creano il dolore.
Sono i chiaroveggenti, in quel caso, come un medico, che giunga al letto d'un infermo circondato da una famiglia amante e ignorante, dove si trovi un ciarlatano il quale assevera che il male è tutto nella cecità o nella impostura dei medici, e ch'egli tiene un'ampollina dov'è la salute.
Se il medico il quale vede che la malattia è incurabile, si lascia uscire dalla chiostra dei denti questo suo parere, la famiglia lo riguarderà come un pazzo crudele che desidera di veder morire le persone.
Queste false idee che a malgrado di tanti scritti ragionati, e dell'aumento di tante cognizioni, vivono tuttavia latenti e come addormentate nella mente di moltissimi, pronte a ricomparire quando una penuria (che Dio tenga lontana) dia loro occasione di mostrarsi, erano ben più universali, più pertinacemente tenute, più furibondamente applicate nei tempi della nostra storia; nei quali l'ignoranza era tanto più generale, e la scienza che era pure di pochi, consisteva in un peripateticismo inteso come si poteva, e applicato come si voleva a tutte le quistioni possibili di ogni genere, in tempi in cui non esisteva ancora l'economia politica, voglio dire la scritta e ridotta in trattati, perché l'economia politica di fatto esiste nella società necessariamente, più o meno spropositata.
Gli sventurati abitanti della campagna avevano veduta la scarsità del raccolto, avevano vedute e sofferte le atroci dissipazioni della soldatesca, e gli sventurati abitanti della città le avevano pure intese raccontare: ma quando la carestia cominciò a farsi sentire, né gli uni né gli altri volevano accagionare di un tanto male una causa passata, e irrevocabile.
Come se non avessero veduto nulla, o tutto dimenticato, essi attribuivano il caro prezzo soltanto alla crudele ingordigia di quegli che possedevano il grano.
E una circostanza speciale avrebbe dovuto pure avvertirli di esaminare più freddamente, se l'esame freddo fosse possibile in quei casi.
L'anno antecedente era pure stato scarso; e si era per tutto quell'anno gridato contra gli accapparratori come contra la sola cagione della carezza; si era detto che il grano abbondava, ma era tenuto chiuso, stivato, murato nei granaj degli avari.
Ora l'anno era passato, si era fatto il nuovo raccolto; sarebbe stata cosa molto naturale ricercare se quel grano era stato finalmente venduto, o no.
Nel primo caso, avrebbero dovuto gli uomini conchiudere che s'erano dunque ingannati nell'affermare che il grano abbondava, poiché s'era venduto a caro prezzo fino al raccolto, appena aveva bastato.
Che se il grano dell'anno antecedente non era venduto, esisteva dunque; i capitali degli avari, i granaj erano occupati; come dunque potevano essi fare ancora nuove incette? Ma la popolazione sfogando sempre il suo dolore con imprecazioni, non pensava che le ultime contraddicevano alle prime.
Si diceva anche che molti accapparravano i grani per ispedirli in altri paesi; e in questi altri paesi si gridava che i grani erano spediti a Milano.
Tutti quelli che ne possedevano, erano oggetto di minaccia e di abbominazione: i possessori che non lo vendevano erano tiranni, quegli che lo comperavano per rivenderlo, i fornaj che ne facevano provvista, scellerati che volevano ritirarlo dal commercio e imporgli il prezzo che sarebbe piaciuto alla loro avidità.
Che ognuno provvedesse la quantità che poteva essergli necessaria fino al raccolto, era cosa impossibile.
Quindi se la popolazione avesse voluto o potuto rendersi un conto esatto delle sue idee, e dei suoi desiderj, avrebbe trovato ch'ella voleva che il grano non fosse in nessun luogo.
Il prezzo straordinario al momento stesso del raccolto, crebbe nell'autunno, crebbe straordinariamente al cominciare dell'inverno, e col prezzo crebbe il fremito e il clamore del popolo, il quale accusava già apertamente i magistrati di negligenza, anzi di connivenza con coloro che lo affamavano.
Non è però da dire che i magistrati non facessero dalla parte loro molti spropositi, ma questi erano in numero e in grossezza, ancora ben lontani dai desiderj e dalle richieste del popolo.
Il maneggio delle cose forza a riflettere anche quelli che sono più nemici della riflessione; e chi deve operare o comandare direttamente, scorge talvolta anche a mal suo grado, anche chiudendo gli occhi, l'impossibilità o l'assurdità d'un provvedimento, che è domandato con furore dai molti che lo stimano giusto, e lo credono agevole.
Oltre di che l'effetto immediato di quegli spropositi era di esacerbare la condizione universale; si sentiva crescere il male; e l'aumento si attribuiva non già alla efficacia funesta degli spropositi fatti, ma al non farne abbastanza.
Era stato tassato il prezzo massimo del riso, a lire quaranta imperiali il moggio per la città di Milano: la conseguenza fu che quegli che possedevano riso, e potevano venderlo a molto maggior prezzo per tutto altrove, non ne spedirono più un grano alla città; e questa si trovò senza riso.
Altro editto che tassa il riso allo stesso prezzo massimo per tutto lo stato: altra conseguenza, che i possessori ricusino di vendere ad un prezzo comandato, quella merce a cui la rarità ne ha assegnato un maggiore.
Ordine di vendere il genere a chiunque ne offra il prezzo tassato: industria dei possessori a nasconderlo per poter rispondere: «non ne ho».
Pene severe, indeterminate, arbitrarie a chi lo nasconde: nuova industria, nuovi aguzzamenti d'ingegno, nuovi trovati per evitare le pene, senza esser danneggiato.
Comparvero allora, come dovevano comparire, di quegli uomini, i quali conoscono a perfezione l'arte di eludere gli editti, arte tanto più facile, quanto più gli editti sono assurdi.
Costoro osservato lo stato delle cose, fatte le loro ragioni, trovarono che comperando il riso ad un prezzo molto maggiore dell'assegnato arbitrariamente si poteva fare ancor molto guadagno: offersero quel prezzo ai possessori, i quali non rispondevano di non aver riso da vendere a chi lo pagava più di quello che comandava la legge.
Questi nuovi compratori, trovavano poi il modo di rivendere il riso a maggior prezzo agli stati vicini, dove non v'era tassa, o di conservarlo nascosto in onta degli editti: il modo consiste, come ognun sa, nello studiare non tanto la volontà unica donde è uscita la legge, quanto le volontà moltiplici, varie, più vicine che debbono eseguirla, e nel trovare i mezzi di eludere queste volontà, o di comperarne la complicità.
Quello che si è detto del riso accadeva di tutti gli altri grani: come il possederli, il farne commercio, era un rischio dell'avere e della persona, un soggetto di terrore, un peso di sospetto pubblico, quasi un marchio d'infamia, così avvenne che questo commercio non fosse quasi più ricercato che dagli uomini i più esperti ad eludere il rischio, i più agguerriti contra l'odio e contra l'infamia; i quali sapevano come tutte queste cose, affrontate e sofferte con una certa sapienza particolare possono fruttare danari.
La scarsità del frumento, e i mezzi posti in opera per renderlo più comune lo avevano fatto salire ad un prezzo esorbitante.
Si vendeva cinquanta lire il moggio, se crediamo al Ripamonti allora vivente: settanta anzi ottanta se vogliamo stare al detto di Alessandro Tadino, medico riputatissimo di quei tempi che scrisse anch'egli (a dir vero con le gomita) una storia della peste, e della carestia che l'aveva preceduta.
Ma supponendo anche esagerata l'asserzione di quest'ultimo, il prezzo attestato dal Ripamonti era tale da porre in angustia una gran parte della popolazione.
I mali nei loro cominciamenti, producono nell'uomo, generalmente parlando, una irritazione più forte del dolore.
Sclama egli da prima che i mali sono intollerabili, che sono giunti all'estremo, e tanto fa, tanto s'ingegna, tanto s'arrabatta, che coi suoi sforzi crea egli questo estremo che naturalmente non sarebbe arrivato: s'accorge allora che si può soffrire molto di più di quello ch'egli aveva creduto dapprima, ogni nuovo colpo gli rivela una nuova facoltà di patire e di accomodarsi, ch'egli non sospettava in se stesso; e salta per lo più dalla rabbia all'abbattimento senza aver toccata la rassegnazione.
Per sua sventura il popolo milanese trovò in quella occasione l'uomo secondo i suoi desiderj, l'uomo che partecipava delle sue idee, e che assecondandole gli procurò una gioja corta e fallace, a cui doveva succedere, un nuovo dolore senza disinganno, un nuovo furore, l'ebbrezza del delitto, lo spavento delle pene, e quindi la tranquillità stupida della disperazione impotente.
Il Governatore di Milano, Gonzalo Fernandez di Cordova, si trovava allora a campo sotto Casale per una guerra, atroce nella condotta, orrenda nelle conseguenze, e nata da certi pettegolezzi, dei quali parleremo più tardi e più laconicamente che sarà possibile.
Nella sua assenza, governava lo stato il gran cancelliere Antonio Ferrer.
Questi stordito dai richiami continui e crescenti del popolo, stordito dal vedere che tutti i provvedimenti già dati invece di togliere il male lo avevano accresciuto, non sapendo più che fare, e persuaso che qualche cosa bisognava pur fare, s'appigliò al partito di quelli che non veggono nelle cose reali un elemento ragionevole di determinazione: fece un'ipotesi.
Suppose che il frumento si vendesse trentatrè lire il moggio, né più né meno.
Ammessa l'ipotesi, tutte le cose si raddrizzavano, e correvano a verso.
Il prezzo del pane si trovava proporzionato alle facoltà della massima parte, cessavano quindi i patimenti, le minacce, le angustie; era un altro vivere.
Animato e rallegrato dallo spettacolo che la sua fantasia aveva creato, Antonio Ferrer, fece un altro passo: pensò che quel lieto vivere si sarebbe ricondotto, se si fosse potuto far discendere il pane al prezzo corrispondente a quel prezzo ipotetico del frumento.
Procedendo col pensiero, trovò che un suo ordine poteva produrre questo effetto; e conchiuse che bisognava dar l'ordine.
Il poveruomo non badò che cosa fosse conchiudere dal supposto al fatto, operare come se le cose fossero in un stato diverso da quello in cui erano: non pose mente a distinguere che quel tale prezzo moderato era un bene in quanto fosse stato conseguenza naturale della proporzione tra la ricerca, e la quantità esistente, ma non un bene per sè, e in ogni modo.
Non pensò a niente di tutto questo: fece come una donna di mezza età che per ringiovinire alterasse la cifra della sua fede di battesimo.
L'ordine fu dato, promulgato, ed eseguito.
Ordini meno iniqui e meno insani avevano trovato nelle volontà, nella natura stessa delle cose, ostacoli invincibili, ed erano rimasti senza esecuzione, ma alla esecuzione di questo vegliava il popolo il quale come era ben naturale l'aveva accolto con un grido di esultazione; e vedendo finalmente esaudito e convertito in legge il suo desiderio, non sofferiva che fosse da burla.
Il popolo accorse tosto ai forni a domandare il pane a quel prezzo legale, e lo domandò con quell'aria di risolutezza e di minaccia che danno la forza e la legge insieme unite.
Se era naturale che il popolo esultasse, non lo era meno che strillassero i fornaj: un politico avrebbe potuto dire che quello era il caso di fare soffrire un picciol numero per sollevare e tranquillare una gran moltitudine: ma il male era che questo picciol numero era appunto quello che doveva, e che poteva solo dare in fatto quello che la legge comandava e prometteva in parole: e a produrre l'effetto non bastava che i fornaj avessero ricevuto un ordine preciso, non bastava che avessero molta paura, che fossero disposti a sopportare l'ultima rovina delle sostanze per salvare la persona: era necessario che potessero.
Ora la cosa comandata era non solo dolorosa per essi, ma diveniva di giorno in giorno più difficile; ma doveva arrivare un momento in cui sarebbe stata impossibile.
Il popolo stesso affrettava questo momento: quantunque gridasse risolutamente e tenesse confusamente che quel prezzo stabilito era equo, ragionevole, sentiva però anche confusamente che esso era come in guerra con tutto il resto delle cose, che era l'effetto d'una volontà e non della natura, e prevedeva pure confusamente che la cosa non avrebbe potuto andar così sempre, né a lungo.
Approfittava quindi del momento di baldoria, assediava continuamente i forni, come dice il Ripamonti, si affaccendava a carpire quel pane che gli era dato quasi da una ventura momentanea, e la sua pressa indiscreta gareggiava con la fretta e col travaglio dei fornaj.
Così quella cieca moltitudine consumava improvidamente in poco tempo, e sparnazzava in parte la scarsa e preziosa provvigione la quale però doveva servirgli per tutto l'anno.
I fornaj costretti ad affacchinare e a scalmanarsi per discapitare, ponevano in opera tutte le arti per far perder tempo ai chieditori di pane, senza irritarli all'estremo, adulteravano il pane con tutte quelle sostanze, che senza troppo lasciarsi distinguere, ne accrescessero il peso, e intanto non rifinivano di domandare che la legge fosse abrogata.
Ma Antonio Ferrer stava immoto a tutti i richiami, come Enea agli scongiuri di Didone.
Generalmente parlando è impresa delle più ardue quella di smuovere un uomo da una sua ipotesi: con meno fatica gli si farà rinnegare l'evidenza dei fatti, perché finalmente l'evidenza l'ha trovata; ma l'ipotesi l'ha fatta egli; e l'ha fatta non per ozio né per ispasso, ma per un gran bisogno che ne aveva, per uscire da un impaccio.
Oltre questa cagione generale, si può supporre senza temerità che quell'uomo, benché dagli effetti avesse dovuto conoscere quanto il suo ordine era stato pazzo, non voleva rivocarlo egli, e perdere così tutto il favore del popolo anzi cangiarlo in furore; giacché certamente il popolo l'avrebbe creduto subornato e corrotto se avesse tolto ciò che egli aveva stabilito come giusto.
Prevedeva egli dunque che la cosa non sarebbe durata, ma lasciava ad altri la briga di dichiararla cessata legalmente.
Come però spesse volte bisogna rispondere qualche cosa ai richiami che non si vogliono soddisfare, Antonio Ferrer rispondeva ai fornaj, a tutti quelli che per uficio erano costretti parlargli dello stato angustioso delle cose, rispondeva che i fornaj avevano guadagnato assai assai in passato, e che era giusto che tollerassero allora quella picciola perdita.
I fornaj repplicavano che non avevano fatti questi guadagni, e che non potevano più reggere alla perdita presente; Antonio Ferrer, ripigliava che avrebbero guadagnato nell'avvenire, che sarebbero venuti anni migliori, che insomma il tempo avrebbe rimediato a tutto.
CAPITOLO VI
Il tempo è una gran bella cosa: gli uomini lo accusano è vero di due difetti: d'esser troppo corto, e d'esser troppo lungo; di passare troppo tardamente, e d'essere passato troppo in fretta: ma la cagione primaria di questi inconvenienti è negli uomini stessi, e non nel tempo, il quale per sè è una gran bella cosa: ed è proprio un peccato che nissuno finora abbia saputo dire precisamente che cosa egli sia.
In questo caso però il tempo non poteva essere d'alcuno ajuto, anzi a dir vero, gl'inconvenienti erano di quelli che col durare si fanno più gravi.
I fornaj avevano protestato fin da principio, che se la legge non veniva tolta, essi avrebbero gettata la pala nel forno, e abbandonate le botteghe; e non lo avevano ancor fatto, perché sono di quelle cose alle quali gli uomini si appigliano solo all'estremo, e perché speravano di dì in dì che Antonio Ferrer gran cancelliere sarebbe restato capace, o qualche altro in vece sua.
Alla fine, i Decurioni (un magistrato municipale) vedendo che la minaccia de' fornaj sarebbe divenuta un fatto, scrissero al governatore ragguagliandolo dello stato delle cose, e chiedendogli un provvedimento.
Probabilmente il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova avrà avuto molto a cuore di trovare un mezzo per nutrire stabilmente molti uomini; ma in quel momento impedito egli e assorto in una faccenda più urgente, quella di farne ammazzare molti altri, non potè occuparsi della prima, e ne diede l'incarico ad una commissione, ch'egli compose del presidente del Senato, dei presidenti dei due magistrati ordinario e straordinario, e di due questori.
Si riunirono essi tosto, o come si diceva allora spagnolescamente, si giuntarono: e dopo mille riverenze, preamboli, sospiri, proposizioni in aria, reticenze, tergiversazioni, spinti sempre tutti verso un punto solo da una necessità sentita da tutti, conscj che tiravano un gran dado, ma convinti che altro non si poteva fare, conchiusero ad aumentare il prezzo del pane, riavvicinandolo alla proporzione del prezzo reale del frumento; e si separarono nello stato d'animo d'un minatore che avesse dato fuoco ad una mina non caricata da lui, prevedendo bene uno scoppio, ma non sapendo né quando né quale egli sarebbe.
Questa volta i fornaj respirarono, ma il popolo imbestialì: s'era già avvezzo a quel vantaggio che aveva apportato l'editto del gran cancelliere; e cominciava già a trovare che il vantaggio era troppo scarso, che la giustizia non era intera; e aspettava ad ogni nuova deliberazione che il prezzo sarebbe ancora diminuito.
Il sentimento di furore che produsse l'aumento, fu universale: questo sentimento veniva espresso da migliaia d'uomini con lo stesso impeto, con la stessa intensità, con le stesse parole.
La sera del giorno che precesse a questo in cui Fermo arrivò in Milano, le vie, le piazze erano sparse di crocchj, nei quali conoscenti, e ignoti parlavano altamente d'un fatto comune nel quale avevano dolori e idee comuni.
Migliaja d'uomini si coricarono quella sera dopo d'aver dette ed udite molte volte le stesse frasi, e si svegliarono il mattino vegnente con una persuasione piena e fervida che si faceva loro un torto tirannico, con un impulso indeterminato ma potente a far qualche cosa, e con la confidenza che fra tanti unanimi la cosa da farsi si sarebbe determinata.
Fra queste migliaja vi aveva alcuni i quali meno irritati, pensarono con gioja che in quel giorno l'acqua sarebbe stata torbida, e si sarebbe potuto pescare, e fecero proponimento di non lasciarla posare fin che non fosse fatta la pesca.
I crocchj precedettero l'aurora: fanciulli, donne, uomini, vecchj, operaj, mendichi, si ragunavano a caso, e cominciavano o proseguivano naturalmente lo stesso discorso: qui erano voci confuse di molti parlanti, là uno predicava, e gli altri applaudivano: da per tutto racconti diversi ma egualmente violenti delle cabale e delle iniquità che avevano macchinato il nuovo editto: da per tutto lo stesso linguaggio di lamenti, d'imprecazioni, di minacce; e da per tutto per ultima conseguenza una parola la più moderata nel suono, ma la più forte, quella che esprimeva la cosa, e la faceva: così non può andare.
Non mancava più che una occasione, un avvenimento, un movimento qualunque per ridurre a fatti quelle parole; e l'occasione non si fece aspettar molto.
Uscivano secondo il solito dalle botteghe dei fornaj quei fattorini che con una gerla carica di pane andavano a portarne la quantità convenuta, ai monasteri, alle case dei ricchi, insomma (per dirla con un termine milanese, che la lingua toscana dovrebbe ricevere poiché non è altro che una applicazione speciale e analoga d'un vocabolo toscano) alle poste loro.
Uno di questi passava per quel crocicchio che si chiamava il Leone di Porta Orientale, dove era adunato molto di quel popolo.
Al primo vedere quel fattorino e quella gerla: «ecco», gridarono cento voci: «ecco se c'è il pane».
«Sì, sì, pei tiranni che non vogliono darne alla povera gente», grida uno della folla.
Un altro s'avanza, s'appressa al fattorino, alza la mano all'orlo della gerla, la fa abbassare con una strappata, e con l'altra mano toglie un pane e dice: «siamo cristiani anche noi; abbiamo da mangiare».
«Anche noi»; rispondono cento voci, molti s'avventano al fattorino, e gridano: «giù quella gerla».
Il garzoncello arrossisce, impallidisce, trema, vorrebbe dire: - lasciatemi stare -; ma non ha tempo, sviluppa le braccia in fretta dalle ritorte che servono di manichi alla gerla, la lascia nelle mani di quelli che l'avevano presa; e a gambe.
Il pane fu diviso in fretta, ma senza tumulto e senza risse fra coloro che erano più vicini alla presa.
Ma quelli a cui non era toccato nulla, irritati e aizzati dalla vista del guadagno altrui, e animati dalla facilità, e dalla impunità della impresa, si mossero a troppe alla busca di altre gerle vaganti: tutte quelle che si abbatterono in questi cercatori, furono ritenute e svaligiate come la prima.
Ma questa poca preda non bastava alla voglia di tutti, né il fatto fin allora a coloro che avevano fatto conto su un garbuglio più grande.
S'intese una voce che diceva: «andiamo ai forni».
«Ai forni! ai forni! sono il buco dei ladri, la fucina della carestia».
«Ai forni! ai forni!» rispose il coro.
In quella via torta, angusta, e frequentata che va dal Leone di Porta orientale al duomo, v'era già a quei tempi un forno che sussiste tuttavia, con lo stesso nome, che in toscano viene a dire: forno delle grucce, e nel suo originale milanese è espresso con parole di suono tanto eteroclito e bisbetico che l'alfabeto comune della lingua italiana non ha il segno per indicarlo.
Quivi si addrizzò la folla.
I fornaj che avevano veduto tornare il fattorino svaligiato e rabbaruffato, e intesa la sua relazione, stavano già in sospetto, e pensavano a guardarsi.
All'avviso della visita che si avvicinava, mandarono in folla ad avvertire il Capitano di giustizia, e a chiedergli ajuto.
Questi che stava all'erta aspettandosi che la sua presenza sarebbe domandata in qualche luogo, accorse tosto, e con alcuni alabardieri arrivò che la moltitudine cominciava a spessarsi dinanzi alla bottega.
«Largo, largo», gridava il capitano, gridavano gli alabardieri, e si appostarono sulla porta.
La folla si condensava vie più, quei di dietro spingendo i primi.
«Figliuoli, a casa...
che cosa è questa?...
animo...
via gente dabbene, buoni figliuoli...
ahi canaglia!» Una pietra lanciata dalla retroguardia degli assalitori colpì la cucuzza del Capitano all'ultima sillaba di figliuoli.
«Ahi! ah! canaglia.
Quel temerario...
Alabardieri, disperdete questi birboni».
«Indietro, indietro», gridavano gli alabardieri, sospingendo i primi, ma invano.
«Animo! animo!» gridava il capitano, «rispingeteli almeno tanto che chiudiamo le porte; da bravi! Indietro! indietro!» Gli alabardieri, uniti, fecero impeto tanto che i fornaj potessero afferrare le imposte e farle girare sui cardini, a misura che queste si racchiudevano gli alabardieri si ritiravano insieme, e gli uni e gli altri si chiusero al di dentro.
«Apri! apri!» urlava la folla al di fuori, percotendo le porte.
«Via! via!» si rispondeva da quei di dentro che si tenevano calcati alle imposte per fermarle contra gli urti.
Il Capitano di giustizia intanto fattosi visitare ad un alabardiere e toccato egli con la mano il luogo della percossa, fu certo che non era altro che una bernoccola, onde rincorato salì le scale, e si fece ad una finestra, dove presa una imposta di dentro, come scudo e cacciando fuori da quella il capo, e la mano per ottener silenzio: gridava a quanto fiato aveva in corpo: «Che timor di Dio è questo?»
Una vociferazione, immane, confusa, nella quale non si distinguevano altre parole che, «pane! pane! apri! apri!» copriva la voce del Capitano.
«Che dirà il re nostro signore?» gridava egli.
«Pane! pane! apri! apri!»
«Indulgenza plenaria, perdono a chi torna a casa», gridò egli di nuovo, sporgendo il capo con precauzione: ma viste più mani nella folla che si movevano a lanciargli un secondo biscottino, si ritirò.
Alcuni garzoni del forno, s'avvisarono di rompere il selciato d'un cortiletto; e tolte molte pietre, salirono con quelle al piano superiore, e fattisi alle finestre, minacciarono di gettarle sugli assalitori se non si ritiravano.
«Ah cani! vi faremo in pezzi»; urlava il popolo, e non si ritirava: le pietre cominciarono a scendere; molti ne furono malconci, e due ragazzi ne rimasero morti.
Il furore crebbe la forza della moltitudine: le porte furono spezzate, le ferriate delle finestre del pian terreno scassinate e divelte, e la bottega aperta agli assalitori.
I fornaj, gli alabardieri, il Capitano si rifuggirono in fretta sul solajo, dove s'appostarono alle uscite che davano sui tetti, per farsela da quella parte, alla meglio, se il pericolo si fosse avvicinato anche a quel rifugio.
Per buona loro ventura, i vincitori si curavano per allora più di preda che di carnificina.
I primi entrati si gettarono sui cassoni del pane, e li posero a sacco: la folla si sparse dalla bottega nei magazzini ov'erano le farine: quelli che afferrarono i sacchi, gli sciolsero e perché non avrebbero potuto caricarli e portarseli via con tutto quel peso, gittavano una parte della farina, e portavano il resto: altri raccoglievano come potevano quella farina, riponendola negli abiti loro, nei cenci che trovavano.
Alcuni i quali erano venuti con più profonda intenzione, andarono al banco, lo spezzarono, tolsero le ciotole dei danari, gli intascarono a manate, e sdrucciolando tra la folla andarono a casa a vuotarle, per tornare a nuove faccende.
Frattanto lo stesso assalto si dava ad altri forni: in alcuni i padroni resistevano e si chiudevano a difesa, in altri, distribuendo tutto il pane a quegli che si facevano innanzi stornavano il saccheggio finito, e la distruzione.
Le cose erano a questo punto quando Fermo si avanzava sulla via appunto di quel forno dove aveva cominciato ed era maggiore il tumulto.
Andava egli ora spedito, or ritardato tra una folla di gente che procedeva verso il campo di battaglia, e di gente che tornava carica: guatava andando, e origliava per conoscere un po' più chiaramente lo stato delle cose.
V'era un ronzio confuso di clamori e di discorsi: noi riferiremo quei pochi che Fermo potè intendere a misura che mutava di vicini, procedendo tra la calca, e sostando di tratto in tratto per una qualche fermata improvvisa della moltitudine.
«Ecco scoperta l'impostura infame di quei birboni che dicevano, che non c'era pane, né farina, né frumento.
Adesso si vede la cosa sincera, e non ce la potranno più dare ad intendere.
Viva l'abbondanza!»
«Vi dico io, che tutto è niente, è un buco nell'acqua, se non si fa una buona giustizia di quei birboni.
Metteranno il pane a buon mercato, ma hanno proposto di attossicarlo per ammazzare la povera gente.
Hanno posto il partito nella giunta, e io lo so di certo, l'ho inteso con questi orecchi da una mia comare che è amica della lavandaja d'uno di quei signori».
«Largo, largo, signori, dieno il passo ad un povero padre di famiglia che porta da mangiare a cinque figliuoli che muojono di fame».
Così diceva uno che barcollava sotto un gran sacco di farina; e i vicini si stringevano per dargli il passo.
«No, no, no», diceva sommessamente, e con aria misteriosa all'orecchio d'un suo compagno, un altro.
«Io son uomo di mondo, so come vanno queste cose, e me la batto.
Questi baggiani che fanno ora tanto schiamazzo, domani staranno tutti cheti a casa loro, ognuno dirà, io non c'era, oppure: è stato il tale che mi ha strascinato: no no: largo da questi garbugli.
Ho già vedute certe facce, di uomini che fanno l'indiano e notano tutti, e domani poi:...
si cavano le liste, e chi è sotto è sotto».
Queste parole diedero un momento da pensare a Fermo, ma il vortice lo trasportava; e un discorso ch'egli intese subito dopo, rinnovando e riscaldando l'indegnazione ch'egli sentiva con tutti gli altri soffocò le considerazioni di prudenza che gli consigliavano di tornare indietro.
«Si sa tutto», diceva una voce più sonora dell'altra: «è scoperta la gran cabala orrenda.
È il vicario di provvisione che ha mandato un gran cavaliere travestito da merciajo a parlare col re di Francia: e si sono intesi: il re ha fatto promettere al vicario uno scudo d'oro per ciascun milanese che sarebbe morto di fame; e così, quando il paese sarebbe stato vuoto, il re veniva innanzi per diventar padrone egli».
«Era ordita la trama di farci morir tutti: tanto è vero che mettevano attorno che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per togliergli il credito, e comandare essi soli».
«Finora va bene, ma se avremo giudizio, bisognerà far prima la festa a tutti i forni, e poi andare dai mercanti di vino: sono tutti birboni d'un pelo, d'accordo coi fornaj per far morire la povera gente di fame e di sete».
«Ah tiranni! cani! scellerati! metterli in una stia a vivere di veccia e di loglio, come volevano trattar noi».
In mezzo a questi discorsi giunse Fermo, a forza d'urti dati e ricevuti, dinanzi a quel forno.
Lo spettacolo era lurido e spaventoso.
Le mura intaccate da sassi e da mattoni, le finestre sgangherate, diroccata la porta, quella casa pareva un gran teschio disotterrato; alle finestre, alla porta si vedeva gente affaccendata a compire l'opera della distruzione, a strappare il resto delle imposte: al di dentro erano altri che con asce spezzavano le gramole, i buratti, i cassoni, le panche, le madie, altri che prendevano a fasci i rottami, le corbe, le pale, i registri delle partite, i mobili, e portavano tutto al di fuori.
I guastatori si avviarono con questo peso alla vicina piazza del duomo, e quivi accatastate tutte quelle materie v'appiccarono il fuoco, ponendosi intorno a godere quel falò, acclamando con bestemmie, con canti di trionfo, con promessa di ricominciare ben tosto altrove.
Fermo seguì la processione, e si fermò dinanzi al rogo in mezzo a quella folla ondeggiante a vedere e ad udire.
Alcuni allargando intorno a sè un po' di spazio con le gomita, facevano quel che potevano per danzare; altri sopraggiungevano con nuove spoglie da ardersi, e fattisi far largo a forza di urti e di urli, le gettavano sul mucchio ardente: si alzavano nuove fiamme, tizzoni accesi saltavano qua e là, e più forti ululati sorgevano in mezzo al rombazzo confuso e continuo.
Fermo non credeva, né era possibile di credere, tutto quello ch'egli aveva inteso dire in quel giorno; ma tutti quei discorsi, le sue idee antecedenti, la persuasione universale gli davano l'intima persuasione che un gran disegno di affamare il popolo fosse stato ordito e scoperto.
Partecipava egli dunque dell'ebrezza comune, gridava a quando a quando con gli altri, e se non attizzava la fiamma, stava pure a contemplarla con diletto, mangiando intanto un altro di quei pani che aveva raccolti e posti in tasca al primo entrare in città.
«Muoja la carestia!» si urlava da ogni parte; «muojano gli affamatori! viva l'abbondanza! viva il pane! viva! viva!» A dir vero la distruzione dei buratti, delle madie, il disfacimento dei forni, e lo scompiglio dei fornai non pare che fossero i mezzi più spediti per far vivere il pane: ma questa è una sottigliezza metafisica che non poteva venire in mente ad una moltitudine.
Il fuoco non era per anco estinto, quando corse all'improvviso una voce per la folla, che al Cordusio (così è chiamato un crocicchio poco distante dalla piazza dove si faceva la baldoria) s'era scoperto da un fornajo un altro grande ammasso di pane e di farina.
La folla si diresse in tumulto verso quella parte: si gettò nella via corta ed angusta di Pescheria Vecchia, si condensò sotto l'arco che la termina, si diffuse nella piazza dei mercanti.
Quivi mentre si passava accanto alla loggia che tiene il lungo della piazza, una mano si alzò sopra le teste della turba e si rivolse verso una statua colossale che occupava una nicchia or vuota nella parte più apparente della loggia, e una voce gridò nello stesso tempo: «quello era un re! un re che rendeva giustizia pronta, e faceva impiccare i tiranni e i cabaloni».
«Viva! viva!» rispose uno stormo di voci.
Non è però da credere che tutti quei gridatori sapessero bene a chi, e perché applaudivano; l'unica idea distinta che ne avevano era di un re morto.
Il pezzo di marmo che ricevette quell'applauso era niente meno che una statua di Don Filippo II, la quale durò in quella nicchia, ancora centosettant'anni circa, dipoi fu trasformata alla meglio in un Marco Bruto, e finalmente smozzicata e ridotta ad un torso informe che fu strascinato e gittato non so dove: e avrebbe pur meritato d'esser conservato pel suo destino singolare d'aver rappresentato due personaggi, il nome dei quali fa nascere tosto idee disparatissime, e che pure ebbero più punti di rassomiglianza che non appaja a prima vista.
Tutti e due gravi e rigidi sermonatori l'uno di filosofia, l'altro di religione, tutti e due commisero senza rimorso, con giattanza, di quelle azioni che la morale comune, e il senso universale della umanità abbomina; tutti e due credettero che nel loro caso una ragione profonda, un intento di perfezione rendesse virtù ciò che è comunemente delitto.
Tutti e due con una opposizione ardente e attiva, hanno promosse, rafforzate, estese le cose che volevano impedire ed estinguere nei loro cominciamenti; e tutti e due hanno avuti in vita e dopo morte fautori che hanno approvata la loro condotta, gli hanno lodati d'aver fatti mali infiniti per ottenere il contrario dei loro fini.
Tutti e due si sono immaginati che la maggiorità dei loro contemporanei avrebbe secondate con gran favore le loro intenzioni, e tutti e due si maravigliarono con indignazione di trovare avversione, resistenza da tutte le parti.
Tutti e due sono stati in diverse epoche tenuti in gran venerazione, e in quelle epoche non era un viver lieto.
Preghiamo il cielo, che quando hanno da nascere uomini di quel carattere, si trovino collocati in una condizione dove abbiano da faticare assiduamente per vivere, che al più possano dissertare in un picciolo crocchio, e che non giungano mai a far cose per cui debbano avere statue dopo la morte.
Il corteo clamoroso dovette condensarsi e insaccarsi onde passare come per una trafila nella via angusta dei Fustagnaj, e quindi sboccare al Cordusio.
Quivi era già ammassata un'altra folla, e il saccheggio d'un forno era avviato: i sopravvegnenti incalzavano quelli che erano già signori del campo, e si trasfondevano in essi, come potevano.
Tutto ad un tratto una voce orrenda uscì dalla folla: «andiamo dal Vicario di Provvisione, a fare una giustizia».
Quella voce fu come una scintilla caduta nel mezzo d'una polveriera.
«Dal Vicario di Provvisione» gridarono tutti: e parve un rammentarsi d'un accordo già fatto, più che una risoluzione di quel momento.
La casa del Vicario era sventuratamente vicinissima a quel luogo: in un punto la via fu piena, e la casa cinta d'ogni parte.
Il Vicario di Provvisione stava in quel momento facendo un chilo agro e stentato d'un pranzo mangiato di mala voglia con un po' di pane raffermo rimasto del giorno antecedente, e fra pensieri tristi, di stupore, di inquietudine, di incertezza.
Uno o due benevoli, (perché nei garbugli sempre vi trascorre qualche onesto che cerca poi di impedire un po' di male) precorsero lo stormo, ed entrati nella casa, avvertirono del pericolo.
I servi, alle porte, alle finestre: non si vedeva altro che un nuovolo di gente che appressava, che era lì: in fretta in fretta, si avvisa il padrone, mentre questi delibera di fuggire, come fuggire, gli è detto che non è più a tempo: appena i servi possono chiudere e sbarrare la porta al momento che i primi della vanguardia stavano per porre piede sulla soglia: si chiudono tutte le imposte delle finestre, come quando il tempo imperversa, e comincia a cader la gragnuola; e intanto si sente l'ululato orribile della moltitudine, che vuole entrare, e i colpi che già si danno alla porta.
«Il Vicario! il tiranno! lo vogliamo, vivo o morto!»
Il Vicario errava di stanza in istanza, raccomandandosi a Dio e ai suoi servitori che tenessero fermo, che trovassero modo di farlo scappare: ma la casa era cinta da tutte le parti.
Il poveruomo salì sul solaio e da un bugigatto del muro tra la soffitta e il tetto guatò ansiosamente nella via, e la vide stivata, fitta di nemici, udì le grida e le minacce, e si ritirò tremante e quasi fuor di sè nell'angolo il più riposto, che potè rinvenire.
Ivi rannicchiato e tremante, porgeva l'orecchio, e quando poi udiva i colpi violenti nella porta, lo turava spaventato, poi come fuori di sè, stringendo i denti, e raggrinzando tutta la faccia tendeva con impeto le braccia e i pugni come se volesse tener ferma la porta contra gli urti, poi si dava per disperato ed aspettava la morte.
Gli passavano per la mente gl'impegni che aveva fatti per giungere a quell'uficio, la consolazione che aveva provata nel giungervi, e malediceva di cuore tutti quei pensieri antichi.
Finalmente stette tranquillo e come istupidito.
Intanto al di fuori altri percoteva le imposte della porta, con travi: altri era andato in cerca di scarpelli e di martelli, e dava colpi in regola nel muro, per aprirvi una breccia; altri lanciava sassi alle finestre, altri con le pale conquistate ai forni ne stuzzicava le imposte per aprirle, grida orrende accompagnavano tutte queste operazioni.
Quegli stessi però che con le grida, le incoraggiavano e le applaudivano, in fatto vi ponevano ritardo con la pressa delle persone non lasciando agio al giuoco delle leve e degli arieti: per buona sorte accadeva questa volta nel male, ciò che è troppo frequente nel bene: che i fautori i più ardenti divengano un impedimento.
Nel mezzo della turba un vecchio malvissuto mostrava un martello, dei chiodi, e una fune, dicendo che voleva egli configgere alle imposte della porta il Vicario quando fosse stato acchiappato ed ucciso.
«Ecco, ecco quello che farà la cosa spiccia; largo, largo»: era una lunga scala che altri portavano per appoggiarla al muro, e salire alle finestre, dove l'entrata sarebbe stata più facile.
Per buona sorte quel mezzo che avrebbe facilitata l'impresa non era facile a porsi in opera: i portatori spinti alcuni di qua alcuni di là e divisi da una calca brulicante e irrequieta erano costretti or l'uno or l'altro di abbandonare il peso, il quale cadeva sulle spalle, sulle teste dei più vicini, che lo rispingevano, grida, percosse, urli da tutte le parti.
Ma intanto la porta era quasi sconfitta dai gangheri, e i fori nel muro andavano allargandosi e sprofondendosi, già poco mancava a vedersi l'interno della casa.
Fermo si trovava in mezzo alla calca, ma questa volta strascinato e assorbito dal vortice piuttosto che venuto di sua voglia; le grida che chiedevano il sangue, i volti che ne mostravano la abbominevole sete, lo avevano riempiuto di turbamento e di orrore; egli detestava in quel momento quella che gli era paruta giustizia del popolo, la trovava più atroce della fame.
«Andiamo andiamo», diceva egli ai suoi vicini; «è una vergogna! vogliamo noi fare il boja? assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia il pane a buon mercato se commettiamo di queste iniquità?».
«Ah! traditore della patria!» disse uno che era vicino a Fermo rivolgendosi a lui con un viso d'indemoniato: «aspetta, aspetta, tu sei un amico del Vicario, e dei tiranni...»
Per buona sorte in quel momento, alcuni che portavano una scala fecero impeto tra Fermo e il suo nemico, e gli disgiunsero.
Fermo approfittando di quella confusione nata nella confusione si allontanò, cercando di uscire dalla folla, e di andarsene.
Quegli che gli aveva fatto quel complimento non si curò di rintracciarlo, né lo avrebbe potuto.
Ma un altro che si trovava accanto a lui, e che lo aveva seguito, gli disse all'orecchio: «buon giovane, state zitto, se non volete farvi ammazzare; ma aspettate quietamente, che forse potrete far del bene».
Fermo gli rispose affettuosamente coll'espressione del volto, e rimase in mezzo alla calca.
Ma quegli stessi benevoli che erano venuti ad annunziare il pericolo, non avevano posto tempo in mezzo, ed erano tosto volati al castello per avvertire di ciò che accadeva, e domandare soccorso.
Fu tosto spiccata una troppa di soldati, che accorse al luogo del tumulto.
Ma giunta che fu, non seppe che farsi.
Le parti estreme dell'attruppamento, alle quali sole i soldati potevano accostarsi, erano una ciurma disarmata, e oziosa, mista di uomini di donne e di fanciulli: parevano piuttosto spettatori che altro: all'ordine di dissiparsi non rispondevano che con un cupo e profondo mormorio.
Far fuoco sopra quella gente, parve a quelli che comandavano il drappello, che sarebbe stata cosa crudele, e piena di pericolo assai più grave di quello che si voleva far cessare: attraversare la prima calca, e giungere in ordine, e uniti al centro del tumulto, dove la rivolta era operosa; non era cosa possibile, il solo tentare di procedere avrebbe sparpagliati i soldati tra la moltitudine, e postili così separati a discrezione di quella, irritata.
I soldati stettero dunque oziosi; quelli che erano più presso gli guardavano senza timore, gli beffavano, le grida continuavano, e gli smuratori proseguivano la loro impresa romorosa, senza darsi pensiero della truppa.
L'impresa sarebbe stata pur troppo condotta al termine, e già lo toccava, se dalla parte opposta non fosse giunto un più efficace soccorso.
«Una carrozza! uh! uh! chi è questo tiranno che ardisce venire ad insultare la povera gente? dalli! dalli! sassate, sassate!» «Zitti! zitti! è Ferrer! non vedete la livrea? è un galantuomo! amico della povera gente: eccolo! eccolo! ecco mette la testa allo sportello! è egli.
Viva Ferrer! Viva Ferrer!» La carrozza s'era fermata in capo della calca, a canto ai soldati; e nella carrozza v'era di fatti quell'Antonio Ferrer gran cancelliere, che era stato una delle principali cagioni di tutto quel guasto, ma che almeno veniva per porvi qualche rimedio e si valeva della popolarità che gli avevano acquistata i suoi spropositi per minorarne i tristi effetti.
Sia benedetto Antonio Ferrer! degli spropositi molta gente ne fa, ma non sono molti coloro che adoperino il vantaggio che possono averne cavato, a fare un po' di bene o ad impedire un po' di male.
Antonio Ferrer metteva fuori dello sportello una faccia tutta umile, tutta benigna, tutta amorosa, una faccia che egli aveva creduto di tenere in serbo pel momento in cui si sarebbe trovato al cospetto di Don Filippo Quarto: ma fu obbligato a spenderla in questa occasione impreveduta.
Cercava egli di parlare, ma i picchj, gli scalpiti, gli urli, i viva stessi che si facevano a lui soffocavano la sua voce.
Andava egli dunque ajutandosi col gesto, ora avvicinando la punta delle mani alla bocca, e tenendole poi supine, per render grazie alla benevolenza pubblica, ora rivolgendole e abbassandole lentamente per richiedere (ma con un garbo ineffabile) un po' di silenzio e di tranquillità; ora allargandole dinanzi a sè, per domandare se fosse possibile un po' di passaggio, accennando nello stesso tempo col volto ch'egli veniva per far cosa grata a quelli a cui domandava il passaggio.
«Viva Ferrer! l'amico della povera gente! non abbia paura, ella è un galantuomo! Vogliamo pane!»
«Sì, figliuoli, pane, pane! abbondanza!» rispondeva Ferrer, ponendo la destra sul cuore per dare la forza del giuramento alle sue parole.
«Che cosa ha detto?» domandavano quelli che non erano vicini abbastanza per intendere il suono delle parole.
«Ha detto pane! abbondanza!» rispondevano quelli che avevano inteso; e queste parole girarono in un momento fino all'altra estremità della calca.
«Ciarle! ciarle!» gridavano alcuni.
«Viva Ferrer! è un galantuomo!» gridavano altri.
«Noi vogliamo Ferrer! comandi Ferrer! morte ai birboni!»
«Sì figliuoli miei cari!» diceva il vecchio, alzando la voce quanto poteva: «comanderò io: si farà giustizia: il pane a buon mercato.
Intanto fatemi un piacere, datemi un po' di passaggio.
Vengo per mettere in prigione il vicario di provvisione».
Questa nuova parola fu pure trasmessa di bocca in bocca.
«Sì sì: bravo! in prigione!» «No no! lo vogliamo morto!» «No! in prigione! giustizia! Largo! largo!» «Sono imposture! chi l'ha da giudicare? Sono tutti d'una razza!» «Via! via!» «Ferrer è un galantuomo! in prigione!»
La proposta inaspettata del gran cancelliere aveva divisi in un momento i pareri e gli animi di quei comizj tempestosi, o per dir meglio aveva fatta scoppiare una divisione che già esisteva.
Alcuni o per una ebbrezza di furore e di crudeltà, o per una fredda speculazione di anarchia volevano persistere nel proposto sanguinario: ma i più, placati in parte e raddolciti dal vedere che un alto magistrato veniva a riconoscere la giustizia della loro causa, e a compirla legalmente, vinti dalla affezione che sentivano in quel momento pel vecchio Ferrer, commossi da quella sua canizie e dal contegno supplice e carezzevole che tanto piace alla moltitudine in un uomo che le si è sempre mostrato in un aspetto di gravità e d'impero, innamorati anche dalla sicurezza animosa del vecchio che non aveva dubitato di affrontare una tanta burrasca, gridavano che gli si facesse luogo, e che il vicario gli fosse rilasciato.
Fermo era tra questi, e gridava a testa: «prigione, giustizia!»
I sentimenti, le grida, i movimenti di questa parte più placabile erano mossi e regolati, senza ch'ella se ne avvedesse, da alcuni, i quali senza aver fra di loro intelligenze precedenti, operavano pure di concerto, condotti da una intenzione comune.
V'ha degli uomini onesti, ai quali nelle sommosse popolari, alle affoltate, alle vociferazioni d'una moltitudine alleggiata, sono colpiti da un orrore pauroso, non ponno sostenerne la vista, la vicinanza, e vanno a rimpiattarsi, se è possibile, dove non ne giunga nemmeno il mormorio.
Ve n'ha altri, i quali sentono un orrore egualmente forte, ma che non li confonde, che non toglie anzi cresce loro l'attività.
Il tumulto è per essi un nemico terribile, di cui vanno in cerca, per opprimerlo, o per ammansarlo: accorrono dove la confusione è più bollente, il brulicame più fitto: non si curano o dimenticano in quel momento da che parte sia la ragione e il torto, dimenticano il proprio pericolo, e non hanno altro di mira che di frastornare le risoluzioni feroci, d'impedire delitti: sono del partito degli oppressi e dei minacciati, quali essi sieno; difenderli, salvarli, trafugarli, reprimere i violenti, acquetare le cose è il loro scopo.
Di questa specie d'uomini molto rispettabile erano coloro che abbiamo accennati: l'oggetto dei loro sforzi era di stornare la carnificina preparata al Vicario di Provvisione: sentirono essi tosto che la venuta e la proposta di Ferrer era un mezzo potente alla loro mira, anzi l'unico, al punto in cui erano le cose, e tutti, come d'accordo, fecero tutto il possibile, per cavare ogni vantaggio da quell'incidente avventurato.
Ripetevano e spargevano le parole del gran cancelliere, vi aggiungevano i commenti e le interpretazioni che erano più accomodate alle idee ed alle passioni della moltitudine, gridavano quelle parole che potevano diventare un grido universale, e comandare le azioni: lodavano, e dirigevano quegli che erano già inclinati alla moderazione, ammonivano con dolcezza gli ostinati, o gli svergognavano anche minacciosamente dove gli ostinati erano in minor numero, e la forza e il favore erano per la moderazione.
I loro sforzi non furono inutili, e poco a poco apparve manifestamente che la moderazione aveva il maggior numero di partigiani.
«Giustizia», e «Ferrer!» erano le due parole che più risuonavano tra il clamore vario e indisciplinato.
Alcuni tra i guastatori avevano già deposti gli stromenti di distruzione, e ristavano dall'impresa.
«State quieti! aspettate! viene Ferrer a metterlo in prigione», si gridava da mille parti a quegli che proseguivano a dar colpi alla porta e al muro.
Alcuni aggiungendo i fatti al consiglio, cercavano di toglier loro di mano le leve e i martelli, e le travi: quindi una lotta tra gli uni e gli altri che ritardò la presa della fortezza, e diede tempo al soccorso di arrivare.
Ferrer si volse al cocchiere e gli disse in fretta, sotto voce ma distintamente:...
Poi continuando a rivolgersi al popolo: «Signori», diceva: «un poco di passaggio, vedo...
capisco...
sono angustiati...
in cortesia...
sì signori...
pane, abbondanza...
in prigione, lo condurrò io, in castello...»
«Passo! passo a Ferrer!» «Vogliamo impiccarlo noi, il vicario! è un birbone!» «No no: in prigione! giustizia!»
Intanto il cocchiere, imitando anch'egli la condotta del padrone, sorrideva alla moltitudine, e con una grazia delicatissima moveva la frusta a destra e a manca per accennare a quelli che erano dinanzi ai cavalli che si ritirassero un poco sui lati: alcuni si ritiravano volontariamente, e quei bene intenzionati che abbiam detto, posti nel mezzo rimovevano gli altri poco a poco, e la carrozza dava qualche passo.
Ferrer andava sempre ripetendo le stesse frasi, talvolta dicendo le parole che soddisfacessero alle grida che sentiva più distintamente.
«Giustizia, m'impegno io, vengo a pigliarlo prigione: è giusto: il re nostro signore vuole che si castighino quelli che fanno del male ai suoi fedelissimi vassalli...
a questi bravi galantuomini: largo di grazia: gli faremo il processo: giustizia pronta: pane a buon mercato: abbondanza! abbondanza!»
Così passo, passo, la carrozza giunse dinanzi alla casa, su la porta, e si fermò.
Quivi era il punto difficile, il momento sommo dell'impresa: ma il nostro Ferrer era un valente in quel giorno, e doveva uscirne vincitore.
CAPITOLO VII
In un disegno qualunque o di pensiero o di azione (quando sia di quei disegni che hanno a riuscire) dopo superati alcuni ostacoli, dopo avute certe arre di buon successo, giunge un momento in cui le idee diventano più sicure e più vigorose, la cosa appare più fattibile, il già fatto conforta, e indica nello stesso tempo quello che resta a farsi, la probabilità di ottenere lo scopo ne rinnova il desiderio che la vista degli ostacoli aveva indebolito, e lo spirito acquista quasi una placida sveltezza, una risoluzione pronta che governa gli avvenimenti.
Il disegno di salvare un uomo debb'essere uno di quelli che danno in sommo grado all'animo di chi l'ha conceputo e lo sta eseguendo questa alacrità, questo vigore intenso, questa gioja crescente.
La morte e lo scampo, le angosce estreme, e un sollievo inaspettato, i tormenti, e il riposo, un cadavero sfigurato in cui nulla più appare che l'insulto fatto all'immagine di Dio, e l'aspetto d'un vivente che si ricompone alla speranza, alla vita, alla riconoscenza, debbono essere incessantemente presenti a quell'animo, fargli sentire vivamente che l'una delle due sta per avverarsi; intendere tutte le sue potenze a fare che il bene s'avveri, e sia cessato lo spaventoso irreparabile.
La porta, quando la carrozza vi si fermò, era in uno stato miserabile: i gangheri in parte scassati fuori del muro, le imposte scheggiate, ammaccate, forzate nel mezzo e scombaciate l'una dall'altra, lasciavano tra loro una fessura dalla quale si vedeva un pezzo di catenaccio torto e quasi divelto con gli anelli, che teneva ancora insieme quelle imposte, a un di presso come già Romolo Augustolo teneva insieme l'impero d'occidente.
Dinanzi a questa porta si tenzonava tuttavia tra quelli che volevano abbatterla ed entrare di forza, e gli altri che volevano ch'ella fosse aperta soltanto al gran cancelliere.
L'arrivo di questo, attestando in certo modo l'assenso della folla alla sua missione, e facendone vedere il compimento probabile e vicino, sconcertò i disegni violenti dei primi, i quali finalmente si rimasero.
«Giustizia! giustizia!» si gridava.
«Giustizia», rispondeva Ferrer, «in castello, in prigione».
Uno di quegli amici della quiete si avvicinò allo sportello, e disse al gran cancelliere: «Faccia presto, e con coraggio, ché siamo qui molti galantuomini a darle ajuto».
«Bravi», rispose Ferrer: «fate far largo, statemi intorno, e fate in modo che la porta s'apra tosto, e ch'io entri solo».
«Lasci fare», rispose quello, e intanto egli ed i suoi compagni rispinsero i furibondi, e occuparono tutto lo spazio fra la carrozza e la porta, si divisero quindi a rispingere e a contenere a destra e a sinistra la folla, e lasciarono così una picciola piazzetta tra la carrozza e la porta.
Uno di essi intanto s'era posto alla fessura, e procurava di fare intendere a quei di dentro che quegli che parlava era un amico, che era giunto un soccorso, il gran cancelliere, che si aprisse o si finisse di aprire la porta: che il Vicario stesse pronto per entrare in carrozza ed esser salvo.
Quei di dentro intesero, respirarono, e risposero che aprirebbero; e che si correva a cercare il padrone.
Un altro aperse lo sportello della carrozza, e il vecchio Ferrer, in gran toga discese.
Da una parte e dall'altra gli affollati stavano in punta di piedi per vederlo, mille facce, mille barbe s'alzavano per sopravanzare quegli che erano davanti.
Il momento di curiosità e di attenzione generale produsse un momento di generale silenzio.
Ferrer appoggiato a due benevoli pose piede sul predellino, e quivi fermatosi un momento, e dato uno sguardo a destra e a sinistra, come da una bigoncia, salutò la moltitudine, indi posta la destra al petto gridò: «Avrete pane quanto ne vorrete: lo prometto io: vengo a far giustizia, vengo a prenderlo prigione»: e a queste ultime parole, stese la destra in atto severo verso la porta di quella casa, come accennando che veniva a portarle un rigoroso giudizio, e pose piede in terra fra le acclamazioni che n'andavano alle stelle.
La porta fu tosto aperta, o per meglio dire quei di dentro fecero uscire a stento il catenaccio incurvato dagli anelli squassati, e allargarono la fessura, badando bene a ragguagliarla appuntino allo spazio che occupava il gran cancelliere.
«Presto presto», diceva egli, «signori, aprite bene, ch'io entri, e voi ritenete la gente per amor di Dio», diceva agli altri, «ch'io entri solo...
Così, così state», diceva ancora a quei di dentro, «non ispingete...
eh! raccomando le mie costole...
chiudete ora...
no, eh! eh! la toga, la toga».
La toga sarebbe rimasta acchiappata fra le imposte se Antonio Ferrer non ne avesse ritirato con molta disinvoltura lo strascico, che sparve come la coda di una biscia che si rintana, inseguita.
Le imposte furono ravvicinate, e appuntellate per di dentro, mentre di fuori la porta era difesa dai benevoli, i quali andavano però gridando: «presto presto».
«Presto presto», diceva pure Ferrer ai servitori: «dov'è quest'uomo benedetto? venga venga, son qui per salvarlo».
Il Vicario scendeva le scale mezzo guidato e mezzo tirato dai suoi, i quali gli persuadevano ch'era giunta la salute.
Quand'egli vide il gran cancelliere, mise un gran respiro, si sentì scorrere un po' di vita per le gambe, e affrettò il passo incontro al suo salvatore.
«Stia di buon animo ch'io vengo per salvarla», disse Ferrer.
«Son perduto, son perduto», rispose il Vicario: «come uscire di qui? la strada è piena di gente che mi vuol morto».
«Ho qui la mia carrozza: venga tosto, e confidi in Dio», disse Ferrer; e presolo per mano lo condusse verso la porta.
«Guardate un po', come stanno le cose là fuori», disse egli allora ad un servo: si tolsero i puntelli, si separarono un po' le imposte, e un servo, facendo capolino, disse a quelli che facevano guardia al di fuori: «Siamo a tempo?...» «Sì, sì, ma tosto, tosto», risposero quelli: il varco fu aggrandito, e Ferrer uscì col Vicario, dicendo: «Qui sta il busillis: Dio ci ajuti».
Quei della guardia, colle mani, colle cappe, coi cappelli, fecero come un velo, una rete, una nuvola, per togliere il Vicario alla vista della moltitudine: il Vicario entrò, Ferrer gli tenne dietro, lo sportello fu chiuso; la moltitudine seppe, indovinò quello che era accaduto, e sollevò un grido confuso di viva e d'imprecazioni.
In tutto questo frattempo una parte di quelli che volevano salvo il Vicario, s'era impiegata a preparare un po' di via alla carrozza facendo ritirare la moltitudine: il cocchiere stava pronto, e si mosse cautamente però, tosto che sentì chiudere lo sportello, e dirsi: «Andiamo».
Ferrer voleva raccomandare al Vicario di tenersi rincantucciato nel fondo della carrozza, ma vide che il suo consiglio era stato prevenuto: egli si affacciava ora a destra ora a sinistra, rispondendo alle mille grida, e di tempo in tempo passando colla faccia accanto all'orecchio del Vicario gli diceva qualche parolina che doveva essere intesa da lui solo.
«Sì sì, lo prometto, in castello, in prigione! un esempio, una giustizia esemplare.
Tutto questo per bene di Vossignoria.
No no, non iscapperà, è in mano mia, si farà un buon processo, un processo severo, e se è reo...
voglio dire...
sarà castigato rigorosamente.
Sì sì uno scellerato, un birbante; ma si farà giustizia.
Vossignoria perdoni.
Lo faremo saltar fuori il frumento, lasciate fare; a buon mercato, brava gente, fedelissimi vassalli.
Il re nostro signore non vuole che si patisca la fame.
Avete ragione.
La passerà male, se ha fallato, la passerà male.
Stia di buon animo; che siamo quasi fuori».
In fatti la carrozza era giunta in capo alla via, ad ogni passo la folla diveniva più rada, e la carrozza cominciava a scorrere liberamente.
Fra i più avanzati alcuni avevano presa la corsa e battevano la strada alla carrozza per vedere se la s'avviava al castello davvero; altri la seguivano lentamente, altri si rimanevano addietro.
Quivi il Ferrer vide quei soldati, che erano stati spettatori oziosi del tumulto, e stavano ancora lì ritti e ordinati, come per imporre alla moltitudine, per mantener l'ordine, ma in vero per non saper che farsi: Ferrer guardò all'ufiziale con un cenno del volto, che voleva dire: - bell'ajuto che m'avete prestato -: l'ufiziale fece un inchino, e si strinse nelle spalle: Ferrer, in un momento di vanagloria, mormorò fra sè: - oggi è proprio il caso di dire Cedant arma togae -.
Quando la carrozza ebbe preso il largo affatto, il Vicario, riavuto un po' il fiato, rese grazie umili, e sincere prima a Dio poi al vecchio Ferrer che lo aveva cavato d'un bel fondo.
«Eh! eh!» diceva Ferrer, al quale i pensieri della vanagloria erano stati interrotti dai pensieri d'una politica nella quale era incanutito.
«Eh! Che dirà il re nostro signore? Che dirà il Conte Duca?» - Il Conte Duca, - soggiunse tra sè a bassa voce - che non vuol romori, che s'adombra se una foglia fa un po' più strepito del solito.
«Ah! per me», disse il Vicario: «non voglio più saperne, me ne lavo le mani, rassegnerò il mio posto, e andrò a vivere in una grotta, sur una montagna, a far l'eremita, lontano, lontano da questa gente bestiale».
«Vossignoria farà quello che sarà più conveniente al servigio del re nostro signore», disse Ferrer.
«Ah! il re nostro signore non mi vorrà veder morto», rispose il Vicario: «lontano, lontano da costoro: in una grotta».
In pochi momenti la carrozza fu in castello, e il Vicario respirò davvero quando sentì alzarsi dietro di lui un ponte levatojo, e si trovò in luogo, dove non si vedevano che soldati.
Gli storici originali contemporanei non parlano più nulla di lui; ma noi valendoci del privilegio che hanno gli storici di seconda mano, di inventare qualche cosa di verisimile per rendere compiuta la storia, e supplire alle mancanze dei primi, affermiamo sicuramente, come se ne fossimo stati testimonj, che il Vicario uscito dal castello quando la sedizione fu affatto compressa, continuò ad essere Vicario pel tempo che gli rimaneva a compiere la sua carica, e da poi procurò di diventare tutto quello che potè.
Dobbiamo pur notare un'altra reticenza più importante e che dà luogo ad indovinare con minor timore d'ingannarsi.
Non si trova scritto che il processo del Vicario, che il Ferrer aveva promesso dugento volte in quel giorno, sia stato fatto; e si può scommettere che non sia stato fatto.
Su di che non possiamo lasciare di dire il nostro parere, perché avendo noi accompagnato il Ferrer coi nostri voti e coi nostri applausi in quella spedizione, non intendiamo per nulla di aver lodata una gherminella, un raggiro.
Ferrer fece molto bene a promettere che il Vicario sarebbe giudicato, perché quella era una promessa ragionevole, e che poteva impedire un delitto.
Ma fece molto male o Ferrer o chiunque si fosse quegli o queglino che non si curarono di fare o impedirono che si facesse una cosa la quale era stata promessa solennemente, e avrebbe pure dovuto esser fatta quand'anche non si fosse promessa.
Poiché, o il Vicario era reo, non dico delle pazzie che gli venivano apposte, ma di qualche cosa, ed era bene punirlo: o egli era del tutto innocente, ed era cosa ottima mettere in chiaro la sua innocenza, convincere la moltitudine della sua spaventosa credulità, e farle sentire, farle confessare che le era stato risparmiato una stolida atrocità.
Invece si mentì, le prevenzioni della moltitudine non furono tolte, le fu dato per sopra più il rancore d'essere stata ingannata, e col fare di questo mezzo di salute un inganno, si tolse, per altre occasioni simili, al mezzo la sua efficacia, la quale consisteva tutta nella fede data alle parole.
- Ma, sento dirmi, queste cose non vanno giudicate con questa misura: non sono come le parole che si danno tra privati: si trattava d'impedire un male, e ogni parola era buona: passato il pericolo, l'attenere quella parola era cosa difficile, pericolosa, strana; si avrebbe dovuto propalare molte cose che dovevano stare segrete, insomma tutto il sistema era un ostacolo.
- Tanto peggio per un sistema che mette i suoi autori, e i suoi agenti in impicci, dai quali non si possono cavare che dando una parola, che il sistema poi impedisce di mantenere.
Dovremmo noi dunque ammettere che i primi falli scusino, anzi santificano quelli che vengon dopo?
- Eh! con questi argomenti, non si farebbe nulla.
Il fondamento della vera sapienza pratica consiste nel prendere gli uomini come sono.
- Queste parole proferite così spesso, e sempre così a proposito, queste parole nelle quali i sapienti devono certamente intendere un senso, poiché le pronunziano con tanta sicurezza che passando tanto per le bocche degli uomini non hanno mai perduta la loro forza, e sciolgono tutte le questioni, troncano a maraviglia anche la presente, e ci dispensano dall'internarci in una digressione la quale sa il cielo quanto avrebbe durato.
Prendiamo dunque gli uomini come sono, raccontando quello che hanno fatto.
La folla che al moversi della carrozza, s'era tutta messa in movimento, per tenerle dietro, cominciò a sparpagliarsi, quando la carrozza, vincendo della mano, si allontanò e disparve.
Ad ogni crocicchio per cui si passava, ad ogni via che metteva capo sulla via per dove procedeva la folla, una parte di essa se ne scompagnava e ne usciva a destra o a sinistra: chi per andarsene a casa o ai fatti suoi per la più breve, chi per voglia di scialarsi un po' al largo, dopo tante ore di pressa.
Di quegli che rimanevano addietro, alcuni si stavano come trasognati, pensando alle imprese di quel giorno, non sapendo bene render conto a se stessi se dovessero essere soddisfatti o no, parendo loro che la cosa fosse imperfetta, che si fosse terminato senza conchiuder nulla di serio, e guardandosi intorno per vedere se la cosa voleva continuare in qualche modo.
Altri si riunivano in piccioli crocchj, e procedendo lentamente, e talvolta sostando, tenevano ragionamento sul fatto e sull'avvenire.
Si disputava del supplizio che sarebbe dato al Vicario di provvisione: chi gli pronosticava le forche, chi il taglio della testa, perché era cavaliere; i più moderati si contentavano del bando.
Si stabiliva il prezzo del pane, si facevano leggi ancor più severe contra gli accapparratori, e contra i fornaj, si benediceva Ferrer, e si maledicevano tutti gli altri magistrati.
In questi crocchj s'inframmettevano di quei pescatori nel torbido che avevano dilatata e tenuta viva la sommossa in quel giorno, e gettavano accortamente i germi per l'indomani, ora mostrando di fidarsi poco delle promesse fatte in un momento di terrore, e facendo intendere che le promesse non sarebbero attenute, se non fossero rimasti uniti quelli che le avevano fatte uscire con la forza; ora asserendo che nel tal luogo, alla tale ora dell'indomani vi sarebbe gran concorso, e preparando così un concorso al quale nessuno aveva pensato ancora.
Quelle tali facce, delle quali già al mattino ne aveva riconosciuta alcuna quel prudente le cui parole avevano dato da pensare a Fermo, andavano ora in ronda più che mai, origliando, sguaraguatando, intromettendosi ai discorsi per andare a riferire qualche cosa ai magistrati, i quali tra la battisoffia e la stizza stavano consultando, e aspettando di conoscere un po' meglio lo stato delle cose, di vedere le acque un po' abbassate per piantare un qualche argine.
Fermo, dopo avere finché potè, seguita la carrozza che aveva salvato il Vicario dal furore del popolo e lo conduceva legalmente in prigione, si fermò a riaversi un poco, a ricapitolare, a riconoscere i suoi pensieri, che erano tutti esultanti.
Quel disgusto che gli avevano recato le grida del sangue e i preparativi della carnificina, aveva dato luogo alla gioja di vedere la giustizia, e l'umanità vittoriose, il delitto punito senza delitti, e la dignità del magistrato, il potere legale unito col voto pubblico, e divenuto suo amico, e suo ministro.
Fermo vedeva aprirsi il secolo dell'oro, e durava fatica a rinvenire dallo stupore di una tanta mutazione, avvenuta negli affari del mondo, e nei suoi, come egli credeva.
Ieri sera fuggitivo a cercare un nascondiglio, perché? perché aveva ragione; senza forza, senza altro soccorso che di consigli, di consolazioni, e di buona volontà: oggi in mezzo ad una moltitudine di uomini che parlavano come lui, e parlavano alto, e soli, oggi egli aveva esercitato con gli altri la giustizia e la clemenza, aveva cooperato a far punire un colpevole potente, a salvarlo da una pena ingiusta e crudele, aveva gridato tutto il giorno, aveva detto sempre il suo parere, e se pure aveva trovato contraddizione, alla fine il suo voto aveva trionfato.
Pieno di entusiasmo pel passato, e di più grandi speranze, egli si mischiò ad uno di quei crocchj, e dopo essere stato uditore per qualche momento, si fece interlocutore, e poco stante divenne predicatore.
«Signori miei cari», diss'egli perché al forese sono signori tutti i cittadini che non domandano l'elemosina.
«Signori miei cari, sentano un poco anche me, che ho delle cose giuste da dire.
Ecco se non è vero che oggi si è veduta la prova che a saper fare si ottiene più giustizia in un giorno che in cento anni a star lì senza muoversi.
Come sarebbe andata se non ci fossimo trovati insieme tanti galantuomini? Si sarebbe tirato innanzi allo stesso modo fino a che fossimo tutti morti di fame.
Per lungo tempo fanno mostra di non intendere, e poi per darvi un osso in bocca mettono fuori una buona grida che dice di sì, e pochi giorni dopo viene un'altra grida che dice di no: e intanto passa il tempo, e i cenci vanno all'aria.
È una lega malandrina: e i galantuomini che si trovano fra quelli che menano la polta, anch'essi non ponno parlare; come quel bravo Ferrer, sia benedetto! che è tutto dalla nostra, eppure non poteva far niente; e oggi l'abbiamo veduto come era contento di poter dire la sua ragione, e di vedersi sostenuto; come parlava col cuore in mano, e che faccia ridente aveva per trovarsi in mezzo ai galantuomini.
Dunque ha potuto fare le cose giuste, e mettere in prigione un tiranno; ma eh! eh!...
ce n'è tanti altri; e la cosa è chiara, perché lo dicono anche le gride: che il mondo è pieno di tiranni che fanno il Decalogo al rovescio, che vogliono tutte le cose a modo loro, ed è un modo da cani, che vanno in volta coi loro bravi, il fiore della canaglia, con certi uomini che cominciano in questo mondo a farsi la faccia che avranno a casa del diavolo, e con questi fanno e disfanno, e tiranneggiano la povera gente, e se un povero figliuolo cerca di maritarsi onestamente, signor no, essi non vogliono perché...
perché...
birboni, birbononi! E se uno non vuol fare a modo loro lo fanno bastonare, e se dice - ahi! - i bastoni si cangiano in coltelli; e quando un povero figliuolo s'imbatte in colui che lo ha tiranneggiato, bisogna che gli faccia di cappello, e che metta la testa fino in terra, come se passasse dinanzi al suo Santo protettore.
Eppure le gride cantano chiaro, ed io lo so, che ne ho sentito leggere una da un avvocato,...
una buona lana, anch'egli, tutti d'accordo; perché anche i giudici, a che cosa credete che guardino i giudici? alla ragione? Eh! guardano ai calzoni, e se sono di seta quegli che li porta ha ragione, se sono di fustagno ha torto.
Dunque dico io, siccome le gride non servono a nulla bisogna finirla; e dirlo al Ferrer, ma dirglielo in piazza, e in molti, che faccia fare il processo a tutti costoro, e poi, perché ci vuol altro che una carrozza a condur prigione tutti costoro, bisognerà far venire oltre tutti quelli che maneggiano, e che sono come Ferrer, che hanno il timore di Dio e vogliono le cose giuste: e condurli alle case di questi tiranni, loro signori li conosceranno meglio di me, e farli metter tutti allo scuro, e far loro un buon processo, e giustizia sommaria, e poi far lo stesso anche fuori dalle porte di Milano, che vi so dir io che il bisogno è grande.
Dico bene, signori miei?»
«Dite bene, benissimo!» risposero molte voci: «parla come un libro»: disse uno.
«Eh! eh! che tabella hanno questi di fuora!» disse un altro.
«Poh! poh!» mormorava un altro, crollando le spalle, «non bisogna metter troppa carne a fuoco: ci siamo mossi pel pane; e se si mettono in campo altri piati, non avremo più nemmeno i pani».
La proposta divenne l'oggetto d'una discussione generale: il crocchio si suddivise in piccioli crocchj, dove altri narrava fatti di tiranni, altri proponeva i mezzi di porre ad esecuzione il disegno di Fermo, altri faceva obiezioni.
Intanto il sole era caduto, il barlume andava cedendo il luogo alle tenebre, e molti stanchi già di deliberare, e non raffigurando più la faccia dei loro interlocutori (cosa che scema molto il diletto del conversare) si spiccavano a uno a due a tre; e se ne andavano con la promessa di rivedersi.
Quei che s'erano aggruppati intorno a Fermo, ed erano i più affetti al suo disegno, si separarono quando uno ebbe detto; «Buona sera, io vado a casa»: «anch'io», disse un altro: «anch'io, anch'io: a rivederci domani: da buoni fratelli: non mancate: addio: addio: buona sera, buona sera».
Fermo, rimaso solo pensò ai casi suoi.
Quando si dice che l'amore, le speranze, i timori, lo sdegno, l'ambizione, ed altri divertimenti di simil genere, tolgono la fame, la sete, la stanchezza, si deve intendere che le tolgono temporariamente, che le sospendono, perché a torle realmente e in modo utile, sono necessarj ingredienti di tutt'altro genere, come per esempio, cibo, bevanda, riposo.
Fermo aveva passata vegliando la notte antecedente su un barroccio disagiato, la mattina su la via da Monza a Milano, e il resto di quel giorno a girare per le vie, o a dimenarsi per la calca; aveva mangiati in tutto il giorno due di quei pani che aveva trovati su le sue orme come la manna nel deserto, e di liquido non aveva gustato pure una goccia.
E siccome dopo esser stato qualche tempo, osservatore silenzioso, aveva poi schiamazzato la parte sua per qualche ora, così la sua gola era come d'aprile un campo che sia in grande necessità di pioggia, e invece vi abbia tirato un gran vento.
Quindi le immagini grandiose di assembramenti, di deliberazioni publiche, di carrozze, di prigioni, di Don Rodrigo in fuga, diedero luogo nella sua mente, e vi si presentò in vece una scranna, un fiasco, un po' di companatico, e un letto; e dietro alle immagini tosto il pensiero del come procacciarsi le cose.
In tutt'altra occasione Fermo balzato dai suoi monti nella città, di notte, senza conoscenti sarebbe stato impacciato assai, ma l'attività e i successi di quel giorno gli avevano data una gran fiducia nelle sue forze, e avevano fatto di lui un uomo assai più disinvolto dell'ordinario.
- Osterie in Milano ce n'è, - diss'egli fra se medesimo: - e con la lingua in bocca, e con quattro soldi in tasca non si perisce in nessun luogo.
Oh! e la lettera da dare al Padre Bonaventura? È tardi, a quest'ora il convento sarà chiuso, e sa il cielo quanto è distante, e avrei a domandare forse venti volte la via prima di giungervi: e poi...
quand'anche fosse giorno chiaro, che andrei a fare ora dal Padre Bonaventura? Se è tanto amico del Padre Cristoforo, sarà un santo anch'egli: buona gente nel confessionale, al letto d'un moribondo: ma delle cose di questo mondo...
so ben io, non s'intendono niente.
So già quello che mi direbbe: «figliuol mio, sono tempi cattivi, statevene fuori, non andate nella gente».
Poh! se tutti dovessero dar retta a chi dà di questi pareri, non si farebbe mai nulla a questo mondo.
Non sono poi un ragazzo.
Vediamo se saprò trovare un'osteria.
Così pensando Fermo andava innanzi lentamente guardando in su a destra e a sinistra per iscoprire qualche insegna, qualche frasca spenzolata che indicasse l'ospitalità venale di cui egli aveva bisogno.
Ma quando Fermo si era mosso, si era pur mosso su la sua traccia un uomo che aveva intesa la sua predica, e da poi gli era sempre stato a canto in modo da osservarlo senza esserne osservato: questi appena Fermo ebbe dati venti passi cogli occhi in aria, gli si accostò, si fermò a considerarlo un momento come se lo vedesse in quel punto per la prima volta, e gli disse: «Buon giovane, voi mi sembrate forese: avete bisogno di qualche cosa, posso servirvi?»
«Oh! che brav'uomo», rispose Fermo: «appunto ho bisogno di trovare un'osteria per bere un tratto, e per dormire questa notte».
«Ve ne insegnerò io una a proposito, e v'accompagnerò», disse lo sconosciuto.
«Vi sarò bene obbligato», replicò Fermo: «ma mi spiace del vostro...»
«Eh! burlate», disse l'altro: «si può fare meno? Una mano lava l'altra, è un proverbio che l'avrete anche nel vostro paese: quale è il vostro paese? non per cercare i fatti vostri, ma perché mi parete stanco, e dovete aver fatto viaggio assai».
«Sono infino, infino da Lecco», rispose Fermo.
«Per bacco! venite ben da lontano, povero giovane», disse la guida; «ma l'osteria è vicina, e potrete riposarvici a momenti.
Siete fortunato, non dico per farmi valere, ma siete fortunato d'essere incappato in un galantuomo che vi condurrà bene».
«Vi sono obbligato», rispose Fermo: «e vi fermerete a bere un tratto con me».
Il resto della via fu speso in rifiuti cerimoniosi dello sconosciuto, ai quali Fermo replicava con istanze sempre più forti; tanto che entrarono insieme in una picciola osteria, e attraversato un cortiletto, lo sconosciuto, come sperto del luogo, s'accostò ad una porta, e alzato il saliscendo aperse, e introdotto Fermo, entrò con lui nella cucina.
Due o tre lucerne appese ad altrettanti staggi appiccati ai correnti della soffitta, illuminavano la stanza, nella quale erano sparse cinque o sei tavole: su alcune si mangiava, si giocava su alcune altre, e si gridava dappertutto: e si vedevano correre danari, i quali se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente: - questa mattina noi eravamo nella ciotola d'un fornajo -.
Sotto la cappa del camino stava seduto l'oste il quale stava ad udire, non parlava che quando era chiamato, evitava tutti i discorsi delle cose del giorno, e se pure veniva stimolato a dire il suo parere, rispondeva per lo più: «non so niente; io faccio il mio mestiere».
Quando egli sentì muovere il saliscendo, guatò a chi entrava, riconobbe tosto la guida, e fissò gli occhi scrutatori in faccia del guidato.
«Vi conduco un bravo avventore», disse la guida, «trattatelo bene».
«È mio impegno», disse l'oste: «che cosa comandano questi signori?»
Fatta questa solita interrogazione, egli esaminò ben bene il volto e la persona di Fermo, dicendo fra sè: - tu vieni con un cacciatore: o cane o lepre sarai; ma non sono l'oste della luna piena, se non ti conosco alla prima parola che dirai -.
«Avete del vino sincero, sano, fatto in coscienza?» disse Fermo.
«Quanto a questo», rispose l'oste: «potete star sicuro: non ne ho mai tenuto altro: ne ho del più e del meno caro; ma per la sincerità, tutto il mio vino è lo stesso: se venisse un ragazzo lo tratterei come tratto voi».
Così disse l'oste; e aggiunse fra sè: - ho inteso: tu sei lepre; va che sei caduto in buone mani -.
«Dunque portate del buono», disse Fermo: l'oste partì, e un momento dopo tornò con un boccale.
«Che vogliono da mangiare questi signori?» diss'egli, riponendo il boccale sur una tavola.
«Che cosa avete?»
«Per esempio un buon pezzo di stufato?»
«Portate lo stufato», disse Fermo.
«Ma!» disse l'oste già in atto di partire, e sostando, «pane non ne ho in questa giornata».
«Eh! al pane ha pensato la Provvidenza», disse Fermo; e in aria di trionfo si cavò di tasca il terzo ed ultimo di quei pani raccolti sotto la croce di San Dionigi.
«Va bene», disse l'oste, e partì.
Fermo allora, preso per un braccio lo sconosciuto guidatore, gli fece forza perché sedesse, e bevesse con lui.
Poco stante l'oste portò da mangiare; e Fermo astrinse il guidatore a fargli compagnia, e si pose a mangiare con un appetito, che si fece sentire molto grande quando la prima sete fu ammorzata.
A tutte quelle tavole si gridava: quindi la conversazione era divenuta come generale: perché molti discorsi, facendosi sentire dall'una tavola all'altra, provocavano risposte, le quali facevano poi nascere dei dialoghi continuati.
Come poi il soggetto di tutti quei colloquj separati era un solo, le vicende di quel giorno, così in poco tempo anche il colloquio divenne comune a tutti quelli che ivi si trovavano riuniti a caso.
Fermo parlò assai, perché come abbiam detto era giunto quivi con una gran sete, e il vino non mancava.
Lo sconosciuto aveva già intese dalla bocca di Fermo, e registrate attentamente nella memoria molte cose che erano per lui tesori; ma gli mancava una notizia importante, e pensò a procacciarsela.
Disse dunque a Fermo: «converrà che voi avvisiate l'oste che avete intenzione di dormir qui affinch'egli vi prepari la stanza».
«È vero», rispose Fermo, e chiamato l'oste: «avete», disse, «una buona stanza, un buon letto da darmi? da povero figliuolo, ma una cosa pulita».
«Starete da principe», disse l'oste, e fattosi ad un armadietto che era appeso ad una parete ne tolse un pezzetto di carta, un picciolo calamajo, e una penna, quindi accostatosi a Fermo: «in grazia», disse, «il vostro nome?»
«Il mio nome?» rispose Fermo, a cui il vino sincero dell'oste aveva portate tutte le passioni ad un grado lirico.
«Che cosa volete fare del mio nome? Avete paura ch'io non vi paghi? Se fossi un tiranno con dieci bravi al mio servizio potreste dubitare, ma sono un povero figliuolo, e non son uomo da dare un canto in pagamento a nessuno».
«Boh! non dico per questo», rispose l'oste: «ma v'è una grida molto severa che «ordina ed espressamente comanda» sono parole della grida, e la so a memoria: «comanda» dice «a tutti gli osti e tavernaj, camere locande etc.
che ogni notte,» dice «giorno per giorno, dia notizia e relazione di tutte le persone che alloggeranno etc.
specificando» dice «il giorno dell'arrivo di ciascuno, nome e cognome, e di che nazione sarà, a che negozio viene,» dice...
«Questa è bella», interruppe Fermo: «ecco se non è per sapere i negozj degli altri.
Vengo per un negozio briccone, senza mia volontà, vengo per un negozio che a raccontarlo ci vorrebbe una sera; ma colui che mi ha fatto venire, si è tessuto il capestro, e presto presto desidererà di non essersi mai impacciato nei fatti miei».
«Onde, non per mia curiosità, ma per cagione della grida», continuava l'oste; ma Fermo l'interruppe ancora dicendo:
«Questa è una grida che non conta, perché non è mica buona, è fatta contra la povera gente, per sapere i fatti dei galantuomini, ed è una di quelle che s'hanno a disfare: dunque non ne parliamo più, e vi assolvo io.
Riempitemi invece un'altra volta questo boccale, che il vino lo trovo a mio genio, e lo riconosco per galantuomo senza domandargli il nome».
«Ma io sono obbligato...» ricominciò l'oste, dando allo sconosciuto un'occhiata che voleva dire: - siatemi testimonio ch'io faccio il mio dovere.
«Via, via», gridarono in un punto molte voci: «quel giovane ha ragione: sono tutti balzelli, angherie, legge nuova, legge nuova oggi!»
L'oste si strinse nelle spalle, e guardò ancora allo sconosciuto, il quale disse pure: «via non vedete che è un galantuomo? andate a preparargli la stanza».
«Bravo compagno! bravi amici!» sclamò Fermo, «adesso vedo proprio che i galantuomini si danno la mano e si sostengono».
Partito l'oste, si parlò della grida e delle gride, e poi ancora del pane e dei tiranni.
Lo sconosciuto che fino allora non aveva presa gran parte alla conversazione, uscì in campo anch'egli con le sue riflessioni, e con le sue proposte.
«Per me», diss'egli, «se dovessi comandare io, troverei tosto il mezzo di fare stare gli ammassatori, e i fornaj, e di far trovare pane per tutti.
Ecco come vorrei fare.
Vorrei che si pensasse alla povera gente che non ha frumento e che deve provvedere pane di giorno in giorno, e che non ne avessero a mancar mai, che ognuno avesse la sua razione fissata.
Vi dovrebbero essere dei galantuomini, dei signori, ma buoni, e caritatevoli, che tenessero conto di tutti, e stabilissero ad ognuno la sua porzione secondo il bisogno, e a prezzo fisso.
Per esempio io andrei a farmi notare», e così parlando, preso un coltello rivolse la punta verso la tavola e la dimenava, come se scrivesse: «e si dovrebbe scrivere: - Ambrogio Fusotto: - di che professione? - Spadaio.
- Maritato? - signor sì: - quanti figli? - quattro.
- Tante libbre di pane al giorno, e darmi un buon viglietto, col quale io andrei tutti i giorni a prendere il mio pane da un fornajo, a prezzo fisso.
Ma bisognerebbe fare le cose giuste, senza parzialità, e in proporzione della famiglia.
A voi per esempio dovrebbero scrivere: tanto pane tutti i giorni per...
il vostro nome?»
«Fermo Spolino».
«Bravo: la professione?»
«Lavoratore di seta».
«Benissimo; ma avete moglie?»
«Non l'ho», disse Fermo, «ma se Dio vuole...»
«Dunque», disse lo sconosciuto, «abbiate pazienza; ma voi dovete avere una porzione più picciola».
«È giusto», rispose Fermo, «ma poi quando io pigliassi moglie, che sarà presto, come spero...»
«Razione doppia», disse lo sconosciuto.
«Così va bene», rispose Fermo.
Lo sconosciuto aggiunse ancora poche parole, poi si avvisò tutto ad un tratto che la moglie e i quattro figli sarebbero stati in pensiero pel suo ritardo, e si levò per partire: tre volte era egli sorto in piedi, e tre volte Fermo presolo per le falde del mantello l'aveva fatto ripiombare sulla panca: ma alla quarta egli alzandosi saltò al di sopra della panca, e se ne andò tra le istanze, e i ringraziamenti, e i saluti, invero un po' affoltati del nostro povero Fermo.
Questi, rimasto solo alla sua tavola, (ci duole raccontarlo, ma la cosa fu così) vuotò solo in varie riprese il fiasco che aveva fatto riempire di nuovo per due bevitori, lo vuotò, alternando i sorsi con le parole, e ponendoselo a bocca ogni volta che l'idea la quale s'era presentata splendida e risoluta alla sua mente si oscurava e fuggiva tutto ad un tratto, o la frase per vestirla non voleva lasciarsi trovare; a quel modo che uno scrittore, nelle stesse angustie, ricorre alla scatola, piglia una presa in furia, la porta al naso, chiude la scatola, la riapre, e ricomincia lo stesso giuoco.
Pure, siccome allo scrittore infervorato nelle sue idee, vengono talvolta nel maggior calore della composizione certi lucidi intervalli, nei quali una voce interna dice ad un tratto: - e se fossero minchionerie? - così anche il nostro poveretto, in mezzo a quella baldanza di pensieri, in quella crescente esuberanza di forze, sentiva di tempo in tempo che a quelle forze mancava un certo fondamento, e che appunto nel momento della più grande intenzione parevano pronte a cadere.
Quel po' di senno che gli era rimasto lo faceva accorgere che il più se n'era ito; a un dipresso come l'ultimo lumicino rimasto acceso dopo una grande illuminazione fa intravedere gli altri spenti.
Sentiva Fermo un bisogno di trovarsi coricato, e di dormire, e qualche cosa nello stesso tempo lo avvertiva che gli sforzi necessarj per arrivare a quel punto di riposo divenivano più difficili di momento in momento.
Fece dunque una risoluzione in uno di questi lucidi intervalli: appoggiò ambe le mani spalancate sulla tavola, si sollevò alquanto, diede un sospiro, tentennò alquanto, e finalmente fu in piedi.
«Presto, presto oste», diss'egli: «conducetemi alla mia stanza, perché...
io sono un buon figliuolo...
e mi piace far le cose con giudizio...
e gli stravizzj:...
quando il sole è andato a letto...
tutti i galantuomini...
mi diceva mio padre...»
L'oste che desiderava questa risoluzione di Fermo, non si fece aspettare: staccò una di quelle lucerne, e tenendola alzata con la sinistra, e preso con la destra il braccio di Fermo: «andiamo», disse, e si avviò reggendo e traendosi dietro il suo ospite.
Fermo, però s'arrestava di tratto in tratto, e, gettandosi verso la brigata, col braccio che gli rimaneva libero andava iscrivendo nell'aria certi saluti, a guisa d'un nodo di Salomone, ai quali le braccia e le voci della brigata rispondevano in modo poco dissimile.
Ma l'oste scotendolo, lo tirava verso una porticina, tanto che potè entrarvi e mettersi su una scaletta angusta di legno, per la quale dando a Fermo un avviso ad ogni scalino, lo tirò nella stanza.
Quivi Fermo si guardò intorno, e disse: «bene! bravo! galantuomo! son contento».
Poscia forzandosi di fissare in faccia all'oste due occhietti che luccicavano e si oscuravano a vicenda come lucciole, appoggiandosi sul destro piede per chinarsi verso l'oste, e ricadendo poi indietro sul sinistro, stendendo verso la faccia dell'oste la mano coll'indice e col medio tesi piegati al mezzo, e aperti, per farle quella carezza di protezione amorevole che in milanese si chiama una mezz'oncia, senza però poter mai giungere ad afferrare quella guancia liscia e rubiconda dell'oste, disse con una cera tra amichevole e corrucciata:
«Ah! oste, oste! furbaccio! tu mi hai voluto fare un tiro da nimico...
ma, la ti è venuta busa, perché...
perché io sono un mariuolo...
e tu però non hai trattato bene, perché...
tu dovresti tener la parte dei buoni figliuoli...
e non di quelli che fanno le gride, perché...
quelli che fanno le gride, non vengono a bere il tuo vino...
povero minchione che tu sei...
e non ti danno un becco d'un quattrino perché...
sono superbi, e avrebbero paura di sporcarsi la tonaca e...
non sono gente di buona compagnia...
che basta veder il Ferrer, che è il meglio di tutti e pare...
un dottore di medicina ammalato...
dunque chi ti fa andare la bottega...
chi è, chi non è...
sono i buoni figliuoli».
L'oste, il quale non avrebbe creduto che Fermo fosse ancora in caso di mettere insieme tante parole con un senso tal quale, pensò di approfittare di quel momento lucido per fargli intendere la ragione, e schifare un impaccio a tutti e due, e gli disse:
«Sì, sì, io son tutto pei buoni figliuoli; ma vedete bene...
quelli che comandano, vogliono essere obbediti; mi capite...
abbiate giudizio, facciamo le cose qui fra noi da buoni amici; ditemi tosto il vostro nome, la patria, la professione, il negozio per cui siete venuto: in un momento è finita, e poi andate a letto e buona notte».
«Ah! cane!» disse Fermo levando la voce; «tu mi torni in campo col negozio...
adesso capisco tu sei della lega...
aspetta, aspetta...»
Così gridando Fermo, si avviava barcollante verso la scala ma l'oste lo rattenne: e vedendo che s'egli insisteva Fermo avrebbe gridato sempre più e sarebbe stato inteso dalla brigata, la quale certamente avrebbe prese le parti di quello, ricordandosi che in quel giorno il potere era nelle mani di quelli che erano soliti obbedire, e non si poteva prevedere quando sarebbe loro ritolto, pensando che quand'anche al ritorno della tranquillità un ordine revochi e dichiari nulli tutti gli atti della rivolta, le busse toccate una volta sono irrevocabili, stimò che la faccenda più pressante era di acquetar Fermo; e con voce più sonora di quella di Fermo gli gridò: «ho detto per ridere: non lo avete capito, che ho detto per ridere?»
«Ah! ora tu parli bene, da buon figliuolo», rispose Fermo, acquetandosi tosto: «per ridere;...
sono proprio cose da ridere...
dunque le gride».
«Dunque, andate a dormire», disse l'oste, «che troverete un letto da galantuomo.
Via spogliatevi, presto, da bravo».
E mentre andava così facendo animo a Fermo con la voce, il malandrino diceva fra sè: - pezzo di minchione! se vuoi affogare, affoga, per me son certo di cavarmene, ma tu, resterai solo nell'impaccio -.
Fermo intanto si andava spogliando, e interrompeva questa operazione con mille ciancie, e con mille atti strani, che l'oste sofferiva pazientemente per una buona ragione.
Quando Fermo s'ebbe tratto il farsetto, l'oste lo prese, pose le mani su le tasche per vedere se v'era la postema, e fatto certo del sì, volle tentare di avere il suo conto prima di abbandonar Fermo quella sera, prevedendo che l'indomani probabilmente Fermo avrebbe avuti altri affari, e la postema sarebbe stata in deposito presso a gente che non si sarebbe data premura di pagar l'oste.
Disse dunque, tenendo il farsetto: «Voi siete un buon figliuolo, n'è vero? volete le cose giuste?»
«Buon figliuolo...» rispose Fermo.
«Dunque», replicò l'oste, «saldate ora il vostro conterello, perché domattina, io debbo correre qua e là per mie faccende».
«Oh! questo sì», disse Fermo, «questo è giusto: son mariuolo, ma galantuomo».
L'oste si diede fretta di domandare quello che gli veniva, ajutò Fermo a cavare i danari dalla tasca, a noverarli, tolse il suo pagamento, e dato delle mani a Fermo per ajutarlo a salire sul letto, gli disse, «buona notte».
Fermo si lasciò cadere sul letto, mormorò fra i denti: «buoni figliuoli», e cominciò a russare.
L'oste, stirata la coltre di sotto il corpo di Fermo, gliela accomodò indosso alla meglio; quindi, ripresa la lucerna con la sinistra, gliela sollevò sul capo, e stesa la destra contra il lucignolo perché la luce cadesse sul dormente, si fermò a contemplarlo un momento, nell'atto che vediamo dipinta Psiche quando sorge a spiare furtivamente le forme del consorte sconosciuto: e disse: «Matto minchione! tu l'hai voluto: sei andato proprio a cercarla col lanternino; tal sia di te».
Dette queste parole come per isfogo, e per una apologia anticipata, si mosse, abbassò la sua lucerna, e la pose dinanzi a sè, uscì, volse la chiave nella toppa, e chiuse così Fermo nella stanza, e s'avviò per la scala verso la cucina.
Ma nel fare tutte queste operazioni, e nello scendere, continuava tra sè la allocuzione che aveva cominciata dinanzi a Fermo, favellando con l'assente come aveva fatto coll'addormentato.
- In un giorno come questo - proseguiva egli - colla mia prudenza, io era venuto a capo di salvare la capra e i cavoli, di passarmela liscia; e il diavolo doveva mò proprio portarti alla mia osteria per guastarmi il mestiere.
Se tu fossi venuto solo, avrei potuto lasciarti addormentare su la tua panca, e quando tutti fossero partiti, portarti fuora, e collocarti in un canto della strada al fresco, e domattina poi ti saresti svegliato un po' ingranchito, ma fuor d'impicci tu ed io.
Ma tu invece, pezzo d'asino, hai pensato anche a condur teco un testimonio.
A questo punto della sua arringa mentale, l'oste si trovò in cucina, girò un'occhiata per vedere se tutto era in regola, fece un cenno con l'occhio all'ostessa che nella sua assenza presiedeva con la prudenza e con l'imparzialità del mestiere la brigata procellosa; e quindi staccò il mantello da un cappellinajo, e se lo pose indosso, continuando tuttavia:
- E che testimonio! Pare che tu avessi paura di passartela senza impicci; volevi proprio far le cose a dovere per tirarti una tegola sul capo.
- Qui staccò pure il cappello, e lo pose in capo.
- Va che sarai servito: tua colpa: tangheri, che volete girare il mondo, senza saper da che parte nasca il sole.
Qui tolse da un canto un buon randello, s'avviò alla porta, e uscì nella via, sempre continuando la sua orazione.
- Io ho fatto quello che ho potuto per salvarti, e tu bestia, in ricompensa, per poco non mi hai messa a romore l'osteria.
Ora cavatene come potrai: per me, chi che sieno per essere i pazzi che comanderanno domani, io sono a cavallo: faccio la mia deposizione, e sono in regola: quelli che hanno comandato così, sono soddisfatti; e quelli a cui non piace non ne sapranno niente.
Le vie brulicavano ancora di gente, che andava e veniva in troppa; come le onde del mare quando il più sperto pilota non saprebbe affermare, se la burrasca sia sul finire, o sul ricominciare: ma l'oste cercando il largo fra gli scogli, camminando a sghembo tra una brigata e l'altra, ponendo cura di non urtare nessuno, e dissimulando gli urti che riceveva, se ne andava al suo cammino, continuando intanto fra sè.
- E tu prega il cielo che domani tiri l'aria d'oggi, se no, stai fresco.
Hai voluto affogare, affoga; ma afferrar me per una gamba, per trarmi sott'acqua con te...
ah! non era azione da galantuomo.
Tu mi volevi esporre, se nol sai, a trecento scudi di pena, o a cinque anni di galera, o a maggior pena pecuniaria o corporale, ad arbitrio di Sua Eccellenza.
Obbligatissimo alle sue grazie.
CAPITOLO VIII
A queste parole giunse egli alla soglia del palazzo del Capitano di Giustizia.
Entrò, salì, fu introdotto e fece ad un ufiziale, la sua relazione, come era capitato all'osteria uno che non aveva voluto dare il suo nome, e come egli oste dopo d'averlo ammonito di obbedire alle gride, dovette tacere per non far nascere uno scandalo.
«Lo sapevamo», rispose l'ufiziale, con aria di importanza e di mistero: «ma voi avete ben fatto di compiere il vostro dovere.
Ora badate a non lasciarlo partire costui».
«Col dovuto rispetto a Vossignoria», rispose l'oste, il quale con tutta la sua prudenza, non aveva potuto a meno di non prendere un po' di quegli spiriti arditi di che era piena l'aria in quel giorno, «col dovuto rispetto, io faccio l'oste e non il birro: ho fatto il mio dovere: a lor signori tocca ora».
«Va bene, va bene», rispose l'ufiziale, il quale con tutta la sua arroganza non aveva potuto a meno di non tremare un po' in tutta quella giornata, e non sapeva ancora bene a che punto le cose si fossero.
L'oste ne andò pei fatti suoi.
La prima informazione, come il lettore se n'è addato certamente, era venuta da quella falsa guida, la quale, per darne piena contezza, non era niente meno che un bargello travestito, in traccia d'uno che gli desse una occasione di farsi onore e merito, eseguendo gli ordini assai difficili che gli erano imposti: e quest'uno fu il nostro povero Fermo.
Nel momento in cui la sommossa era al maggior grado di fermento e l'assedio posto alla Casa del Vicario, molti magistrati, scapolando furtivamente per vicoli, e per vie deserte s'erano riuniti nelle sale del consiglio segreto, e quivi avevano consultato non senza tremore sulla urgenza del caso.
I pareri erano varj, proposti con esitanza, e abbandonati facilmente, e non si conchiudeva, ma quando sul declinar del giorno venne la relazione, che il Vicario era in salvo, che la folla cominciava a dissiparsi, un vecchio machiavellista del consiglio segreto: «ah!» disse, «signori miei: ora il partito è chiaro: centomila pani, e quattro capestri».
Tutto quello che fu detto da poi non fu che un commento a queste parole, e deliberazione sul modo di condurle ad effetto.
Si ordinò che fossero mandate guardie ai forni rimasti intatti fin allora, per assicurarli, e per obbligare i fornaj a far pane in abbondanza per l'indomani.
Furono destinate persone autorevoli, e accette al popolo, le quali di buon mattino assistessero ai forni in uno colle guardie, e aggiungendo la persuasione alla forza, cercassero di regolare la distribuzione del pane, e mantenessero la tranquillità: il prezzo del pane fu riabbassato a quella prima tassa immaginata dal Ferrer.
Si mandarono soldati a sgombrare la via dov'era la casa del Vicario, dai pochi che v'erano rimasti: e la via fu quindi sbarrata, e i soldati vi si posero a stazione, per togliere alla sedizione il campo dov'ella aveva già ottenuta una vittoria, e dove probabilmente ella si sarebbe presentata di nuovo per ricominciare la battaglia.
Finalmente furono spediti attorno tutti i membri di quella che il popolo chiamava onorata famiglia con l'ordine di metter le mani su qualcheduno dei capi, o dei più turbolenti, ma però in modo che il colpo fosse sicuro, e non potesse dare occasione ad un nuovo ribollimento.
L'ordine era più facile da darsi che da eseguirsi: e per non parlare che di ciò che si lega alla nostra storia, quel falso Ambrogio aveva girato lungo tempo qua e là, su e giù, sempre in mezzo alle occasioni, senza poterne cogliere una, vedendo i rei a centinaja, senza poterne fare un prigione, e si rodeva come un cacciatore che viaggiando vegga levarsi a destra e a sinistra, dalle macchie, tordi, starne, e pernici, e non abbia lo schioppo con sè; quando gli capitò nelle ugne il povero Fermo, e vi rimase, come abbiamo veduto.
Il bargello malandrino andò tosto a riferire, come aveva colto in flagranti uno che predicava, come l'aveva condotto all'osteria, come quegli aveva negato obbedienza alla grida, ricusando di dare il nome, come poi egli uomo benemerito glielo aveva cavato di bocca, e come finalmente la bestia era nel covo, e non si trattava che di andarla a prendere.
Il Capitano di giustizia, avrebbe voluto che fosse presa subito subito senza tardare: - ma -, pensava egli, mettendo di tratto in tratto la mano sulla sua bernoccola: - bisogna prima assicurarsi che tutte le cose sieno quiete.
- All'aurora tutto era disposto in modo che non si credeva più che la forza potesse trovare ostacoli, e allora fu spedito il bargello con un notajo e due birri all'osteria della luna piena.
Saliti alla stanza di Fermo, che dormiva, il bargello lo riconobbe, disse al notajo: «è l'uomo», e partì.
Fermo russava già da sette ore, e non avrebbe finito così presto, se una mano che gli scoteva la spalla, e una voce che gridava: «Fermo Spolino», non lo avesse fatto risentire.
Aperse gli occhj a stento, e guatò: era giorno fatto e la luce che entrava per le impannate fece vedere a Fermo un uomo ravvolto in una cappa nera stargli al capezzale da un lato, e due in farsetto armati, l'uno dall'altro lato del capezzale, e l'altro a piedi del letto.
Mentre Fermo andava raccapezzando le sue idee, e cercando di ricordarsi delle circostanze che gli pareva di dover sapere, per potere comprendere quelle che gli erano affatto nuove e strane, s'udì dire dall'uomo della cappa nera: «alto, su, Fermo Spolino, alzatevi e venite con noi».
«Che vuol dir questo?» disse Fermo quando potè aver la favella, e nello stesso tempo dubitando che fosse un sogno, scuoteva la testa e dimenava tutte le membra per destarsi affatto.
«Ah! avete inteso una volta, Fermo Spolino?», disse l'uomo dalla cappa nera, «alzatevi, e venite con noi, che non abbiam tempo da perdere».
«Fermo Spolino!» disse Fermo Spolino.
«Chi v'ha detto il mio nome?» - Che sia uno stregone costui vestito di nero? - mormorò tra sè; «Ehi! l'oste, l'oste!» gridò quindi a quanto fiato aveva in corpo.
«Meno ciarle, e su!» disse uno di quei birri.
«Che prepotenza è questa?» disse Fermo, «ah! adesso mi ricordo...
badate bene a quello che fate: non è più come una volta...»
«Badate voi, a far presto», disse il notajo, «se non volete esser portato via in camicia».
«E perché mò?» disse Fermo.
«Il perché lo direte al Signor Capitano di giustizia».
«Io sono un buon figliuolo, non ho fatto niente...»
«Tanto meglio per voi; così dopo due parole vi lasceranno andare pei fatti vostri».
«Mi lascino andare adesso, subito», disse Fermo, «io non ho nulla che fare con la giustizia».
«Lo portiamo via?» disse uno di quei birri al notajo.
«Fermo Spolino!...» disse il notajo con aria di consiglio minaccioso.
«Come sa Lei il mio nome?» disse Fermo.
«Se non fate presto...»
«Voglio sapere perché vengono a fare questa sorpresa a un galantuomo.
Che cosa ho fatto? parlino: io son uomo che intende la ragione, e darò conto di tutto».
Ma i birri fattisi bruscamente vicini a Fermo stavano per porgli le mani addosso, quando egli gridò: «non toccate la carne d'un galantuomo, che...»
«Dunque alzatevi subito», disse il notajo.
«Ebbene mi alzerò», disse Fermo; «ma io non voglio andare dal Capitano di giustizia.
Io non ho che fare con lui.
Voglio esser condotto da Ferrer; quello lo conosco, e saprò fare intendere le mie ragioni».
«Presto, vestitevi, venite con noi, e direte tutta la vostra ragione a vostro bell'agio».
Fermo, vedendo che la resistenza era inutile, tolse sul letto i suoi panni, e cominciò a vestirsi, cercando intanto di scoprire la cagione di un avvenimento così nojoso e così inaspettato: ma la sua mente ravvolgendosi per cercarla fra le memorie della sera antecedente, si confondeva, come un padre che s'aggiri in una folta mascherata, per riconoscere un suo ragazzaccio.
Poco a poco però cominciò egli a ricordarsi della grida, del nome, e del negozio, delle istanze dell'oste, e dei suoi rifiuti; ma come diavolo, l'uomo nero sapeva egli appuntino quel nome e cognome che Fermo non aveva mai voluto pronunziare? E poi, come erano cangiate le cose a segno, che colui il quale doveva in quella giornata fare il legislatore, la cominciasse coi birri al fianco per andare in prigione? - Qualche mistero ci dev'essere, - disse Fermo tra sè: - e intanto se potessi con un po' di buona grazia uscire dalle mani di costoro, sarebbe meglio.
- Con questa intenzione volgendosi al notajo con un volto tra il gioviale e il furbo, gli disse:
«Se non si trattasse che di dire il mio nome...
jeri sera, veramente io era un po' brillo, e abbiamo parlato per metà, il vino, ed io..
ma ora non ci avrei difficoltà; ed ella dovrebbe esser contenta, così rimarremmo in libertà tutti e due».
«Bravo, bravo figliuolo», disse il notajo, «voi pensate con giudizio: se farete le cose con garbo ne uscirete presto e bene; ma lo direte a chi ha l'autorità di farvi rilasciar subito: è una formalità da nulla; ma io non posso far niente».
«Ham!» disse, o piuttosto fece Fermo scotendo la testa, e ricominciò a pensare - Diamine! Che cosa fanno tutti quei buoni fratelli di jeri? mi lasciano in ballo a questo modo! - Fra questi pensieri stava egli di tempo in tempo con le mani alzate tra un bottone e l'altro, interrompendo l'azione del vestirsi.
Ma il notajo s'era tirato verso la finestra, e aprendo le impannate (ché i vetri in quel tempo erano riserbati soltanto alle case signorili, anzi alla parte più signorile di esse) guardò nella via non senza inquietudine, e vide che le cose non erano già più come le aveva trovate nel venire: i popolani sbucavano come vespe dalle case, e si riunivano a sciami: il ronzio sordo cresceva, e, quello che al notajo parve un segno mortale, le ronde che giravano per impedire l'attruppamento, cominciavano a procedere con molta buona creanza.
Chiuse l'impannata in furia, lanciò dal suo cuore, poiché ne aveva uno anch'egli, una imprecazione contra il Capitano di giustizia che lo aveva messo in quell'intrigo, un'altra contra Fermo che in un momento così urgente per lui notajo, pareva che volesse perdere il tempo a bella posta, indi fece un cenno ai birri, che sbrigassero la faccenda.
I birri rinnovarono più forti le minacce a Fermo, questi, accortosi della inquietudine dei nemici, concepì buona speranza, conchiuse che, se l'interesse di quelli era che si facesse presto, il suo doveva essere di tirare in lungo, e procurò di perder tempo, senza dare a coloro un pretesto di venire all'estremo.
Ma finalmente si trovò vestito: e allora ponendo le mani nelle tasche del suo farsetto: «oh!» disse, «io aveva una lettera: voi me l'avete rubata».
«La lettera è qui», disse il notajo traendola di seno in fretta, e senza pensare in quel momento a ribattere l'irriverenza del rimprovero: «è ella questa?» soggiunse mostrandola.
«Questa appunto», rispose Fermo, stendendo la mano per prenderla.
«Piano, piano», disse il notajo; «ho piacere che l'abbiate riconosciuta, ma non ve la posso dare: vi sarà restituita a momenti da chi si deve, purché abbiate giudizio: andiamo, andiamo».
«Voglio la mia lettera», disse Fermo: «che bricconeria è questa? a forza di trattare coi ladri, avete imparato il mestiere».
I birri volevano gettarsi addosso a Fermo; ma il notajo, sporgendo in fuori il mento e la mandibola inferiore, allargando le narici, sbarrando gli occhi, e scotendo il capo in fretta, fece loro intendere di non muoversi.
L'uomo era in angoscia: pensava che non v'era da perder tempo, che il pericolo cresceva, che il tragitto sarebbe stato rischioso, e che il miglior modo di farlo sicuramente era di condurre Fermo con la persuasione.
Gli diede quindi la lettera, dicendo: «ecco ch'io mi fido di voi; ma abbiate giudizio, venite con buona maniera che sarà meglio per voi; quando sarete riconosciuto per un galantuomo, sarete messo tosto in libertà: è un affare di mezz'ora.
Andiamo, da bravo».
Così detto aprì la porta, e precedette il corteggio.
Fermo non avendo più nessun pretesto d'indugio, gli tenne dietro, e i birri fecero la retroguardia.
Scesa la scaletta, il notajo fece un cenno ai birri, e disse a Fermo: «abbiate pazienza, fanno il loro dovere»; e mentre gli proferiva questa bella parola, i birri afferrarono, l'uno la destra l'altro la sinistra di Fermo, e le allacciarono con certi strumenti, che (per quell'uso comune d'ingentilire le cose col nome) si chiamavano manichini, ed erano congegnati in modo che colui che gli aveva intorno ai polsi era fortemente tenuto senza che apparisse alcun segno di violenza; e il tenuto e il tenente potevano parere due amici che passeggiassero stretti per la mano.
«Che tradimento è questo?» sclamò Fermo, «a un galantuomo par mio!...» Ma i due amici stringendo i manichini gli fecero sentire che con essi si poteva non solo tenere un rassegnato, ma ancora martoriare un ricalcitrante; e nello stesso tempo il notajo, raccomandando ai birri di non far male a quel povero giovane, cercava di persuaderlo con buone parole.
Fermo vide che fin tanto che egli si trovava solo con quei tre, era follia il competere, fece la gatta morta, e disse: «andiamo».
- Andiamo - soggiunse fra sè, - e vedremo se quei fratelli di jeri son tutti morti.
«Andiamo», disse il notajo, con un volto tutto grazioso: «fidatevi di me che vi voglio bene; e voi», continuò rivolto ai birri, «non lo stringete, è un buon figliuolo e mi preme; andiamo quietamente», disse ancora a Fermo, «non fate vista di nulla, non guardate né a destra né a sinistra, e nessuno s' accorgerà di quello che è, e voi conserverete il vostro onore, nessuno potrà rinfacciarvi che siete stato nelle mani della giustizia; e a momenti sarete in libertà».
Il fine di quella ammonizione era di persuader Fermo a lasciarsi condurre tranquillamente, ma l'effetto ch'ella produsse invece fu di far sentire sempre più a Fermo, che si temeva di lui, e delle circostanze, e di determinarlo ad approfittarne.
Non si vuol dire per questo che Fermo fosse più accorto del notajo: ohibò: ma è destino di quelli che vanno al disotto, ed hanno paura, che tutte le parole ch'essi dicono per ajutarsi, dieno lume ed animo all'avversario.
Usciti nella via, Fermo tra i due birri, e il notajo dietro, Fermo cominciò tosto a gettare la testa a destra e a sinistra, guardando con ansia se v'era da sperare ajuto.
«Giudizio, giudizio», diceva il notajo, a bassa voce, accostandosi a Fermo: «non vi fate scorgere, l'onore, figliuolo, l'onore».
I birri intanto affrettavano il passo tirando Fermo e ripetendo, «andiamo, andiamo».
La via formicolava di gente, e Fermo cercava di rallentare il passo per osservare quelli che andavano, e venivano, e per udire se non si parlava più nulla delle cose del giorno antecedente, per accertarsi se la disposizione degli animi era affatto mutata.
Quando intese «forni, pane, Ferrer, giustizia, abbondanza», e vide una brigata di otto o dieci che gli veniva incontro, e che i birri volevano schifare, portandosi nel mezzo della strada, alzò la voce e scotendo le braccia e il capo gridò: «Ohe! fratelli! mi menano su; e non ho fatto niente: solo perché jeri ho gridato: pane e abbondanza: non mi abbandonate, fratelli: patisco per la patria: son legato; ad uno per volta vi faranno la stessa festa: fratelli, date uno scappellotto a costoro che mi stringono le mani: ahi! ahi! sono un galantuomo, non ho fatto niente di male».
La brigata si fermò sulla via, ma i birri stringendo pur Fermo, lo strascinavano nel mezzo, e affrettavano il passo: la brigata allora si volse, e si divise, altri a fianco, altri dietro guardando pure e ascoltando: quegli che erano sparsi nella via accorrevano, e si faceva folla.
Il notajo tutto tremante, cercava di rimandare quegli che gli si avvicinavano, dicendo: «è un malandrino, un ladro colto sul mestiere, che svaligiava la casa d'un pover uomo».
Ma intanto tutti quelli che venivano dalla parte ove il corteggio doveva passare, accorrevano, e si fermavano, di modo che la via si trovò sbarrata.
Fermo predicava tuttavia, domandando misericordia: i birri sul principio comandarono, poi chiesero, poi pregarono i sopravvegnenti che dessero il passo: ma i più lontani cominciarono a mormorare, quindi a fremere, quindi ad urlare: i più vicini, parte per buona volontà, parte spinti, urtavano i birri, i quali dopo aver fatto indarno ogni sforzo per tenersi insieme, e per non lasciare la preda, furono separati dalla folla, dovettero abbandonare i manichini, e non cercarono più che a perdersi nella moltitudine per uscirne salvi.
«Bravi fratelli», gridava Fermo: «saldi, ancora un momento, ahi! strappateli, fate che mi lascino, siamo fratelli».
Il notajo veduta la mala parata, si fermò, e poi si volse indietro, per uscire da quella parte dove il concorso era ancor rado, cercando intanto di far l'indiano, e componendo il volto ad una certa curiosità, e maraviglia sciocca, come s'egli giungesse ivi a caso, e non c'entrasse per nulla.
Ma l'abito lo tradiva, e smentiva il volto; per meglio nascondersi si volse egli ad uno dei molti che lo guardavano fiso, e disse: «che cosa è questa faccenda?»
«Uh! corbaccio!» rispose invece dell'interrogato, uno che era più lontano.
«Corbaccio! uh corbaccio!» fu ripetuto intorno.
Il notajo impallidì: allora alle grida si aggiunsero gli urti di quelli che gli stavano a fianco: tanto che il pover'uomo ottenne in breve quello che invero desiderava ardentemente: d'esser fuori di quella calca, ma più colle gomita del prossimo che con le sue gambe.
Quando Fermo si vide tolto alle ugne dei suoi guardiani, e confuso nella folla dei suoi liberatori, si scosse i manichini dai polsi, e il primo suo pensiero fu di approfittare di quella confusione, per fuggire in luogo di salvamento.
Si ricordò tosto che il suo nome era scritto sui libracci del Capitano di giustizia, e fece ragione ch'egli non sarebbe sicuro né in Milano né a Monza né a casa sua, né in alcuna parte dello Stato.
- Se mi pigliano la seconda volta, - diss'egli fra sè - sto fresco, e lo merito...
Ma dove andare? - domandò a se stesso.
- A Bergamo - si rispose.
- E la strada? Domanderò a qualcheduno di questi galantuomini: chi m'ha ajutato non mi vorrà tradire.
- Mentre egli pensava, da molte parti gli veniva gridato: «presto presto, a gambe, amico».
Egli seguì il consiglio alla prima: entrò per una via sconosciuta, e si diede a correre, senza saper dove; ma quando si trovò fuori della folla, allentò il passo, e cominciò ad affisare i volti di quelli che incontrava, per trovarne uno che gli garbasse, e gli desse fiducia a fare la sua inchiesta.
Ma la scelta andò in lungo, e Fermo ebbe a fare rapidamente forse venti giudizj fisionomici prima di fissarsi ad uno che fosse l'uomo per lui.
Quel grassotto che stava ritto su la porta della sua bottega, con le gambe aperte, con le braccia dietro la schiena, e le mani l'una nell'altra su le reni, col ventre in fuori, il mento levato, e la giogaja pendente, sollevando alternativamente su la punta dei piedi la sua massa tremolante, e lasciandola cadere su le calcagna, aveva una cera di cicalone curioso, che invece di risposta avrebbe dato interrogazioni: quegli che girava posatamente, adocchiando e origliando pareva uomo da ripiombare un povero figliuolo nella fossa dei lioni e non d'aiutarlo ad uscirne del tutto: quell'altro, che s'avanzava col labbro spenzolato, e con gli occhi immobili, non che segnare spicciamente, e precisamente la via altrui, appena pareva conoscer la sua: e quel ragazzotto che a dir vero mostrava una intelligenza superiore all'età, mostrava però ancor più malizia che intelligenza, e si sarebbe potuto scommettere che nella domanda che gli fosse fatta egli non avrebbe veduto altro che l'occasione di burlare e di confondere un povero forese.
Tanto è vero che all'uomo già impacciato ogni cosa è nuovo impaccio; e che ogni movimento, che si dà ad una matassa scompigliata per ravviarne il bandolo, può far nascere nuovi nodi.
Ciò che rendeva più critica la situazione di Fermo, era l'essere egli affatto nuovo della città, dimodoché non sapeva nemmeno per qual porta si uscisse per pigliare la via sulla quale egli voleva porsi, e gli conveniva chiedere a dirittura la via di Bergamo; inchiesta sospetta, che poteva attirare gli sguardi sopra di lui, e rimetterlo in guaj.
Giacché la sedizione che era stata la salute di Fermo, cominciava appena a rialzare il capo, in qualche angolo della città; e in tutto il rimanente la forza era tuttavia nelle mani avvezze ad usarla: e per comprimere appunto la sedizione nel suo ricominciare, e per disperderla, giravano ronde di soldati, e sbucavano da ogni parte i colleghi di coloro che i liberatori di Fermo avevan posti in fuga: e se per disgrazia quegli stessi si fossero di nuovo abbattuti in Fermo, e lo avessero afferrato, e' poteva scuotere, e guaire, qui non v'era da sperare soccorso.
Finalmente, come la necessità aguzza l'ingegno, Fermo, adocchiato uno che veniva in gran fretta, si risolvette di voltarsi a lui, stimando giudiziosamente che l'uomo premuroso d'andare ad una sua faccenda, risponde tosto e direttamente a chi lo interroga, perché quello è il modo più spiccio per isbrigarsene.
Fattosegli dunque a canto gli disse: «in grazia, signore: quale è la strada che conduce a Bergamo?»
«Eh! amico», rispose frettolosamente l'altro: «vi conviene uscire dalla porta orientale...»
«Bene, e per andare alla porta orientale?»
«Entrate per questa via a mancina; e sboccherete alla piazza del duomo...»
«Basta, signore: il resto lo so: Dio gliene rimeriti».
«Niente, niente», disse il cortese preoccupato, e continuò la sua via.
Fermo con un passo più sicuro, e più spedito entrò per quella che gli era stata segnata, giunse alla piazza del duomo, l'attraversò, diede passando una occhiata al mucchio di cenere, e di carboni spenti, fredde reliquie della baldoria del giorno antecedente, poscia raffrontando i luoghi con le memorie di jeri, riconobbe la via per la quale era venuto insieme con la folla trionfante, e si pose in quella nell'attitudine d'un generale che ripassa sconfitto e fuggitivo pel campo dove aveva vinto poco innanzi.
Rivide il forno delle grucce smantellato, e guardato da soldati, e passò innanzi senza badare ai crocchj che cominciavano di nuovo a formarsi, né alle grida che già si facevano intendere.
Via, via; giunse dinanzi al convento dei cappuccini, guardò sospirando la porta della chiesa, e disse fra sè: - quel frate m'aveva però dato un buon parere, senza saperlo, quando mi disse ch'io aspettassi in Chiesa; ma! non ho avuto giudizio -.
Quando fu presso alla porta rallentò il passo perché la celerità non lo chiarisse un fuggitivo, e preso il contegno placido d'uomo che vada pei suoi negozj, non senza battito al cuore, passò la porta.
Uscito al largo, respirò, ma pure andava guardandosi indietro ad ogni tratto per vedere se non era inseguito: la strada maestra non gli andava a genio: e al primo viottolo che scorse vi s'internò, volendo piuttosto allungare e raddoppiare il cammino che farlo sempre in sospetto.
Quetata un poco la paura, sorsero nel suo cuore mille pensieri di rimprovero, mille di sollecitudine per l'avvenire, e quindi mille proponimenti che il lettore s'immaginerà facilmente.
Con questa trista compagnia passando di viottolo in viottolo, di casolare in casolare, chiedendo la strada di tempo in tempo, e cercando di stare più vicino che poteva alla maestra, senza toccarla mai, dopo aver fatte forse quindici miglia, senza essersi allontanato più distante dalla città da cinque o sei, cominciò a sentire fortemente gli stimoli della fame: e avendo veduto nella botteguccia d'un villaggio alcuni pani, ben diversi da quei bianchissimi che il giorno antecedente aveva trovati sulle sue orme, ne comperò con uno di quei pochi quattrinelli che gli rimanevano, e proseguì il suo cammino.
Finalmente, dopo averne fatto altrettanto, e non rimanendo più che due ore di giorno, egli sentì di nuovo la fame, e per giunta la stanchezza: e la sollecitudine di porsi in salvo diede luogo al desiderio di cibo e di riposo.
Vedeva Fermo da qualche tempo attraverso i campi e le piante un campanile, e presolo per meta si avviò direttamente verso quello.
Giunto al paese, (Fermo non ne sapeva il nome, ma era veramente Gorgonzola) vide che era posto su la strada maestra, stette in forse un momento di tornarne fuori; ma alla fine il bisogno vinse.
- Non saranno venuti a cercarmi fin qui: - diss'egli fra sè: - e qui nessuno mi conosce.
Col conforto di questa riflessione, entrò in una osteria per ristorarsi con qualche cibo, e per riposarsi, seduto però, e fin che durava il giorno; perché ai letti ed alle notti dell'osteria aveva preso orrore, e all'ultimo si sarebbe piuttosto accontentato di dormire al sereno, sotto un noce, in un campo.
Sedette, e chiese qualche cosa da mangiare, e un mezzo boccale di vino calcando la voce sulla parola mezzo, come per far sentire alla gola che quello era la misura prescritta irrevocabilmente, e per farle ricordare gli spropositi del giorno passato.
V'erano in quella stanza alcuni oziosi, i quali venivano ivi per abitudine, e allora s'erano ragunati anche per la speranza che arrivasse qualcheduno da Milano, il quale portasse le nuove più recenti.
Si sapeva in cento maniere secondo l'uso antico ed universale, il guazzabuglio del giorno antecedente, e s'era pur bucinato che il mattino la pentola aveva cominciato a ribollire; sicché la curiosità era infiammata.
Gli occhi furono tosto addosso a Fermo, ma visto ch'egli era un forese, nessuno pensò a lui, per sua buona ventura; perché chi gli avesse chiesto: «a caso, verreste voi forse da Milano?» nella disposizione d'animo in cui era Fermo, possiamo ingannarci, ma egli diceva certamente la bugia.
In vece, senza essere importunato di richieste, potè egli mentre mangiava saporitamente, sentire i discorsi che si facevano, e rimettersi un po' al corrente delle cose del mondo, dopo una lunga giornata di ritiratezza.
«Eh! eh!» diceva uno, «i milanesi non son mica uomini di stoppa: e non la finiranno prima che sia loro fatta ragione davvero».
«Pure», disse un altro, «il vicario se lo sono lasciato levare dalle mani».
«Sì», ripigliò un altro; «ma gli sarà fatto il processo».
«Stiamo un po' a vedere», saltò in campo un quarto, «se questi cittadini superbi non penseranno che ai loro interessi, o se vorranno una legge nuova anche per la povera gente di fuora, che per diana ha pure il ventre anch'ella, e lavora più di loro per far crescere il pane».
«Basta», riprese il primo: «si potrà vedere: mi pento di non essere andato a Milano, questa mattina».
«Se vai domani, vengo anch'io», disse un altro, poi un altro, poi un altro.
A questo punto della conversazione si sentì il passo d'un cavallo; e i nostri interlocutori indovinarono facilmente chi poteva portare, e ne furono molto lieti pensando che saprebbero le notizie vere di Milano.
Era infatti quegli che eglino avevano preveduto, un mercante che andando più volte l'anno a Bergamo pei suoi traffichi era uso fermarsi a passar quivi la notte, e come trovava nell'osteria quei soliti frequentatori del paese, era divenuto conoscente quasi di tutti.
Accorsero nella strada, si affollarono a gara attorno all'arrivato, uno prese le briglie, l'altro la staffa: «Buon giorno», «buona sera», «avete fatto buon viaggio: che c'è di nuovo a Milano?»
«Eh! eh! ecco quelli dalle notizie», disse il mercante, «quelli che le vanno fiutando, come i bracchi le pernici.
E poi, e poi, le saprete voi a quest'ora, forse più di me».
Così dicendo scese da cavallo, lo diede e lo raccomandò ad un garzoncello, ed entrò nella cucina, circondato dai curiosi.
«Davvero che non sappiamo niente», disse il più antico di quei conoscenti.
«Possibile?» rispose il mercante: «bene, dunque sentirete.
Ehi oste, il mio letto solito è in libertà? Bene: dunque non sapete che jeri è stata una giornata brusca in Milano? ma brusca vi dico!...»
«Questo lo sappiamo».
«Vedete dunque», continuò il mercante, «che le sapete le notizie.
Voleva ben dir io che stando qui sempre ad agguatare quegli che passano, e a frugarli come se foste gabellieri, qualche cosa vi potesse scappare».
«Ma oggi, che cosa è accaduto?»
«Ah oggi», disse il mercante, sedendo.
«D'oggi non sapete niente?»
«Niente».
«Niente davvero? dunque vi racconterò io.
Oste, il mio boccone solito, e presto, perché voglio coricarmi subito, e domattina pormi in viaggio per tempo.
Oggi, poco mancò che la giornata non fosse brusca, come quella di jeri.
Ma, un po' colle buone, un po' colle cattive...
m'intendete eh? olio ed aceto; e si fa l'insalata».
«In fine che cosa è accaduto?» domandarono in una volta due o tre di quegli ansiosi.
«Abbiate pazienza», disse il mercante, «che se l'oste mi darà di che ammollare le labbra, vi conterò tutto».
«Oh bravo!»
L'oste portò la refezione: il mercante si versò un bicchier di vino, si accarezzò la barba e lo tracannò: e trinciando la vivanda che gli era stata imbandita, cominciò la sua narrazione e la continuò mangiando; mentre i suoi conoscenti stavano intorno alla tavola con le bocche aperte; e Fermo in disparte, senza far vista di dar molta attenzione, ascoltava però con più ansia e sospensione degli altri.
«Dovete dunque sapere», cominciò il mercante, «che questa mattina per tempo cominciarono a congregarsi molti furfanti, gente senza casa né tetto, di quelli che jeri avevan fatto tutto il chiasso; e si misero a girare in troppa per la città, per far numero, e tornar da capo.
Da principio fecero bravate e insolenze dove capitavano, far le corna alle spalle ai soldati, fare i visacci ai galantuomini, rompere il muso ai birri: in un luogo strapparono dalle mani dei birri uno che era menato su: un capo popolo che aveva predicato jeri che si avessero a scannare tutti i signori, e tutti i bottegaj: pezzo di briccone! ma se v'incappa, gli medicheranno il pomo d'Adamo con un sovatto.
Quando parve a costoro d'aver fatto popolo a bastanza, andarono alla casa del vicario, dove jeri avevano fatte tutte quelle belle prodezze, ma» (e qui a guisa d'interjezione fece con la lingua quel suono con cui i cocchieri usano di dare ai cavalli il segnale della partenza).
«Ma?» dissero gli ascoltatori.
«Ma», continuò il mercante, «trovarono la via sbarrata, e dietro le sbarre una buona confraternita di micheletti cogli archibugi spianati, e i calci appoggiati ai mustacchi: e...
che cosa avreste fatto voi altri?»
«Tornare indietro».
«Benone: così fecero anch'essi; ma quando furono al Cordusio, dinanzi a quel forno che jeri avevano cominciato a saccheggiare; dite mò, se non sono birbi: si distribuiva il pane pulitamente; v'erano dei buoni cavalieri che invigilavano perché tutto andasse in ordine: e costoro: «dalli dalli, saccheggio, saccheggio»: in un momento, cavalieri, fornaj, avventori, tutti sossopra, chi qua, chi là; e cominciò il saccheggio che durò poco, perché poco v'era da rubare.
Quando non rimasero più che le panche e gli utensili; «fuoco, fuoco», si cominciò a gridare; tavole, madie, imposte, tutto il legname si pigliava a furore per portarlo in mezzo al Cordusio e dargli il fuoco.
Ma un dannato peggio di tutti gli altri, dite un po' che proposta diabolica mise in campo?»
«Che?...»
«Che? di abbruciar tutto nella casa, e la casa insieme.
Ma un galantuomo ebbe una ispirazione del cielo: entrò nella casa, salì le scale, e trovato per buona sorte un gran crocifisso, lo appese fuori d'una finestra, e v'accese intorno due candele, che aveva tolte da capo del letto del fornajo.
A quello spettacolo: tutti rimasero in silenzio: v'era bene pochi diavoli in carne, che per fare chiasso e baldoria, avrebbero dato fuoco anche al paradiso; ma quando videro che tutti gli altri non erano ebrei com'essi; dovettero tacere.
Intanto venne tutto il capitolo del duomo in processione, a croce alzata, e vestiti pontificalmente, che era un gran bel vedere; e cominciarono a predicare: «figliuoli dabbene, che cosa fate? è una vergogna, dove è il timor di Dio? questo è l'esempio che date ai vostri figliuoli? siamo in Milano, o in terra di Turchi? Via, tornate a casa, da bravi, che quel che è stato è stato.
Avrete abbondanza: il pane di otto once ad un soldo: la grida è stampata».
«Era vero poi?» domandò uno degli ascoltanti.
«Vero come il Vangelo.
Volete voi che i canonici venissero in paramenti a dir bugie? Allora, la gente cominciò a sfilare, e i soldati, con buona maniera, gli andarono sparpagliando di più e fecero spazzare la piazza del Cordusio.
Ebbene...
pareva che non fossero contenti: andavano girandolando per le vie, come se aspettassero l'occasione di porsi insieme di nuovo.
Ma ecco che venne l'ultima medicina, che fece l'effetto».
«E fu?...»
«E fu, unguento di canape: bastò nominarlo, per far guarire tanti matti.
Si fece pubblicare, ed è vera anche questa, che quattro capi erano stati presi jer sera, e saranno impiccati.
Ah! ah! vi dico io che ognuno studiava la via più corta per andarsene a casa, per non diventare il numero cinque.
Quando io sono uscito da Milano, pareva un monastero».
«Dunque gli impiccheranno?» domandò un altro uditore.
«Senza fallo, e presto», rispose il mercante.
«E la gente che cosa farà?» domandò ancora quegli.
«Anderà a vedere», rispose ancora il mercante.
«Avevano tanta smania di veder morire qualcheduno all'aria aperta, che volevano far la festa al Signor Vicario di Provvisione.
Puh! che spettacolo un cavaliere ammazzato di mala grazia! Invece avranno quattro birbanti serviti con tutte le formalità.
Quattro! quattro finora, ma chi sa?...
Vi so dire che tutti quelli che jeri e questa mattina hanno mangiato pane fresco in Milano, se ne stanno coll'olio santo in saccoccia.
Per me, ho testimonj che tutta la giornata di jeri, e tutta la mattina d'oggi me ne sono stato chiuso in casa: e poi, si sa che noi altri mercanti siamo nemici dei torbidi...»
«Anch'io non mi son mosso di qui», disse un ascoltante.
«Non siamo qui tutti?» disse un altro: «la cosa parla da sè».
«Ohe, come andrà per Bartolommeo che è andato a Milano appunto jer l'altro?» disse un secondo.
«Se avrà avuto giudizio», rispose il mercante, «ne sarà stato fuori, e non gli accadrà nulla».
«Il guaio è», disse quegli, «che sta male a giudizio».
«Allora non so che dire»; rispose il mercante, in aria di chi si rassegna alle sciagure degli altri.
«Se io mi fossi anche trovato in Milano, per caso, per caso», disse un terzo, «me la sarei battuta subito a casa».
«Infatti», ripigliò il primo, «in quei garbugli v'è sempre pericolo, e poi, via bisogna dire il vero, sono cose che non istanno bene.
Confesso la verità che i baccani non mi sono mai piaciuti».
«È stata una provvidenza vedete», disse il mercante «che l'abbiamo fatta finir presto: altrimenti, arte per arte, saccheggiavano tutte le botteghe di Milano coloro».
«Ma per noi foresi non si farà niente?» domandò un altro: «i milanesi a buon conto hanno il pane a buon mercato: e noi, povera gente?»
«Sarà quel che Dio vorrà», disse il mercante, vuotando l'ultimo bicchiere, ed asciugandosi la barba col mantile.
«Non sapete che jeri hanno guastata, e gittata tanta farina quanta basterebbe a dar da mangiare per due mesi a tutto il ducato?»
«Dunque», disse quegli, «ha da patire il buono pel cattivo?»
«Ma non avete inteso che gl'impiccheranno?» rispose il mercante.
«L'ho sempre detto io», disse un altro «che a muover garbugli si fa peggio.
Se i milanesi avessero avuto un po' di giudizio, dovevano porre le mani addosso a quegli che cominciarono a parlare di far chiasso, e legarli come salsicce, e condurli alla giustizia».
La conversazione continuava, ma Fermo ne aveva udito a bastanza: egli se ne era stato cheto cheto, con l'animo d'un autore che trovandosi sconosciuto presso tre o quattro uomini di buon gusto, sente fare il processo all'ultima sua opera: quel poco boccone tanto desiderato gli era tornato in veleno: però dal veleno pensò a cavare il rimedio d'un buon consiglio; si alzò, con aria indifferente, pagò il suo scotto, e uscì dall'osteria, risoluto di non fermarsi fin che non fosse giunto sotto le ali del leone serenissimo di San Marco.
Si avviò su la strada maestra, premuroso di giunger presto, confidando nelle tenebre che cominciavano a stendersi su la terra; ma appena dati alcuni passi, pensò che il passaggio al confine sarebbe stato pericoloso più di notte che di giorno, e si sovvenne che vi doveva esser l'Adda da passare.
Sconfortato uscì della via, entrò nei campi, e andando al lume della luna, procurò di dirigere il suo cammino verso quella parte dove gli pareva che l'Adda dovesse passare.
Finalmente sentì il romore del fiume, e camminando sempre verso quello, giunse presso alla sponda.
Ma quivi non v'era modo di transitare, onde il povero Fermo dopo aver guardato intorno se mai per caso qualche battello si trovasse su la riva, e non ne vedendo, tornò tristamente indietro, ed entrato in un bosco che costeggiava il fiume, s'arrampicò sur un albero, e vi si appiattò, aspettando con ansietà l'apparire del giorno.
Ma la notte era appena incominciata, e il povero Fermo, ebbe molte ore da meditare in quella sua incomoda stazione.
Don Rodrigo, Don Abbondio, il Vicario, Ferrer, la guida, l'oste di Milano, il notajo, i birri, il mercante, i curiosi, passavano a vicenda nella sua fantasia; ma nessuno di costoro conduceva seco una memoria che non fosse di rancore o di sconforto.
Solo due immagini avevano un aspetto consolatore, e spargevano un po' di luce tranquilla su quel quadro confuso.
Se noi inventassimo ora una storia a bel diletto, ricordevoli dell'acuto e profondo precetto del Venosino, ci guarderemmo bene dal riunire due immagini così disparate come quelle che si associavano nella mente di Fermo; ma noi trascriviamo una storia veridica; e le cose reali non sono ordinate con quella scelta, né temperate con quella armonia che sono proprie del buongusto; la natura, e la bella natura, sono due cose diverse.
Diciamo dunque con la franchezza d'uno storico, che mentre quasi tutti i personaggi, coi quali Fermo era stato in relazione, si schieravano e si affollavano nella sua immaginazione con un aspetto più o meno odioso, o tristamente misterioso, di modo che, dopo averli contemplati qualche tempo come forzatamente, essa gli rispingeva, e cercava di farli sparire, v'era però due immagini nelle quali essa riposava, con una specie di refrigerio: due volti i quali ricordavano ed esprimevano candore, benevolenza, affetto, innocenza, pace: quei sentimenti chiari e soavi nei quali tanto si gode la fantasia degli infelici: e queste due immagini erano una treccia nera, e una barba bianca, Lucia e il Padre Cristoforo.
Ma i pensieri che questi volti stessi facevano nascere, eran tutt'altro che di una gioja pura: alla immagine del buon frate, Fermo sentiva vivamente la vergogna della cervellinaggine che aveva spiegata nel giorno passato, e della turpe sua intemperanza: e contemplando Lucia, oltre la stessa vergogna, egli sentiva nel fondo dell'animo l'assenza, l'incertezza del rivedere, il terrore della dimenticanza.
Meno potente, meno scolpita, ma pure mista anch'essa di compiacenza e di dolore, gli appariva pure l'immagine di quella povera Agnese, che lo aveva voluto per figlio, e che a cagione di questo buon pensiero si trovava ora fuor di casa, e assediata da quelle sollecitudini che non hanno alcun compenso di consolazione.
Con questa lanterna magica dinanzi alla mente vegliò Fermo tutta quella notte: quand'anche i pensieri non gli avessero tolto il sonno, il disagio e il pericolo della postura, e il freddo, che cominciava a frizzare lo avrebbero tenuto lontano.
Finalmente, quando la luce cominciò a dar forma e colore alle cose, Fermo guardando attentamente al fiume, vide un pescatore che costeggiava la sponda, e che slegava un battello; scese dall'albero, e si avviò a quella parte, e vi giunse prima che il pescatore salpasse.
«Amico, volete voi farmi il piacere di traghettarmi all'altra riva?» disse Fermo al pescatore che guardava non senza sospetto lo sconosciuto che a quell'ora gli si accostava.
«Volentieri», rispose il pescatore, dopo aver guardato diligentemente intorno se non v'era alcun testimonio, e lo accolse nella barca, lo condusse all'altra riva, senza fargli altro motto.
Fermo prima di scendere a riva, cavò una mezza lira, e la diede al pescatore che, dopo aver fatta qualche cerimonia, la prese, e condusse la sua barca al largo.
Perché nessuno si faccia maraviglia della pronta e discreta cortesia del pescatore, dobbiamo avvertire che quest'uomo era avvezzo ad essere richiesto sovente dello stesso servizio da contrabbandieri, e da fuorusciti; e la massima forse la più importante della sua politica di pescatore era di non farsi nemico nessuno di costoro, perché la sua barca e la sua vita era quasi sempre in loro balìa.
Prestava egli adunque ad essi quel servizio tutte le volte che potesse farlo senza correre rischio dalla parte di gabellieri, di soldati, o di esploratori, altre classi ch'egli doveva rispettare per un altro punto della sua politica.
Pigliò dunque Fermo per uomo d'una delle due prime condizioni, senza darsi briga di appurare quale, e lo servì.
Fermo, posto piede sulla terra di San Marco, respirò davvero; e, alla prima insegna che vide, entrò a ristorarsi col cuore più largo.
Sentì quivi pure relazioni e ragionamenti su gli avvenimenti di Milano: a dir vero egli avrebbe potuto rettificare in molte parti i fatti e le riflessioni; ma da quei fatti egli aveva appunto imparato a tacere.
Continuò la sua strada, giunse a Bergamo, fece inchiesta di quel suo cugino, e gli si presentò.
Era questi lavoratore di seta, come Fermo, e uno di quei tanti che vedendo mancarsi il lavoro a cagione delle discipline assurde che a quei tempi erano prescritte nel milanese, e dei pesi insopportabili d'ogni genere, avevano portata la loro industria in un altro stato, dov'erano bene accolti e protetti.
Massajo, e diligente in sei anni da che si trovava a Bergamo, aveva egli fatta una provvigione che gli era di grande soccorso in quell'anno malvagio.
Rivide egli con piacere Fermo che aveva instradato nei lavori della seta, e a cui aveva fatto da padre, e lo accolse lietamente, prese parte alle sue traversie, e gli promise intanto di procacciargli lavoro.
«Se non ne troveremo», soggiunse, «starai con me, mangeremo insieme un po' di pane; e quando torneranno gli anni grassi, mi pagherai di tutto, e farai un buon marsupio anche per te».
Se quel brav'uomo avesse letto Virgilio non avrebbe mancato di dire in questa occasione: Non ignara mali miseris succurrere disco: perché in fatti questo era il suo sentimento.
Lasceremo per ora Fermo, giacché si trova in una situazione tollerabile, e torneremo alla sua e nostra Lucia.
CAPITOLO IX
Dobbiamo ora far conoscere al lettore i personaggi coi quali si trovava Lucia.
Don Valeriano, capo di casa, ultimo rampollo d'una famiglia illustre che pur troppo terminava in lui, uomo tra la virilità e la vecchiezza, era di mediocre statura, e tendeva un pochetto al pingue, portava un cappello ornato di molte ricche piume, alcune delle quali spezzate al mezzo cadevano penzoloni e d'altre non rimaneva che un torso: sotto a quel cappello si stendevano due folti sopraccigli, due occhi sempre in giro orizzontalmente, due guance pienotte per sè, e che si enfiavano ancor più di tratto in tratto e si ricomponevano mandando un soffio prolungato, come se avesse da raffreddare una minestra: sotto la faccia girava intorno al collo un'ampia lattuga di merletti finissimi di Fiandra lacera in qualche parte e lorda da per tutto: una cappa di...
sfilacciata qua e là gli cadeva dalle spalle, una spada col manico di argento mirabilmente cesellato, e col fodero spelato gli pendeva dalla cintura; due manichini della stessa materia, e nello stesso stato della gorgiera uscivano dalle maniche strette dell'abito, e un ricco anello di diamanti sfolgorava talvolta, nell'una delle due sudicie sue mani: talvolta; perché quell'anello passava anche una gran parte della sua vita nello scrigno d'un usurajo; e in quegli intervalli, Don Valeriano gestiva alquanto meno del solito.
Questo contrasto nel suo abito esteriore nasceva da altri contrasti del suo carattere e delle sue circostanze.
Don Valeriano portato al fasto e alla trascuraggine era anche ricco e povero.
Già da molto tempo aveva egli divorato a furia di sfarzo, e lasciato divorare a furia di negligenza e d'imperizia il suo patrimonio libero; e sarebbe egli rimasto povero del tutto e per sempre, se un suo sapiente antenato non avesse anticipatamente provveduto a quel caso, istituendo un pingue fedecommesso.
Don Valeriano quindi, benché nell'animo non fosse molto dissimile dal selvaggio di Montesquieu, non poteva, com'egli, abbatter l'albero per coglierne il frutto: e non poteva far altro che lanciar pietre al frutto per farlo cadere acerbo e ammaccato.
Viveva di prestiti: e per trovarne doveva ricorrere ai più spietati usuraj; e subire le più rigide leggi che essi sapessero inventare, e per supplire alla legge comune che non dava loro alcun mezzo di ricuperare il prestato, e per pagarsi del rischio.
E siccome nelle idee di Don Valeriano le pompe e il fasto tenevano il primo luogo, così alle pompe e al fasto erano tosto consecrati i denari che toccavano le sue mani; e il necessario pativa.
In mezzo a queste cure incessanti Don Valeriano non aveva lasciato di coltivare il suo ingegno, e senza essere un dotto di mestiere, poteva passare per uno degli uomini colti del suo tempo.
Possedeva una libreria di varie materie, la quale per poco non aggiungeva ai cento volumi; e aveva impiegato su quelli abbastanza tempo e studio per avere una cognizione fondata nelle scienze più importanti e più in voga: teneva i principj, e quindi non era mai impacciato nelle applicazioni.
L'astrologia era uno di quei rami dell'umano sapere, nei quali Don Valeriano era versato.
Sapeva non solo i nomi e le qualità delle dodici case del cielo, le influenze che hanno in ciascuna i diversi pianeti: ma conosceva anche in parte la storia della scienza, la quale è parte della scienza stessa: ne conosceva i cominciamenti, il progresso: come era nata nell'Assiria, e ci doveva nascere: giacché essendo il cielo un gran libro, e il cielo dell'Assiria molto sereno, è naturale che ivi si cominci a leggere, dove i libri sono più chiari e intelligibili; sapeva a memoria un buon numero delle più stupende e clamorose predizioni che si sono avverate in varii tempi: e aveva in pronto gli argomenti principali che servivano a difendere la scienza contra i dubbj e le obiezioni dei cervelli balzani degli uomini superficiali e presuntuosi che ne parlavano con poco rispetto; perché anche a quel tempo v'era degli uomini così fatti.
Della magia aveva pure una cognizione più che mediocre, acquistata non già con la rea intenzione di esercitarla, ma per ornamento dell'ingegno, e per conoscere le arti così dannose dei maghi e delle streghe, e potere così entrare a parte della guerra che tutti gli uomini probi e d'ingegno facevano a quei nemici del genere umano.
Il suo maestro e il suo autore era quel gran Martino del Rio il quale nelle sue Disquisizioni magiche aveva trattata la materia a fondo, aveva sciolti tutti i dubbj, e stabiliti i principj che per quasi due secoli divennero la norma della maggior parte dei letterati e dei tribunali, quel Martino del Rio che con le sue dotte fatiche ha fatto ardere tante streghe e tanti stregoni, e che ha saputo col vigore dei suoi ragionamenti dominare tanto sulla opinione publica, che il metter dubbio su la esistenza delle streghe era diventato un indizio di stregheria.
A un bisogno Don Valeriano sapeva parlare ordinatamente e anche luculentamente del maleficio amatorio, del maleficio ostile e del maleficio sonnifero, che sono i cardini della scienza, e conosceva i segreti dei congressi delle streghe, come se vi avesse assistito.
Aveva più che una tintura della storia in grande, per aver letta più d'una volta quella eccellente storia universale del Bugatti; possedeva poi singolarmente quella del tempo dei paladini, che aveva studiata nei Reali di Francia.
Per la politica positiva aveva egli principalmente rivolte le opere dell'immortale Botero; e conosceva assai bene la politica di Spagna, di Francia, dell'Impero, dei Veneziani e di tutti i principali stati Cristiani; e poteva pur dare una occhiatina anche nel Divano.
Per la politica speculativa il suo uomo era stato per gran tempo il Segretario Fiorentino, ma questi dovette scendere al secondo posto nel concetto di Don Valeriano e cedere il primo a quel gran Valeriano Castiglione che in quello stesso anno aveva dato alla luce la sua opera dello Statista Regnante dove tutti gli arcani i più profondi, e i più reconditi precetti della ragione di stato sono trattati con un ordine nuovo e sublime.
E bisogna confessare che il nostro Don Valeriano prevenne il giudizio del mondo sul merito del Castiglione: poco dopo Urbano VIII lo onorò delle sue lodi, Luigi XIII per consiglio del Cardinale di Richelieu, lo chiamò in Francia per esservi Istoriografo, Carlo Emmanuele di poi gli affidò lo stesso ufizio, il Card.
Borghese e Pietro Toledo vicerè di Napoli, lo pregarono, invano però, di scrivere storie, e fu finalmente proclamato il primo Scrittore dei suoi tempi.
Quanto alla storia naturale, non aveva a dir vero attinto alle fonti, e non teneva nella sua biblioteca, né Aristotele, né Plinio, né Dioscoride; giacché come abbiam detto Don Valeriano non era un professore, ma un uomo colto semplicemente: sapeva però le cose le più importanti e le più degne di osservazione; e a tempo e luogo poteva fare una descrizione esatta dei draghi e delle sirene, e dire a proposito che la remora, quel pescerello, ferma una nave nell'alto, che l'unica fenice rinasce dalle sue ceneri, che la salamandra è incombustibile, che il cristallo non è altro che ghiaccio lentamente indurato.
Ma la materia nella quale Don Valeriano era profondo assolutamente, era la scienza cavalleresca, e bisognava sentirlo parlare di offese, di soddisfazioni, di paci, di mentite: Paris del Pozzo, l'Urrea, l'Albergato, il Muzio, la Gerusalemme liberata e la conquistata, e i dialoghi della nobiltà, e quello della pace di Torquato Tasso, gli aveva a mena dito; i Consigli e i Discorsi cavallereschi di Francesco Birago erano forse i libri più logori della sua biblioteca.
Anzi Don Valeriano affermava, o faceva intendere spesso che quel grand'uomo non aveva sdegnato di consultarlo su certi casi più rematici; e parlando talvolta di quelle opere con quella venerazione che meritavano, e che per verità ottenevano da tutti, Don Valeriano aggiungeva misteriosamente: «Basta: ho messo anch'io un zampino in quei libri».
Ma gli studj solidi non avevano talmente occupati gli ozj di Don Ferrante, che non ne restasse qualche parte anche alle lettere amene: e senza contare il Pastorfido, che al pari di tutti gli uomini colti di quel tempo, egli aveva pressoché tutto a memoria, non gli erano ignoti né il Marino, né il Ciampoli, né il Cesarini, né il Testi: ma sopratutto aveva fatto uno studio particolare di quel libretto che conteneva le rime di Claudio Achillini; libretto nel quale, diceva Don Ferrante, tutto, tutto, fino alla protesta sulle parole Fato, Sorte, Destino e somiglianti era pensiero pellegrino, ed arguto.
Aveva poi un tesoretto, una raccolta manoscritta di alcune lettere dello stesso grand'uomo; e su quelle si studiava di modellare quelle che gli occorrevano di scrivere per qualche negozio, o per isciogliere qualche ingegnoso quesito che gli veniva proposto: e a dir vero le lettere di Don Ferrante erano ricercate con qualche avidità, e giravano di mano in mano per la scelta e la copia dei concetti e delle immagini ardite, e sopra tutto pel modo sempre ingegnoso di porre la questione, e di guardare le cose; stavano però male di grammatica e di ortografia.
Vi sarebbero molte altre cose da dire, chi volesse compire il ritratto di questo personaggio; ma per amore della brevità, ce ne passeremo, tanto più ch'egli non ha quasi parte attiva nella nostra storia.
Veniamo dunque alla sua signora Consorte.
Donna Prassede, per ciò che risguarda il sapere, era molto al di sotto di suo marito.
Il suo ingegno a dir vero non era niente straordinario, ed essa non si era mai data una gran briga di coltivarlo, almeno sui libri.
Ma siccome la mente umana non può vivere senza idee, così Donna Prassede aveva le sue, e si governava con esse, come dicono che si dovrebbe fare cogli amici.
Ne aveva poche, ma quelle poche le amava cordialmente, e si fidava in esse interamente, e non le avrebbe cangiate ad istigazione di nessuno.
Avrebbe anche avuto, com'era giusto, una gran voglia di farle predominare in casa; e pare che il carattere straccurato di Don Ferrante avrebbe dovuto servire a maraviglia a questo desiderio della consorte; ma v'era un grande ostacolo.
La più parte delle idee in questo mondo non possono esser messe ad esecuzione senza danari: ora Don Ferrante poco o nulla curandosi del governo della casa, aveva però ritenuto sempre presso di sè il ministero delle finanze; e a dir vero gli affari ne erano tanto complicati, che ormai nessun altro che egli avrebbe potuto intendervi qualche cosa.
Aveva Donna Prassede il suo spillatico, pattuito nel contratto nuziale, e allo spirare d'ogni termine dopo un po' di guerra, un po' di schiamazzo, molte minacce di svergognare il marito in faccia ai parenti, veniva essa a capo di riscuotere la somma che le era dovuta.
Ma fuor di questo, tutta l'eloquenza, tutta l'insistenza, tutte le arti di Donna Prassede non avrebbero potuto tirare un danajo dalla borsa di Don Ferrante.
Le entrate, prima che si toccassero, erano impegnate a pagar debiti urgenti, o destinate a soddisfare qualche genio fastoso di Don Ferrante.
Non rimaneva dunque a Donna Prassede altro dominio che su la sua persona, sul modo d'impiegare il suo tempo, su le persone addette specialmente al suo servizio: cose tutte nelle quali Don Ferrante lasciava fare; poteva ella in somma dare tutti gli ordini l'esecuzione dei quali non portasse una spesa, o che non fossero in opposizione alle abitudini e alle volontà risolute di Don Ferrante.
La sua gran voglia di comandare, ristretta in questo picciol campo vi si esercitava con una energia singolare.
Donna Prassede profondeva pareri e correzioni a quelli che volevano, e ancor più a quelli che dovevano sentirla: e per quanto dipendeva da lei non avrebbe lasciato deviar nessuno d'un punto dalla via retta.
Perché, a dire il vero, questa smania di dominio non nasceva in lei da alcuna vista interessata; era puro desiderio del bene; ma il bene ella lo intendeva a suo modo, lo discerneva istantaneamente in qualunque alternativa, in qualunque complicazione di casi le si fosse affacciata da esaminare: e quando una volta aveva veduto e detto che quello era il bene, non era possibile ch'ella cangiasse di parere; e per farlo riuscire predicava ed operava fintanto che avesse ottenuto l'intento, o la cosa fosse divenuta impossibile: nel qual caso non lasciava di predicare per convincere tutti che avrebbe dovuto riuscire.
Sotto due padroni così diversi di inclinazioni e di occupazioni, la famiglia era come divisa in due classi; anzi in due partiti, ognuno dei quali aveva nella famiglia stessa un capo; le due persone cioè che erano più innanzi nella confidenza dell'uno e dell'altro padrone.
Prospero il maggiordomo di casa, e il favorito di Don Ferrante, faceto e rispettoso, disinvolto e composto, dotto a tutto fare e a tutto soffrire, abile a trattare gli affari, e a parlarne senza mai proferire le parole che potevano far sentire gl'impicci, o offendere la dignità del padrone, sapeva suggerir a proposito un invito da fare onore alla casa, trovare un cammeo prezioso, un quadro raro, ogni volta che una rata di pagamento stava per entrare nella cassa di Don Ferrante, e sapeva trovare un prestatore ogni volta che la cassa era asciutta.
L'antesignano dell'altro partito, la governatrice favorita di Donna Prassede era nominata molto variamente.
Il suo nome proprio era Margherita, ma dalla padrona era chiamata Ghita, dalle donne inferiori a lei, e dai paggi di Donna Prassede Signora Ghitina; e dai servitori di Don Ferrante quando parlavano fra di loro non era mai menzionata altrimenti che la Signora Chitarra.
Pretendevano costoro che il suo collo lungo, la sua testa in fuori, le sue spalle schiacciate, la vita serrata dal busto, e le anche allargate la facessero somigliare alla forma di quello strumento: e che la sua voce acuta, scordata, e saltellante imitasse appunto il suono, che esso dà quando è strimpellato da una mano inesperta.
Esercitava essa sotto gli ordini immediati della padrona la più severa vigilanza sulle persone che dipendevano da questa, ed era ministra di tutto il bene ch'ella poteva fare in casa e fuori.
Ma quanto alla gente di Don Ferrante, essa non poteva fare altro che notare tutte le azioni disordinate che essi commettevano, disapprovare con qualche cenno, o al più con qualche frizzo, e riferire poi il tutto alla padrona, la quale pure non poteva fare altro che gemere con lei.
Prospero com'è naturale era l'oggetto principale di avversione per Donna Prassede, ma inviolabile com'egli era, se ne burlava in cuore; non lasciando però di corrispondere con riverenze profonde agli sgarbi della padrona, che rendeva poi con usura in tutte le occasioni alla Signora Chitarra.
Benché questi due capi col loro predominio fossero passabilmente incomodi ognuno alla parte della famiglia che dirigeva, pure l'una parte e l'altra aveva sposate le passioni e le animosità del suo capo; l'una faceva crocchio a mormorare dell'altra; quando si trovavano in presenza, si scambiavano visacci, e talvolta parolacce, cercavano scambievolmente di farsi scomparire e d'impacciarsi a vicenda nella esecuzione degli ordini ricevuti.
Don Ferrante però aveva appena qualche sentore di questa guerra sorda, perché egli non osservava molto, e Prospero non si curava di parlargli di malinconie e le querele della moglie, le attribuiva Don Ferrante ad inquietudine di carattere, a giuoco di fantasia, come le domande di quattrini.
Lucia si trovava esclusivamente sotto l'autorità di Donna Prassede, la quale certamente non intendeva di lasciare questa autorità in ozio.
Si proponeva ella a dir vero di farsi ben servire da Lucia nella parte che le aveva assegnata; ma oltre questo fine, che era semplicemente di giustizia, Donna Prassede ne aveva un altro di carità disinteressata a suo modo, che le stava a cuore ancor più del primo, ed era di far del bene a Lucia, o di Lucia, la quale le pareva averne gran bisogno.
Perché tutto ciò che Donna Prassede nella sua villeggiatura aveva udito, per la voce pubblica, della innocenza di quella giovane, le affermazioni magnifiche ed energiche di Agnese quando era venuta a proporle la figlia, il volto, il contegno modesto, la condotta stessa così irreprensibile di Lucia non bastavano a produrre un pieno convincimento nella mente di Donna Prassede; e non poteva essa persuadersi che una giovane contadina avesse levato tanto romore di sè, fosse passata per tanti accidenti, senza averne cercato nessuno, senza essersi gittata un po' all'acqua, come si dice, senza essere almeno una testa leggiera.
Donna Prassede teneva per regola generale che a voler far del bene bisogna pensar male: la sua voglia di dominare, di operare su gli altri, che anche ai suoi occhi proprj prendeva la maschera di carità disinteressata, era come il ciarlatano, che non dice mai a chi viene a consultarlo: «voi state bene»; perché allora a che servirebbe l'orvietano? Oltracciò, l'aver ricoverata, sottratta al pericolo d'una infame persecuzione una povera giovane era un'opera certamente non senza gloria; però in questo Donna Prassede non era più che uno stromento quasi passivo, e la parte che le era toccata non domandava altro che un po' di buona volontà, senza efficacia di azione, e senza esercizio di senno, era più un assenso che una impresa.
Ma dopo aver ricoverata la povera giovane, emendare anche il suo cervello un po' balzano, rimetterla sulla buona strada, questo sarebbe stato non solo compire, ma rassettare l'opera del Cardinale Federigo; il quale era a dir vero un degno prelato, un uomo del Signore, dotto anche sui libri, ma quanto ad esperienza di mondo, a discernimento di persone, non ne aveva molto: questa insomma sarebbe stata gloria; e perché Donna Prassede potesse ottenerla, era necessario che Lucia avesse il cervello un po' balzano, e avesse fatto almeno qualche passo su una cattiva strada.
Per averne qualche prova positiva, Donna Prassede richiese qua e là informazioni intorno a quel Fermo a cui Lucia era stata promessa, e sulle avventure, sulla fuga del quale Donna Prassede aveva intese in villa voci confuse, discordi, ma tutte poco buone.
Le informazioni furono quali dovevano essere: che quel giovane era un facinoroso, venuto a Milano per metterlo sossopra, per fare il capopopolo, ch'era stato nelle mani dei birri, a un pelo dalla forca; e se ora respirava tuttavia in paese straniero, lo doveva alla sua audacia nel resistere alla giustizia, e alla celerità delle sue gambe.
Questa notizia confermò il giudizio di Donna Prassede, e le diede materia per le sue operazioni.
Dimmi con chi tratti e ti dirò chi sei, è un proverbio; e come tutti i proverbj, non solo è infallibile, ma ha anche la facoltà di rendere infallibile l'applicazione che ne fa chi lo cita.
Lucia aveva dunque infallibilmente, non già tutti i vizj, che sarebbe stato dir troppo, ma una inclinazione ai vizj di Fermo: questo fu il giudizio di Donna Prassede.
E il bene da farsi era non solo d'impedire che Lucia ricadesse mai nelle mani di Fermo, ch'ella avesse con lui la menoma corrispondenza; bisognava andare alla radice, al più difficile, guarire Lucia, farle far giudizio, togliere da quel cervellino l'attacco per colui; attacco che a dir vero era il solo vizio essenziale di Lucia.
Questa allora sarebbe divenuta al tutto una buona creatura; e chi avrebbe avuto tutto il merito dell'impresa? Donna Prassede.
La prima parte di questo disegno, la parte materiale, la vigilanza esteriore sopra Lucia era particolarmente affidata alle cure di Ghita.
Doveva essa tenerle sempre gli occhi addosso, accompagnarla alla Chiesa, spiare s'ella parlava a qualcheduno, se qualcheduno le faceva un cenno, osservare attentamente che qualche messo nascosto non le si accostasse.
Compresa e piena dell'uficio che le era imposto, Ghita nella via andava sempre con gli occhi sbarrati, e sospettosi; e siccome il volto di Lucia attraeva spesso e fermava gli sguardi, così la guardiana si trovava spesso nel caso di fare il viso dell'arme ai guardatori, o almeno di far loro intendere ch'ella vegliava, e che la loro mina era sventata: e quando s'avvedeva che la sua aria di sospetto e di minaccia femminile, invece di stornare i tentativi, avrebbe provocata l'insolenza, pericolo comunissimo a quei tempi, allora accelerava il passo, e lo faceva accelerare a Lucia.
In Chiesa poi, se uno di quegli che si trovavano sui banchi vicini aveva guardato attentamente a Lucia, o aveva tossito, Ghita, continuando a mormorare le sue orazioni, non pensava più che a guardare il suo deposito.
Aveva inoltre l'incarico di frugare, quando lo poteva senza essere scoperta, nelle tasche di Lucia, per vedere se mai ella ricevesse qualche lettera.
Questa precauzione avrebbe potuto sembrare inutile, giacché, (e qui dobbiamo apertamente confessare una cosa che finora si è appena indicata e lasciata indovinare) la nostra eroina non sapeva leggere: ma Ghita pensava che le precauzioni non sono mai troppe.
Quello poi che in questo procedere vi poteva essere d'indelicato, non riteneva Ghita per nulla; essa non vi sospettava nemmeno nulla di simile; non conosceva né la parola né l'idea; anzi la parola in questo senso non esiste neppure ai nostri giorni nella lingua pura, e noi adoperandola sappiamo d'essere incorsi in un brutto neologismo.
Finalmente, doveva Ghita cercare di scovare nei discorsi di Lucia se mai ella avesse qualche speranza, se qualche pratica fosse ordita, farla ciarlare artificiosamente su tutti quegli incidenti che avevano dato a Ghita qualche sospetto.
Ebbene, signori miei, tutta questa gran macchina di cure e di operazioni, tutto questo lavorare sott'acqua non dava quasi nessun incomodo a Lucia; o per dir meglio ella non se ne avvedeva; e benché non potesse a meno di non sentire qualche cosa di minuto e di pettegolo nella sollecitudine continua di Ghita, pure lo attribuiva alla indole di lei, e non mai a un disegno profondo, e comandato.
I pensieri di Lucia, quel pensiero ch'era divenuto lo scopo principale della sua vita, la portavano alla ritiratezza, ad astenersi da ogni comunicazione; e quindi ella non era avvertita dolorosamente di ciò che altri facesse per rivolgerla ad un punto al quale ella tendeva naturalmente.
In altri tempi quella situazione così nuova, così opposta alle sue abitudini, così lontana dalle sue affezioni, le sarebbe stata penosissima, ma la facilità ch'ella vi trovava di ottenere quel suo scopo faceva ch'ella vi stesse con rassegnazione, e quasi vi riposasse se non con piacere, almeno col desiderio di farsela piacere.
E il suo scopo era tuttavia quello di cui abbiamo già parlato: scordarsi di Fermo.
Si studiava ella quindi di rinchiudere tutte le sue idee nella casa dove era stata allogata, di ristringerle alle sue occupazioni, si metteva con grande intensione a tutte le cose che le erano comandate, si rallegrava tutte le volte che vedeva dinanzi a sè molti doveri che occupassero tutta la sua giornata, che non le dessero agio di correre con la mente a desiderj vani e colpevoli, di smarrirsi nelle memorie d'un passato irreparabile.
Le memorie tornavano però sovente a tormentarla; l'immagine della madre era, sempre la prima a presentarsi; e mentre Lucia si fermava a contemplarla con sicurezza, con una mesta affezione, l'immagine di Fermo che le stava dietro nascosta, si mostrava.
Lucia voleva rispingerla tosto; ma l'immagine che non voleva andarsene aveva un buon pretesto, ed era sempre lo stesso, per obbligare Lucia a trattenerla almeno un momento: le ricordava in aria trista e non senza rimprovero i pericoli che Fermo aveva corsi, e quelli che forse gli soprastavano ancora, le rimostrava che quando anche un nuovo dovere può far rinunziare ad un affetto, già così lecito, già così caro, non deve, non vuol però togliere la pietà, la sollecitudine, la carità del prossimo.
Lucia combatteva, rivolgeva la mente ad altre immagini, ma tutte erano tinte di quella prima, tutte la richiamavano.
I luoghi, le persone: Don Abbondio avrebbe dovuto pronunziare quelle parole, per cui ella sarebbe stata di Fermo: i consigli, le cure, del Padre Cristoforo per chi erano? per Lucia e per Fermo: fino il monastero di Monza, fino il Castello del Conte, fino il cardinale Federigo, tutto si legava a Fermo, e molte volte Lucia ripensando a tutto questo, si accorgeva ch'ella si era immaginata di raccontar tutto a Fermo.
Con tutto ciò, ella combatteva, e la guerra sarebbe stata, se non sempre vinta, pure meno aspra e meno dolorosa; Lucia avrebbe potuto, se non ottenere lo scopo almeno andargli sempre da presso, se questo scopo non fosse stato anche quello di Donna Prassede.
La brava signora, per toglier Fermo dall'animo di Lucia, non aveva trovato mezzo migliore che di parlargliene spesso.
La faceva chiamare a sè, e seduta sur una gran seggiola con le mani posate e distese sui bracciuoli di qua e di là dei quali pendevano le maniche della zimarra di dammasco rabescato a fiori, che era stato l'abito di moda nei bei giorni di Donna Prassede, nel tempo in cui v'era buona fede e semplicità, in cui tutti, fino i giovani, erano savj ed onesti, col volto imprigionato tra un cappuccio di taffetà nero che copriva la fronte, e una enorme lattuga che girava intorno alla gola e sul mento, Donna Prassede ricominciava la sua predica per provare a Lucia ch'ella non doveva più pensare a colui.
La povera Lucia protestava da principio con voce angosciosa, e timida, ch'ella non pensava a nessuno.
Donna Prassede non voleva mai stare a questa ragione, e ne aveva molte da opporre: «So come vanno le cose», diceva ella, «conosco il mondo: so come son fatte le giovani: se v'è un ribaldo, è sempre il più accetto.
Fate che per qualche accidente non possano sposare un galantuomo, un uomo di giudizio, si rassegnano tosto; ma se è uno scavezzacollo: non se lo possono cavar dal cuore.
Eh figlia mia, non basta dire: - non penso a nessuno -: vogliono esser fatti, fatti e non parole».
Così seguendo una sua idea, che è anche quella di molti altri, che per far passare in una testa ripugnante i proprj sentimenti, bisogna esprimerli con molta efficacia, adoperare i termini i più forti ed anche esagerati, Donna Prassede non risparmiava i titoli al povero assente, lo nominava come un oggetto d'orrore, di schifo, faceva sentire che sarebbe stata cosa inconcepibile, mostruosa, che alcuno potesse avere interessamento, e peggio inclinazione per colui.
Così ella otteneva appunto l'intento opposto a quello ch'ella si proponeva.
Lucia cercava di dimenticar Fermo; ma quando una parola sgraziata, e nemica glielo voleva a forza rimettere nella mente in un aspetto odioso e spregevole, allora tutte le antiche memorie si risvegliavano ed accorrevano per rispingere una immagine tanto diversa dalla immagine in cui quella mente era stata avvezza a compiacersi.
Il disprezzo con che il nome di Fermo era proferito faceva ricordare a Lucia la condotta, il contegno, il buon nome di Fermo, tutte le ragioni per cui ella lo aveva stimato; l'odio faceva risorgere più risoluto l'interesse; l'idea confusa dei pericoli ch'egli aveva corsi, anche dei falli ch'egli poteva aver forse commessi, pericoli e falli che Donna Prassede rinfacciava a Lucia con eguale amarezza come un egual motivo di avversione, suscitavano più viva e più profonda la pietà, e da tutti questi sentimenti rinasceva quell'amore, che Lucia si studiava tanto di estinguere.
L'amore, acconsentito o combattuto, che sia, dà a tutti i discorsi una forza e un vigore suo proprio.
Lucia diventava coraggiosa, e giustificava Fermo: e Donna Prassede approfittava di quelle parole come d'una confessione per provare a Lucia che non era vero ch'ella non pensasse più a lui.
E con questa prova in mano lavorava sempre più animosamente sull'animo di Lucia, facendole vedere chi era colui ch'ella ardiva pure di difendere.
E che doveva ringraziare il cielo che la cosa fosse finita a quel modo, altrimenti le sarebbe toccato un bel fiore di virtù.
Buon per lui che le gambe lo avevano servito bene, altrimenti, avrebbe fatto una bella figura, avrebbe tenuta compagnia a quei quattro altri galantuomini...
Quando la grossolana signora toccava tasti d'un suono così orribile, la povera Lucia non poteva più fare altro che prendere con la sinistra il grembiale, portarlo al volto per nasconderlo, e per ricevere le lagrime che le sgorgavano dirottamente.
Se Donna Prassede avesse parlato così per un odio antico, per fare vendetta di qualche affronto crudele, l'aspetto del dolore che producevano le sue parole gliele avrebbe forse fatte morire in bocca o cangiare in parole più dolci; ma Donna Prassede parlava per fare il bene, e non si lasciava smuovere: a quel modo che un grido supplichevole, un gemito di terrore potrà ben fermare l'arme d'un nemico, ma non il ferro d'un chirurgo.
Fatte ingojare a Lucia tutte le amare parole ch'ella credeva necessarie pel bene di lei, Donna Prassede, che non era trista in fondo, la rimandava con qualche parola di conforto e di lode, e rimaneva sempre soddisfatta di avere acconciato un po' il cuore di quella giovane.
Acconciato come una gala di mussolo, stirata da un magnano.
La povera Lucia riconoscendo la buona intenzione pregava però caldamente che queste prove d'interessamento le fossero risparmiate.
Donna Prassede aveva nel fondo del suo cuore un altro disegno sopra Lucia, che sarebbe stato il compimento dell'opera.
Silietta si compiaceva molto nella compagnia di quella giovane che era la sola in casa che le desse retta, e la lasciasse parlare; e Donna Prassede pensava che si sarebbe fatto un gran benefizio a Silietta e a Lucia stessa, se si fosse potuto farle nascere la vocazione di andar conversa nel monastero dove Silietta doveva esser monaca.
Quivi Lucia sarebbe stata fuori d'ogni pericolo per sempre, e la buona opera di Donna Prassede sarebbe stata più evidente, più conosciuta; Lucia sarebbe divenuta un monumento parlante della sapiente benevolenza della sua padrona.
Non ne aveva però fatta la proposizione a Lucia, ma con quell'arte sopraffina che possedeva, cercava tutte le occasioni per far nascere spontaneamente nel cuore di Lucia questo desiderio.
A poco a poco queste insinuazioni divenivano più frequenti e più chiare; e Lucia, cominciava a comprenderle, ma però senza che le cominciasse la voglia di acconsentirvi.
V'era nulladimeno per essa un gran vantaggio, che Donna Prassede cadeva meno spesso, e con meno impeto su quel primo, più doloroso argomento, tanto più doloroso, perché Lucia non aveva con chi esilararsi della tristezza angosciosa che quei discorsacci le cagionavano.
La nostra Agnese era lontana, a casa sua, dove pensava sempre a Lucia; e andava spesso alla villa di Donna Prassede per saper le nuove di Lucia; e le nuove le erano sempre date ottime, coi saluti della figlia.
La buona donna si struggeva di rivederla, ma andar fino a Milano! In quei tempi, con quelle strade, con quella scarsezza di comunicazioni, coi bravi, coi boschi, quella era quasi una impresa di cavalleria errante; e Agnese si rassegnava all'idea di esser lontana da sua figlia, come ai nostri giorni farebbe una madre della condizione di Agnese, che avesse una figlia collocata in Inghilterra.
La povera donna aveva un'altra faccenda su le braccia: la corrispondenza con Fermo.
Quantunque egli non trovasse bel paese quello dove non era Lucia, pure, sapendo com'egli stava sui registri di Milano, non ardiva scostarsi dall'asilo.
Faceva scrivere ad Agnese, per chiedergli nuove della figlia; dico, faceva scrivere, perché i nostri eroi, simili in ciò a quelli d'Omero, non conoscevano l'uso dell'abbicì.
Agnese si faceva leggere e interpretare le lettere, e incaricava pure altri della risposta.
Chi ha avuto occasione di veder mai carteggi di questa specie, sa come son fatti e come intesi.
Colui che fa scrivere, dà al segretario un tema ravviluppato, e confuso; questi parte frantende, parte vuol correggere, parte esagerare per ottener meglio l'intento, parte non lo esprimere come lo ha inteso; quegli a cui la lettera è indiritta, se la fa leggere; capisce poco; il lettore diventa allora interprete, e con le sue spiegazioni imbroglia anche di più quel poco di filo che l'altro aveva afferrato: di modo che le due parti finiscono a comprendersi fra loro come due filosofi trascendentali.
Il peggio è quando la situazione della quale si vuol render conto è complicata, e i disegni e le proposte che si voglion fare, sono contingenti e condizionate.
Tale era il caso di Fermo.
Il suo disegno era di stabilirsi a Bergamo, di viver quivi della sua professione, e di farsi con quella anche un po' di scorta, di preparare un buon letto a Lucia, e che allora essa venisse a Bergamo con la madre ed ivi si concludessero le nozze.
Ma i tempi non erano propizii: l'amore, che dipinge le cose facili, bastava bensì a persuadere a Fermo che il suo disegno si sarebbe potuto eseguire in seguito; ma non poteva nascondergli che per allora era ineseguibile.
Bisognava adunque che Fermo facesse intendere ad Agnese questo miscuglio di speranze fondate anzi certe, e di impaccio attuale, di sì nell'avvenire, e di no nel presente.
Agnese ricevette la lettera dopo il ritorno da Monza, intese e fece rispondere come potè.
Il ratto di Lucia fece tanto strepito, che la voce ne giunse a Fermo, ma per buona ventura insieme con quella della liberazione.
Pure ognuno può immaginarsi quali fossero le sue angustie.
Se Lucia fosse rimasta nel suo paese, Fermo certamente non si sarebbe tenuto dall'andarvi: di nascosto, di notte, travestito, per balze, per greppi, come che fosse, vi sarebbe andato.
Ma egli seppe anche che Lucia era partita per Milano; e in tale circostanza non solo il pericolo diventava per Fermo incomparabilmente maggiore, ma il tentativo incomparabilmente più difficile, e l'evento quasi disperato.
Dovette egli dunque contentarsi di chiedere schiarimenti ad Agnese.
La buona donna trovò il mezzo di fargli avere per mezzo d'un mercante quei cento scudi che Lucia aveva destinati a lui, ed una lettera, nella quale v'era l'intenzione di metterlo al fatto di tutto l'accaduto.
Ma questa lettera non isgombrò le inquietudini, e le ansietà di Fermo; anzi i cento scudi le accrebbero: - giacché -, pensava egli, - ora che Lucia per una ventura inaspettata possiede tanto che basta perché noi possiamo viver qui marito e moglie, perché non viene ella, e mi manda invece questi denari, come un dono, come una elemosina, come...
(e qui Fermo si sentiva scoppiare)...
come un congedo? Voglio io denari da lei? E se ella non è mia, pensa ch'io possa da lei ricevere qualche cosa? - Per quanto Agnese avesse cercato di fargli scriver chiaro che Lucia dallo spavento in poi si trovava quale egli l'aveva lasciata, Fermo alla vista di quei denari, e dati a quel modo, era assalito da mille dubbi torbidi e strani.
Le lettere che egli faceva scrivere a Lucia, cadevano tutte in mano di Donna Prassede, la quale certo non le consegnava a cui erano indiritte, ma pel meglio, le leggeva, e si regolava su le notizie che ne ricavava.
Fermo sempre più inquieto chiedeva ad Agnese la spiegazione di quei dubbii e del silenzio di Lucia.
Quand'anche Agnese avesse saputo scrivere non avrebbe potuto soddisfare il poveretto, perché la cagione del silenzio le era ignota, ed essa pure non capiva bene il contegno di Lucia con Fermo.
La spiegazione di tutto era nel voto fatto da Lucia, e che essa non aveva confidato né meno alla madre.
La corrispondenza andava sempre più imbrogliandosi fin che essa fu interrotta dagli avvenimenti che racconteremo nel volume seguente.
TOMO QUARTO
CAPITOLO I
Dalla fine dell'anno 1628 alla quale siamo pervenuti con la narrazione, in sino alla metà del 1630, i nostri personaggi, quale per elezione, e quale per necessità si rimasero a un dipresso nello stato, in cui gli abbiamo lasciati; e la loro vita non offre in questo tempo quasi un avvenimento che ci sembri degno di menzione.
Qualche fatto, benché molto grave per taluno dei nostri eroi, non produsse però mutazione nello stato degli altri.
Pare quindi che noi dovremmo saltare a piè pari al punto in cui la nostra storia ripiglia un movimento, e un progresso generale.
La storia pubblica però di quell'anno e mezzo è piena di successi; e noi non possiamo dispensarci dal riferirli, da essi e con essi nacquero gli eventi privati che formeranno la materia ulteriore del nostro racconto.
Quei successi varii e moltiplici si riducono a tre principali: fame, guerra, e peste: lo dichiariamo sul bel principio, affinché quei lettori che amano cose allegre, possano gettar tosto il libro, e non abbiano poi a lagnarsi di non essere stati avvisati in tempo.
Dopo la bella spedizione del giorno di San Martino, parve per qualche tempo che l'abbondanza invocata da una parte con tanti urli, promessa dall'altra con tanta sicurezza, fosse venuta davvero.
Il pane a quel modico prezzo che abbiam detto; e questa volta non per una ipotesi violenta, ma per un compenso che i Decurioni coi denari della città avevano stabilito ai fornaj: i forni sempre ben provveduti: tutto sarebbe andato bene, se le cose avessero potuto durare così fino al raccolto: vale a dire se l'impossibile fosse divenuto possibile.
È cosa istruttiva e curiosa l'osservare per quali modi i disegni assurdi vadano a male, le volontà insipienti sieno frustrate, notare i principj, i progressi, la varietà degli inciampi e delle resistenze, gli effetti non premeditati nel disegno, e che nascono necessariamente ad impedire l'effetto voluto e promesso.
Noi abbiamo fatte molte ricerche negli atti pubblici e nelle memorie degli scrittori, per tener dietro alla storia di quei provvedimenti annonarj; ma il filo che a gran fatica abbiam potuto prendere da quella matassa scompigliata appena ci ha condotti per un breve tratto, ci ha fatti raccappezzare gli effetti più prossimi.
Ed eccoli quali risultano da autentici documenti.
Quelli che avevano denari oltre il bisogno quotidiano, correvano in folla ai forni a comperar e ricomperare pane, ai mercati a comperar e a ricomperare farine, per farne provvigioni.
Appariva quindi manifestamente che il ribasso del prezzo fatto ad intendimento di dare pane ai poveri, tendeva invece a farlo tutto venire in potere dei facoltosi.
Grida dei 15 novembre, che proibisce il comperar pane e farine per più che il bisogno di due giorni, sotto pene pecuniarie e corporali ad arbitrio di S.E., ordine agli anziani, insinuazione a tutti di denunziare i contravventori, ordine ai giudici di fare perquisizioni per le case.
Come si facciano denunzie e perquisizioni è cosa facile da capirsi; ma quello che nessuno potrà capire davvero né immaginare, si è come con questi mezzi si potesse colpire tanti contravventori da impedire, o da diminuire sensibilmente quella tendenza a fare scorta per l'avvenire.
Un consumo così straordinario in tempi di grande scarsezza doveva rendere difficile a rinvenirsi la materia prima sufficiente: quindi la grida del 23 di novembre che sequestrava in mano degli affittuarj e di chi che altri fosse la metà del riso da essi posseduto (il riso allora entrava nella composizione del pane comune) e la riteneva agli ordini del Vicario e dei dodeci di Provvisione per l'uso della città.
Ma questa città che aveva assunto l'impegno di mantenere il pane al prezzo d'un soldo per otto once, pagando la differenza tra il prezzo reale dei grani, non possedeva tesori inesausti, era anzi imbrattata di debiti, e non sapeva dove darsi di capo per aver danari: perché dunque essa potesse mantenere l'impegno, Grida dei 7 dicembre, che obbliga i possessori del riso a venderlo, non brillato, al prezzo di L.
12, a chi avrà ordine dal Tribunale di provvisione.
A chi ne vendesse a maggior prezzo pena la perdita del riso, una multa di altrettanto valore e maggior pena pecuniaria, ed anche corporale sino alla galera all'arbitrio di S.E.
secondo le qualità dei casi e delle persone.
Così si era provveduto all'abbondanza della città.
Ma i foresi sono essi pure soggetti alla legge di mangiare per vivere: e giacché le gride tiravano per forza da tutte le parti tanto pane in città, era cosa troppo naturale che i foresi accorressero alla città a provvedersene.
Questa cosa naturale, è chiamata un inconveniente dalla grida dei 15 di dicembre, la quale vieta il portar fuori della città pane pel valore di più di venti soldi per volta, sotto pena della perdita del pane, di scudi venticinque, ed in caso d'inabilità, di due tratti di corda in publico, e maggior pena ancora all'arbitrio di S.E.
per ogni volta.
Ai ventidue dello stesso mese la stessa proibizione fu estesa ai grani ed alle farine.
A questo punto, con nostro rammarico, e forse con un maligno piacere dei lettori, ci mancano ad un tratto gli atti autentici; e tutte le memorie storiche che ci è stato possibile di consultare non hanno più nulla né sul prezzo del pane, né sugli altri regolamenti dell'annona.
Fanno soltanto il quadro dello stato del paese in quell'anno 1629, fino al raccolto; ed ecco la copia di quel tristo quadro.
Chiuse o deserte le botteghe, e le officine; gli operaj vaganti per le vie, smunti, scarnati, tendendo la mano ad accattare, o esitando ancora tra il bisogno e la verecondia.
Misti agli operaj i contadini venuti alla città, traendo i vecchj e le donne coi fanciulli in collo, e mostrandoli ai passaggeri, e chiedendo che si desse loro da vivere con una querimonia impaziente, con isguardi abbattuti e pur torvi.
Misti agli operaj e ai contadini molti di quei bravi, già rilucenti d'arme e spiranti una leziosaggine ardimentosa, ora abbandonati dai loro signori, erravano mezzo coperti d'un resto dei loro abiti sfarzosi, domandando supplichevolmente, e guardando con sospetto per non tendere inavvertentemente la mano disarmata e tremante a tale su cui l'avessero altre volte levata repentina a ferire.
Spettacolo che avrebbe rallegrate molte ire, se il sentimento di tutti non fosse stato assorto nella miseria e nel patimento comune.
Nè questi soli, ma di altra varia origine nuovi mendichi confusi coi mendichi di mestiere si aggiravano, o si strascinavano per la città, e nell'abito, e nei modi mostravano indizj dell'antica condizione e della professione che altre volte procuravano loro un vitto certo e a molti agevole.
Da per tutto cenci e lezzo; da per tutto un ronzio continuo di voci supplichevoli, come se si fosse camminato in mezzo ad una processione.
Qua e là a canto ai muri, sotto le gronde, mucchj di paglia, e di stoppie peste, trite, fetenti, miste d'immondo ciarpame, che avevano servito nella notte come di canile ai mendichi cacciati dalla fame alla città, dove non avevano un asilo da posare il capo.
Molti si vedevano rodere con uno sforzo ripugnante erbe, radici, cortecce, che avevano raccolte nei prati, nei boschi, come un viatico fino alla città dove speravano di trovar pure un vitto più umano.
Di tratto in tratto alcuno di quegli infelici si vedeva ristare, vacillare, tendere dinanzi a sè le mani aperte come per cercare un appoggio, e cadere; ed erano talora madri coi bamboli in collo.
Rari, costernati, in silenzio, raccogliendo gli sguardi a sè, quasi per non vedere, abbassando la fronte come se provassero vergogna di tanta miseria, turandosi le narici giravano fra quella turba coloro che altre volte eran chiamati ricchi, ed ora pure davano invidia perché avevano ancor tanto da preservarsi se non dal disagio, almeno dalla penuria mortale.
Altri di essi che poco innanzi passeggiavano con un fasto minaccioso, con un corteggio insolente di spadaccini, ora soletti, in abito negletto e come da corruccio, con gli sguardi depressi, coi volti non avresti saputo dire se storditi o compunti, attraversavano in fretta le vie, e sparivano.
Altri esaurito già il contante che avevano destinato al soccorso dei poverelli, vinti dalla crescente misericordia, aprivano di nuovo lo scrigno, intaccavano le scorte riserbate ai loro bisogni, e uscivano; e assaliti da richieste superiori alla liberalità ed alle facoltà loro, guatavano, per discernere tra miseria e miseria, tra angoscia e angoscia quelle a cui era dovuto più pronto il sovvenimento.
Appena il muovere della mano manifestava una intenzione di liberalità, una gara tumultuosa e incalzante di grida, di sospinte, di mani levate si faceva intorno a loro; gli estenuati e stupidi dall'inedia pigliavano come una forza istantanea dalla nuova speranza, e si pignevano innanzi con violenza; i più robusti gli rigettavano con furore, alle preghiere alla invocazione dei nomi più santi si mescevano le bestemmie della disperazione; i vecchj rispinti tendevano da lontano le palme scarne; le madri alzavano i fanciulli scolorati, male ravvolti nelle fasce stracciate, e ripiegati per languore nelle loro mani.
Quei caritevoli dovevano lasciarsi rapire più tosto che distribuire i soccorsi; e spogliati in un momento di ciò che avevano portato con sè, fra le benedizioni, e le rampogne, rovesciando le tasche vuote, uscivano a stento dalla folla più contristati del male irrimediabile, che soddisfatti del poco bene che avevan potuto fare; e se ne tornavano non avendo più altro da dare in risposta a nuove richieste che un aspetto di commiserazione, un cenno delle mani che esprimeva una buona volontà inutile, una ripulsa dolente.
In mezzo ad una tanta confusione di guaj, e ad una tanta insufficienza d'ajuti, si mostrava però a luogo a luogo un ajuto più generale e più ordinato che annunziava una grande copia di mezzi, e una mano avvezza a profondere con sapienza.
Era la mano del nostro Federigo.
Oltre le elemosine in vitto e in danaro, ch'egli distribuiva (il Tadino afferma che nel suo palazzo due mila poveri ricevevano ogni giorno una capace scodella di riso) aveva l'ingegnoso compassionatore deputati sei preti che girassero a coppia per pigliar cura dei poveri sfiniti per le vie.
Ad ogni coppia aveva assegnato un quartiere della città tripartita; ogni coppia era seguita da facchini che portavano grandi corbe con pane, vino, minestra, uova fresche, brodi stillati, aceto medicato d'aromi.
S'accostavano quei preti ai poverelli che giacevano abbandonati sul pavimento, e soccorrevano ad essi secondo il bisogno: a questo esinanito dal digiuno il cibo era il più necessario ed efficace rimedio: quell'altro svenuto per più antica inedia, e già presso al morire, non avrebbe avuto vigore abbastanza per patire né per prendere il cibo; e faceva mestieri di più sottili e potenti ristorativi per richiamarlo alla vita, e rendergli a poco a poco le forze.
Quando alcuno d'essi era rinvenuto o riconfortato, uno dei preti gli amministrava i sacramenti, e le consolazioni della religione, quindi guardava intorno a sè per vedere in qual casa del vicinato avrebbe potuto procurargli un ricovero, trovatolo ve lo faceva portare.
Se il padrone era dovizioso, il prete in nome del Cardinale lo supplicava che volesse ricettare, collocare in qualche angolo della casa, nutrire quel derelitto che Dio gli mandava; ma quando il languente era portato in una casa, dove non sembrasse che in un tale anno potessero sovrabbondare provvisioni per usi di carità, quivi il prete pregava il padrone a ricogliere e ad ospiziare per prezzo colui che vi era presentato; e sborsava il prezzo generoso anticipatamente.
Notava poi il luogo, e tornava a visitare il raccomandato, a curare che nulla gli mancasse; così mentre l'un prete soccorreva i giacenti nella via, l'altro percorreva le case dove erano raccolti quegli altri.
La riverenza dell'abito sacerdotale, l'autorità di Federigo come presente a quegli uficj prestati per suo ordine, e la santità degli uficj stessi, contenevano la folla tumultuosa, in modo che quei preti potessero esercitarli tranquillamente e ordinatamente.
Era questo per certo un alleggiamento ai pubblici mali, e grande se si consideri che veniva da un solo avere e da una sola volontà, ma rispetto ai bisogni scarso e inadeguato.
Intanto che in tre angoli della città alcuni pochi erano levati da terra, e ravvivati, in cento parti cadevano le centinaja, e molti per non esser più rialzati che sulle spalle dei sotterratori.
Nè le morti continue diradavano quella folla miserabile, la fame incalzava da tutte le parti del territorio nuova folla alla città; le vie che vi conducono qua e là segnate di cadaveri, brulicavano sempre di nuovi pellegrini che dal piano circostante, dai colli meno vicini, dai monti lontani venivano strascinandosi; diversi d'abito, e di pronunzia, oggetto l'uno all'altro non più di pietà ma di orrore, luridi tutti, ognuno più sbigottito dal trovarsi in mezzo a tanti compagni di disperazione, a tanti rivali d'accatto.
Attraverso costoro passavano pure altri non meno luridi pellegrini che fuggivano dalla città, non già sperando di trovare in altra parte più facile sostentamento, ma per morire altrove, per mutare un cielo divenuto odioso, per non veder più quei luoghi dove avevano tanto patito.
Così crescendo sempre il numero dei poveri a misura che la popolazione s'andava scemando era trascorso l'inverno e già avanzata la primavera.
E quei poveri si andavano sempre più condensando nella città; accorrevano la più parte negli alberghi; e avrebbe dovuto essere bene spietato, ma anche ben sicuro il padrone che negasse loro quella ospitalità: quivi giacevano le notti ammucchiati su la paglia, sul letame: le case, le vie si riempivano di malati, di cadaveri, di cenci, e di puzzo: dimodoché si cominciò a temere che alla fame tenesse dietro la contagione.
Il tribunale della Sanità instava presso quello della Provvisione perché si antivenisse questa nuova sciagura; e proponeva che seguendo l'esempio e dilatando l'opera di Federigo, raccolto tutto ciò che poteva esser destinato al pubblico soccorso, si distribuisse nutrimento a quelli che ne mancavano, e gl'infermi si raccogliessero, e si collocassero in diversi ospizj per rendere più facile il servizio, e per evitare i pericoli di una troppo grande riunione.
Ma nella Provvisione prevalse il partito di raccattare tutti gli accattoni validi e infermi nella fabbrica del Lazzeretto.
I medici conservatori del Tribunale della Sanità, protestarono contra questo disegno, allegando che in una tanta turba ammassata in un luogo e costretta in picciole stanze l'epidemia sarebbe stata inevitabile; ma alle proteste non si diede retta, come afferma il Tadino uno di quei medici.
E se vogliamo credergli in tutto, la cagione principale di far prevalere quel partito fu il desiderio di servire ad un interesse privato, o a quello che alcuni privati credevano il loro interesse.
Erano nel Lazzeretto deposte molte merci venute da paesi sospetti di peste, e si ritenevano quivi per le purghe e per le prove; coloro a cui quelle merci appartenevano brigarono perché il Lazzeretto fosse destinato ad un altro uso, e con questo pretesto le merci fossero loro rilasciate: e furono esauditi.
Il Lazzeretto (se mai questa storia venisse alle mani di chi non sia mai stato a Milano) è una fabbrica quasi quadrata: i due lati maggiori tirano a un di presso cinquecento passi andanti; gli altri due poco meno; un fossato scorre e volta intorno all'edificio: ogni lato ha nel mezzo una porta, e un ponte sul fossato: tutti i lati dell'edificio nella parte rivolta al di fuori sono divisi in camerette, che sono in tutto 296: nell'interno gira per tre lati un porticato: lo spazio interiore è sgombro; fuorché nel mezzo, dove sorge un tempietto ottangolare.
All'aprirsi dell'estate il Lazzeretto fu sgombro dalle merci, disposto pel nuovo uso, ed aperto ai mendicanti.
Da principio vi accorsero volonterosi i più famelici e desolati: ma altri, che dal trovarsi in più picciol numero ad accattare speravano più frequenti soccorsi, e ai quali ad ogni modo era meno amaro lo stentare in libertà che campacchiare rinchiusi, non risposero all'invito.
Dall'invito, come è l'uso, si venne alla forza, si mandarono birri che agguatassero chi mendicava, e chi dall'aspetto appariva un pezzente, lo legassero pel suo migliore, e lo trasportassero a forza al Lazzeretto: e per ognuna di queste prede era stato assegnato al predatore una ricompensa di dieci soldi: tanto è vero che anche nelle più grandi strettezze non mancano mai danari per fare delle minchionerie.
In poco tempo il Lazzeretto tra volontarj e sforzati rinchiuse poco meno di dieci mila poverelli, d'ogni età, e d'ogni sesso, della città, del contado, di più lontane regioni; uomini che avevano passata la loro vita in una operosa semplicità; e scherani pasciuti in una scioperaggine facinorosa; donne, fanciulle, giovanetti nutriti nella verecondia e nella inesperienza del tugurio, dei campi, della officina domestica, nelle consuetudini della pietà; altri fino dall'infanzia disciplinati nella scola del trivio, all'accatto, alla ruba, alla buffoneria, alla truffa, al dileggio; non sapendo né ricordandosi di Dio, se non quel tanto ch'era necessario per bestemmiare il suo nome.
Si trattava di allogare, di alimentare, e di contenere con una eguale disciplina un raccozzamento così numeroso di tali e d'altri più diversi e moltiplici elementi; e la cosa sarebbe riuscita ottimamente, se la buona intenzione, lo zelo, e l'affaccendamento di alcuni potessero bastare ad ogni impresa.
Il numero dei ragunati nel Lazzeretto fece che fossero stivati a venti a trenta per ogni cella, ove si giacevano prostrati come bestie, dice il Tadino, sopra una paglia imputridita.
Il pane che si distribuiva ad essi avrebbe dovuto, secondo gli ordini della Provvisione esser buono; perché quale amministratore ha mai ordinato che si faccia e si distribuisca pane cattivo? Ma si tenne da tutti che quel pane fosse adulterato con sostanze insalubri, non nutritive; cosa più che probabile in tanta scarsezza; e con tanta difficoltà d'invigilare.
Quanto al governo di quella brigata, v'erano pure ordini perché ognuno si contenesse con modestia, si lasciassero i vizj, e l'ozio che ne è il padre, perché quegli che potevano esercitassero quivi l'arte loro, e gli altri almeno non mettessero scompiglio.
A malgrado però degli ordini, mirabil cosa! coloro che erano stati vagabondi prima d'entrare nel Lazzeretto, vagabondavano quivi come potevano; e attendevano a molestare gli occupati: quegli che v'erano stati cacciati a forza riempivano tutto di querele, di bestemmie, di tumulto.
In somma l'angustia, la sporcizia, la caldura, il cibo malsano, le acque stagnanti, la noja, l'accoramento, il furore, la sfrenatezza d'ogni genere fecero ivi tanto sperpero, che in poco tempo la mortalità si manifestò più grande fra quei poveri a cui si era così provveduto che non fosse stata nei dispersi e abbandonati.
In alcuni giorni il numero dei morti in alcune camerette oltrepassò la decina.
Il Tribunale della sanità rimostrava, indefessamente, tutta la città mormorava, la confusione e la strage cresceva ogni giorno, la cosa era divenuta insopportabile a quelli che la facevano, a quelli per cui era fatta, i deputati non avevan più testa; si tenne consulta, e il partito il più savio, il più ovvio, il partito indeclinabile parve a tutti di disfare ciò che s'era fatto con tanta fiducia e con tanto apparato; il Lazzeretto fu aperto, e i poveri lasciati all'antica licenza di errare mendicando.
S'affoltarono ai cancelli con un tripudio iracondo; una gioja furente e spensierata si dipingeva come a forza in quegli sguardi foschi e mezzo estinti, su quei tratti indurati nella espressione del dolore: il sentimento della libertà racquistata suppliva in quel primo momento a tutte le speranze, a tutti i bisogni.
La città tornò a risuonare dell'antico clamore, ma più interrotto e più fievole; rivide quella turba più rada, ma più ancora miserevole, più sformata, più orrenda per la diminuzione stessa; la quale faceva risovvenire ad ogni pensiero che dei tanti scomparsi nessuno era uscito da quella gramezza che per la morte.
Questo fu nell'estate: il raccolto venne finalmente a salvare coloro nei quali l'inedia non era degenerata in morbo incurabile; la mortalità si andò a poco a poco scemando; quegli che erano stati sospinti dalle necessità al mendicare ritornarono alle antiche loro occupazioni.
Si cominciava a respirare, e i mali già consumati nel passato divenivano un soggetto di commemorazione e di trattenimento, grave sì ma non senza qualche dolcezza pel pensiero di averli varcati, non senza qualche fiducia di miglior tempo, parendo agli uomini di avere esauriti in breve spazio i patimenti che avrebbero dovuto diffondersi in una lunga durata, di aver quasi pagata una gran parte di tributo anticipato alla sventura; quando nuovi mali richiamarono sul presente l'attenzione e il terrore di tutti.
Non la guerra propriamente detta, ma un passaggio di truppe, più funesto agli abitanti che nessuna guerra più accanita, desolò una parte del Milanese; e condusse la peste dalla quale nessun angolo di quel paese fu salvo.
Ci conviene ora accennare brevemente le origini di tanta rovina.
Vincenzo I Gonzaga duca di Mantova era morto nel 1612, lasciando tre figli.
Il primo Francesco morì nello stesso anno, e non rimase di lui che una figlia per nome Maria; Ferdinando che dopo di lui tenne lo stato morì senza prole legittima nel 1626; Vincenzo II l'ultimo dei fratelli gli succedette in età di 32 anni già consumato dagli stravizzj, senza speranza di prole, e manifestamente vicino al sepolcro.
Già molte ambizioni, molte cupidigie, molti sospetti stavano all'erta aspettando ch'egli vi scendesse.
Ma egli aveva instituito erede per testamento Carlo Gonzaga Duca di Nevers, del resto suo parente il più prossimo.
E per assicurare l'effetto di questa disposizione, aveva segretamente fatto scrivere al Nevers che mandasse a Mantova il figlio, pur egli Carlo Duca di Rethel affinché al momento che il Ducato verrebbe a vacare, potesse pigliarne il possesso in nome del padre.
Ma oltre il Ducato di Mantova, dalla successione del quale erano per investitura escluse le femine, Vincenzo lasciava pur quello del Monferrato, al quale, pel complicato, confuso, incerto, variamente applicabile diritto pubblico d'allora, Maria, nipote di Vincenzo poteva aver qualche ragione.
Per togliere ogni soggetto ed ogni pretesto di dissensioni, pensò il Duca Vincenzo, o chi pensava per lui, a dare quella Maria in moglie al Duca di Rethel che aveva fatto chiamare.
L'aspettato giovane arrivò che il Duca Vincenzo era agli estremi: le nozze che questi aveva proposto si fecero nella notte dopo il 25 Dicembre 1628, mentre egli moriva.
La morte e il matrimonio terminano per lo più le tragedie e le commedie del teatro; ma danno sovente principio alle tragedie e alle commedie della vita reale.
Al mattino lo sposo comparve in grande abito da lutto, assunse il titolo di Principe di Mantova, e padrone delle armi e della Cittadella, fu senza difficoltà riconosciuto dagli abitanti.
Ma v'era altri a questo mondo che avevano qualche cosa da dire in quella faccenda.
Luigi XIII re di Francia, o per dir meglio il Cardinale di Richelieu sosteneva il Nevers, uomo d'origine italiana, ma nato francese; anzi aveva egli il cardinale, per mezzo di legati avuta gran parte nel testamento del Duca Vincenzo.
Don Filippo IV, o per dir meglio il Duca d'Olivares, non poteva patire che un principe francese venisse a stabilirsi in Italia, e sosteneva le pretensioni di Don Ferrante Gonzaga parente più lontano del Duca Vincenzo.
Carlo Emmanuele Duca di Savoja aveva pure antiche pretensioni sul Monferrato; i Veneziani ai quali dava ombra la grande potenza spagnuola in Italia favorivano il Duca di Rethel ma con trattati, con promesse e con minacce; e Urbano VIII inclinato a quel Duca e sopra tutto alla pace, ajutava come poteva queste due cause con raccomandazioni, e con proposte di accomodamenti.
Finalmente l'imperatore Ferdinando II pretendeva che il Duca di Nevers erede trasversale, non aveva potuto senza il suo consenso impossessarsi di feudi dell'impero la successione ai quali era rivendicata da altri.
Richiedeva quindi che il possesso degli stati fosse depositato presso di lui, finch'egli gli aggiudicasse per sentenza, e citò il Duca di Nevers con tutte le formalità allora in uso.
V'erano poi altre pretensioni secondarie e più intralciate che passiamo sotto silenzio per non annojare il lettore, il quale comincia forse a mormorare; e certamente non saprà abbastanza apprezzare la fatica che facciamo per ristringere in brevi parole tutta questa parte di storia.
Il Duca d'Olivares, istigato continuamente dal Cordova governatore di Milano, strinse un trattato col Duca di Savoja contra il novello Duca di Mantova.
Questi si pose sulla difesa, si venne alle mani, Carlo Emmanuele invase il Monferrato, e Cordova pose l'assedio a Casale.
Il Duca di Mantova stretto da due nemici potenti invocava gli amici; ma i Veneziani non volevano muoversi se il re di Francia non mandava un esercito in Italia, e il re di Francia o il Card.
di Richelieu, era impegnato nell'assedio della Rocella.
Presa questa, parati o vinti certi intrighi imbrogliatissimi di Corte, il re e il cardinale s'affacciarono all'Italia con un esercito, chiesero il passo al Duca di Savoja; si trattò, non si conchiuse, si venne alle mani, i Francesi superarono, e acquistarono terreno, si trattò di nuovo, il passo fu accordato, il re e il Cardinale s'avanzarono, trassero agli accordi il Cordova spaventato, gli fecero levare l'assedio di Casale, vi posero guernigione francese, e tornarono a casa trionfanti, e accompagnati da due sonetti dell'Achillini.
Il primo, quello che comincia col famoso verso:
Sudate o fochi a preparar metalli,
è tutto di lode; l'altro è di consiglio; perché la poesia ha sempre avuto questo nobile privilegio di ravvolgere avvisi sapientissimi, e insegnamenti reconditi negli idoli lusinghieri della fantasia, e nella magica armonia dei numeri.
L'Achillini consigliava il re di Francia vincitore della Rocella e liberatore di Casale di tentare l'impresa del Santo Sepolcro, né più né meno.
Però il Cardinale di Richelieu non ne fece nulla: convien dire che avesse altro in testa.
Ma i Veneziani che allo scendere dei Francesi, s'erano dichiarati e mossi, istavano per legati e per lettere presso il Cardinale perché l'esercito da lui condotto non tornasse indietro, e adducevano mille ragioni per provare che non era da far conto su quei trattati; ma il Cardinale badò alla prosa dei Veneziani come ai versi dell'Achillini.
La guerra continuò infatti contra il Duca di Mantova.
Questi aveva fatte e andava facendo tutte le sommessioni immaginabili all'imperatore affine di placarlo, e di piegarlo ad accordargli l'investitura.
Ma Ferdinando stava fermo in esigere che i Ducati fossero a lui ceduti in deposito; e irritato dalle ripulse del duca più che ammansato dalle sue riverenze; irritato di più dell'aver questi domandato il soccorso francese, stimolato dalla corte di Madrid, si dichiarò anch'egli nemico del Duca di Mantova.
L'esercito Alemanno di circa trentasei mila uomini, ragunato sotto il comando del Conte di Colalto, ebbe ordine di portarsi all'impresa di Mantova: la vanguardia che già da qualche tempo aveva occupato ostilmente il paese de' Grigioni, si diffuse per la Valtellina, e ai 20 di settembre entrò nello Stato di Milano.
La milizia a quei tempi era ancora in molte parti d'Europa composta in gran parte di venturieri che si ponevano al soldo di condottieri di professione, i quali andavano poi coi loro drappelli al servizio di questo o di quel principe.
Oltre le paghe sulle quali non era da fare assegnamento certo, quello che determinava gli uomini ad arruolarsi era la speranza del saccheggio e tutte le vaghezze della licenza.
Disciplina generale non v'era in un esercito, né avrebbe potuto conciliarsi con le varie autorità private dei condottieri: e questi, prima di tutto non si curavano di mantenere una disciplina particolare nei loro reggimenti, perché non avevano per questa parte responsabilità verso nessuno; e quand'anche alcuno di essi a cose pari avesse pur desiderato di contenere i suoi soldati in un qualche rispetto per le proprietà e per le persone degli abitanti, questo disegno sarebbe stato per lo più o contrario ai suoi interessi, o superiore alle sue forze.
Perché soldati di quella sorte o si sarebbero rivoltati, o avrebbero tosto deserte le bandiere di un comandante nemico della violenza e del saccheggio.
Oltre di che siccome i principi nel comperare i soldati pensavano più ad averne in gran numero per assicurare le imprese, che a proporzionare il numero alla loro facoltà di pagare, la quale era ordinariamente molto scarsa, così le paghe erano per lo più ritardate e mancanti; e le spoglie dei paesi dove passava l'esercito divenivano come un supplemento tacitamente convenuto degli stipendj.
Quindi i soldati di quel tempo e per le tendenze che gli avevano tratti a scegliere quella professione, e per le abitudini di essa erano come una collezione di tutte le nequizie che può dare la natura umana nel suo maggior grado di pervertimento.
Ma quelli che allora scendevano nel Milanese erano poi il più bel fiore di quella farina; erano in gran parte gli stessi che guidati dall'atroce Wallenstein avevano poco prima desolata la Germania, in quelle guerre, tanto impropriamente chiamate di religione, poiché queste stesse masnade che avevano combattuto per la parte che pretestava di sostenere la religione cattolica erano composte in parte di Luterani.
L'annunzio della venuta di costoro portò il terrore nei distretti per dove avevano a passare: nelle altre parti si diceva: «povera gente! stanno freschi: chi sa come gli acconciano coloro! vedrete che non lasceranno loro altro che gli occhi per piangere; sia lodato Dio che non passeranno per di qua».
Ma chi sapeva che quell'esercito portava la peste con sè, e l'aveva già disseminata nei luoghi dove aveva stanziato, sentiva qualche cosa di più che una fredda pietà per altrui.
La maggior parte però degli abitanti del Milanese o non lo voleva credere, o non se ne curava, o con quella fiducia senza motivi così strana, e così comune, diceva: «Poh! che ha da venire la peste da noi?»
Colico sulle rive del lago di Como presso alla foce dell'Adda, fu la prima terra che toccarono quei demonj; e, dopo d'averla messa a sacco l'arsero addirittura, se per rabbia di non avervi trovato abbastanza bottino, o pel diletto di fare una baldoria, non si sa.
Di là, senza curarsi d'itinerario né di poste assegnate, ma guardando solo dove fosse più da sperarsi bottino, si gettarono sopra Bellano, lieto paese sulle falde d'un monte e alla riva del lago.
Gli abitanti ammoniti dall'esempio recente e dalla prossima ruina avevano o nascoste sotterra, o trasportate in fretta sui monti le cose più preziose, e le più facili a trasportarsi; e molti di essi s'erano appiattati lassù, abbandonando le case.
Con tanto più di furore v'entrarono quelle masnade, e delle cose lasciate, presero tutto ciò che poteva loro servire e sperperarono ed arsero il resto, mobili, botti, travi.
Quegli che erano rimasti colla speranza di preservare i loro averi, ne videro la distruzione, videro l'abominevole sfrenatezza, e per sopra più soggiacquero agli strapazzi, alle percosse e alle ferite.
Nè i campi all'intorno furono risparmiati; la vendemmia, somma speranza dei terrazzani in quell'anno calamitoso sparve in un momento, coll'uve furono sterpate le viti, gli alberi abbattuti col frutto, molti casali incendiati.
Appena cessavano di farsi udire le trombe che avevan sonata la partenza d'un reggimento, un nuovo squillo dall'altra parte annunziava terribilmente l'arrivo di altra simile, anzi peggiore brigata.
I sopravvegnenti, trovando la distruzione dove avrebbero voluto portarla, si vendicavano su le cose e su le persone che capitavano loro alle mani, come di un furto che fosse stato loro fatto: e tanta cupidigia frustrata tornava tutta in furore.
Qualche memoria del guasto di quel paese ci rimane in alcune lettere di Sigismondo Boldoni scrittore riputatissimo ai suoi tempi, e che forse avrebbe acquistato un nome più esteso e più autorevole anche presso ai posteri se non fosse morto all'uscire della giovinezza, e sopra tutto se quei pochi anni gli avesse vissuti in un secolo, in cui fosse stato possibile concepire nuove idee d'una precisione e d'una importanza perpetua, e per esporle, trovare quello stile che vive.
Questi sulle prime non aveva voluto fuggire, e parte cercando di avere ad alloggio ufiziali, parte chiamando soccorso di soldati italiani ivi stanziati era venuto a capo di preservare la sua casa, e di difenderla poi quando fu minacciata: e racconta agli amici i suoi pericoli, e gli altrui disastri.
V'è pure in una di quelle sue lettere un tratto singolare che merita d'esser ricordato.
Il tenente del colonnello Merode, il cui reggimento era venuto pel primo, entrato nel giardino di Sigismondo, accennò un boschetto, e domandò che razza di piante fossero quelle, e che frutto portassero.
- Ahi barbaro! - pensò il Boldoni: - non conosce l'alloro, - e conchiuse fra sè che da tal gente non era da sperarsi misericordia.
Desolato quel territorio, le feroci locuste si gettarono nella Valsassina.
È un gruppo di montagne e di valli, paese poco visitato dal sole, intersecato da torrenti, petroso e selvatico negli accessi, ma per entro rivestito in gran parte di ricchi pascoli, e più fertile che non l'annunzi il suo nome: ha varie terre, quale sul pendio, quale nel fondo a luogo a luogo assai vasto perché si possa chiamarlo pianura: e sur alcuni monti più erbosi sono sparse bianche e picciole casette, che da lontano raffigurano quasi un gregge sbandato al pascolo.
Non vi mancavano possessori agiati, ma la più parte degli abitanti erano e sono tuttavia mandriani i quali vi dimorano nelle stagioni più miti, e passano al piano i mesi più rigidi.
La fama spaventosa della sorte di Bellano precedeva le truppe, e i valligiani s'erano presso che tutti rifuggiti sulle somme alture lasciando deposte sotterra presso le case le loro ricchezze, e cacciando dinanzi a sè le mandrie che sono la principale.
Ma i saccheggiatori, ai quali non bastava quello che era stato loro abbandonato e a cui le arti di preservazione degli abitanti avevano suggerite nuove arti di offesa e di depredazione, si diedero a rintracciarli.
Quelli che erano stati più lenti a fuggire, o che furono sorpresi nei loro nascondigli, strascinati giù pei greppi a minacce, a percosse, ricondotti nei villaggi, erano quivi sottoposti alle torture, che può inventare la cupidigia più crudele, perché rivelassero i tesori nascosti.
Due passioni ben diverse, ma egualmente potenti, l'avidità e il terrore supplivano alle convenzioni del linguaggio, e si spiegavano fra di loro in un rapido e terribile dialogo.
I gemiti, le voci supplichevoli, le mani giunte al petto, o stese al cielo non impetravano che nuovi strazj: l'infelice che si prostrava ad abbracciare le ginocchia dei suoi oppressori, era rialzato a forza di percosse.
Colui che aveva riposto sotterra o danaro o suppellettile, o a cui il vicino per far pompa di previdenza e di sicurezza nei suoi ripieghi aveva confidato il luogo del suo deposito, si stimava felice di avere con che acchetare quella perversità; accennava premurosamente, con aria di sommessa e quasi amichevole intelligenza ai soldati che lo seguissero, e mostrava loro la terra di recente smossa, o l'armadio murato di fresco; e cercava di sguizzare fra mezzo i saccheggiatori che ciechi per ingordigia si gettavano a gara sulla preda.
Dalla Valsassina il temporale discese nel territorio di Lecco.
CAPITOLO II
Le contingenze infelici della vita umana son tante, che non di rado l'uomo oppresso da una sventura, può consolarsi col pensiero d'altro male o di peggio, che senza quella sventura gli sarebbe capitato infallibilmente.
Se la infame passione di Don Rodrigo non fosse venuta a turbare i placidi destini di Fermo e di Lucia, essi dopo d'aver passato un anno d'inopia, contra la quale chi sa se le loro facoltà avrebbero bastato, si sarebbero ora trovati, probabilmente con un bambinello, esposti nel loro paese a quella orrenda furia militare, costretti a fuggire; e quando avessero schivati tutti i pericoli della persona, tornando poi a casa non v'avrebbero trovate che le muraglie e quelle mezzo diroccate, e i segni perversi e luridi del sozzo torrente che v'era passato.
Questi guaj sembrano ora leggieri al paragone di ciò che Lucia e Fermo hanno sofferto in quella vece; ma allora non v'essendo il paragone, e non potendo essi nemmen per sogno immaginare come possibili tutte le traversie che abbiamo narrate, quel minor male sarebbe ad essi paruto il colmo della infelicità.
Comunque sia, in mezzo a tanti mali fu una ventura per entrambi l'esser lontani da casa loro in quel brutto momento.
E Agnese? Agnese si trovava mò proprio nell'intrigo.
«Vengono; hanno saccheggiata Cortenova, hanno dato il fuoco a Primaluna, disertato Introbbio, Pasturo, Barzio, si sono veduti a Ballabio, son qui, son qui»; così la fama andava di momento in momento crescendo e avvicinando il terrore.
Alcuni di quei poveri valligiani, che invece di rintanarsi sui monti dove forse non sarebbero stati sicuri, avevano stimata miglior via di fuga, precorrere il nemico, giungevano ansanti, spaventati, in disordine, come reliquie d'un esercito disfatto e inseguito, e raccontavano cose orribili della crudeltà dei soldati, principalmente contra coloro che fossero o paressero opulenti.
Agnese aveva ancora una ventina di quegli scudi d'oro che il Conte del Sagrato le aveva donati così a proposito, e quasi per ispirito di profezia.
Che in quell'anno, senza quell'ajuto di costa, la poveretta sarebbe stata ridotta a morire di stento, o a pitoccare disperatamente come tanti altri.
Ma dopo d'aver sentiti i vantaggi della ricchezza, Agnese ne provava ora tutte le cure e i terrori.
È ben vero ch'ella aveva sempre dissimulata prudentemente quella ricchezza, e il solo che fosse del segreto era Don Abbondio che era stato testimonio del dono, e al quale essa ricorreva per fargli di tempo in tempo cambiare uno scudo in picciola moneta.
Ma una indiscrezione poteva avere tradito il segreto, o un sospetto averlo indovinato, e allora il pericolo sarebbe stato terribile, e la fuga mal sicura.
Poiché era cosa nota che nei luoghi dove la soldatesca era già passata, uomini, ai quali in verità non si saprebbe trovare un epiteto, o per invidia, o per isperanza di premio avevano guidati quei masnadieri al nascondiglio di qualche lor paesano denaroso, segnandolo così allo spoglio, ed ai tormenti.
Per queste ragioni Agnese fluttuava in un dubbio tempestoso: più volte, vedendo passare qualche frotta de' suoi paesani che tiravano verso i monti, s'era mossa per mettersi in loro compagnia; e poi ristava, pensando con raccapriccio ai pericoli che l'asilo stesso poteva avere per lei.
Ma dove trovare quello che le desse la sicurezza particolare di ch'ella aveva bisogno? Maneggiando e rimaneggiando quegli scudi d'oro, svolgendoli, e rincartocciandoli, togliendoli di seno per riporveli meglio, le sovvenne di colui che glieli aveva dati, delle sue proferte, del suo castello posto al confine e in alto come il nido dell'aquila; e si fermò tosto nel pensiero di cercarsi l'asilo colà.
Aveva già sotterrate, nascoste sul solajo, riposte alla meglio le masserizie più grosse; sbarrò come potè le finestre; tolse un fardello dove aveva ragunato ciò che le sue forze bastavano a portare; ravvolse per l'ultima volta quegli scudi d'oro, e li cacciò sotto il busto, tra la camicia e la pelle, uscì di casa, chiuse la porta, più per non trascurare una formalità che per fiducia che avesse in quei gangheri e in quelle imposte, si mise la chiave in tasca, e s'avviò.
Trovandosi così soletta in istrada pensò quanto le sarebbe stato prezioso un compagno in quel tragitto.
Ma voleva esser galantuomo, galantuomo a tutte prove, superiore ad ogni sospetto e più forte d'ogni tentazione.
- Dove trovarlo anche questo? Il curato? Perché no? la casa parrocchiale è a pochi passi; tentiamo.
Chi non ha veduto Don Abbondio in quel giorno non ha una idea vera dell'impaccio.
I nemici che si avvicinavano erano i più terribili che egli avesse mai avuti a fronte, e quelli contra cui erano più inutili tutte le sue armi, tutti i suoi stratagemmi.
Non era gente da ammansarsi colla pieghevolezza, e colla sommessione, molto meno da contenersi coll'autorità.
Non v'era salute che nella fuga; ma primo di tutti a risolverla Don Abbondio era poi rimasto indietro di molti per le difficoltà che trovava nella fuga stessa, e per le condizioni ch'egli vi aveva voluto porre.
L'ertezza del cammino lo spaventava, e questo spavento gli aveva fatto perder qualche tempo a voler persuadere or l'uno or l'altro dei suoi parrocchiani che lo portassero in lettiga; ma in verità quello non era momento da trovar lettighieri.
Era pure andato pregando tutti quelli che avevano buone spalle, che per amore del loro curato si caricassero delle sue masserizie, delle sue provvigioni, anche dei suoi mobili, per portarli in alto e riporli in salvo; ma si era indirizzato ad uomini occupati a scegliere fra i pochi loro averi quello che si poteva trafugare, lasciando con dolore il resto alle voglie dei ladri: e nessuno aveva spalle da allogare a Don Abbondio.
Pensava finalmente a nascondere il tutto sul luogo, ma la cosa era per sè difficile, e il tempo stringeva.
Di più non aveva ancora saputo scegliere un asilo, e senza farne mostra, era tormentato dallo stesso timore che Agnese.
Girava il pover uomo per la casa tutto affannato e stralunato, non sapendo che farsi, se la prendeva quando col duca di Nivers, come diceva egli, che avrebbe potuto rimanersi in Francia e voleva a forza esser duca di Mantova, quando col duca di Savoja che voleva ingrandirsi, quando coll'imperatore che stava su certi puntigli, e quando con Don Gonzalo di Cordova che non aveva saputo mandare quei diavoli per un'altra strada.
Bestemmiava ancor più la durezza dei suoi parrocchiani che non volevano dargli ajuto.
- Oh che gente! -, sclamava - che gente! ognuno pensa a sè! non c'è carità! - Si faceva alla finestra, e chiamava quelli che passavano con una certa voce mezzo piagnolente, e mezzo rimbrottevole.
«Venite a dare una mano al vostro curato, se avete viscere di misericordia; non siate così cani.
Ajutatemi a portar via quei pochi stracci, quei pochi stracci» ripeteva, perché nessuno sospettasse ch'egli avesse cose preziose da salvare.
«Aspettatemi, che venga anch'io con voi; aspettate almeno che siate quindici o venti, tanto da potermi guardare, ch'io non sia abbandonato.
Volete voi lasciarmi solo in man dei cani? Meritereste che il vostro parroco fosse spogliato, ammazzato.
Misericordia! Fermatevi dunque».
- Eh! tiran di lungo.
Oh che gente!
Bisogna dire che Don Abbondio fosse ben accecato dalla paura per parlare a quel modo.
Quegli a cui egli faceva quelle preghiere e quei rimproveri, passavano dinanzi alla sua casa curvi sotto il peso delle robe loro, quale trascinandosi dietro la sua vaccherella, quale traendosi dietro i figli che a stento lo seguivano, e la donna che portava quegli che non potevano camminare, quale reggendo un vecchio o un infermo.
Altri tornavano scarichi dal monte a raccogliere altre masserizie, finché reggessero le forze, e lo permettesse il pericolo.
Alcuni di loro non rispondevano a Don Abbondio, altri diceva: «eh sì! s'ingegni anch'ella signor curato».
- Oh povero me! oh che gente! - ripeteva egli.
- Ognuno pensa a sè: ognuno pensa a sè; e a me nessuno vuol pensare.
Per buona sorte Perpetua aveva conservato assai più sangue freddo, e operava e dava consigli, come Catterina prima aveva fatto nel campo alle rive del Pruth quando Pietro stretto tra i Turchi e i Tartari, non trovando uscita né consiglio, era caduto d'animo, non sapeva a che partito appigliarsi, e non aveva più energia che per isfogarsi in querele e in rimproveri.
Perpetua ben convinta che non era da fare assegnamento sopra altri, aveva fatto due fardelli uno per sè, uno per Don Abbondio; e poi in fretta e in furia, sparpagliava il resto delle masserizie nei bugigatti più nascosti della casa, sul solajo sotto il pagliajo, dietro i tini.
Quando questa faccenda fosse terminata alla meglio, ella aveva proposto di presentare a Don Abbondio il fardelletto destinato per lui, e d'intimargli di partire, giacché in quel momento era cosa evidente che il padrone non era in caso di governarsi e pel suo meglio bisognava comandargli.
È però vero che Perpetua aveva creduto di riconoscere una simile necessità in mille altri casi, che a gran pezza non erano urgenti come il presente.
In questo frattempo sopravvenne Agnese, e comunicata la sua risoluzione, fece intendere a Don Abbondio ch'ella poteva essere opportuna anche per lui.
«Dite davvero, Agnese?» disse Don Abbondio.
«È un buon parere, signor padrone», disse Perpetua: «andiamo senza perder tempo».
«Senza perder tempo», disse Don Abbondio, «perché costoro possono giungere da un momento all'altro.
Ma saremo sicuri in casa di quel signore? Eh!»
«Andiamo», disse Perpetua, «sicuri come in chiesa: gli parlerò io: siamo amici: è stato nella mia cucina quieto come un agnello: è diventato un uomo del Signore».
«Male non me ne vorrà fare: che dite eh? sarebbe un peccato senza costrutto: quelle poche volte che ho dovuto trovarmi con lui, sono sempre stato così compito! Andiamo, ma la mia povera roba!»
«Anch'io ho dovuto lasciar quasi tutto il poco fatto mio, che sono una povera vedova», disse Agnese.
«Sia fatta la volontà di Dio», disse Don Abbondio: e intanto Perpetua gli diede il fardello, dicendo: «porti questo, ch'io porto quest'altro».
«Oh poveretto me!» disse Don Abbondio.
«Che ci avete messo?»
«Camicie e abiti», rispose Perpetua, indi fattasi all'orecchio di Don Abbondio, domandò sotto voce: «i danari li ha in tasca?»
«Sì, zitto zitto per amor del cielo», rispose Don Abbondio, e prese il fardello.
«Sentite Perpetua», riprese poi tosto al momento di partire: «tirate fuori qualche altro abito che Agnese farà questo servizio al suo curato di portarlo».
«Ma non vede, che ho preso con me tutto quello di mio che poteva portare?» disse Agnese.
«Oh me poveretto!» mormorò Don Abbondio, «ognuno pensa a sè.
Andiamo, andiamo.
Perpetua chiudete bene la porta: alla custodia di Dio.
Aspettate...
ma no no, peggio: sono la metà Luterani! misericordia!»
Don Abbondio rispondeva così ad una proposizione che s'era fatta e che alla prima gli era paruta un bel trovato per preservare la casa.
Voleva staccare dalla chiesa il quadro del Santo protettore, e affiggerlo al di fuori su la porta, per indicare che la casa era sacra, e per fare in modo che non potesse essere intaccata che per mezzo d'una profanazione: ma s'avvide tosto che quel mezzo di difesa, molto debole per sè contra soldati avidi di rapina, poteva in questo caso divenire una provocazione a far peggio: giacché fra quei soldati v'era di molti ai quali uno sberleffo fatto coll'alabarda all'immagine d'un Santo sarebbe sembrato un'opera meritoria, una espiazione anticipata del saccheggio.
Data una occhiata lacrimosa alla casa, Don Abbondio s'incamminò colle due vecchie amazoni, e per tutta la via non fece altro che sospirare, lagnarsi dell'abbandono in cui l'avevano lasciato i suoi parrocchiani, domandare a Perpetua dove avesse riposta la tal cosa e la tal altra, e se credeva che non le avrebbero trovate: enumerare tutte le ragioni per le quali il Conte sarebbe stato peggiore d'un cane se gli avesse fatto male, e divisare dove si sarebbe potuto cercare un asilo se quello a cui si andava fosse stato mal sicuro.
Giunti presso al castello videro un gran movimento, gente che andava, gente che veniva, uomini in arme appostati, altri che giravano in ronda a tre a quattro, tanto che Don Abbondio cominciò a scrollare il capo e a dire: «Che è questa faccenda?» Ma Perpetua gli spiegò tosto che quegli erano evidentemente uomini che vegliavano alla sicurezza del castello, e di quelli che, come si vedeva, andavano ivi a rifuggirsi.
«Ohimè! ohimè!» disse Don Abbondio: «vedo che qui si voglion fare delle pazzie; appunto quando più si vorrebbe stare zitti, rannicchiati senza né meno fiatare, farsi scorgere.
Basta; vedremo: se fanno pazzie per tirarsi addosso la burrasca, dei monti ce n'è, e i precipizj non mi fanno paura: quando si tratti di salvare la pelle, ho coraggio anch'io quanto chi che sia, andrei in mezzo al fuoco».
Dette sotto voce queste parole Don Abbondio proseguiva lentamente, guardando con attenzione a quegli armati, e cercando di comporre il volto alla indifferenza, e di non lasciar trasparire il suo pensiero che diceva dentro: - Scommetterei che questo gradasso ha caro che sia venuto un flagello così orribile per avere il pretesto di fare un po' di rimescolamento.
Oh che gente! Oh che gente!
Del resto le cose erano quivi come Perpetua le aveva immaginate.
Al castello del Conte era rimasta unita una antica opinione di sicurezza e di potenza; e i nuovi costumi del signore ne avevano cancellata affatto l'idea di oppressione e di terrore; dimodoché la gente del contorno dalla banda del Milanese, vi accorreva come ad un asilo forte e pietoso nello stesso tempo.
Il Conte lieto di esser un oggetto di fiducia a quei deboli che aveva tanto spaventati ed oppressi, raccolse tosto i primi che si presentarono.
Ma un tal uomo non avrebbe potuto considerare la sua casa come un asilo disarmato, un nascondiglio di paura, né starsi colle mani in mano quando ad ogni momento poteva presentarsi un'occasione di menarle santamente.
Fece addirittura tirar giù dal solajo le armi irrugginite, le fece ripulire in fretta, ne distribuì ai servitori.
Quindi a misura che accorrevano fuggiaschi, egli trasceglieva gli uomini capaci di portare le armi, dava loro moschetti e partigiane: quando la provvigione fu esaurita, ne fece raccogliere all'intorno: e scompartiva gli uficj a quei nuovi soldati; altri mandava in ronda, altri più lontano per esplorare, altri stavano raccolti per porsi in difesa.
Quando uno era entrato nel castello, ed era passato in rivista dal signore, diveniva verso lui come un soldato col suo antico ufiziale: tanto il Conte possedeva quella forte risolutezza che piega le volontà, e quella parola che toglie il pensiero di fare diversamente da quello ch'ella suona.
Aveva allogate le donne e i fanciulli nelle stanze più riposte; i letti erano pei vecchj, e per gl'infermi: una gran sala serviva di magazzino per le robe che erano portate su dai rifuggiti: tutto era collocato in ordine, con numeri, dei quali il corrispondente era dato ai padroni; ed alla porta della sala era posto come un corpo di guardia; chi aveva portate provvigioni, viveva di quelle, e i poveri erano nutriti dal Conte con razioni che si distribuivano regolarmente come in un campo.
Egli, come l'Ariosto sognò di Carlo in Parigi, di qua di là, non istava mai fermo: dava ordini, visitava posti, metteva a luogo quelli che arrivavano, governava ogni cosa; e dove nascesse qualche garbuglio, qualche contesa, si mostrava, e tutto era finito.
Era appunto su la porta quando giunsero i nostri pellegrini; gli riconobbe tutti e tre, e gli accolse tutti con pronta cordialità; ma alla madre di Lucia fece una accoglienza particolare nella quale traspariva come una gratitudine perché ella gli desse ora una occasione di compensare alquanto in quello stesso castello la terribile ospitalità che vi aveva trovato la figlia.
«Bene avete fatto, brava donna», disse il Conte, «di cercare qui un ricovero.
Bene avete fatto di ricordarvi di me: fate stima di esser in casa vostra.
Voi ci portate la benedizione».
«Oh appunto!» rispose Agnese: «sono venuta a darle incomodo».
Il Conte le chiese con premura novelle di Lucia, e udite che le ebbe, si rivolse a Don Abbondio, e disse: «La ringrazio Signor curato ch'ella degni scegliere un asilo in questa casa».
- Manco male che conosce i suoi meriti - pensò Don Abbondio, e cominciò per rispondere: «In questi frangenti...
in queste circostanze...
non si...
tutto è...» Ma vedendo che la frase così cominciata non poteva venire a bene, la convertì in un inchino profondo.
«Son già arrivati alla sua parrocchia coloro?» domandò il Conte.
«Dio liberi!» rispose Don Abbondio: «Dio liberi! Non sarei qui vivo e sano ad implorare la protezione del Signor Conte».
«Si faccia cuore», ripigliò questi: «qua su non verranno; ma se volessero tentar la prova, siamo pronti a riceverli.
In ogni caso la sua presenza è preziosa, Signor curato: ella potrà animare questa brava gente alla difesa della vita di tanti deboli, della pudicizia di tante donne che confidano in noi».
- Un corno, - disse fra sè Don Abbondio.
«Ella potrà», proseguì il Conte, «assistere quelli fra noi che lasciassero la vita in questa impresa di misericordia».
«Signor Conte», disse Don Abbondio, «sarà quel che Dio vorrà».
E così dicendo girava la testa a guardare qual fosse la più vicina e la più alta delle cime che dominavano il promontorio su cui era posto il castello, per fissarsi uno scampo dove in quel caso poter benedire i combattenti.
Non rimaneva nel castello più che un letto libero; e fu dato, com'era giusto, a Don Abbondio prete e vecchio.
Ma il Conte, memore della notte che Lucia aveva quivi passata, non avrebbe potuto sofferire che la madre di lei, dormisse su la paglia.
Fece quindi portare il suo letto nel dormitorio delle donne, e disporlo quivi per Agnese, intimando ai servi che si guardassero bene dal dire che quello era il letto del padrone: e nella sua stanza fece in quella vece portare una bracciata di paglia.
Quindici giorni circa passarono i nostri rifuggiti nel castello; quindici giorni di batticuore e di sospetto, di spauracchi subitanei, e di rincoranti non è vero, di vigilie, di allarmi, di pericoli, che grazie al cielo tutti svanirono senza danno.
Il castello era fuor di strada, e quei pochi demonj di lanzichenecchi sbandati che capitavano alle falde del promontorio, veggendo su per la via uomini in arme, e non sapendo quanti più ve ne fosse in alto, più curiosi allora di preda che di battaglia, se ne tornavano, pel loro meglio.
Oltracciò la parte dell'esercito che nella marcia si diffondeva lungo l'estremo confine aveva un interesse urgente di tenersi raccolta, e all'erta, e di non disperdersi troppo a buscare.
Sull'altro confine era raccolta una forza dei Veneziani, la quale sotto il comando di Marco Giustiniani, provveditore all'armi in Bergamo era destinata a costeggiare l'esercito alemanno per tutto quel tratto del suo passaggio che toccasse i confini della Repubblica; e a questa forza avevano dato nome di Squadrone volante.
Alla presenza di questi che certo non erano amici, e che vedendo un bel tratto, potevano far da nemici, bisognava camminare con giudizio; e questa fu principalmente la cagione per cui il castello non fu molestato.
Ma anche questa che in fatto era salute, fu pel volgo inerme che vi era ricoverato, e per Don Abbondio principalmente un aumento d'inquietudine.
Poiché, se il confine veneto fosse stato sguernito, Don Abbondio certamente l'avrebbe varcato, e sarebbe andato innanzi fino a che non avesse più inteso parlare di lanzichenecchi.
Ma ora il poveretto non aveva più rifugio: l'accesso ai monti, oltre la fatica, era pieno di pericoli, pei predoni che potevano trovarsi su la via: e attraversare lo Squadrone volante sarebbe stato lo stesso che correre in bocca al lupo: giacché quella era una marmaglia ragunaticcia d'uomini tagliati a un dipresso alla misura dei lanzichenecchi; e nel paese che le era dato a proteggere faceva il peggio che poteva.
Ognuno può immaginarsi come il povero Don Abbondio passasse quei quindici giorni.
Stavasi colle donne coi vecchj e coi fanciulli nel luogo più riposto del castello: di tempo in tempo la paura lo cacciava fuori a domandar novelle, e rare erano quelle che non accrescessero lo spavento.
L'aspetto dell'armi, dei preparativi di difesa da una parte lo rincorava alquanto, dall'altra gli era intolerabile facendogli immaginare tutte quelle bagattelle in movimento a far carne.
Si percoteva il petto e le guance pensando alla minchioneria che aveva fatta.
- Mi son messo in gabbia da me stesso, - diceva tra sè sospirando.
- Oh che bestia! mi sono lasciato condurre da due pettegole.
- E in questo pensiero s'infuriava tanto che più d'una volta tirò da parte Perpetua per isfogarsi in improperj contra di essa.
Ma quando Perpetua giustificandosi alzava la voce, Don Abbondio la faceva tacere, e cessava di garrire anch'egli tutto impaurito che non nascesse qualche scandalo, e il Conte tornando all'antica natura non facesse il diavolo.
Don Abbondio sedeva alla tavola del Conte, che in quell'accampamento era come la tavola dello stato maggiore: v'erano i signori del contorno che facevano da ufiziali, le signore, e qualche prete.
La tavola era lieta: il Conte, da buon generale, metteva in campo e intratteneva discorsi atti ad ispirare risoluzione, a ravvicinare gli animi, a mettere i pensieri in comune, perché i pensieri solitarj sono più vicini allo scoraggiamento.
Bisognava dunque parlare, e ridere, e si rideva; ma per Don Abbondio era un supplizio: e quando il Conte gli rivolgeva in particolare il discorso per animarlo un pochetto, egli allora sforzandosi di mangiare e di ridere, faceva in una volta due smorfie che gli davano una figura veramente compassionevole.
Ma tutte le cose hanno finalmente un termine: passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli d'Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari, passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo, passano i Croati; quando piacque al cielo, passò anche Galasso che fu l'ultimo.
Lo squadrone volante dei Veneziani si mosse anch'esso per tener dietro al movimento dell'esercito alemanno su la riva opposta dell'Adda, fin dove ella era confine fra i due stati, e portarsi poi sull'Oglio a fare la stessa processione.
Quando le due retroguardie furono distanti una giornata dal castello, gli ospiti ne uscirono come uno stormo di passere si sparpaglia all'intorno dai palchi aerei e fronzuti d'una gran quercia dove erano accorse a ricoverarsi dalla tempesta.
Don Abbondio avrebbe voluto gittarsi d'un volo al suo nido, per mirar tosto cogli occhi proprj il suo dolore, e il guasto che v'era stato fatto, e nello stesso tempo perché i barberini, vedendo la casa abbandonata, non venissero a portar via quello che i barbari avevan potuto lasciare.
E poi, per quanto il Conte avesse dato segni e prove d'esser divenuto un galantuomo, Don Abbondio non l'aveva potuto guardar mai in volto senza ricordarsi dell'uomo brusco che era stato altre volte, e non istava con lui di buon animo, massime in picciola brigata.
Ma dall'altra parte lo riteneva la paura di abbattersi in qualche lanzichenecco sbandato, rimasto addietro alla busca, e di affogare in porto.
Era quindi sempre su le mosse, sempre s'indugiava, domandando novelle dei contorni a tutti coloro che giungevano al castello; e le novelle erano dolorose.
Quei pochi rimasti colla speranza di guardar le case, o discesi troppo presto, erano trovati sbigottiti, storditi dalle percosse e dallo spavento: ogni arredo, ogni masserizia sparita, e in quella vece nelle case, un impatto di strame, tizzoni di mobili arsi, greppi di stoviglie, sfracellate per istrazio dopo avervi bevuto il vino rubato, schifezze d'ogni genere, un tanfo che toglieva il respiro; dimodoché ognuno tornando con ansia alla casa derelitta, ne usciva alla prima con fastidio, e doveva farsi forza a poco a poco per rientrarvi a renderla di nuovo abitabile.
In qualche luogo il padrone avanzando così per la casa sua, udiva un gemito; guardava con sospetto che fosse: era un soldato che languiva infermo, che spirava: e il padrone ristava a quello spettacolo con un senso misto di ribrezzo e di pietà, di rancore e di spavento, scorgendo nel volto livido, nelle membra macchiate del giacente l'immagine confusa ma terribile della peste, che fino allora forse egli aveva sprezzata come un sogno lontano.
Il Conte argomentando da queste relazioni che Agnese se si fosse affrettata di tornare, non avrebbe però trovato nulla da guardare, la ritenne per due o tre giorni; e intanto raccolse di quello che gli rimaneva, un po' di provvigione, fece mettere insieme un po' di biancheria, qualche mobile, qualche attrezzo di cucina, e caricatone un baroccio, volle che Agnese partisse su quello con quella poca scorta, e la fece accompagnare da due suoi tarchiati servi, ordinando loro che ajutassero la povera donna a ripulire la sua casa.
Agnese partì dopo molte ripulse cerimoniose e mille rendimenti di grazie, e Don Abbondio e Perpetua le andarono in compagnia.
La strada fu trista per lo spettacolo continuo della distruzione, e della disperazione; ma la giunta fu più trista ancora.
Alla esclamazione cento volte ripetuta di «povera gente» succedette il «povero me»: parola che generalmente parlando esce da una parte più profonda.
Cogli ajuti del Conte, Agnese potè quel primo giorno spazzare il suo povero abituro, ricogliere qualche masserizia sparsa qua e là nell'orto e nel campo, scavare ciò che aveva deposto sotterra; e tra con questi rimasugli, e con quel di più che il Conte le aveva dato appresso, allogarsi in casa se non come prima, almeno in modo da poterci stare passabilmente, anzi da eccitare l'invidia dei suoi paesani.
Ma il povero Don Abbondio questa volta ebbe campo e ragione più che mai di sclamare: «oh che gente! oh che gente!» La sua casa era la più mal trattata del villaggio, perché era la più apparente; e gli ospiti eroi sospettando che ci dovesse esser più che altrove ricchezza nascosta, vi avevano impiegato più ostinate cure a metter tutto sossopra.
Il sospetto non era mal fondato, né le cure erano state inutili: e Perpetua mettendo il piede su la soglia tra mezzo i mobili spezzati, i fogli lacerati, e le piume delle sue galline, scerse tosto con raccapriccio frantumi e brani di quelle cose ch'ella pensava aver meglio appiattate; e dovette confessare che i lanzichenecchi avevan più ingegno a scovare, ch'ella non avesse a nascondere.
Don Abbondio, spinto innanzi dall'ansia di vedere i fatti suoi, e rispinto dal ribrezzo e dall'orrore, metteva il capo alla porta d'una stanza, e lo ritraeva, dava tre passi, e ristava.
Quale spettacolo! Ogni stanza oltre il guasto che presentava, dava tosto l'idea del guasto generale; i segni d'un vasto saccheggio erano ristretti in un picciolo angolo, come idee sottintese in un periodo scritto da un uomo di garbo.
Sul focolare della cucina per esempio si vedevano più tizzoni spenti, i quali accennavano ancora d'essere stati un bracciuolo di seggiola, il piede d'un trespolo, un'imposta d'armadio, una doga del botticino dove Don Abbondio teneva il vino che per una lunga esperienza aveva riconosciuto il migliore amico del suo stomaco.
Di questi e di tanti altri mobili non restavano che rottami, un po' di cenere, e di carboni spenti; e con quei carboni, come per compenso, e per un complimento al padrone, i guastatori avevano schiccherate le pareti di visacci, ingegnandosi con berretti quadri e altre divise di raffigurarne dei preti, e studiandosi di farli orribili e ridicolosi; intento che per verità non poteva fallire a tali artisti.
Don Abbondio mettendosi le mani in que' due suoi ciuffetti grigj su le tempie, balzò di casa come un forsennato, e andò di porta in porta a gagnolare, a scongiurare quegli che tornati da qualche giorno avevano assestate alla meglio le case loro, che venissero a dare un po' di governo alla sua; e nello stesso viaggio, guardava anche chi fosse più fornito di roba salvata dalla rapina, e accattava in prestito da chi una panca, da chi una coltre, da chi un piatto, da chi una pentola; tanto che cogli ajuti e con le prestanze potè accamparsi quel giorno in casa per riconquistarla e riordinarla poi tutta a poco a poco.
Passati quei primi giorni, e nel tempo appunto delle brighe e delle spese, Don Abbondio ebbe con se stesso e con Perpetua una guerra assai fastidiosa.
Perpetua, parte con la sua vista acuta come il fiuto d'un bracco, parte con la sua abilità a far ciarlare la gente, scoperse che molte masserizie del suo padrone non erano già state sciupate dai barbari, ma erano sane e salve in paese nelle mani dei barberini; ne fece tosto avvertito Don Abbondio, perché si facesse rendere il suo.
Ma Don Abbondio non voleva sentir toccare questa corda: non già che non gli spiacesse assai vedersi così rubato a man salva, e sapere il fatto suo in mano d'altri: ma quegli che se lo tenevano erano i più terribili e bizzarri arieti del suo gregge: quegli dai quali Don Abbondio aveva sempre sofferto ogni cosa piuttosto che provocarli al cozzo, che aveva sempre accarezzati, e lodati come i più savj ed esemplari.
Sicché sopra il rovello e il danno aveva egli a tollerare anche le baruffe con Perpetua, e di queste baruffe ve n'era una tutte le volte che Don Abbondio si lagnava di qualche mancanza, domandava qualcheduno di quegli utensili che altri aveva fatti suoi.
«Vada a cercarlo al tale che lo ha», diceva Perpetua, «e che non lo avrebbe tenuto fino a quest'ora se non avesse che fare con un...
buon uomo».
«Zitto, zitto Perpetua, zitto».
«Zitto, zitto», rispondeva Perpetua: «e così ella si lascerebbe mangiar gli occhi del capo.
Rubare agli altri è peccato, ma a lei è peccato non rubare».
«Oh che spropositi! oh che spropositi!» sclamava Don Abbondio.
«Ma sapete pure...
Col nome del cielo...
volete la mia morte!...»
La baruffa andava talvolta in lungo, ma Don Abbondio rimaneva sempre vincitore, perché quando si trattava di paura, egli mostrava una risoluzione e una virtù tale che Perpetua sentiva di non poter competere, e taceva la prima.
Tutto quello che fece Don Abbondio, fu di gittare in predica qualche motto sul dovere di restituire e su la trista sorte di chi va all'altro mondo carico dell'altrui; ma lo diceva con certe perifrasi, con un riserbo, con una delicatezza da fare onore ad un predicatore di corte.
E pure appena quelle parole erano uscite, gli pareva che fossero state troppe e troppo ardite, e per riparare un qualche brutto effetto che ne potesse venire, passava tosto a parlare dell'ira, e della mansuetudine, e del gran male che è l'infierire contra quelli che non vogliono né possono far difesa.
Ma fra mezzo alle cure del passato cominciava a nascere una che doveva tutte sommergerle: si cominciava a sentire che i disastri manifesti e soli fino allora deplorati di quel passaggio, non erano i soli né i più terribili.
In tutta quella striscia del Milanese che la soldatesca aveva attraversata, si videro tutt'ad un tratto uomini d'ogni età e d'ogni sesso infermarsi e cadere come mosche dopo una pioggia autunnale.
I segni che accompagnavano quella infermità erano sconosciuti a quasi tutta la generazione vivente: solo alcuni vecchioni, con parole ravvolte e sospettose accennavano di aver veduti quei segni altra volta.
Erano i pochi i quali potessero ricordarsi d'essere vissuti nella peste che cinquantatrè anni prima aveva desolata una parte d'Italia, e specialmente il Milanese, dove a distinguerla da altre simili calamità fu poi chiamata, e lo è tuttavia: la peste di San Carlo.
Tanto è forte la carità religiosa! Tra le memorie così varie e così solenni d'un disastro universale, ella può far primeggiare quella d'un uomo, perché a quest'uomo ha ispirato sentimenti ed azioni più memorabili ancora dei mali: può riunire e subordinare alla memoria di lui tutti gli avvenimenti, perché in tutti lo ha spinto ed intromesso a parte dei patimenti, in capo dei soccorsi, esempio, consiglio, vittima volontaria; di ciò che per tutti è una sventura fare per lui come un'impresa; far ch'essa prenda il nome da lui, come una provincia da un suo conquistatore.
Il tribunale della sanità in Milano era composto d'un presidente e di sei conservatori, quattro dei quali tolti da magistrature diverse, e due medici: questi ultimi erano allora Lodovico Settala, e quell'Alessandro Tadino, già da noi citato, e che lo sarà ancor più in seguito.
Il primo, quasi ottuagenario, era uno dei pochi testimonj viventi della peste di San Carlo; né testimonio puramente passivo; ma, fisico fin d'allora molto riputato, benché giovanissimo, ne era stato uno dei più affaccendati e intrepidi curatori.
Questi, che stava all'erta, e richiedeva avvisi dalle terre che l'esercito aveva toccate, ebbe in fatti i primi della mortalità; e fu il primo a riferire nel tribunale che la peste s'era manifestata nel territorio di Lecco.
Sopraggiunsero poi altri avvisi: il tribunale spedì un commissario perché osservasse e facesse relazione: questi in compagnia d'un medico di Como, visitò alcuni dei luoghi indicati; raccolse informazioni superficiali e contradditorie; credette a quelle che attribuivano la mortalità ad un solito effetto dell'autunno in quei luoghi, e rassicurò il tribunale.
Ma ecco giungere avvisi da altri luoghi al tribunale, il quale finalmente delegò due commissarj ad una visita generale dei paesi sospetti; Alessandro Tadino, e Giovanni Visconti Auditore.
Quando questi arrivarono, il male s'era già tanto dilatato, che le prove si offerivano senza ch'essi le andassero cercando.
Trovarono le ville, quale sbarrata per timore del contagio vicino, quale mezzo abbandonata; famiglie accampate o disperse, già piangenti la morte di qualche congiunto, e tremanti per la propria salute: s'inchiesero del numero dei morti, ed era terribile; visitarono gl'infermi e i cadaveri, e rinvennero i segni che tremavano di rinvenire: assunsero informazioni, riseppero che ivi più presto s'era manifestato il male, dove i soldati avevano stanziato più a lungo, o in più gran numero; che i primi percossi erano stati quelli che avevano spogliati i morti per appropriarsi le vestimenta, o che avevan comperata dai rimasti indietro qualche roba tolta ai loro paesani, o che in qualunque modo avevano avuto contatto con quegli ospiti.
Riscrissero quindi al tribunale che i sospetti erano divenuti una dolorosa certezza; e nello stesso tempo diedero quegli ordini che seppero per curare gl'infermi, e preservare i non tocchi, facendo tagliare strade, rinchiudere altri nelle case, altri attendare alla campagna, fissando provvigioni ad un paese, lasciando istruzioni in un altro, piantando in un altro la forca pei disobbedienti; il tutto in fretta e in furia come si poteva in quei tempi, in quelle circostanze, da quegli uomini sopra quegli uomini.
La nuova si diffuse tosto nella città, e vi fu accolta con beffe incredule, e con disprezzo iracondo, e dal popolo e dalla maggior parte di coloro che avrebbero potuto e dovuto dare provvedimenti in tanto pericolo.
Bisogna però eccettuare espressamente il cardinal Federigo, il quale ai primi romori di peste, prescrisse al clero regolamenti di preservazione, e di carità, e ingiunse ai parrochi specialmente che ammonissero i fedeli del grave peccato che avrebbe commesso chi per tema di danno o d'incomodo occultasse il suo o l'altrui morbo contagioso, o per insensata avarizia trafugasse vestimenta o cose di qualunque genere infette o sospette.
CAPITOLO III
Il giorno 22 d'ottobre di quell'anno 1629, Pietro Antonio Lovato, fante in un reggimento italiano alloggiato nel territorio di Lecco, entrò in Milano, carico di vesti rubate o comperate dai soldati alemanni; e andò a porsi in una casa di suoi parenti nel borgo di Porta Orientale.
Appena giunto s'ammalò; fu portato allo spedale: e morì nel quarto giorno.
Nel cadavero si scoperse un carbone che diede sospetto di peste; i parenti del morto, spaventati dall'idea di divenire sospetti anch'essi, e di essere assoggettati alle precauzioni sanitarie, accorsero ad asseverare che quel tumore era stato cagionato dalla fatica del viaggio e della soma.
Tuttavia gli abiti del Lovato e il letto dov'era giaciuto furono arsi nello spedale; ma non si pensò a più lontani provvedimenti.
Tre giorni dopo, due serventi dello spedale, che avevano governato quell'infermo, e un buon frate che lo aveva assistito, si posero giù con febbre, che fu giudicata pestilente.
Allora il tribunale della sanità fece sequestrare la famiglia del Lovato dalle molte altre famiglie, che abitavano nella stessa casa.
Quest'ordine fu dato per abbondare in cautela, a quel che lasciò scritto il Tadino; ma se la cautela fu abbondante, certo non fu a tempo; poiché egli stesso racconta come un Carlo Colonna sonatore di liuto, che dimorava sotto quel tetto, s'ammalò ben tosto, e visitato da lui, morì in breve spazio con tutti i segnali del contagio.
Tutti gl'inquilini di quella casa furono allora mandati al lazzeretto.
Ma dall'arrivo del Lovato erano già corsi forse venticinque giorni, nei quali i parenti, i vicini che avevano praticato con lui, avevano praticato pure con altri senza sospetto e senza riguardo.
Furono ricercate tutte le robe del Lovato e del Colonna; e fatte ardere quelle che si poterono rinvenire.
Ma una parte era stata trafugata, dispersa, nascosta, con quella destrezza, con quella diligenza che tutti noi figli d'Adamo sappiamo mettere nel far male a noi stessi.
I conservatori della sanità lo riseppero da una donna che si moriva per avere avuto di quella abilità; e non poterono fare altro che concepire un gran sospetto per l'avvenire.
Ben presto ogni più tristo sospetto cominciò ad avverarsi: la più parte dei sequestrati nel lazzeretto s'infermarono, e tutti coi medesimi tremendi segnali; e molti di essi morivano in poco d'ora.
Lo stesso accadeva di quando in quando in varj quartieri della città, o per comunicazioni avute colla gente di quella casa funesta, o per nuovo arrivare d'uomini dalle parti del contado dove la peste era più diffusa.
Ma le nuove di quegli accidenti giungevano al tribunale, tarde per lo più, incerte, contraddette.
Il terrore del lazzeretto aguzzava tutti gl'ingegni, e faceva sormontare ogni altro terrore: si dissimulavano gli ammalati, si occultavano i cadaveri, si procuravano false attestazioni.
Quegli poi che avevano ottenuto l'intento di evitare il lazzeretto, o la quarantena in casa, e di conservare le robe dei congiunti o degli ospiti loro, cadevano poi talvolta repentinamente nelle vie, nelle chiese soprappresi dalla peste, e manifestavano in se stessi il malore che insensatamente avevano voluto nascondere in altri.
Il tribunale avvertito, faceva portare gl'infermi e i sospetti al lazzeretto, e sequestrare gli altri nelle case.
Ma lo schiamazzare che si faceva contra quel tribunale non è da dirsi: i suoi atti erano oggetto di amara censura e di derisione; le persone oggetto di avversione e di disprezzo.
A volerlo ora dopo due secoli, giudicare con discrezione, bisogna vedere ciò ch'esso poteva fare per distornare la peste, o per diminuirne il guasto; e ciò che fece.
Ora, prima di tutto è cosa troppo evidente che il tribunale della sanità non poteva impedire che entrasse la peste nello stato, quando v'entrava un esercito nel quale era appiccata.
Fin da quando si seppe che la calata di questo esercito era risoluta, quei poveri galantuomini, - e questo fu veramente un abbondare in cautela - rappresentarono al Signor Don Fernando Gonzales di Cordova la rovina che infallibilmente ne sarebbe venuta al paese: ma Don Fernando Gonzales di Cordova rispose chiaramente che il fine politico per cui si faceva passare quella truppa, importava più che non la sanità pubblica.
Non parlò dunque con esattezza quel valentuomo, il quale in un libretto, per altro lodevolissimo, ricercando le cagioni per cui quella peste fu tanto micidiale in Lombardia, nota per la prima «una somma spensieratezza nel lasciare indolentemente entrare nella patria la pestilenza»: e fa nascere questa spensieratezza «dalla ignoranza e dalla sicurezza nei loro errori, che formò il carattere dei nostri avi».
La non fu spensieratezza; fu posponimento volontario, abbandono pensato della salute degli uomini; e quelli che lo commisero non sono nostri avi.
A ciascheduno quel che gli si viene.
Ma data questa inevitabile ospitalità ad appestati, poteva il tribunale impedire ogni contatto dei paesani con quelli? Qui pure l'impossibilità è manifesta: poiché si trattava di migliaja d'uomini che violentemente si ponevano nelle case, occupavano i letti, prendevano, adoperavano, brancicavano, mal menavano le cose e le persone che potevano aver nelle mani.
Entrato così il contagio negli abitanti, poteva il tribunale circoscriverlo tosto a quei primi infetti, isolarlo, costringerlo nei luoghi dove si manifestava, ottenere quei due scopi egualmente sacri, e tanto difficili a conciliarsi, l'assistenza agli infermi, e la preservazione dei sani? Quando si consideri che i soldati avevano percorse forse cento cinquanta miglia del Milanese, e s'erano diffusi a destra e a sinistra per trovare alloggiamenti, e per rapinare; che in varie parti di quel tratto la pestilenza si manifestò ad un punto, in moltissime persone, si vedrà che anche quest'ultimo scopo era se non impossibile, difficilissimo ad ottenersi dal tribunale, quand'anche questo avesse avuti a sua disposizione mezzi grandissimi, e avesse trovata da per tutto una pronta, attiva, e sapiente cooperazione; del che non era niente.
Ma per conchiudere finalmente, adoperò il tribunale tosto o tentò tutti quei mezzi che aveva se non per distruggere, se non per ridurre a poco, almeno per iscemare in qualche parte il contagio, e per salvare i paesi non ancor tocchi? Qui bisogna distinguere fra le persone stesse del tribunale.
I due medici, convinti dal primo momento della gravità del pericolo, insistettero tosto e sempre perché si dessero pronti provvedimenti; ma non furono secondati dai loro colleghi.
Proposero per esempio che fosse proibito sotto pene severissime, il comperar robe dai soldati alemanni; «ma», dice ingenuamente il Tadino, «non fu possibile persuaderlo al presidente pieno di molta bontà, che non poteva credere dovesse succedere incontri di morte di tante migliaja di persone, per il commercio di questa gente e loro robbe».
Così l'avere a quel primo avviso del Settala, anzi dopo gli iterati avvisi che giungevano dal territorio di Lecco, spedito un ignorante commissario, col solo carico di riferire, fu atto di trascuranza inescusabile; per non parlare di molti altri atti di egual valore.
Certo una condotta simile in simili circostanze d'un tribunale della sanità ai nostri giorni ecciterebbe uno scandalo universale; o per meglio dire non vi sarebbe ora forse in Europa tribunale della sanità che operasse a quel modo.
Ma - e qui appare il carattere singolare di quei tempi - non erano queste le accuse che gli uomini d'allora facevano al tribunale; lo accusavano, indovinate mò; di corrività, e di precipitazione, lo accusavano di credere pazzamente ad un male che non esisteva, di atterrire, di contristare, di tormentare con ordini inutilmente i cittadini.
Dopo tante calamità, parlare anche di peste pareva un raffinamento di crudeltà; il popolo bene o mal vestito gridava ad una voce che quell'orrendo sospetto era una invenzione di alcuni medici per guadagnare sul pubblico terrore.
Molti fra i medici stessi, facendo eco alla voce del popolo, la quale in questo caso - se è lecito fare una eccezione ad un proverbio - non era certamente voce di Dio, ridevano al nome di peste, attribuivano la mortalità ai disagj degli anni scorsi, ed avevano in pronto molti nomi per qualificare variamente gli accidenti di quel male nelle varie persone; quando qualche infermo, rimovendo tristamente la coltre, mostrava loro un tumore che gli dava da pensare, essi sogghignando gli domandavano se non aveva mai veduto foruncoli; quando si parlava di taluno estinto repentinamente, o dopo brevissimo languore, domandavano se non si erano mai conosciute apoplessie.
Con una disposizione universale di questo genere, gli ordini del tribunale dovevano incontrare da per tutto ostacoli, resistenze, inesecuzione.
Così era in fatti; e per immaginarsi a qual segno, basti sapere che gli ufiziali stessi del tribunale, quelli che dovevano fare eseguire gli ordini, erano, come l'universale convinti che fossero pazzie.
Come però erano ordini, che davano ad essi una autorità, e ordini spiacenti a chiunque vi si doveva assoggettare, una gran parte di quegli ufiziali faceva un traffico della inesecuzione.
Era venuto il carnevale; e agli animi avidi di tripudio diveniva ancor più insopportabile la tirannia del tribunale che per un supposto ostinato, per un suo capriccio vi poneva inciampo in mille modi.
Non consta veramente che giungesse all'eccesso di proibire le mascherate; ma faceva far visite incessanti, ma prescriveva sequestri, ma separava gente da gente, ma non rifiniva di tappezzare gli angoli delle vie di ordini minacciosi, malinconici, ma insomma voleva intrudere a forza quella idea di peste in tutto, amareggiava e teneva su la corda ogni galantuomo.
Più ancora fremevano coloro che come sospetti erano rinchiusi nel lazzeretto; e ripensavano tristamente ai divertimenti dai quali erano tenuti in bando; si rodevano di non potere, come i loro concittadini, gettare alle finestre, alle carrozze delle signore uova industriosamente ripiene di acqua odorosa o fetida, secondo il genio leggiadro o spiritoso del dilettante: sollazzo renduto più piccante dal divieto annuo, e dalla destrezza che si doveva impiegare a far le cose in modo da non esser sorpresi, e da schifare la multa di venticinque scudi se il reo era un galantuomo, e due tratti di corda se scarseggiava di scudi.
Pensarono dunque al modo di divertirsi almeno in quel tristo ricinto; e con danari ottennero facilmente dai ministri del tribunale, di confondersi e di praticare liberamente fra loro; ottennero di più che si desse adito nel lazzeretto a chi voleva venire a rallegrarli: vi si fecero feste e balli: la licenza fu tanto più sfrenata in quanto aveva costato desiderj, e denari: e quel luogo che in verità pare dovesse ispirare tutt'altri pensieri, divenne un ridotto di tresche romorose, e di sozzi baccani.
Similmente, molti in casa di cui moriva uno appestato con denaro ottenevano dai ministri del tribunale che la casa non fosse dichiarata sospetta, ottenevano di poter sottrarre all'incendio prescritto dagli ordini le robe del defunto.
Vedendo poi molti di costoro che guadagno ritraevano dalla loro condiscendenza, pensarono a farla comperare anche a chi non ne aveva bisogno; e quel traffico tanto insensato e colpevole si cangiò di più in concussione.
Minacciavano essi del lazzeretto o della quarantena famiglie dove era morto qualcheduno, quantunque con nessun indizio di peste, e per altro male manifesto; prolungavano ad arbitrio le quarantene, intimavano la qualità di sospetti, e le conseguenze di questa qualità coi più vani pretesti a chi conveniva loro; e il solo mezzo d'uscire da quegli artigli era di ugnerli, come si dice.
Queste vessazioni crescevano il malcontento e i clamori: di tutto si dava cagione al tribunale, e alla opinione che vi fosse la peste; giacché tolta questa opinione sarebbero necessariamente cessati colle prescrizioni di cautela, gl'incomodi e gli abusi di quelle.
Ormai chi avesse voluto parlar seriamente di peste sarebbe stato accolto non più con risate, ma con minacce e con insulti: quei medici, che lo ardivano erano nominati, notati, mostrati a dito come pubblici nemici.
Sa il cielo quante quei poveri galantuomini avranno dovuto ingozzarne; le quali sono sepolte nell'obblio con chi le ha fatte e con chi le ha patite.
Uno di quei casi però parve ai contemporanei degno d'esser tramandato ai posteri; e in servizio di quei posteri che forse non l'avessero mai inteso, lo racconteremo di nuovo anche noi.
Ludovico Settala era generalmente riputato il primo medico del suo tempo in Lombardia; e questa riputazione gli è conservata tuttora da coloro che sono in caso d'avere una opinione ragionata su questo fatto.
Oltre questa superiorità di dottrina, era egli celebrato e venerato per bontà di costumi, per uno grande zelo e un gran disinteresse e beneficenza nell'esercizio della sua professione.
Vecchio venerabile, autore di molte opere la più parte latine, lodato dagli esteri, uomo che per amore del luogo natale aveva rifiutati gl'inviti splendidi del duca di Baviera, del granduca di Toscana, del cardinal legato di Bologna, dei signori veneziani, protofisico, lettore di filosofia, egli avrebbe potuto slanciare impunemente, anzi con applauso qualunque sproposito.
Ma egli abusò di tanta popolarità; volle dire una cosa vera, che importava a tutti, e che nessuno voleva intendere; e ne fu severamente punito.
La popolarità e il favore si cangiò in avversione.
Egli, il primo a denunziare la peste, aveva sempre persistito nel proporre provvedimenti, aveva messa ogni cura nel farli eseguire, e più sicuro degli altri per una lunga abitudine di autorità aveva sempre predicato in ogni occasione e con chi che sia che pur troppo il male era certo, e che l'ostinarsi a negarlo, non poteva fare altro che dargli più campo a dilatarsi.
Un giorno sul finire del Marzo 1630, appunto quando il contagio che aveva lentamente serpeggiato nel verno, cominciava a mostrarsi più frequente, essendo il buon vecchio portato in lettiga a visitare suoi malati, cominciarono alcuni del popolo a seguirlo nella via, a mostrarlo agli altri, a sussurrargli intorno.
Si fece folla, e allora si cominciò a gridare più chiaramente: «è il capo della lega: è quegli che vorrebbe che ci fosse la peste: per sostenere il suo puntiglio: per far lavorare i suoi medici impostori.
Uh! Uh! È quegli che mette la paura in corpo alla gente con quel suo cipiglio aggrondato, con quella sua barbaccia.
L'amico della peste: il protettore del contagio.
Uh! Uh! È ora di finirla: Si vorrebbe insegnargli a spaventare tutta una città colle sue imposture».
I lettighieri vedendo la mala parata, approfittarono della vicinanza d'una casa conoscente del loro padrone, e ve lo portarono in salvo da quel tumulto, da quello sdegno che minacciava di diventar furore; ivi il vecchio dovette rifugiarsi come un omicida per avere avuto ragione, e voluto far del bene.
Da avvenimenti di questa sorte si trae troppo spesso una conseguenza falsa e perniciosa: che è pazzia far del bene a noi uomini.
Far del bene è sapienza; la pazzia è proporsi per fine o per premio la nostra riconoscenza, e la lode che noi diamo e ritogliamo a capriccio, come un ragazzo il suo balocco.
Poco dissimili dai ragionamenti che il popolo urlava nelle vie erano quelli che i signori schiamazzavano nelle sale.
I dotti poi, convenendo per la più parte nella opinione comune, la sostenevano però con argomenti un po' più reconditi, e si scatenavano contra il tribunale e contra quei pochi medici con uno sdegno e con uno scherno più filosofico.
Per darcene un saggio, l'autore del manoscritto, riferisce una disputa occorsa in una brigata signorile tra il nostro Don Ferrante, e un Magnifico Signor Lucio, del quale l'autore, tacendo il cognome, accenna alcune qualità.
Era costui professore d'ignoranza, e dilettante d'enciclopedia; si vantava di non aver mai studiato, e ciò non ostante, anzi per questo appunto, pretendeva decidere d'ogni cosa; «perché i libri» diceva egli «fanno perdere il buon senso».
Ammetteva bene una scienza che si poteva acquistare colla esperienza, e comunicare per mezzo della parola: teneva che si possano scoprire verità; anzi non è da dire quante verità egli credesse di conoscere; ma nei libri, non so per quale raziocinio, supponeva che non si potesse consegnare altro che bugie.
Si strepitava in quella brigata contra i regolamenti della Sanità, che divenendo di giorno in giorno più risoluti cominciavano a non far distinzione di persone, e assoggettavano anche i potenti ad una vigilanza incomoda.
«Tutto questo», diceva il Signor Lucio, «in grazia dei libri, dei sistemi, delle dottrine, che hanno scaldata la testa d'alcuni i quali per nostra sciagura, comandano.
Non è ella cosa che fa rabbia, e pietà nello stesso tempo, il vedere quel buon vecchio di Settala, che potrebbe fare il medico con giudizio, e servirsi della sua buona pratica acquistata in sessant'anni, e del buon senso che gli ha dato la natura, vederlo, dico, perduto dietro sogni ridicoli, incaparbito contra il sentimento d'un pubblico intero, innamorato di quella sua idea pazza del contagio; perché? perché l'ha trovata nei suoi autori.
Scienziati, scienziati; gente fatta a posta per creare gl'impicci».
«Piano, piano», disse Don Ferrante, il quale benché occupato a dissertare in un altro crocchio aveva intesa quella scappata del Signor Lucio.
«Piano, piano; se si tocca la scienza son qua io a difenderla».
«Don Ferrante fa da buon cavaliere a prender le parti d'una dama che gli comparte tanti favori», disse una signora, e il tratto riscosse un mormorio di applauso da tutta la brigata.
«Quand'anche ciò fosse vero», disse Don Ferrante, dopo aver pensato soltanto per un mezzo minuto, «una tale parzialità sarebbe da attribuirsi non al mio debol merito, ma alla innata benignità del sesso.
Comunque sia», continuò egli, «son qui a provare che la scienza non ha colpa in quegli spropositi che si metton fuori sotto il suo nome».
«Don Ferrante, con tutto il suo ingegno, non mi potrà sostenere», rispose il Signor Lucio, «che tutte quelle belle ragioni che si dicono da alcuni per far credere che vi sia la peste, il contagio, che so io, non sieno cavate dalla scienza».
«Dica dalla superficie, Signor Lucio, dalla superficie», rispose Don Ferrante.
«Anzi la scienza, chi la scava un po' al fondo, dice tutto il contrario, e insegna chiaramente che il contagio è una cosa impossibile, una chimera, un non-ente».
«Son cose che le donne possano intendere?» domandò quella signora.
«La materia è un po' spinosa», disse Don Ferrante; «ma vedrò di renderla trattabile.
Dico dunque che in rerum natura non vi ha che due generi di cose; sostanze e accidenti: ora il decantato contagio non può essere né dell'uno né dell'altro genere; dunque non può esistere in rerum natura.
Le sostanze...
prego di tener dietro al filo del ragionamento...
sono semplici o composte.
Sostanza semplice il contagio non è; e si prova in due parole: non è sostanza aerea; perché se fosse, volerebbe tosto alla sua sfera, e non potrebbe rimanersi a danneggiare i corpi; non è acquea, perché bagnerebbe; non è ignea, perché brucierebbe; non è terrea, perché sarebbe visibile.
Sostanza composta, né meno; perché tutte le sostanze composte si fanno discernere all'occhio o al tatto; e fra tutti i signori medici non vi sarà quell'Argo che possa dire d'aver veduto, non vi sarà quel Briareo che possa dire di aver toccato questo contagio.
Oh benissimo; vediamo ora se può essere accidente.
Peggio che peggio.
Ci dicono questi signori che il contagio si comunica da un corpo all'altro; sarebbe dunque un accidente trasportato.
Ah! ah! un accidente trasportato: due parole che cozzano, che ripugnano, che stanno insieme come Aristotele e scimunito; due parole da fare sgangherar dalle risa le panche delle scuole, da fare scontorcere la filosofia, la quale tiene, insegna, pone per fondamento che gli accidenti non possono mai mai passare da un soggetto all'altro.
Mi pare che la cosa sia evidente».
«Intanto», disse il signor Lucio, «senza tutti questi argomenti, col semplice buon senso, tutti i galantuomini, e il popolo stesso sanno benissimo che questo contagio è un sogno».
«Non lo sanno; perdoni», rispose Don Ferrante, «lo indovinano, a caso, come atomi senza cervello che girando senza sapere dove, concorressero a comporre una figura regolare.
Mi dica un po' di grazia, se sapranno poi dire la cagione vera di questa mortalità».
«Oh bella!» disse il signor Lucio; «la cagione è chiara: in tutti i tempi si muore; in alcuni le morti sono più frequenti perché v'ha più malattie; e questo è il caso nostro».
«Sì», disse Don Ferrante; «ma le malattie, la cagione prima delle malattie?»
«Nè qui pure c'è sotto gran misterio», rispose il signor Lucio: «la carestia, la mala vita hanno cagionate le malattie».
«Tutto bene», disse Don Ferrante, «ma la cagione prima?»
«Io non so che cosa ella intenda per cagione prima», disse Don Lucio.
«Ora, vede ella se bisogna poi ricorrere alla scienza», disse Don Ferrante.
«Per trovare la cagione prima delle malattie, della carestia, di tutti questi infortunj, quella che spiega tutto e che fa tutto, bisogna andar molto in fondo, anzi molto in alto, bisogna cercarla negli aspetti dei pianeti.
Perché non si vuol fare come il volgo, che guarda in su, vede le stelle, e le considera come tante capocchie di spilli confitti in un torsello: ha bene inteso dire che le stelle influiscono, ma non va poi a cercare né come né quando.
Abbiamo il libro aperto dinanzi agli occhi, scritto a caratteri di luce; non si tratta che di saper leggere.
Ed ecco che due anni fa comparve quella gran cometa causata dalla congiunzione di Saturno e di Giove, apparet cometa magnus in cardine dextro, la quale indicava chiaramente che l'anno susseguente, che è poi l'anno passato, doveva regnare una terribile carestia, come si è trovata la spiegazione in quest'anno, con quelle parole tanto chiare e tanto terribili: Fames in Italia morsque vigebit ubique.
Che se i dotti le avessero trovate prima, non sarebbero mancati gli increduli che se ne facessero beffe; ma dopo il fatto anche i più ostinati debbono tacere.
Ed ora, a furia di osservare, e di calcolare, da quella congiunzione funesta si è ricavata un'altra predizione egualmente chiara; così non fosse!...»
Tutti stavano ansiosamente attenti; Don Ferrante levò la destra come se stesse per proferire un giuramento, la sua fronte si corrugò; la sua voce prese un tuono lugubre e solenne, articolò la formola terribile: «mortales parat morbos; miranda videntur».
«O poveretti noi!» disse una signora, e rivolta al suo vicino chiese che cosa volesse dire quel latino.
«Le prime parole», rispose egli, «voglion dire che il morbo pare mortale: il resto è una esclamazione che non significa niente».
Don Ferrante continuò: «Ecco la cagione prima della mortalità, ecco dove sta l'errore di questi pochi medici che voglion fare il singolare, e resistere all'evidenza, e credono di spaventarci con un grande apparato di dottrina, come se alla fine, avessero a fare soltanto con gente che non abbia mai toccato il limen della filosofia.
Non basta parlare, a proposito e a sproposito, di vibici, di esantemi, di antraci, di buboni violacei, di foruncoli nigricanti: tutte cose belle e buone, tutte parole rispettabili: ma che non fanno niente alla questione...»
«Eppure», disse il Signor Lucio, risolutamente, perché gli pareva di avere alle mani una buona ragione, «eppure anche quei medici non negano che l'aspetto dei pianeti presagisca malanni...»
«E qui li voglio», interruppe Don Ferrante; «qui dà in fuora lo sproposito.
Confessano questi signori, perché a negare un tal fatto ci andrebbe troppo coraggio, confessano che tutto il male è causato dalle influenze maligne, e poi, e poi vengono a dirci che si comunica da un uomo all'altro.
Chi ha mai inteso che si possano comunicare le influenze? in quel caso gli uomini sarebbero gli uni agli altri come tanti pianeti.
Confessano che il male è causato dalle influenze, e dicono poi: state lontani dagli infermi, non toccate le robe infette, e schiferete il male: come se le influenze discese dai corpi celesti in questo mondo sublunare potessero schifarsi: come se quando le stelle inclinano al castigo si potesse declinare la loro potenza con certe precauzioni ridicole; come se giovasse sfuggire il contatto materiale dei corpi terreni, quando chi ci perseguita è il contatto virtuale dei corpi celesti.
Per me, credo che anche questo accecamento dei medici, e appunto dei medici che hanno la mestola in mano, sia un effetto di quella costituzione maligna che domina in questo anno sciagurato, accioché per giunta di tanti mali ci tocchi anche il flagello dei regolamenti».
Tutti quegli uditori erano persuasi fin da prima che il male non era contagioso, sapevano che era comparsa quella cometa, avevano inteso dire che l'aspetto dei pianeti in quell'anno era funesto; ma da tutte queste idee non avevano mai pensato a cavare quel sugo che Don Ferrante espresse nella sua bella argomentazione.
Uscirono tutti di quivi più atterriti di prima, e nello stesso tempo più irritati contra i regolamenti, e più disposti a trascurare, come inutili, tutte le cautele.
Lo stesso contraddittore signor Lucio partì da quella disputa più pensoso; perché le predizioni astrologiche erano di quelle cose ch'egli riponeva non nei sogni della scienza, ma nei canoni del buon senso.
Quando ora si considera quali cose fossero a quei tempi tenute generalmente per vere, con che fronte sicura sostenute, e predicate, con che fiducia applicate ai casi, e alle deliberazioni della vita, si prova facilmente per gli uomini di quella generazione una compassione mista di sprezzo e di rabbia, e una certa compiacenza di noi stessi; non si può a meno di non pensare che se uno di noi avesse potuto trovarsi in quella età con le idee presenti, sarebbe stato in molte cose l'uomo il più illuminato, e nello stesso tempo il bersaglio di tutte le contraddizioni.
Ma dietro questa compiacenza viene anche facilmente un sospetto.
E se anche noi ora viventi tenessimo per verissime cose che sieno per dar molto da ridere alle età venture? cose da far dire un giorno: pare impossibile che quei nostri vecchj con tanta pretensione di coltura fossero incocciati di errori tanto marchiani.
E perché no? Guardandoci indietro, noi troviamo in ogni tempo una persuasione generale, quasi unanime d'idee la cui falsità è per noi manifesta; vediamo queste idee ammesse senza dibattimento, affermate senza prove, anzi adoperate alla giornata a provarne altre, dominanti in somma per una, due, più generazioni; divenute poi il ludibrio delle generazioni susseguenti.
Sarebbe una storia molto curiosa quella di tutte le idee che hanno così regnato nelle diverse età, delle origini, dei progressi, e della caduta loro.
Si vedrebbero le più solenni stravaganze, raccolte insieme, e tenute da una circostanza comune, di essere state universalmente avute in conto di verità incontrastabili.
Si direbbe: nel tal secolo il negare la tal cosa che ora nessuno vorrebbe affermare, vi avrebbe fatto mandare ai pazzerelli; nel tal altro l'affermare la tal altra che ora nessuno vorrebbe porre in dubbio vi avrebbe fatto andar prigione; in quello, la tal proposizione vi avrebbe fatto perdere ogni credito, in quell'altro, era appena lecito avventurarla al tale grand'uomo, e con molta precauzione, con aria dubitativa, aggiungendovi per correzione la tal altra cosa, che ora per noi e fin d'allora era forse per lui stesso una sciocchezza badiale.
Si vedrebbe un tale errore, proposto da prima con timidità, sostenuto con modestia, combattuto acremente, diffuso lentamente fra i contrasti, aver poi dominato con lunga ed universale tirannia: tal altro annunziato con pompa, come una scoperta, e tosto ricevuto: tale nato, cresciuto, e morto in un paese, tale recato da di fuori, e ricevuto con gratitudine, tale sorto tra il popolo illetterato, e a poco a poco ammesso dai dotti, ridotto da essi in sistema, e restituito agli inventori con corredo di dottrine; tale, scavato in un libro vecchio; tale immaginato da un corpo, da un uomo autorevole; tale messo fuori da un uomo senza credito, e senza merito, aver fatto grande fortuna perché conforme ad altre idee storte già dominanti, e ad una generale disposizione degli ingegni: e per troncare con una delle specie più singolari una lista che sarebbe troppo difficile e troppo lungo il compiere, si vedrebbe tale errore tenuto fermamente, amato, predicato con ardore fanatico dagli uomini i più colti e pensatori di un'epoca, e rispinto dal popolo, e dalla folla dei dotti minori, quando per amore di prevenzioni diverse, e quando per le vere e buone ragioni: dimodoché su quel punto i posteri non trovano da compatire in un'epoca che gli uomini pei quali hanno più di ammirazione.
Talvolta senza proteste senza richiami.
Talvolta però ne troviamo alcuni, ma o non ascoltati, o derisi, o trattati seriamente male: cosa che ci fa strabiliare, vedendo noi ora quanto fossero ragionevoli, come esprimessero verità le più ovvie, anzi tanto ovvie che l'annunziarle ora con importanza farebbe ridere per un altro verso.
Questi richiami si trovano per lo più sparsi, gittati come di passaggio, per occasione, nelle opere di sommi scrittori, o con più diretta intenzione, con qualche maggiore insistenza in libri strani e sconnessi, dove ardite verità sono confuse con arditi spropositi, e con istravaganze volgari.
Dal che si vede quanto fosse prepotente l'autorità di quelle idee; giacché non ardivano impugnarle che gli uomini difesi da una gran fama, o i fanti perduti, per così dire della letteratura, gli scrittori che non temevano più, o che ambivano la riputazione incomoda e pericolosa di amici del paradosso.
Volendo poi tener dietro al corso e alle vicende di quelle idee si trova generalmente che dopo quei primi assalti staccati comparve qualche scrittore pensante e metodico a combatterle in regola.
Allora, un trambusto da non dire: quelle idee disturbate seriamente nel loro antico e legale possesso, sono sempre state difese con sicurezza, e con ardore.
Si sarebbe detto ch'elle non fossero mai state così forti, così inconcusse come in quel momento: ma noi posteri che vediamo la cosa finita, possiamo giudicare che forza era quella.
Egli era come quando uno va di notte con un lumicino a dar fuoco ad un vespajo: gli abitatori sbucano in furia; è un batter d'ale, un avventarsi, un ronzio terribile; pare che vadano ad una conquista o che celebrino una vittoria: ma guardate il nido, e vedrete ch'egli arde; v'accorgerete che tutto quel concitamento nasce dall'impaccio di non sapere dove andarsi ad alloggiare.
È cosa degna di osservazione come tutte quelle guerre si rassomiglino: in tutte i difensori furono costretti a variare ad ogni momento il sistema della difesa; ad abbandonare ogni giorno argomenti proposti con somma fidanza, e ad inventarne dei nuovi, a misura che i primi erano malconci, e renduti inservibili.
Alcuni di quei nuovi argomenti furono talvolta molto ingegnosi; ma per chi voleva riflettere, l'epoca stessa della scoperta era un pregiudizio contro di essi; poiché sarebbe cosa troppo strana che dopo cento o dugent'anni di persuasione e di consenso in una opinione si trovino tutto ad un tratto le ragioni fondamentali che la fanno esser vera.
Un altro punto notabile di conformità che hanno avuto quelle guerre fu questo, che sempre si sono andati a scavare, un po' tardi, tutti i richiami antichi contra quelle idee, per far vedere che lo scrittore il quale veniva in campo a combatterle, non diceva nulla di nuovo.
E quelli che si presero di tali brighe, non s'avvedevano che era un darsi della scure in sul piè: venivano a provare che la verità era già stata annunziata da molto tempo, che era stata posta loro dinanzi, e che essi non l'avevano avvertita, o l'avevano rifiutata avvertitamente.
Ma una storia siffatta, oltre la curiosità, potrebbe avere anche uno scopo importante.
Osservando riunite tante opinioni false e credute si verrebbero certamente a scoprire molti caratteri generali, comuni a tutte, così nella indole loro, come nel modo con cui sono invalse, nelle circostanze che le hanno fatte ricevere e sostenere, nei rapporti loro con altre opinioni, o con interessi, eccetera.
Questi caratteri scoperti, potrebbero poi servire come di uno scandaglio per noi: si potrebbe osservare se fra le idee dominanti al nostro tempo, ve n'abbia alcune nelle quali questi caratteri si trovino; e cavarne un indizio per osservarle con più attenzione, con uno sguardo più libero e più fermo, e con un certo sospetto per vedere se mai non fossero di quelle che una età impone a se stessa come un giogo che le età venture scuotono poi da sè con isdegno.
Giacché, è cosa troppo probabile che anche noi ne abbiamo di tali: e sarebbe pretensione troppo tracotante il crederci esenti da una sciagura comune a tutti i nostri predecessori.
Io credo che molte delle nostre opinioni attuali si troverebbero avere di quei caratteri; anzi alcuno di essi vi è tanto manifestamente, che senza studio, alla prima occhiata si può scorgere.
Citiamone uno dei più estrinseci ed apparenti, e che si ravvisa in tutti gli errori antichi, ora riconosciuti tali: un orrore della discussione, un'ombra, una ritrosaggine, una subita attenzione a rispingere con ira o con beffe ogni dubbio, un ricorrere tosto all'autorità dei morti, e al consenso dei vivi per chiamar tante voci in soccorso a coprire quella che voleva rendere un suono diverso.
Ora, mettiamoci un po' la mano alla coscienza; quante dottrine non predichiamo e non sosteniamo noi a questo modo! Se v'ha chi lo nega, è facile, non dirò farlo ricredere, ma costringerlo a somministrare egli stesso una prova novella del fatto che non vuol confessare.
Se uno venisse ora a dire, per esempio: è egli veramente, inappellabilmente provato che...
Eh ma! signori voi mi fate già la cera brusca! Perdonate, non vado oltre, tronco la frase sacrilega; ripiglio il manoscritto del mio autore, e torno alla storia.
CAPITOLO IV
Andavano intanto coll'avanzare della primavera sempre più spesseggiando gli ammalamenti e le morti.
I magistrati, come chi al raddoppiar di chiamate, e al continuo battere della luce, si risenta da un alto sonno, cominciavano a riandare ciò ch'era accaduto, a guardare ciò che accadeva, a sospettare, quindi a risolversi che bisognava far qualche cosa.
Ordinarono contumacie, bollette, purghe di merci, fecero porre cancelli alle porte, delegarono nobili che vi assistessero, intimarono pene a chi trasgredisse gli ordini della Sanità, o turbasse con minacce o con insulti quegli che gli eseguivano, consultarono sui mezzi di fornire alle spese sempre crescenti del Lazzeretto, e di tutti gli altri servizj, e di nutrire una gran parte della popolazione alla quale cessavano i lavori e i mezzi di sussistenza.
Ma la difficoltà era appunto nel trovare questi mezzi.
Il Marchese Spinola de los Balbasos governatore, stavasi a campo sotto Casale, occupato nel suo principal mestiere d'eroe.
I Decurioni spedirono deputati a rappresentargli le urgenze dello Stato, l'esaurimento delle casse municipali, l'impossibilità di aumentare le imposte, quando le correnti non erano pagate per inabilità, e ad implorare che l'erario reale assumesse queste spese straordinarie ed inevitabili.
Il Marchese accoglieva i deputati con molta buona grazia.
Del resto rispose spiacergli assai di non trovarsi a Milano a fare ogni uficio per sollevare quella povera città, ma sperare che i Decurioni avrebbero fatto cose grandi; pensassero essi, da quei bravi uomini che erano, al modo di far danari; esser questo il tempo di non guardare a spese, di profondere per la salvezza della patria; tutte le risoluzioni che essi avrebbero prese a questo fine e in questo senso, egli le avrebbe approvate.
Su le domande, rispose che avrebbe pensato.
Più tardi poi, nel maggior fervore della peste, il governatore pigliò il partito di lavarsene le mani; trasferì con lettere patenti la sua autorità nel gran cancelliere Ferrer; ed affidò a lui e agli altri magistrati la fame e la peste, non ritenendo per sè che la guerra.
In quelle angustie i Decurioni, accattavano somme a prestito, ne chiedevano in elemosina, ponevano contribuzioni particolari ai più facoltosi, aumentavano i carichi, ne inventavano di nuovi: ma il ricavo non bastava ai bisogni, e le cose andavano come potevano.
La confusione cresceva di giorno in giorno: quella qualunque azione dei magistrati che nei tempi ordinarj serviva a mantenere quel qualunque ordine, diveniva ora di giorno in giorno più debole, più incerta, più intralciata, e in molte parti cessava affatto: e nello stesso tempo tutti gli elementi di disordine diffusi in quel corpaccio sociale, acquistavano un nuovo vigore.
I ribaldi sentirono quanto guadagno di licenza e d'impunità poteva trovarsi per essi nel pubblico turbamento, nello sbalordimento dei magistrati, e degli uomini quieti, e ne approfittarono.
Nè basta; l'autorità publica, istituita per reprimere quei ribaldi, fu costretta a servirsi di loro, e ad affidare a quelle mani una porzione spaventosa di forza legale.
Convenne arruolare in fretta e in furia uficiali d'ogni genere pel servizio straordinario, commissarj, guardie, monatti: così con antica denominazione milanese erano disegnati gli uomini condotti a trasportare al lazzeretto gl'infermi, a sotterrare i cadaveri, a purgare ed ardere le robe infette, a vivere insomma della peste in mezzo alla peste.
A questo tristo e pericoloso uficio, dal quale rifuggivano anche gli uomini avvezzi ai più bassi e penosi, si offrivano i più sicuri scellerati, pei quali l'attrattiva delle paghe, della rapina e della licenza era più potente che il timore della morte.
Sul principio fu pure fattibile contenerli entro qualche regola, ma coll'estendersi della peste andò crescendo la loro licenza; e a grado a grado, le case, le cose, le persone furono in loro balìa.
I tempi delle scelleratezze straordinarie sono per lo più illustrati da virtù più solenni, più risolute, straordinarie anch'esse; e di tali non mancò il tempo di cui parliamo.
Si videro esempj di rassegnazione sentita ed animosa, di liberalità costosa, di carità ardente, e per così dire spensierata, di zelo, di attività infatigabile; esempj tutti ispirati dalla religione, e dati in gran parte dai suoi ministri.
Fino dal mese di novembre del 1629, il cardinal Federigo, ragionando dal pulpito sul pericolo vicino della peste, aveva proferite queste parole: «non dubitate, fate animo, che né da me, né da miei preti non sarete giammai abbandonati».
Venuto il caso, egli attenne in tutto la promessa.
Dando per supposto, o accennando come cosa già nota che l'esporre la vita pei fratelli è un obbligo del ministero, egli prescrisse ai parrochi, e a tutti gli ecclesiastici nuove regole sul modo di amministrare i soccorsi della religione; indicò le cautele da usarsi, distribuì somme da erogarsi in ajuti temporali.
Corresse severamente e svergognò quelli che si ritiravano dall'assistere agli infermi: il primo che disertando la sua parrocchia, s'era rifuggito in campagna, lo richiamò egli con rampogne e con minacce d'interdetto al suo posto; né trovo che da poi gli sia più convenuto di ricorrere al rigore per simile motivo.
Egli con quella sua consueta composta operosità, attendeva in casa alla direzione di tutte le opere imposte al clero, non rispingendo mai chi avesse bisogno di conferire con lui; percorreva la città accompagnato da uno che portava moneta da distribuirsi in elemosina; fermandosi sotto le finestre, alle porte dei poverelli per informarsi dei bisogni, e sovvenire, per ascoltare le querele, e dar consolazioni e coraggio: visitava il lazzeretto, dava consigli, e colla sola presenza ratteneva per qualche momento almeno la sfrenatezza dei ribaldi, ed eccitava i ministri publici ad adempire coraggiosamente agli uficj loro.
Rimaso quasi unico superstite di tutta la sua famiglia vescovile, consigliato, tempestato dagli amici, dai parenti, dai medici, da uomini potenti, perché non si esponesse a tanti rischj, e si ritirasse in qualche sua villa, non fu scosso un istante dal suo proposito; tanto che ne ebbe taccia di ostinato: fatto notabile davvero, e che può esser di esempio e di consolazione a quegli che si rammaricano di veder censurate le loro azioni.
Rimase egli dunque fino alla fine; ma non per questo lasciò di trarre profitto dalle sue ville: scelse tra i giovanetti che si educavano al ministero ecclesiastico alcuni distinti per morigeratezza e per diligenza; e gli mandò quivi per sottrarli al comune pericolo, e in tanta strage serbare almeno il meglio ad un migliore avvenire.
La condotta del clero non fu difforme dall'esempio del pastore: non vi fu appestato che desiderasse invano l'assistenza del sacerdote: preti e frati nel lazzeretto, nelle case, nelle vie accorrevano al bisogno, ne andavano in cerca; e il cardinale stesso, e nei pubblici sermoni, e nel suo trattatello della peste, loda con gratitudine i molti che in quell'opera avevano perduta la vita, e i superstiti, che non l'avevano però risparmiata.
Fra quel nobile volgo si distinse un uomo che avrebbe un nome storico, se la storia fosse consecrata a descrivere lo stato delle società nei diversi tempi, e a segnalare i fatti e i caratteri che più servono a far conoscere la natura umana.
Nei molti cappuccini che si offersero ad assistere gli appestati, v'era un Padre Felice Casati di grande autorità presso ogni sorta di persone per la severa santità della vita, per una straordinaria potenza d'animo, e per fama di sapere.
I Decurioni impacciati com'erano, pensarono che un tanto frate poteva essere impiegato a più vasta opera che egli stesso non pensasse; e lo scongiurarono d'assumere il governo del lazzeretto.
Egli andò a chiedere il consiglio di Federigo, il quale abbracciatolo a più riprese, lo animò ad accettare l'incarico.
Il Presidente della Sanità, che era più impacciato d'ogni altro, condusse nel giorno di Pasqua, il Padre Felice con altri capuccini al lazzeretto, e quivi, chiamati gli uficiali, lo presentò ad essi dicendo: «questi è il presidente del lazzeretto, anche sopra il presidente».
Mirabile spettacolo! vedere un magistrato, avvezzo alle gare ansiose e agli ostinati puntigli delle preminenze, abbassarsi volontariamente, discendere al secondo grado, mettere un altro sopra di sè.
Ma vi voleva la peste.
Col crescere della mortalità, col popolarsi del lazzeretto, andavano scemando le mormorazioni e le beffe del popolo; la parola peste era profferita più sovente e fuor di scherzo: al vedere infermi condotti al lazzeretto, e case sequestrate, molti che dapprima avevano schiamazzato contra quei provvedimenti, cominciavano a trovar ben fatto che si allontanasse da loro ciò che finalmente sentivano essere un pericolo.
Per qualche tempo il contagio aveva serpeggiato soltanto nelle case dei poveri; finalmente, dilatandosi, attinse quelle dei nobili; e questi esempj, perché più esposti alla osservazione, produssero una impressione più generale e più forte.
E più d'ogni altro caso fè specie l'udire che era caduto infermo di contagio quel Ludovico Settala che lo aveva da tanto tempo segnalato indarno, e con suo pericolo.
Avranno eglino detto allora: «il povero vecchio aveva ragione»? Probabilmente l'avranno detto quei soli, che fino da principio gli avevano creduto; perché essi soli potevano dar ragione al povero vecchio, senza dar torto a se stessi.
Il povero vecchio, e un suo figliuolo guarirono: la moglie, un altro figliuolo, e sette persone di servizio morirono di peste.
A malgrado d'una sì terribile evidenza, v'era ancora alcuni ostinati: per far capaci anche costoro, il tribunale della Sanità ricorse ad uno strano espediente, usò un linguaggio tipico, adattato veramente all'intelletto di chi doveva esser persuaso e di chi voleva persuadere, degno insomma dei tempi.
Era morta di peste una famiglia intera: la Sanità diede ordine che un giorno festivo in cui il popolo era solito concorrere alla chiesa di San Gregorio posta dietro il lazzeretto, tutti quei morti vi fossero trasportati sovra un carro, ignudi.
La lurida pompa attraversò la folla; alcuni torcevano con orrore e con fastidio gli sguardi, altri accorrevano a guatare con ansiosa curiosità; e questi videro su quei cadaveri i lividori, e i buboni pestilenti, comune cagione ad una famiglia di quelle comuni esequie.
Non restò finalmente chi dubitasse che il male era contagioso.
Ma il ricredersi fu più fanatico, più funesto che non era stata l'ostinazione: da una verità riconosciuta cominciò un periodo di demenza e di atrocità publica, non inaudito certamente nella storia dei traviamenti umani, ma per durata e per casi, notabile e spaventoso.
Riconosciuta una volta l'esistenza del contagio in Lombardia, non pare che si dovesse scrutiniar molto, andar molto lontano a cercarne la causa: ell'era in pronto, immediata, naturale, manifesta; la calata delle truppe alemanne.
Ma non fu così.
Quegli uomini avevano disputato, riso, e sbuffato per sei mesi; non avevano mai voluto ammettere, né sofferire che altri supponesse relazione tra la venuta dell'esercito, e il nuovo malore che regnava in Lombardia: confessare ora finalmente questa relazione, sarebbe stato un confessare d'essere stati bestialmente ostinati e ciechi.
Non vollero quindi né ricordarsi, né parlare, né udir parlare di quella circostanza; e rifiutando la causa naturale, ne immaginarono, come suole avvenire, una stravagante, una che sarebbe ridicola, se quella immaginazione non avesse avute conseguenze, che udite o lette, rendono altrui ritroso al riso, per qualche tempo ancora da poi che il racconto è cessato.
S'immaginarono che la peste fosse disseminata con unguenti, non so, né essi pur sapevano quali, da uomini perversi, collegati sotto qualche capo potente e nascosto, e tutti in società di patti col demonio.
A diffondere questa insana credenza contribuiva la disposizione universale a supporre cause soprannaturali, che ammesse una volta spiegano tutto senza difficoltà, stornando gli ingegni dall'esame delle cose e delle relazioni reali, il quale fa nascere dubbj spinosi da ogni parte.
E fra queste cause soprannaturali una che più facilmente si ammetteva era l'intervenzione del demonio: ogni fenomeno che uscisse dalla sfera angusta delle cognizioni, e della esperienza comune, era opera del demonio, non solo nel male, ma nelle cose innocue, ma nelle pregevoli, ma nelle buone: del che rimane tuttavia un vestigio in più d'un dialetto e d'una lingua che, per dinotare un uomo di abilità straordinaria in qualunque genere, hanno tuttavia questa formola: egli è un diavolo; ha il diavolo addosso.
Contribuiva l'opinione universale, congenere a questa che abbiam detta, sulla esistenza, sulla frequenza delle streghe e degli stregoni: opinione che applicata poi a tanti infelici, faceva nascere dei sospetti che nella persuasione divenivano fatti, e davano così alla opinione stessa la forza e l'autorità della esperienza.
Contribuiva la facilità a credere delitti enormi, strani, intenzioni e disegni di una perversità infernale, gratuita capricciosa: facilità nata in parte da una esperienza troppo reale: non eran rari gli uomini che a forza di conceder delitti alle passioni loro eran giunti a segno, di farsi una passione e una gloria del delitto stesso.
Dei veleni poi l'uso era tanto frequente, come attesta il cardinal Federigo in un suo trattatello su quella peste il quale si conserva manoscritto nella biblioteca ambrosiana, che ne eran comuni gli artefici e le officine.
L'ignoranza e l'irriflessione portavano poi leggiermente una tale corrività a creder misfatti, al di là delle nozioni dell'esperienza; e specialmente in ciò che risguardava le nazioni straniere; l'orgoglio, una stolta rivalità, talvolta una infame politica facevano inventare alla giornata le più atroci imputazioni, o le interpretazioni più assurde di fatti reali: queste erano gettate in mezzo ad una popolazione che non aveva né le notizie di fatto, né le idee generali necessarie per farvi sopra un esame, né l'abitudine di esaminare: erano credute, ripetute, e disponevano le menti a crederne altre, formavano un criterio publico falso, corrivo, ed avventato.
Contribuivano certe tradizioni confuse, ma ridette con asseveranza fra il popolo, di simili trame scoperte nella peste del 1576, e in altri tempi d'eguale sciagura.
Contribuivano le stolte, e ancor più inescusabili erudizioni di molti dotti d'allora, che andavano a pescare nelle storie, e in narrazioni ancor più favolose, ogni menzione di pesti propagate con sortilegj, e con veleni, o come dicevano manofatte: materia pur troppo abbondante; giacché da quella peste che, al dir di Tucidide, gli Ateniesi supponevano cagionata da veleni gettati nei loro pozzi dai Peloponesi, fino alla peste di Roma che nel consolato di P.
Cornelio Cetego, e di M.
Bebio Tamfilo, cominciò, al dir di Livio, da un pianto del simulacro di Giunone Lacinia in Lanuvio, e da altri simili avvenimenti, non vi fu peste, quasi fino ai nostri giorni, della quale il popolo che la pativa non desse cagione in gran parte a frodi umane, o a prodigj superstiziosi.
Ma quello che fissò ad un punto d'errore questa vagabonda ed inquieta credulità, fu una lettera sottoscritta dal re Don Filippo Quarto, spedita fino dall'anno antecedente al Marchese Ambrogio Spinola, nome ancor celebre per le spedizioni di Fiandra, che era stato surrogato al Cordova nel governo di Milano.
In quella lettera si dava avviso al governatore che quattro Francesi sorpresi nell'atto di spargere unguenti pestiferi nella Corte di Madrid, erano sfuggiti, né dove si sapeva: dovesse egli quindi stare all'erta se mai fossero capitati a Milano.
Al primo divolgarsi di quell'avviso non vi si badò più che tanto: ma il contagio che nelle credule menti, era stato associato alla idea di quelle unzioni come un effetto di esse, comparendo ora realmente, risvegliò tosto la ricordanza della sua immaginata cagione; l'idea di unzioni venefiche, che era rimasta infeconda, mise radici, si svolse, fruttificò, come un germe maligno profondamente sepolto, se il vomero lo solleva, e lo appressa alla superficie del terreno.
Unguenti, polveri, comete, malie, trame, congressi, demonio, erano le parole che tornavano in tutti i discorsi.
Si venne tosto a sapere che il demonio aveva pigliata a pigione una casa in Milano; si disegnava il quartiere, si ripeteva il nome del locatore.
Che più? Un uomo e si diceva chi, fermatosi un giorno su la piazza del duomo aveva veduto giungere in carrozza a tiro sei con gran corteggio un gran signore col volto fosco ed abbronzato, cogli occhi infiammati, coi capegli ritti, col labro superiore teso alla minaccia, un viso insomma di quei che il buon milanese non aveva mai veduti.
Mentre questi guatava, il cocchio era ristato, e a colui fatto invito di salire: egli aveva condisceso; e dopo un certo giro il cocchio s'era fermato a quella tal casa, ed ivi egli era smontato con gli altri.
La casa era degna del fittajuolo: andirivieni, deserti, luce, tenebre, là solitudine, qui larve sedute a consiglio, amenità di giardini, e orrore di caverne.
Quivi al galantuomo erano stati mostrati grandi tesori, e promessi, se volesse servire a quel signore nella grande impresa ch'egli macchinava.
Ma il galantuomo, avendo ricusato, era stato rimesso nel cocchio, e ricondotto alla piazza del duomo.
Questa storia non fu soltanto creduta in Milano dov'era nata, ma si diffuse per tutta Europa, e in Germania se ne incise un disegno.
L'arcivescovo elettore di Magonza chiese per lettera al cardinale Federigo Borromeo che fossero tutti codesti portenti che si narravano di Milano: il buon cardinale riscrisse che erano sogni e delirj.
Quand'ecco, il mattino del 17 maggio i primi che uscirono di casa alle loro faccende, videro le muraglie sparse di macchie viscide, giallastre, ineguali, come impresse da spugne lanciate; le porte pure imbrattate della stessa materia, e intrisi i martelli.
Per quanto sia da diffidare delle affermazioni di quel tempo, questo fatto però sembra indubitabile; giacché i contemporanei lo riferiscono come testimonj di veduta; e nessuno lo pone in dubbio; e fra que' testimonj si trova il Ripamonti il quale non poteva essere illuso dalla prevenzione, poiché da tutte le sue parole traspare chiaramente ch'egli non partecipava alla persuasione comune.
D'altronde è ovvia una spiegazione naturale di quel fatto.
V'ha in ogni tempo degli uomini pei quali il terrore pubblico è un divertimento; e che studiano le occasioni di crearlo, o di accrescerlo; e ve n'aveva una trista abbondanza a quei tempi, in cui gli animi erano esercitati singolarmente ad ogni cosa ostile, avvezzi a cercare una superiorità propria nell'abbattimento altrui, una gloria nel fare il male con destrezza, con audacia, e con pericolo.
È probabile che uomini di questa bella indole abbiano vegliata una notte a quelle gloriose pitture, per vedere nel giorno l'effetto che produrrebbero sulle fantasie dei loro concittadini, e per ridere sicuramente d'una paura, della quale essi conoscevano l'illusione.
E in quel trattatello del Cardinal Federigo è scritto che alcuni ebbero poi a confessare di avere unti più luoghi per farsi beffe della gente.
È poi anche probabile che le fantasie insospettite ingrandissero la realtà, e vedessero unzioni artificiali e recenti in ogni macchia, anche in quelle sulle quali più volte prima di quel giorno saranno passati i loro sguardi distratti e inavvertiti.
I primi scopritori delle macchie chiamarono tosto altri ad osservarle: in un momento le vie brulicarono di gente che accorreva, e si addensava innanzi a quelle macchie come ora ai quadri più lodati in una esposizione publica.
Il terrore e lo sdegno invasero tutti gli animi: il sospetto, errante ed incerto alla prima, si determinò tosto a varie certezze; giacché la moltitudine si accontenta bensì dell'indeterminato nei ragionamenti; ma nei fatti vuole del positivo, e lo vuol tosto.
Per alcuni il capo degli untori (il bisogno creò allora il vocabolo) era senza dubbio il tal principe, che voleva far morire gli abitanti del ducato, per impossessarsene a man salva; per altri era il Cordova che voleva vendicarsi degli urli e dei fischj con che nel suo partire l'aveva accomiatato il popolo memore della fame durata nel suo governo; altri nominava D.
Giovanni Padilla figlio del Castellano di Milano; altri il duca di Friedland, Vallenstein; altri disegnava un nobile che si trovava a Roma; e questa voce crebbe tanto, che fu detto e creduto che egli era stato preso, ed era mandato a Milano per subirvi il supplizio: l'universale lo aspettava con ansietà, i parenti tremando e nascosti; e tutto era un sogno.
Alcuni disegnavano altri nobili come complici, alcuni disegnavano uomini sconosciuti; alcuni accertavano che tutto veniva dai Francesi.
Il furore era al colmo, nessun supplizio si stimava troppo crudele pel capo e pei complici.
Nè è da farsene maraviglia; un tal sentimento è troppo facile a nascere in un popolo il quale crede che v'abbia degli uomini che tentano di avvelenarlo in massa.
Dal che si vede, che a volere impedire gli effetti talvolta tanto iniqui e tanto crudeli di simili esacerbazioni popolari, è scarso, e tardo rimedio l'intercedere, il predicare la moderazione, il perdono, quando gli animi sono persuasi della realtà dell'attentato; bisogna cercare di prevenire la persuasione, e sopra tutto guardarsi dal secondarla ripetendo ciecamente i primi romori publici.
Ho detto si vede, e dovetti dire: si dovrebbe vedere; giacché osservando le piaghe dei nostri maggiori non dobbiamo chiuder gli occhi alle nostre; e questa corrività a credere senza prova attentati contra il publico, contra una parte di esso, ad attribuire alle persone fatti e parole immaginarie è una piaga viva tuttodì; e dico viva nei popoli più colti, e dico anche negli uomini più colti di questi popoli.
È cosa strana e trista che nelle cose contemporanee anche molti uomini colti si accontentino di ragioni che gli farebbero ridere applicate in una storia ad avvenimenti lontani.
Nei nostri tempi in cui i fatti si sono affoltati con una terribile celerità, è incredibile l'influenza che hanno avuta in essi queste opinioni così leggermente ricevute: le più inverisimili son divenute spesso norma infallibile, impulso potente di condotta e di azioni: effetti terribili di cause immaginarie, furono poi cagioni di azione pur terribile, vasta, e prolungata.
Su questa corrività non posso trattenermi dal trascrivere alcune parole d'oro da un libro d'un uomo singolarmente osservatore, il quale si trovò ravvolto in avvenimenti d'una terribile complicatezza: «Si je ne l'avois pas vu moi-meme, et plusieurs fois, je ne le croirois pas: il a été fait par des hommes de bien à des hommes atroces, des inculpations qui n'ètoient ni vraies ni vraisemblables.»
Tornando al nostro proposito, v'ebbe pure alcuni i quali pensarono, e dissero che tutto quell'infardamento doveva essere una burla; e l'attribuirono a scolari dello studio di Pavia.
Ma questa opinione non fece presa: quella che supponeva una intenzione più rea, una intenzione atroce era troppo conforme alle altre idee dell'universale: e del resto nelle grandi sciagure gl'ingegni si pascono volentieri di supposizioni orribili.
Quegli che opinavano per la burla non osarono troppo insistere, per non esser presi essi stessi in sospetto di complici o di fautori dell'attentato.
Dal non credere un delitto all'approvarlo il salto è grande; ma la logica delle passioni è agile, e sa farne senza difficoltà anche dei maggiori.
Il suo modo di procedere in questo caso è tale.
Quando a persone inebbriate d'odio e di indegnazione contra il supposto autore d'una grande iniquità contra il pubblico, voi negate che quegli ne sia colpevole, l'idea che rimane nei vostri uditori è che voi intendete di scusarlo.
Ora nelle menti loro, atrocità del delitto, certezza del delitto, reità del tale o dei tali sono idee affatto indivisibili; e quindi scusare la persona è per essi scusare la cosa.
Scusare poi, approvare, favorire, esser complice, esser capo, sono salterelli, che la logica fa quasi senza avvedersene.
Ma ciò che reca maraviglia anche a chi avendo letti i libri di quel tempo ha potuto avvezzarsi al ragionare dei loro autori, si è l'udire taluno di quei medici stessi che avevano sostenuto, insegnato, osservato alla giornata come il contatto trasmettesse e diffondesse rapidamente la peste, udirli dico poi attribuirne la diffusione alle unzioni.
Ai 19 di Maggio, il tribunale della sanità con publica grida, offerse premio ed impunità a chi rivelasse gli autori delle unzioni.
Altre consimili furono poi publicate d'ordine del governatore e del senato.
In mezzo alle suspicioni, ai furori, alle accuse avventate e crudeli, in mezzo pure alla licenza che né le sventure, né le ire avevano frenata, sorse una smania generale di placare la collera di Dio con una processione publica nella quale si portasse per la città il corpo di San Carlo.
Il Vicario e i Dodici di Provvisione, i sessanta decurioni fecero di ciò richiesta al Cardinale Federigo; il quale ricusò da prima, adducendo motivi, che da un tal labbro pare che dovessero portare la persuasione; ma talvolta la ragionevolezza, o l'opportunità delle parole toglie ogni forza anche alla autorità.
Allegava l'uomo savio che il popolo aspettava da quella supplicazione solenne la liberazione dalla peste, non con una speranza condizionata e rassegnata, ma con una certezza superstiziosa; e che a questa, quando fosse delusa, succederebbe una incredulità egualmente superstiziosa, una indegnazione empia.
Un altro motivo da lui addotto era anche conforme ai più cari pregiudizj del publico: e pur non valse.
«Una tale ragunata di popolo», diceva egli, «potrà essere una troppo comoda occasione per questi untori, quando sia pur vero che ve n'abbia».
Giacché Federigo, quantunque fosse lontano dall'ammettere tutte le ragioni che persuadevano su quel punto la maggior parte dei suoi contemporanei, quantunque anche in iscritto abbia mostrato la frivolezza, e l'illusione di alcune, e segnate le cagioni e i modi dell'errore, pure sbalordito da tante grida, sopraffatto da tante testimonianze non ebbe il coraggio di pensare che il delitto era tutto immaginario: e con tutta la nostra riverente propensione per quell'uomo, non possiamo dargli una tal lode, che pur fu meritata da alcuni suoi contemporanei, dei quali non già i nomi, ma una memoria confusa ci è stata conservata dagli scrittori.
E, cosa singolare! tutti quegli scrittori, meno il Ripamonti, insorgono contra quei pochi increduli; di modo che se noi posteri sappiamo che alcuni uomini furono esenti da un funesto errore comune, lo sappiamo soltanto per l'accusa di cecità e di stranezza che gli scrittori credettero di portare contro di quelli al nostro riverito tribunale.
Un'altra ragione, e savia davvero, allegava il buon vescovo: che un pericolo ben più certo, e ben più funesto sarebbe la frequenza, l'addensamento, e la mistura di tante persone: e che era troppo da temersi che un mezzo cercato per ottenere la liberazione della peste, ne divenisse un terribile propagatore.
Ma le insistenze, le importunità furono tali ch'egli acconsentì.
Su di che noi non osiamo né assolvere, né censurare la sua memoria: perché non possiamo sapere quali sarebbero state le conseguenze d'una ripulsa diffinitiva.
Quegli uomini avrebbero potuto fare a furore la loro processione senz'altro permesso; e farla meno ordinata e di più funesto effetto, avrebber potuto fare Dio sa che.
A chi volesse giudicare a rigore il nostro Federigo, noi non auguriamo di aver mai a competere con un qualche migliajo di furiosi ostinati.
Tre giorni furono spesi in preparamenti: si ornarono in fretta le vie per cui doveva passare la processione: i ricchi cavarono fuori le più preziose suppellettili; le fronti delle case povere furono addobbate dai vicini doviziosi, o per cura del publico.
Il tribunale della sanità bandì che nessuna persona di terra sospetta potesse entrare quel giorno in Milano; anzi per accertare l'esecuzione del bando, fece chiudere le porte della città.
E parimenti, perché nessuno dei cittadini infetti o sospetti potesse in quel giorno uscire e mischiarsi alla folla, fece inchiodare le porte delle case già sequestrate.
Con questi ordini si credette che fosse bastantemente ovviato ai pericoli di una accolta così numerosa.
Un momento di riflessione avrebbe dovuto bastare a sbandire una tale fiducia da qualunque intelletto umano: e tanto più fa stupore come ell'abbia potuto prevalere in coloro i quali avevano dovuto vedere e sperimentare quanto rapidi, facili, moltiplici fossero i modi per cui il contagio si comunicava; e quanto scarsi in paragone i mezzi di riconoscere tosto le persone, le cose a cui si era comunicato.
Certo non potevano nutrire la pazza lusinga di aver saputo discernere e sequestrare tutti gli infetti; dovevano anzi tenersi pur troppo certi che molti giravano liberamente, molti si sarebbero trovati in quella folla i quali avevano già nei loro corpi, o nelle vesti appiccato il contagio; non ignoravano che un solo di questi sarebbe bastato ad infettare una città intera: e si fidarono a quei loro provvedimenti.
All'alba del giorno 11 di giugno, festivo a quei tempi nella diocesi milanese pel nome di San Barnaba, il clero e il popolo, ragunatosi parzialmente nelle diverse chiese, convenne in drappelli al Duomo, donde tutti poi insieme si mossero a processione.
Andava innanzi una gran troppa di popolo misto di età, di condizione, e di sesso; quali portando un cero, quali un rosario; molti in segno di penitenza, scalzi.
Venivano quindi con ceri le confraternite vestite di fogge varie di colori e di forme, poi le arti distinte, e precedute ognuna dal suo confalone; poi le varie congregazioni dei frati, neri, bigi, e bianchi, poi il clero secolare, distinto in parrocchie e in capitoli, con varie divise; quindi fra lo splendore di folti ceri, e tra un nembo incessante d'incenso, portata da quattro canonici, l'arca dove giacevano le reliquie invocate di San Carlo.
Dai cristalli che chiudevano i lati traspariva il corpo coperto di splendidi abiti pontificali, e il teschio mitrato, in cui fra lo squallore delle vuote occhiaje, del ringhio spolpato, delle forme mutilate, della cute abbronzata, aggrinzata su l'ossa, traluceva ancora qualche vestigio della faccia antica, esplorato con angosciosa venerazione dai vecchj che avevano veduto vivo il santo pastore.
Gli altri cercavano di raffigurare in quelle reliquie una immagine più presente e più reale di quella faccia che dalla infanzia avevano osservata e venerata nelle imitazioni dell'arte.
Dietro le spoglie del morto pastore, veniva il suo cugino ed imitatore Federigo, consunto egli pure e pallido di vecchiezza, di penitenza, e di accoramento, in quell'aspetto di compunzione che nessuna ipocrisia può contraffare, poiché è l'effetto involontario d'un sentimento che non conosce i modi pei quali si esprime.
Le affezioni temporali pel parente, appena si facevano sentire in quell'animo, assorbite dalla riverenza del santo, e dalla invocazione all'intercessore; il nome comune, tutte le memorie dei tempi vissuti insieme, si perdevano nella fede: non era più che un vescovo che pregava l'uomo vivente presso Dio perché pregasse pel suo popolo.
Colui che aveva cercato di stornare quella cerimonia, vi portava ora forse l'animo il più fervente: le ragioni che l'avevano renduto ritroso ad approvare una risoluzione imprudente non venivano ora a distrarre con ricordi superbi e dispettosi la sua mente dall'intento ragionevole e santo di quella risoluzione: il culto, e la preghiera.
Perché, egli era di quei pochi che adoperano le loro ragioni sol tanto quanto possono sperare di ottenere con esse una utile persuasione; avuto o disperato questo intento non le vanno più rivangando con un inquieto brontolamento: rodersi, o insuperbirsi d'essere stati saggi indarno, non pare ad essi un esercizio ragionevole dell'intelletto; far vedere, e far confessare agli altri che essi avevano meglio pensato di loro, non pare ad essi uno scopo.
Certo anche quei pochi sono soggetti all'errore; ma di quanto scemerebbero in numero gli errori, e quanto meno sarebbero funesti nell'effetto quegli che rimarrebbero, se tutti gli uomini osservassero le cose con una mente disinteressata d'orgoglio.
Dopo l'arcivescovo venivano i magistrati, e i nobili, quali rivestiti di ricche divise, come a dimostrazione solenne di culto, quali in segno di penitenza a piè nudo, coperti di sacco coi cappucci rovesciati sul volto, forati come a finestra dinanzi agli occhi, e cadenti in acuta punta sul petto.
Quindi ancora un'altra gran frotta di popolo; e alla coda i vecchj stanchi, le donne rimaste addietro coi fanciulli, gli attratti, i zoppi, i deboli; molti ritardati dal fermento della peste che già covavano senza saperlo, o senza volerlo sapere, e che toglieva loro a grado a grado le forze.
La processione sboccata dalla porta maggiore del Duomo, s'incamminò per la via de' cappellaj, al crocicchio detto il Bottonuto, dove allora era una croce, e quindi con un giro interno, toccando tutti i quartieri, e sostando a tutti i crocicchj dove erano allora le croci, alcune delle quali rimangono tuttavia, tornò al Duomo per la piazza dei mercanti.
Tutta la via era adombrata da una striscia perpetua di tele, sostenuta da pali e da correnti composti come a pergolato; i pali rivestiti di rami frondosi tagliati di fresco; e tra gl'intervalli, drappelloni di varie stoffe rannodati e pendenti; le pareti tutte coperte di tappeti, di strati, di quadri; i davanzali delle finestre ornati di fiori o a mazzi, o vegetanti nei vasi, e di arredi antichi, o preziosi, e da per tutto ceri ardenti che restituivano la luce esclusa da quei folti adornamenti.
Fra tanta pompa si vedevano alle finestre molti di quei poveri sequestrati, alcuni scarnati, e coi segni della morte in volto, tendere a stento le braccia supplichevoli all'arca che passava.
Da quelle case usciva un ronzio di voci che accompagnavano gli inni dei passeggeri; e di tratto in tratto un risalto di gemiti, uno sclamar di preghiere che terminavano in singhiozzi ed in guaj.
Nè alle finestre soltanto, ma sui tetti delle case vicine e soprastanti si vedevano di quegli spettatori ai quali non era stato concesso di mescersi alla supplicazione comune; e sur alcuni tetti si distinguevano all'abito drappelli di monache ivi tirate dalla curiosità e dalla divozione.
Gli altri quartieri della città deserti, muti, se non dove giungeva a poco a poco il mormorio della processione che passava non lontano, e pure a poco a poco diveniva più fievole, e moriva.
Quegli abitanti tendevano l'orecchio appoggiati alle finestre, o sollevati sul letto mortale; per distinguere il suono della preghiera nella quale erano ricordati anch'essi, quasi per udire in quel muto abbandono un romore che gli assicurasse che altri pure viveva e si moveva in quella città di cui non vedevano che la solitudine.
La processione tornò al duomo dopo un giro di dodici ore.
L'arca rimase esposta sull'altare maggiore del duomo per otto giorni.
Il tristo presagio del Cardinal Federigo non tardò ad avverarsi.
Prima della processione le case chiuse erano intorno a cinquecento; pochi giorni dopo, si notavano quelle dove il contagio non fosse entrato.
V'era due mille persone nel lazzeretto; in breve crebbero a dodici mila: non bastando le stanze e i portici, furono in fretta, costruite capanne di legno nel vasto ricinto: né quelle pure bastando furono eretti tre altri lazzeretti in diversi punti fuora delle mura della città.
La mortalità comune che era prima di cento trenta persone alla giornata, per rapidi salti venne a mille ottocento.
Due fosse erano state scavate pei cadaveri, ampie, si diceva, enormi, quasi per lusso di previdenza; sperando che in giorni non lontani, lieti per un gran timore cessato, quella stessa terra, che ne era stata cavata servirebbe in gran parte a ricolmarle: ma i cadaveri deposti, poi ammucchiati, poi gettati a fascio, venivano rapidamente adeguandosi al terreno: convenne scavarne cinque altre.
La cagione d'un così subito e portentoso aumento del male fu data a voce di popolo agli untori: si disse con asseveranza, e si ripetè con furore, che quegli uomini congiurati allo sterminio della città, prendendo il destro della processione, che l'aveva posta tutta unita per così dire in loro balìa, avevano unti in quel giorno quanti avevano potuto, e sparso tutto il cammino di polveri venefiche, per le quali il contagio s'era appiccato alle vesti, ai piedi scalzi, anche alle scarpe dei divoti e inavvertiti pellegrinanti.
L'opinione delle unzioni che fino allora non aveva prodotta che una vaga inquietudine, e ciarle, dopo questo, ch'ella prendeva per un gran fatto, cominciò a partorire ben altri effetti.
Due principali furono distinti, e notati dal Ripamonti, uomo, che in molti punti liberandosi, e segregandosi dalla opinione publica dei suoi tempi, volse la mira delle sue osservazioni alle cose appunto che nessuno, o quasi nessuno avvertiva, esaminò quella opinione stessa, mutò sovente i termini della questione, fu solo a discernere e a dire molte verità, e fece intendere che molte ancora ne dissimulava, molte ne indeboliva per non irritare il giudizio pubblico, il quale, come traspare chiaramente dalla sua storia, gli faceva una gran paura e una gran compassione nel tempo stesso.
Un effetto fu che i magistrati, tutti i potenti, ingolfati in ispeculazioni politiche, divagati e avviluppati colla mente nei segreti delle corti, per arzigogolare quale dei principi, quale dei re stranieri potesse essere il capo della trama, non pensavano a quello che era da provvedersi nelle urgenti congiunture della peste; e spaventati poi dalla vastità supposta, e dalla oscurità stessa delle insidie si abbandonavano sempre più a quella stanca trascuratezza che è compagna della disperazione.
L'altro effetto più deplorabile, atroce, fu di estendere, di facilitare, di irritare i sospetti e di giustificare di santificare, tutte le offese più crudeli che quei sospetti potevano suggerire.
Non solo dallo straniero, dal nimico, dalla via publica si temeva, ma si guardava alle mani dell'amico, del servo, del congiunto, ma si poneva il piede con sospetto per la casa, ma orribil cosa! si tremava al contatto della mensa, del letto nuziale.
Il viandante straniero che non ben sapendo fra che uomini si trovava, si rallentasse a baloccare sul cammino, o che stanco si sdrajasse per riposare, il mendico che per città si accostava altrui tendendo la mano, colui che inavvertentemente toccasse la parete d'una casa, l'affrettato che urtasse altri per via, erano untori; al terribile grido d'accusa accorrevano quanti avevan potuto udirlo; l'infelice era oppresso, straziato, talvolta morto dalle percosse, o strascinato alle carceri tra gli urli e sotto le battiture, benediceva nel suo cuore affranto quelle porte, e vi entrava come dalla tempesta nel porto.
E quante volte saranno accorsi alle grida, avranno partecipato al furore comune, di quegli stessi che più tardi poi dovevano esser vittime d'un simile furore.
Così l'irreligione esacerbava la sciagura che una applicazione falsa ed arbitraria della religione aveva estesa ed accresciuta.
Dico l'irreligione, perché se l'ignoranza e la falsa scienza delle cose fisiche, e tutte le altre cagioni di cui abbiamo parlato di sopra poterono far ricevere comunemente l'opinione astratta di unzioni e di congiure, furono certamente le disposizioni anti-cristiane di quel popolo corrotto che rendettero quella opinione attiva, e feroce nell'applicazione.
Nessuna ignoranza avrebbe bastato a così orrendi effetti, quando fosse stata congiunta con quel sentimento pio che dispone gli animi alla tranquillità ed alla riflessione, che avverte a pensar di nuovo quando il pensiero diventa un giudizio, una azione su le persone; se fosse stata insomma congiunta con quella carità che è paziente, benigna, che non s'irrita, che non pensa il male, che tutto soffre.
Ma l'intolleranza della sventura, la disistima e l'obblio delle speranze superiori a tutte le sventure del tempo, l'orrore pusillanime e furioso della morte, erano le cagioni che mantenevano negli animi una irritazione avida di sfogo e di vendetta, e quindi sempre in cerca di fatti che ne dessero l'occasione, quindi ancora pronta a trovar questi fatti ad ogni momento.
Il Ripamonti riferisce due esempj di quel furor popolare, avvertendo bene i suoi lettori di averli trascelti, non già perché fossero dei più atroci fra quegli che accadevano alla giornata, ma perché di quei due egli fu testimonio.
Tre giovani francesi, un letterato, un pittore, e un meccanico in mal punto venuti per istudio, e per guadagno, stavano contemplando il duomo al di fuori.
«È tutto marmo», dicevano; e come per accertarsi, stesero la mano a toccare la liscia superficie.
Bastò! la folla agglomerata in un istante gl'involse; furono stretti, tenuti, percossi con tanto più di furore, perché le vesti, la chioma, il volto, le grida stesse gli accusavano stranieri, e quel che era peggio, francesi.
A calci, a pugni, a strascichi, furono menati in carcere.
Per buona sorte le carceri eran vicine, e vi giunsero vivi; e per una sorte ancor più felice, i giudici gli trovarono innocenti, e gli rilasciarono.
L'altro caso fu più funesto.
Un giorno solenne, nella chiesa di Sant'Antonio, frequente di popolo quanto poteva comportare quel tempo, un vecchio più che ottogenario aveva orato lungamente ginocchioni.
E forse, pensando agli anni suoi, e al contagio che minacciava ogni persona, egli avrà offerto a Dio il sacrificio d'una vita ormai tanto caduca.
Ma un destino più maturo della vecchiezza, più sollecito della peste, il furore degli uomini gli stava sopra.
Stanco egli volle sedersi; e prima con la cappa spolverò alquanto la panca.
«Il vecchio unge le panche!» gridarono alcune donne che videro quell'atto.
Il vecchio! e a quel nome che richiama pensieri di compassione e di riverenza, il sospetto in quel momento non lasciò associare altre idee che di una più fredda malizia, d'una perversità incallita.
Il grido passò di bocca in bocca; tutti si levarono; una turba fu addosso al vecchio.
Lo presero, gli stracciarono i capegli bianchi, gli acciaccarono di pugni il volto e le membra: avrebbero ficcati i pugnali in quel corpo quasi esanime; se un furore più pensato non gli avesse consigliati di serbarlo alle carceri, ai giudici, alle torture.
«Io lo vidi, così strascinato», dice il Ripamonti, «né altro seppi della fine; ma stimo ch'egli sia tosto morto dagli strazj.
E alcuni» aggiunge questo scrittore, «che mossi a pietà di così indegno caso, chiesero contezza dell'essere di quello sventurato, riseppero che egli era un uomo dabbene».
I magistrati, i quali avrebbero dovuto reprimere e punire quell'iniquo furore, lo imitarono e lo sorpassarono con giudizj motivati e ponderati al pari di quei popolari che abbiam riferiti, con carnificine più lente, più studiate, più infernali.
Passare questi giudizj sotto silenzio sarebbe ommettere una parte troppo essenziale della storia di quel tempo disastroso; il raccontarli ci condurrebbe o ci trarrebbe troppo fuori del nostro sentiero.
Gli abbiamo dunque riserbati ad un'appendice, che terrà dietro a questa storia, alla quale ritorniamo ora; e davvero.
CAPITOLO V
Una sera, verso il mezzo d'Agosto, Don Rodrigo tornava alla sua casa in Milano, dove era sempre rimasto dal giorno che vi era tornato dalla villa in forma di fuggitivo.
A quella villa non voleva ricomparire se non in aspetto di vendicatore, e in modo da restituir con usura ai tangheri lo spavento, e l'umiliazione che gli avevan fatto provare: ma i tempi non erano mai stati propizj.
Quella elazione d'animi aveva durato qualche tempo; di poi la fame cresciuta aveva prodotti gli sbandamenti, e il vagabondare di molti, e nei rimasti un fermento di disperazione: erano cani tuttavia ringhiosi, e non ancora disposti ad accosciarsi sotto la mano alzata del signore; poi eran passati i lanzichenecchi, che avevano spogliato il castellotto; poi era venuta la peste; non v'era insomma stata mai una tranquillità di cose in cui Don Rodrigo avesse potuto farsi sentire.
La sera di cui ora parliamo, tornava egli da uno stravizzo, nel quale con alcuni suoi degni amici aveva egli cercato di sommergere le malinconie e i terrori della peste.
E siccome le idee di quella entravano per tutti i sensi, si trovavano accumulate nella mente, si associavano per forza ad ogni suo intendere, sicché non era possibile farne astrazione; in quelle idee stesse s'erano essi sforzati di trovare qualche soggetto d'ilarità.
Avevano ricapitolate burlescamente le virtù di qualche loro amico defunto; e Don Rodrigo in ispecie aveva molto divertita la brigata con l'orazione funebre del conte Attilio.
Si raccontavano o anche s'inventavano prodezze d'ogni genere compiute col favore della confusione, e dello spavento publico; si disegnavano nuove vittime; e la vile e impunita sfrenatezza si vantava anticipatamente dei nuovi trionfi che meditava.
Tornando da tutta questa allegria, Don Rodrigo sentiva però una gravezza di tutte le membra, una difficoltà crescente nel camminare, una ansietà di respiro, una inquietudine, un grande abbattimento; ma cercava di attribuir tutto questo al sonno.
Sentiva un'arsura interna, una noja, un peso degli abiti, ma cercava di attribuirlo alla stagione, ed al vino.
Giunto a casa, chiamò il fedel Griso, uno dei pochi famigliari che gli erano rimasti, e gli comandò che gli facesse lume alla stanza dove sperava di finir tutto con un buon sonno.
Il Griso vide la faccia del suo signore stravolta, d'un rosso infiammato e splendente, e gli occhi luccicanti; e si tenne lontano con una certa aria di sospetto; perché ogni mascalzone aveva in quel tempo dovuto farsi l'occhio medico.
«Ho bevuto, ho bevuto», disse Don Rodrigo, che non potè non avvedersi di quell'atto e del pensiero nascosto; «siamo stati allegri: sto bene, benone, Griso: ho sonno: oh che sonno! Levami un po' dinanzi quel lume che mi abbaglia.
Diavolo, che quel lume mi dia tanto fastidio! Debb'essere quella vernaccia certamente, che te ne pare? eh Griso? Domani sarò vispo come un pesce».
«Sicuro», disse il Griso tenendosi sempre discosto: «ma si corichi presto, che il dormire gli farà bene».
«Hai ragione; ma sto bene ve' Griso: levami quel lume dinanzi».
Il Griso non se lo fece ripetere, e partì col lume, al momento che Don Rodrigo si gettava sul letto.
Quando vi fu, la coltre gli pareva un monte, e se la rigettò da dosso: sentiva un sopore come invincibile, e quando stava per assonnare, si risentiva come se un importuno venisse a scuoterlo per non lasciarlo dormire: il caldo cresceva, cresceva la smania, e il terrore rispinto ritornava più forte: così passò qualche ora.
Finalmente, presso al mattino s'addormentò.
E tosto gli parve di trovarsi in quella chiesa dei capuccini di Pescarenico, dinanzi alla quale, se vi ricorda, egli sogghignò in passando, nella sua gita al Conte del Sagrato.
Gli pareva d'essere innanzi innanzi nella chiesa, circondato e stretto da una gran folla; non sapeva come gli fosse venuto il pensiero di portarsi in quel luogo, e si rodeva contra se stesso.
Guardava quei circostanti; erano sparuti e lividi, con gli occhi spenti, incavati, colle labbra pendenti, come insensati; e gli stavano addosso, e lo stringevano, quasi col loro peso, e sopra tutto gli pareva che o con le gomita, o come che fosse lo premessero al lato sinistro al di sopra del cuore, dove sentiva una puntura spiacevole, dolorosa.
Voleva dire: «largo canaglia», faceva atti di minaccia a coloro perché gli dessero passaggio ad uscire; ma quegli né parevano muoversi, né mutare sembianza, né risentirsi in alcun modo: stavano tuttavia come insensati.
Alcuni su la faccia, su le spalle che nude uscivano dalle vesti lacere, mostravano macchie, e buboni.
Don Rodrigo si ristringeva in sè, ritirava le mani, le membra, per non toccare quei corpi pestilenti; ma ad ogni movimento incappava in qualche membro infetto.
E non vedendo la via d'uscire, strepitava, ansava, l'affanno l'avrebbe destato; quand'ecco gli parve che tutti gli occhi si volgessero alla parte della chiesa dov'era il pulpito: guatò anch'egli, e vide spuntare in su dal parapetto, un non so che di liscio e lucido; poi alzarsi e comparir più distinto un cocuzzolo calvo, poi due occhi, una faccia, una barba lunga e bianca, un frate ritto ed alto: era Fra Cristoforo.
Tanto più Don Rodrigo avrebbe voluto fuggire; ma la folla degli incantati era fitta ed immobile.
Gli parve allora che il frate girando gli occhj su l'uditorio senza fermarli sopra di lui, sclamasse ad alta voce: «Per li nostri peccati, la fame! Per li nostri peccati, la guerra! Per li nostri peccati, la peste! La peste! Povera gente! ella vi rode tutti, dal primo fino all'ultimo: tutti avete i segni della morte in volto: beati quelli fra voi che sono preparati a riceverla.
Ma...» e qui pareva a Don Rodrigo che il frate ristesse, come sopraffatto da un pensiero repentino e profondo: ed egli stava ansioso attendendo.
Gli pareva che gli uditori non facessero pur vista di scuotersi, e che il frate tutto ad un tratto, guardando a lui, e come ravvisandolo, fermandolo col guardo e con la mano alzata, come un bracco sopra una pernice, dicesse ad alta voce: «Tu sei quell'uomo! Or ci sei giunto; ascolta.
Quanto ti sarebbe costato il rinunziare a quel capriccio infame? Torna indietro con la mente e dillo.
Un picciolo pensiero di pietà; ma tu non hai voluto.
Tu hai messo da una parte su la bilancia l'angoscia, l'obbrobrio, il crepacuore, il terrore, d'un'anima innocente; hai pesato; e hai detto - non è niente: pesa più il mio capriccio -.
Ora le bilance sono rivolte: l'angoscia si versa sopra di te: prova se è niente».
A queste parole Don Rodrigo, voleva gridare, nascondersi, fuggire, e si destò spaventato.
Stette un momento a ravvisarsi; vide che era un sogno; ma aprendo gli occhi sentì ancor più vivo il ribrezzo e il dolore della luce; forzandosi di guardare intorno, vide il letto, le scranne, i travicelli della soffitta confondersi in forme strane; sentì nelle orecchie un ronzio nojoso e violento, al cuore un battito accelerato, affannoso; si sentì più spossato e più arso che alla sera antecedente, sentì più viva quella puntura che aveva provata in sogno; esitò qualche tempo, senza osare di vedere che fosse; finalmente sorse a sedere, scoperse tremando la parte dogliosa, cercò di fissarvi lo sguardo, e a stento, ma con qual raccapriccio Dio 'l sa, scorse un sozzo gavocciolo, d'un livido pavonazzo; il segnale manifesto del contagio.
L'uomo si vide perduto: il terrore della morte lo invase; ma con un senso ancor più vivo, il terrore di cadere in balìa altrui, d'essere preso, maneggiato, tratto intorno come un cencio, senza potersi far sentire, d'essere portato al lazzeretto, gittato e confuso fra tanti oggetti d'orrore, oggetto d'orrore egli stesso.
Voleva deliberare sul modo di evitar questa sorte toccata a tanti altri; ma sentiva le sue idee confondersi e intenebrarsi, divenir tanto più incerte quanto più erano atterrite; sentiva avvicinarsi sempre più il momento, in cui egli avrebbe avuto sol tanto di coscienza, quanto bastava a disperare: provò un bisogno di soccorso istantaneo; afferrò un campanello che teneva presso al letto, e lo scosse con violenza.
Ed ecco comparire il Griso che stava all'erta.
Si fermò egli presso all'uscio, guatò attentamente il padrone, e il sospetto divenne certezza.
«Griso», disse Don Rodrigo sollevandosi, «tu sei sempre stato il mio fido».
«Signor sì», rispose il Griso, col laconismo, e col tuono ambiguo del tristo che dal preambolo s'accorge che l'uomo avvezzo a proteggerlo, gli vuol domandare protezione, e fargli far qualche cosa per riconoscenza.
«Sto male, Griso».
«Me ne accorgo, Signore».
«Se guarisco, ti farò star meglio che tu non sia mai stato».
Il Griso non rispose nulla, ed aspettò che Don Rodrigo continuasse.
«Non voglio fidarmi d'altri che di te.
Fammi una carità, Griso».
Erano forse anni che Don Rodrigo non aveva proferita questa parola.
«Vediamo», disse il Griso.
«Sai tu dove abita il Chiodo, chirurgo?»
«Lo so benissimo».
«È un galantuomo, che se è ben pagato, tien segreti gli ammalati.
Vallo a cercare; digli che lo pagherò bene, meglio di chi che sia, quanto vorrà, e fammelo venir qui segretamente, che nessuno se ne avvegga».
«Ben pensato», disse il Griso: «vado e torno».
«Senti, Griso, dammi prima un bicchier d'acqua: mi sento arso che non ne posso più».
«No, signore», disse il Griso: «niente senza il parere del medico; non c'è tempo da perdere: stia quieto, aspetti un momento, son qui col Chiodo».
Così dicendo, tolse la chiave dalla toppa, uscì, chiuse Don Rodrigo in istanza e se ne andò.
Don Rodrigo rimase in una agitata aspettazione, in una incertezza sospettosa, e iraconda, col terrore crescente.
L'abbominevole Griso aveva già fatto nella notte i suoi conti pel caso che ora si era avverato.
Allontanò tosto di casa con un ordine finto del padrone, l'altro servo; e corse al posto più vicino di monatti.
Ivi, tratti in disparte due che erano suoi conoscenti e insieme dei più scellerati, propose ad essi una occasione di dividere spoglie opime.
Quegli accettarono prima d'intendere le condizioni: ma il Griso le espresse tosto; non si trattava d'altro che di venire a prendere Don Rodrigo, e di portarlo al lazzeretto.
Dieder tosto di mano ad una bussola, delle quali era provvigione a quel posto, se la caricarono, e seguirono il Griso.
Don Rodrigo stava con l'orecchio teso, spiando ogni romore per sentire se il chirurgo giungeva; e questo sforzo d'attenzione sosteneva alquanto il vigore delle sue membra, sospendeva il senso del male, e teneva in sesto la sua mente.
Tutto ad un tratto intese egli uno squillo acuto, continuo, che si avvicinava: erano le campanelle che i monatti portavano legate ai piedi a foggia di sproni.
Un orrendo sospetto corse al suo pensiero; si levò egli a sedere in furia; e in quel momento sentì la chiave girar nella toppa, e vide aprirsi, entrare i monatti, col Griso.
«Ah traditore! via canaglia!» urlò Don Rodrigo; e tosto si gettò dall'altra parte per afferrare le pistole che teneva appese a fianco del letto.
Ma un monatto gli fu sopra, lo fece raccosciare sul covile, gli tenne le mani, e gridò con un orribile ghigno di collera:
«Ah! birbone! contra i ministri del tribunale!»
«Tienlo ben saldo», disse il compagno, «finché lo portiamo via: egli è frenetico».
Lo sventurato Rodrigo lo divenne: si divincolava, mandava urli, lanciava bestemmie contra i monatti, e più contra il Griso, ch'egli vedeva frugare insieme con quel compagno nei cassettoni, spezzar le serrature dello scrigno, cavarne il danaro, e far le parti; mentre colui che teneva il padrone dava un'occhiata a questo per tenerlo bene, e una occhiata a quegli altri, dicendo: «fate le cose da galantuomini, altrimenti...»
Il corpo e la mente di Don Rodrigo, già dissestati dal male, non ressero allo sforzo, al dibattimento, e a tanta passione: il meschino cadde tutto ad un tratto come sfinito e stupido; guardava però come un incantato; e di tratto in tratto dava qualche scossa, o usciva in qualche imprecazione.
Fatte le parti, i monatti lo posero nella bussola, e lo portarono al lazzeretto.
Il Griso rimase a scegliere quel di più che poteva essere il caso suo; fece un fardello, e sfrattò.
Ma in quella furia del frugare, egli aveva presi presso al letto i panni del padrone, e scossigli per vedere se vi fosse denaro; né in quel momento aveva badato a quello che si facesse.
Se ne accorse però il giorno dopo, che preso dagli stessi accidenti che, con occhio così spietato, aveva mirati nell'infelice suo padrone, cadde infermo in una osteria, dove era andato a gozzovigliare; abbandonato da tutti, fu spogliato dai monatti anch'egli, trattato come aveva trattato altrui, e strascinato sur un carro al lazzeretto, dove finì.
Lasciando ora Don Rodrigo nel suo tristo ricovero, ci conviene andare in cerca d'un personaggio separato da lui per condizione, per abitudini, e per inclinazioni, e la storia del quale non sarebbe mai stata immischiata alla sua, se egli non lo avesse voluto a forza.
Fermo, del quale intendiamo parlare, aveva campucchiato quell'anno della carestia, parte col suo lavoro, parte coi soccorsi di quel suo buon parente; alla fine per non essergli troppo a carico, intaccò i cento scudi di Lucia, ma col proposito di restituire, se mai Lucia non fosse più quella per lui.
Il passaggio della soldatesca interruppe quelle scarse, e imbrogliate comunicazioni di pensieri e di notizie che passavano tra lui ed Agnese.
Dietro la soldatesca venne la peste, ai primi avvisi della quale i magistrati di Bergamo interdissero il commercio col territorio milanese finittimo, mandarono commissarj ad invigilare al confine, fecero por guardie e cancelli.
Pure, come era accaduto nel milanese, la disobbedienza fu più attenta, più destra, più ingegnosa che la vigilanza; gli abitanti del confine bergamasco non credevano né pur essi molto alla peste, e trattavano di soppiatto coi loro vicini: e con molta fatica e con molto pericolo ottennero di potere avere anch'essi la peste in casa.
Entrata che fu, invase poco a poco il contado, poi i sobborghi di Bergamo, poi la città.
La peste di Bergamo, e nei modi con cui si propagò, e in tutti i suoi accidenti, presenta molti tratti di somiglianza notabile con quella del Milanese.
Come in questo paese, così nel bergamasco, dopo scoverta la peste si trovò ch'ella si sarebbe dovuta prevedere per evidenti segni astrologici, e per inauditi portenti; v'ebbe pure la incredulità di molti abitanti, e la negligenza delle precauzioni, v'ebbero i dispareri fra i medici, l'inesecuzione degli ordini, e il rilasciamento nei magistrati stessi, nato da una falsa fiducia che il male fosse cessato.
Quivi pure una processione contrastata con ragioni savie, e voluta con fanatismo, diffuse rapidamente il contagio nella città; quivi pure molte vite generosamente sagrificate in pro' del prossimo da cittadini, e particolarmente da ecclesiastici; quivi pure licenza, e avanie degli infermieri e becchini che ivi erano chiamati nettezzini come in Milano monatti; quivi pure preservativi e rimedii strani o superstiziosi.
Quivi pure come in Milano subitanei spaventi per voci sparse di sorprese nemiche sognate dalla paura, o inventate dalla malizia; e finalmente, per non dir tutto, quivi pure all'udire che in Milano v'era gente che disseminava il contagio con unzioni, nacque un terrore che il simile non avvenisse, anzi parve di vedere unti i catenacci e i martelli delle porte, e le pile delle Chiese.
Ma la cosa non andò oltre; e come in questo particolare, così nel resto gli accidenti tristi che abbiam toccati furono in Bergamo men gravi, meno portentosi: l'incredulità fu meno ostinata, men clamorosa, la trascuranza men crassa, la superstizione meno feroce, la violenza meno bestiale, e meno impunita.
Di questa differenza v'era molte cagioni, alcune presenti, altre antiche, quale nelle persone, e quale nelle cose; la ricerca delle quali cagioni è fuori affatto del nostro argomento.
Quello che ora importa di sapere si è che Fermo contrasse la peste, e la superò felicemente.
Tornato alla vita, dopo d'averla disperata, dopo quell'abbandono e quell'abbattimento, sentì egli rinascere più che mai fresche e rigogliose le speranze, le cure e i desiderj della vita; cioè pensò più che mai a Lucia, alle antiche affezioni, agli antichi disegni, alla incertezza in cui era da tanto tempo dei pensieri di essa, e alla nuova terribile incertezza della salute, della vita di lei in quel tempo dove il vivere e l'esser sano era come una eccezione alla regola.
Tutte queste passioni crescevano nell'animo di Fermo di pari passo che il vigore nelle sue membra; e quando queste furono ben riconfortate, egli con la risolutezza d'un giovane convalescente, disse in se stesso: - andrò, e vedrò io come stanno le cose -.
Il pericolo della cattura gli dava poca molestia; da quello che si passava in Bergamo, egli vedeva che la peste assorbiva o affogava tutte le sollecitudini, ch'ella era come un'obblivione o un giubileo generale per tutte le cose passate; vedeva che i magistrati avevano ben poca forza e poca voglia d'agire contra i delitti della giornata, e tanto meno contra reati ormai rancidi; e sapeva per la voce pubblica che in Milano il rilasciamento d'ogni disciplina buona e cattiva era ancor più grande.
Oltre di che, egli si proponeva di cangiar nome, di procedere con cautela, e di scoprir paese, e prender voce nel suo paesetto natale, prima che avventurarsi in Milano.
Con questo disegno, egli lasciò in deposito presso un buon prete (quel suo fidato parente era morto di peste) gran parte degli scudi che gli rimanevano, ne prese pochetti con sè, si tolse un pajo di pani, un po' di companatico e un fiaschetto di vino pel viaggio, e si mosse da Bergamo sul finire di Luglio, pochi giorni da poi che Don Rodrigo era stato portato al lazzeretto.
I pochi che erano guariti dalla peste, si trovavano in mezzo all'altra popolazione, come una razza privilegiata.
Una grandissima parte della gente languiva inferma, moriva, e quegli che non avevano contratto il male ne vivevano in un continuo terrore; come ogni oggetto poteva col tocco esser cagione di morte, così di tutto si guardavano; i passi erano misurati e sospettosi, i movimenti ritrosi, irresoluti, fretta ed esitazione in un tempo, un allarme incessante, una disposizione a fuggire; e con tutto questo il pensiero sempre vivo che forse tante precauzioni erano inutili, forse il male era già fatto.
I pochi risanati invece, non temendo più del contagio, camminavano ed operavano senza tutte quelle precauzioni, e l'aspetto della incertezza altrui cresceva in molte occasioni la fiducia e la scioltezza loro; erano come i cavalieri dell'undecimo secolo coperti d'elmo, di visiera, di corazza, di cosciali, di gambiere, con una buona lancia nella destra, un buon brocchiere alla sinistra, una buona spada al fianco, una buona provvigione di giavellotti, sur un buon palafreno agile all'inseguimento ed alla ritratta, in mezzo ad una marmaglia di villani a piede, ignudi d'armatura, e poco coperti di vestimenti, che per offesa e per difesa non avevano che due braccia e due gambe, e il resto delle membra non atto ad altro che a toccar percosse.
L'immunità dal pericolo ispira il sentimento, e dà il contegno del coraggio; è la parte meno nobile, ma spesso una gran parte di esso; e questa verità si è sapientemente trasfusa nella nostra lingua, dove il vocabolo sicuro, che in origine vale fuor di pericolo, fu traslato a significare anche ardito.
Con questa baldezza temperata però dalle inquietudini che noi sappiamo, e dalla pietà di tanti mali altrui, camminava Fermo in un bel mattino d'estate, per coste amene donde ad ogni tratto si scopre un nuovo prospetto, per verdi pianure, sotto un cielo ridente, tra il fresco e spezzato luccicare della ruggiada, all'aria frizzante dell'alba, e al soave calore del sole obbliquo, appena comparso sull'orizzonte.
Ma dove appariva l'uomo, dove si vedevano i segni della sua dimora, del suo passaggio, spariva tutta la bellezza di quello spettacolo: erano villaggi deserti, animati soltanto da gemiti, attraversati da qualche cadavere che era portato alla fossa, senza accompagnamento, senza romore di canto funebre: qua e là uomini sparuti che erravano, infermi che uscivano disperati dal coviglio, per morire all'aria aperta, birboni, che agguatavano dove fosse da spogliare impunemente.
Fermo cercò di schivare tutte le parti abitate, venendo pei campi: sul mezzo giorno si riposò in un bosco, vicino ad una sorgente, ivi si rifocillò col cibo che aveva portato seco; lasciò passare le ore più infocate; riprese la sua strada; cominciò a riveder luoghi noti, misti alle memorie della sua fanciullezza, e due ore circa prima del tramonto scoperse il suo paesetto.
Alla prima vista Fermo ristette un momento, come sopraffatto dalle rimembranze, e dai pensieri dell'avvenire, e ripreso fiato procedette, entrò nel paese.
L'aspetto era come quello di tutti gli altri che Fermo aveva dovuti vedere; ma la tristezza fu ben più forte che egli non l'avesse ancor provata.
Guardò se vedeva attorno qualche suo conoscente, qualche persona viva: nessuno; le porte chiuse, o abbandonate; avanzando, scorse un uomo seduto sul limitare, lo guardò, durò fatica a riconoscerlo, travisato com'era dal male; ma non fu riconosciuto da esso che gli piantò in faccia due occhj insensati, e non fece motto.
Fermo lo chiamò per nome, non ne ebbe risposta, e più che mai accorato si avviò alla sua casa.
Ella era, quale l'avevano lasciata i lanzichenecchi: senza imposte, diroccata qua e là, qua e là affumicata, e dentro vuota ma non già pulita, che vi rimaneva ancor lo strame che era stato letto ai soldati.
Ne uscì Fermo in fretta inorridito, ritraendo l'occhio dallo spettacolo, e la mente dai pensieri e dai ricordi che quello spettacolo faceva nascere, e si incamminò alla casa d'Agnese, con l'ansia di rivedere un volto amico, di udire da lei ciò che tanto gli stava a cuore, e col battito di non ritrovarla, di non ritrovar pure chi gli sapesse dire s'ella viveva.
Per giungervi, doveva Fermo passare su la piazzetta della chiesa, dov'era pure la casa del curato.
Quando fu in luogo donde la piazza si poteva vedere, guardò egli alla casa del curato, e vide una finestra aperta, e nel vano di quella un non so che di bianco-giallastro in campo nero, una figura immobile appoggiata ad un lato della finestra.
Era Don Abbondio in persona, e ad una certa distanza poteva parere un vecchio ritratto di qualche togato, scialbo per natura, per l'arte del pittore, e per l'opera del tempo, appeso di traverso fuori al muro, per la buona intenzione di ornare qualche solennità.
Fermo che aveva sospettato chi doveva essere, arrivato su la piazza lo riconobbe, e da prima, tornandogli a mente che egli era una delle cagioni delle sue traversie, sentì rivivere un po' di stizza, e volle passar di lungo.
Ma tosto l'antico rispetto pel curato, quel desiderio di sentire una voce umana e conosciuta così potente in quelle circostanze, la speranza di risapere da lui qualche cosa che gl'importasse, vinsero nell'animo di Fermo, che si arrestò, fece una riverenza, e dirizzando il volto alla finestra, disse: «Oh signor curato, come sta ella in questi tempi?» Don Abbondio aveva guatato costui che veniva, gli era sembrato di riconoscerlo: ma quando sentì la voce che non gli lasciava più dubbio, «per amor del cielo!» disse, «voi qui? Che venite a fare in queste parti? Dio vi guardi! Vi pare egli, con quella poca bagattella di cattura...?»
«Oh via, signor curato», disse Fermo non senza dispetto: «mi vuol ella fare anche la spia?»
«Parlo per vostro bene», disse Don Abbondio, «che nessuno ci sente.
Chi volete che ci senta? Non vedete che son tutti morti? Che venite a cercare fra queste belle allegrie? Andate, tornate dove siete stato finora; non venite a porre in imbroglio voi e me; perché quando si tratti di castigar voi, e di tormentare me pover uomo vi sarà dei vivi ancora».
«Signor curato, mi saprebbe ella dar qualche nuova di Lucia?»
«Oh Dio benedetto! ancor di questi grilli avete in capo? Oh poveri noi! Che serve che vengano i flagelli, se gli uomini non voglion far giudizio! E la peste, figliuolo, la peste? Non sapete che c'è la peste?»
«Ella deve ricordarsi, signor curato», disse Fermo, con voce alquanto risentita, «che Lucia ed io...
non erano grilli...»
«Oh!» disse Don Abbondio, «figliuol caro, voi avete sempre avuto il timor di Dio, spero che non sarete cangiato.
Per questo vi parlo con libertà, da vero padre, perché vi ho sempre voluto bene.
So io quel che dico, questo non è paese per voi: se vi dovesse accadere qualche disgrazia, (e già pur troppo non la schivereste) che crepacuore per me! La cattura è terribile; v'è un fuoco contro di voi! E poi la peste...»
«La peste l'ho avuta», disse Fermo: «son guarito, e non ho più paura».
«Vedete che avviso vi ha mandato i
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