DELLA TIRANNIDE, di Vittorio Alfieri - pagina 2
...
.
MONARCHIA, è il dolce nome che la ignoranza, l'adulazione, e il timore, davano e danno a questi sì fatti governi.
A dimostrarne la insussistenza, credo che basti la semplice interpretazione del nome.
O monarchia vuol dire, la esclusiva e preponderante autorità d'un solo; e monarchia allora è sinonimo di tirannide: o ella vuol dire, l'autorità di un solo, raffrenato da leggi; le quali, per poter raffrenare l'autorità e la forza, debbono necessariamente anch'esse avere una forza ed autorità effettiva, eguale per lo meno a quella del monarca; e in quel punto stesso in cui si trovano in un governo due forze e autorità in bilancia fra loro, egli manifestamente cessa tosto di essere monarchia.
Questa greca parola non significa altro in somma, fuorché Governo ed autorità d'uno solo; e con leggi; s'intende; perché niuna società esiste senza alcuna legge tal quale: ma, ci s'intende pur anco Autorità di un solo sopra alle leggi; perché niuno è monarca, là dove esiste un'autorità maggiore, o eguale, alla sua.
Ora, io domando in qual cosa differisca il governo e autorità di un solo nella tirannide, dal governo e autorità d'un solo nella monarchia.
Mi si risponde: "Nell'abuso".
Io replico: "E chi vi può impedire quest'abuso?" Mi si soggiunge: "Le leggi".
Ripiglio: "Queste leggi hanno elle forza ed autorità per se stesse, indipendente affatto da quella del principe?" Nessuno più a questa obiezione mi replica.
Dunque, all'autorità d'un solo, potente ed armato, andando annessa l'autorità di queste pretese leggi (e fossero elle pur anche divine) ogniqualvolta le leggi e costui non concordano, che faranno le misere, per se stesse impotenti, contro alla potestà assoluta e la forza? Soggiaceranno le leggi: e tutto giorno, in fatti, soggiacciono.
Ma, se una qualunque legittima forza effettiva verrà intromessa nello stato per creare, difendere, e mantenere le leggi, chiarissima cosa è che un tale governo non sarà più monarchia; poiché al fare o disfare le leggi l'autorità d'un solo non vi basterà.
Onde, questo titolo di monarchia, perfettissimo sinonimo di tirannide, ma non così abborrito finora, non viene adattato ai nostri governi per altro, che per accertare i principi della loro assoluta signoria; e per ingannare i sudditi, lasciandoli o facendoli dubitare della loro assoluta servitù.
Di quanto asserisco, se ne osservi continuamente la prova nella opinione stessa dei moderni re.
Si gloriano costoro del nome di monarchi, e mostrano di abborrire quel di tiranni; ma nel tempo stesso reputano assai minori di loro quegli altri pochi principi o re, che ritrovando limiti infrangibili al loro potere, dividono l'autorità colle leggi.
Questi assoluti re sanno dunque benissimo, che fra monarchia e tirannide non passa differenza nessuna.
Così lo sapessero i popoli, che pure tuttora colla loro trista esperienza lo provano! Ma i principi europei, di tiranni tengono caro il potere, e di monarchi il nome soltanto: i popoli all'incontro, spogliati, avviliti, ed oppressi dalla monarchia, la sola tirannide stupidamente abborriscono.
Ma i pochi uomini, che re non sono né schiavi, ove per avventura non tengano a vile del paro i principi tutti; i monarchi, come tiranni; ed i principi limitati, come perpetuamente inclinati a divenirlo; i pochi veri uomini pensanti, si avveggono pure quanto sia più onorevole, più importante, e più gloriosa dignità il presiedere con le leggi ad un libero popolo d'uomini, che il malmenare a capriccio un vile branco di pecore.
Tralascio ogni ulteriore prova (che necessaria non è) per dimostrare che una monarchia limitata non vi può essere, senza che immediatamente cessi la monarchia; e che ogni monarchia non limitata è tirannide, ancorché il monarca in qualche istante, non abusando egli in nessun modo del suo poter nuocere, tiranno non sia.
E tali prove tralascio, per amor di brevità, e perché intendo di parlare a lettori, a cui non è necessario il dir tutto.
Passerò quindi ad analizzare la natura della mono-tirannide, e quai siano i mezzi per cui, così ben radicatasi nell'Europa, inespugnabile ella vi si tiene oramai.
CAPITOLO TERZO
DELLA PAURA
I Romani liberi, popolo al quale noi non rassomigliamo in nulla, come sagaci conoscitori del cuor dell'uomo, eretto aveano un tempio alla Paura; e, creatala Dea, le assegnavano sacerdoti, e le sagrificavano vittime.
Le corti nostre a me pajono una viva immagine di questo culto antico, benché per tutt'altro fine instituite.
Il tempio è la reggia; il tiranno n'è l'idolo; i cortigiani ne sono i sacerdoti; la libertà nostra, e quindi gli onesti costumi, il retto pensare, la virtù, l'onor vero, e noi stessi; son queste le vittime che tutto dì vi s'immolano.
Disse il dotto Montesquieu, che base e molla della monarchia ella era l'onore.
Non conoscendo io, e non credendo a codesta ideale monarchia, dico, e spero di provare; Che base e molla della tirannide ella è la sola paura.
E da prima, io distinguo la paura in due specie, chiaramente fra loro diverse, sì nella cagione che negli effetti; la paura dell'oppresso, e la paura dell'oppressore.
Teme l'oppresso, perché oltre quello ch'ei soffre tuttavia, egli benissimo sa non vi essere altro limite ai suoi patimenti che l'assoluta volontà e l'arbitrario capriccio dell'oppressore.
Da un così incalzante e smisurato timore ne dovrebbe pur nascere (se l'uom ragionasse) una disperata risoluzione di non voler più soffrire: e questa, appena verrebbe a procrearsi concordemente in tutti o nei più, immediatamente ad ogni lor patimento perpetuo fine porrebbe.
Eppure, al contrario, nell'uomo schiavo ed oppresso, dal continuo ed eccessivo temere nasce vie più sempre maggiore ed estrema la circospezione, la cieca obbedienza, il rispetto e la sommissione al tiranno; e crescono a segno, che non si possono aver maggiori mai per un Dio.
Ma, teme altresì l'oppressore.
E nasce in lui giustamente il timore della coscienza della propria debolezza effettiva, e in un tempo, dell'accattata sterminata sua forza ideale.
Rabbrividisce nella sua reggia il tiranno (se l'assoluta autorità non lo ha fatto stupido appieno) allorché si fa egli ad esaminare quale smisurato odio il suo smisurato potere debba necessariamente destare nel cuore di tutti.
La conseguenza del timor del tiranno riesce affatto diversa da quella del timore del suddito; o, per meglio dire, ella è simile in un senso contrario; in quanto, né egli, né i popoli, non emendano questo loro timore come per natura e ragione il dovrebbero; i popoli, col non voler più soggiacere all'arbitrio d'un solo; i tiranni, col non voler più sovrastare a tutti per via della forza.
Ed in fatti, spaventato dalla propria potenza, sempre mal sicura quando ella è eccessiva, pare che dovrebbe il tiranno renderla alquanto meno terribile altrui, se non con infrangibili limiti, almeno coll'addolcirne ai sudditi il peso.
Ma, nella guisa stessa che i sudditi non diventano disperati e feroci, ancorché altro non resti loro da perdere se non una misera vita; così, neppure il tiranno diventa mite ed umano, ancorché altro non gli rimanga da acquistare, se non la fama, e l'amore dei sudditi.
Il timore e il sospetto, indivisibili compagni d'ogni forza illegittima (e illegittimo è tutto ciò che limiti non conosce) offuscano talmente l'intelletto del tiranno anche mite per indole, che egli ne diviene per forza crudele, e pronto sempre ad offendere, e a prevenire gli effetti dell'altrui odio meritato e sentito.
Egli perciò crudelissimamente suole punire ogni menomo tentativo dei sudditi contro a quella sua propria autorità ch'egli stesso conosce eccessiva; e non lo punisce allor quando eseguito sia, o intrapreso, ma quando egli suppone, o finge anche di supporre, che un tal tentativo possa solamente essere stato concepito.
La esistenza reale di queste due paure non è difficile a dimostrarsi.
Di quella dei sudditi, argomentando ciascuno di noi dalla propria, non ne dubiterà certamente nessuno: della paura dei tiranni, assai ne fan fede i tanti e così diversi sgherri, che giorno e notte li servono e custodiscono.
Ammessa questa reciproca innegabile paura, esaminiamo quali debbano riuscire questi uomini che sempre tremano: e parliamo da prima dei sudditi, cioè di noi stessi, che ben ci dobbiamo conoscere; parleremo dei tiranni, per congettura, dappoi.
E scegliamo nella tirannide quei pochi uomini, a cui e la robustezza delle fibre, e una miglior educazione, e una certa elevazion d'animo (quanta ne comportino i tempi) e in fine una minor dipendenza, dovrebbero far conoscere più il vero, e lasciarli tremare assai meno che gli altri: investigati quali siano, e quali possano, e debbano essere questi, dal loro valore argomenteremo per induzione quali siano ed esser debbano poi gli altri tutti.
Questi pochissimi, degni per certo di miglior sorte, veggono pure ogni giorno nella tirannide il coltivatore, oppresso dalle arbitrarie gravezze, menare una vita stentata e infelice.
Una gran parte di essi ne veggono estrarre per forza dai loro tugurj per portar l'armi; e non già per la patria, ma pel loro e suo maggior nemico, e contro a se stessi: veggono costoro il popolo delle città, l'una metà mendico, ricchissimo l'altra, e tutto egualmente scostumato; veggono inoltre, la giustizia venduta, la virtù dispregiata, i delatori onorati, la povertà ascritta a delitto, le cariche e gli onori rapiti dal vizio sfacciato, la verità severamente proscritta, gli averi la vita l'onore di tutti nella mano di un solo; e veggono essere incapacissimo di tutto quel solo, e lasciare egli poi il diritto di arbitrariamente disporne ad altri pochi, non meno incapaci, e più tristi: tutto ciò veggono palpabilmente ogni giorno quei pochi enti pensanti, che la tirannide non ha potuti impedire; e in ciò vedere, sommessamente sospirando, si tacciono.
Ma, perché si tacciono? per sola paura.
Nella tirannide, è delitto il dire, non meno che il fare.
Da questa feroce massima dovrebbe almeno risultarne, che in vece di parlare, si operasse; ma (pur troppo!) né l'uno né l'altro si ardisce.
Se dunque a tal segno avviliti sono i migliori, quali saranno in un tal governo poi gli altri? qual nome inventar si dovrà per distinguerli da coloro, che nei ragguardevoli antichi governi cotanto illustravano il nome di uomo? Si affaticano tutto dì gli scrittori per dimostrarci, che il caso e le circostanze ci vogliono sì fattamente diversi da quelli; ma nessuno ci insegna in qual modo si possano dominare il caso e le circostanze, né fino a qual punto questa diversità intendere e tollerare si debba.
Si affaticano per altra parte i tiranni, e i loro tanti fautori più vili di essi, nel persuaderci che noi non siamo più di quella generosa specie antica.
E, certo, finché sopportiamo il loro giogo tacendo, ella è quasi minore infamia per noi il credere piuttosto in ciò ai tiranni, che non ai moderni scrittori.
Tutti dunque, e buoni e cattivi, e dotti e ignoranti, e pensatori e stupidi, e prodi e codardi; tutti, qual più qual meno, tremiamo nella tirannide.
E questa è per certo la vera universale efficacissima molla di un tal governo; e questo è il solo legame, che tiene i sudditi col tiranno.
Si esamini ora, se il timor del tiranno sia parimente la molla del suo governare, e il legame che lo tiene coi sudditi.
Costui, vede per lo più gli infiniti abusi dello informe suo reggere; ne conosce i vizj, i principj distruttivi, le ingiustizie, le rapine, le oppressioni; e tutti in somma i tanti gravissimi mali della tirannide, meno se stesso.
Vede costui, che le troppe gravezze di giorno in giorno spopolano le desolate provincie; ma tuttavia non le toglie; perché da quelle enormi gravezze egli ne va ritraendo i mezzi per mantenere l'enorme numero de' suoi soldati, spie, e cortigiani; rimedj tutti (e degnissimi) alla sua enorme paura.
E vede anch'egli benissimo, che la giustizia si tradisce o si vende; che gli uffizj e gli onori più importanti cadono sempre ai peggiori; e queste cose tutte, ancorché ben le veda, non le ammenda pur mai il tiranno.
E perché non le ammenda? perché, se i magistrati fossero giusti, incorrotti, ed onesti, verrebbe tolto a lui primo ogni iniquo mezzo di colorare le sue private vendette sotto il nome di giustizia.
Ne avviene da ciò, e da altre simili cose, che dovendo egli mal grado suo, e senza avvedersene quasi, reputare se stesso come il primo vizio dello stato, traluce all'intelletto suo un fosco barlume di verità che gl'insegna, che se alcuna idea di vera giustizia si venisse a introdurre nel suo popolo, la prima giustizia si farebbe di lui: appunto perché nessun altr'uomo (per quanto sia egli scellerato) non può mai in una qualunque società nuocere sì gravemente ed a tanti, come può nuocere impunemente ogni giorno quest'uno nella propria tirannide.
Ciascun tiranno dunque, al solo nome di vera giustizia, trema: ogni vero lume di sana ragione gli accresce il sospetto; ogni verità luminosa lo adira; lo spaventano i buoni; e non crede mai sicuro se stesso, se egli non affida ogni più importante carica a gente ben sua; cioè venduta e simile a lui, e ciecamente pensante al suo modo: il che importa, una gente più assai ingiusta, più tremante, e quindi più crudele, e più mille volte opprimente, ch'egli nol sia.
"Ma, un tal principe si può dare" (dirammi taluno) "il quale ami gli uomini, aborrisca il vizio, e non lasci trionfare né rimuneri altro, che la sola virtù".
Al che rispondo io, col domandare: "Può egli esistere un uomo buono ed amico degli uomini, il quale, non essendo stupido, si creda pure, o finga di credersi, per diritto divino, superiore assolutamente non solo ad ogni individuo, ma alla massa di tutti riuniti; e stimi non dover dar conto delle opere sue e di sé, fuorché a Dio?" Io mi farò a credere che un tal ente possa essere un uomo buono, allor quando avrò visto un solo esempio, per cui, avendo costui voluto veramente il maggior bene di quegli altri enti suoi, ma di una minore specie di lui, egli avrà prese le più efficaci misure per impedire che in quella sua società dove egli solo era il tutto, e gli altri tutti il nulla, un qualche altro eletto da Dio al paro di lui, non potesse d'allora in poi commettere illimitatamente e impunemente quel male stesso che egli sapea certamente essersi commesso in quello stesso suo stato prima che ei vi regnasse; e che egli certamente sapea, attesa la natura dell'uomo, dovervisi poi commettere di bel nuovo dopo il suo regno.
Ma, come potrà egli chiamarsi buono quell'uomo, che dovendo e potendo fare un così gran bene a un sì fatto numero d'uomini, pure nol fa? E per qual altra ragione nol fa egli, se non perché un tal bene potrebbe diminuire ai suoi venturi figli o successori del suo illimitato orribil potere, del nuocere con impunità? E si noti di più, che costui potrebbe con un tal nobile mezzo acquistare a se stesso, in vece di quell'infame illimitato potere di nuocere ch'egli avrebbe distrutto, una immensa e non mai finora tentata gloria; e la più eminente che possa cadere mai nella mente dell'uomo; di avere, colle proprie legittime privazioni, stabilita la durevole felicità di un popolo intero.
Ora, ch'è egli dunque codesto buon principe, di cui ci vanno ogni giorno intronando gli orecchi la viltà ed il timore? un uomo, che non si reputa un uomo; (ed infatti non lo è; ma in tutt'altro senso ch'ei non l'estima) un ente, che forse vuole il bene del corpo degli altri, cioè che non siano né nudi, né mendici; ma, che volendoli ciecamente obbedienti all'arbitrio d'un solo, necessariamente li vuole ad un tempo e stupidi, e vili, e viziosi, e assai men uomini in somma che bruti.
Un tale buon principe (che buono altramente non può esser mai chiunque possiede una usurpata, illegittima, illimitata autorità) potrà egli giustamente da chi ragiona chiamarsi meno tiranno che il pessimo, poiché gli stessi pessimi effetti dall'uno come dall'altro ridondano? e, come tale, si dovrà egli meno abborrire da chi conosce e sente il servaggio? Il conservare, il difendere ad ogni costo, il reputare come la più nobile sua prerogativa lo sterminato potere di nuocere a tutti, non è egli sempre uno imperdonabil delitto agli occhi di tutti, ancorché pure chi è reo di tal pregio in modo nessuno mai non ne abusi? E si può egli creder mai, che codesto sognato buon principe possa andare esente dalla paura, poiché egli pure persiste nel rimanere, per via della forza, maggior delle leggi? E può egli costui, più che gli altri suoi pari, esimere i sudditi dalla paura, poich'essi all'ombra di leggi in nulla sottoposte a soldati, non possono securamente mai ridersi di niuno de' suoi assoluti capricci, che volesse (anco istantaneamente) usurparsi il titolo sacro di legge? Io crederei all'incontro, che per lo più quei tiranni che hanno da natura una miglior indole, riescano, quanto all'effetto, i peggiori pel popolo.
Ed eccone una prova.
Gli uomini buoni suppongono sempre che gli altri sian tali; i tiranni tutti per lo più niente affatto conoscono gli uomini, presi universalmente; ma niente affatto poi certamente conoscono quelli che non vedono mai, e pochissimo quelli che vedono.
Ora, non v'ha dubbio, che gli uomini che si accostano a loro son sempre i cattivi, perché un uomo veramente buono sfuggirà di continuo, come un mostro, la presenza d'ogni altro uomo, la cui sterminata autorità, oltre al poterlo spogliar di ogni cosa, può anche per l'influenza dell'esempio e della necessità, costringerlo a cessar di esser buono.
Ne avviene da ciò, che al tiranno cattivo accostandosi i cattivi uomini, vi si fanno l'un l'altro pessimi; ma i ribaldi accostandosi all'ottimo tiranno, si fingono allora buoni, e lo ingannano.
E questo accade ogni dì; talché la tirannide per lo più non risiede nella persona del tiranno, ma nell'abusiva e iniqua potenza di lui, amministrata dalla necessaria tristizia de'cortigiani.
Ma, dovunque risieda la tirannide, pe' miseri sudditi la servitù riesce pur sempre la stessa; e anzi, più dura riesce per l'universale sotto il tiranno buono, ancorché forse alquanto meno crudele riesca per gl'individui.
Il tiranno buono forse non trema da principio in se stesso, perché la coscienza non lo rimorde di nessuna usata violenza; o, per dir meglio, egli trema assai meno del reo: che infin ch'egli tiene un'autorità illimitata, ch'egli benissimo sa (per quanto ignorante egli sia) non essere legittima mai, non si può interamente esimere dalla paura.
Ed in prova, per quanto sia pacifico e sicuro al di fuori il tiranno, non annulla pur mai i soldati al di dentro.
Ma, anche supponendo che il mite tiranno non tremi egli stesso, tremano pur sempre in nome di lui per se stessi quei pochi pessimi che, usurpata sotto l'ombre del nome suo l'autorità principesca, la esercitano.
Quindi la paura vien sempre ad essere la base, la cagione, ed il mezzo di ogni tirannide, anche sotto l'ottimo tiranno.
E non mi si alleghino Tito, Trajano, Marc'Aurelio, Antonino; e altri simili, ma sempre pochissimi, virtuosi tiranni.
Una prova invincibile che costoro non andavano mai esenti dalla paura, si è, che nessuno di essi dava alle leggi autorità sovra la sua propria persona; e non la dava egli, perché espressamente sapea che ne sarebbe stato offeso egli primo: nessuno di essi annullava i soldati perpetui, o ardiva sottoporgli ad un'altra autorità che alla propria; perché convinto era che non rimaneva la persona sua abbastanza difesa senz'essi.
Ciascuno dunque di costoro era pienamente certo in se stesso, che l'autorità sua era illimitata, poiché sottoporla non voleva alle leggi; e che illegittima ell'era, poiché sussistere non potea senza il terror degli eserciti.
Domando, se un tale ottimo tiranno si possa dagli uomini reputare e chiamare un uomo buono? colui, che trovandosi in mano un potere ch'egli conosce vizioso, illegittimo, e dannosissimo, non solamente non se ne spoglia egli stesso, ma non imprende almeno (potendolo pur fare con laude e gloria immensa) di spogliarne coloro che verran dopo lui: gente, a cui, per non esserne essi ancora al possesso, nulla affatto si toglie coll'impedir loro quella usurpazione stessa; e massimamente venendo loro impedita da quei tiranni che figli non lasciano.
Né sotto Tito, Trajano, Marc'Aurelio, e Antonino, cessava la paura nei sudditi.
La prova ne sia, che nessuno dei sudditi ardiva francamente dir loro, che si facessero (quali esser doveano) minori delle leggi, e che la repubblica restituissero.
Ma facil cosa è ad intendersi perché gli scrittori si accordino nel dar tante lodi a codesti virtuosi tiranni; e nel dire, che se gli altri tutti potessero ad essi rassomigliarsi, il più eccellente governo sarebbe il principato.
Eccone la ragione.
Allorché una paura è stata estrema e terribile, il trovarsela ad un sol tratto scemata dei due terzi, fa sì, che il terzo rimanente si chiama e si reputa un nulla.
Qual ente è egli dunque costui, che dalla sola sua spontanea e libera benignità possa e debba dipendere assolutamente la felicità o infelicità di tanti e tanti milioni di uomini? Costui, può egli essere disappassionato interamente? egli sarebbe stupido affatto.
Può egli amar tutti, e non odiar mai nessuno? può egli non essere ingannato mai? può egli aver la possanza di far tutti i mali, e non ne fare pur mai nessunissimo? può egli, in somma, reputar sé di una specie diversa e superiore agli altri uomini, e con tutto ciò anteporre il bene di tutti al ben di se stesso?
Non credo che alcun uomo al mondo vi sia, che volesse dare al suo più vero e sperimentato amico un arbitrio intero sopra il suo proprio avere, su la propria vita, ed onore; né, se un tal uom pur ci fosse, quel suo verace amico vorrebbe mai accettare un così strano pericoloso e odioso incarico.
Ora, ciò che un sol uomo non concederebbe mai per sé solo al suo più intimo amico, tutti lo concederebbero per se stessi, e pe' lor discendenti, e lo lascierebbero tener colla viva forza, da un solo, che amico loro non è né può essere? da un solo, che essi per lo più non conoscono; a cui pochissimi si avvicinano; ed a cui non possono neppure i molti dolersi delle ingiustizie ricevute in suo nome? Certo, una tal frenesia non è mai caduta, se non istantaneamente, in pensiero ad una moltitudine d'uomini: o, se pure una tale stupida moltitudine vi è stata mai, che concedesse ad un solo una sì stravagante autorità, non potea essa costringer giammai le future generazioni a raffermarla e soffrirla.
Ogni illimitata autorità è dunque sempre, o nella origine sua, o nel progresso, una manifesta e atrocissima usurpazione sul dritto naturale di tutti.
Quindi io lascio giudice ogni uomo, se quell'uno che la esercita può mai tranquillamente e senza paura godersi la funesta e usurpata prerogativa di poter nuocere illimitatamente e impunemente a ciascuno ed a tutti: mentre ogni qualunque onesto privato si riputerebbe infelicissimo di potere in simil guisa nuocere al miglior suo amico, per dritto spontaneamente concedutogli: e mentre, certamente, ogni amicizia fra costoro verrebbe a cessare, all'incominciare della possibilità di esercitar un tal dritto.
La natura dell'uomo è di temere e perciò di abborrire chiunque gli può nuocere, ancorché giustamente gli nuoca.
Ed in prova, fra que' popoli dove l'autorità paterna e maritale sono eccessive, si ritrovano i più spessi e terribili esempj della ingratitudine, disamore, disobbedienza, odio, e delitti delle mogli e dei figli.
Quindi è, che il nuocere giustamente a chi male opera, essendo nelle buone repubbliche una prerogativa delle leggi soltanto; e i magistrati, semplici esecutori di esse, elettivi essendovi ed a tempo; nelle buone repubbliche si viene a temer molto le leggi, senza punto odiarle, perché non sono persona; si viene a rispettarne semplicemente gli esecutori, senza moltissimo odiarli, perché troppi son essi, e tuttora si vanno cangiando; e si viene finalmente a non odiar né temere individuo nessuno.
Ma all'incontro la immagine dell'ereditario ti
...
[Pagina successiva]