DELLA TIRANNIDE, di Vittorio Alfieri - pagina 4
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Ma all'incontro la immagine dell'ereditario tiranno si appresenta sempre ai popoli sotto l'aspetto di un uomo, che avendo loro involato una preziosissima cosa, audacemente lor nega che l'abbiano essi posseduta giammai; e tiene perpetuamente sguainata la spada, per impedire che ritolta gli sia.
Può non ferire costui; ma chi può non temerne? Possono i popoli non si curare di ridomandargliela; ma il tiranno, non potendosi accertar mai della lor non curanza, non si lascia perciò mai ritrovar senza spada.
Non è dunque coraggio contra coraggio, ma paura contro paura, la molla che questa usurpazione mantiene.
Ma, mentre io della PAURA sì lungamente favello, già già mi sento gridar d'ogni intorno: " E quando fra due ereditarj tiranni si combatte, quei tanti e tanti animosi uomini che affrontano per essi la morte, sono eglino guidati dalla paura, ovver dall'onore?" Rispondo; che di questa specie d'onore parlerò a suo luogo; che anche gli orientali, popoli sempre servi, i quali a parer nostro non conoscono onore, e che riputiamo di sì gran lunga inferiori a noi, gli orientali anch'essi animosissimamente combattono pe' loro tiranni, e danno per quelli la vita.
Ne attribuisco in parte la cagione alla naturale ferocia dell'uomo; al bollore del sangue che nei pericoli si accresce ed accieca; alla vanagloria ed emulazione, per cui nessun uomo vuol parere minore di un altro; ai pregiudizj succhiati col latte; ed in ultimo lo attribuisco, più che ad ogni altra cosa, alla già tante volte nominata PAURA.
Questa terribilissima passione, sotto tanti e così diversi aspetti si trasfigura nel cuor dell'uomo, ch'ella vi si può per anco travestire in coraggio.
Ed i moderni eserciti nostri, nei quali vengono puniti di morte quelli che fuggono dalla battaglia, ne possono fare ampia fede.
Questi nostri eroi tiranneschi, che per pochi bajocchi il giorno vendono al tiranno la loro viltà, appresentati dai loro condottieri a fronte del nemico, si trovano avere alle spalle i loro proprj sergenti con le spade sguainate; e spesso anche delle artiglierie vi si trovano, affinché, atterriti da tergo, codesti vigliacchi simulino coraggio da fronte.
Senza aver molto onore, potranno dunque cotali soldati anteporre una morte non certa e onorevole ad una infame e certissima.
CAPITOLO QUARTO
DELLA VILTÀ
Dalla paura di tutti nasce nella tirannide la viltà dei più.
Ma i vili in supremo grado necessariamente son quelli, che si avvicinano più al tiranno, cioè al fonte di ogni attiva e passiva paura.
Grandissima perciò, a parer mio, passa la differenza fra la viltà e la paura.
Può l'uomo onesto, per le fatali sue natìe circostanze, trovarsi costretto a temere; e temerà costui con una certa dignità; vale a dire, egli temerà tacendo, sfuggendo sempre perfino l'aspetto di quell'uno che tutti atterrisce, e fra se stesso piangendo, o con pochi a lui simili, la necessità di temere, e la impossibilità d'annullare, o di rimediare a un così indegno timore.
All'incontro, l'uomo già vile per propria natura, facendo pompa del timor suo, e sotto la infame maschera di un finto amore ascondendolo, cercherà di accostarsi, d'immedesimarsi, per quanto egli potrà, col tiranno: e spererà quest'iniquo di scemare in tal guisa a se stesso il proprio timore, e di centuplicarlo in altrui.
Onde, ella mi pare ben dimostrata cosa, che nella tirannide, ancorché avviliti sian tutti, non perciò tutti son vili.
CAPITOLO QUINTO
DELL'AMBIZIONE
Quel possente stimolo, per cui tutti gli uomini, qual più, qual meno, ricercando vanno di farsi maggiori degli altri, e di sé; quella bollente passione, che produce del pari e le più gloriose e le più abbominevoli imprese; l'ambizione in somma, nella tirannide non perde punto della sua attività, come tante altre nobili passioni dell'uomo, che in un tal governo intorpidite rimangono e nulle.
Ma, l'ambizione nella tirannide, trovandosi intercette tutte le vie e tutti i fini virtuosi e sublimi, quanto ella è maggiore, altrettanto più vile riesce e viziosa.
Il più alto scopo dell'ambizione in chi è nato non libero, si è di ottenere una qualunque parte della sovrana autorità: ma in ciò quasi del tutto si assomigliano e le tirannidi e le più libere e virtuose repubbliche.
Tuttavia, quanto diversa sia quell'autorità parimente desiata, quanto diversi i mezzi per ottenerla, quanto diversi i fini allor quando ottenuta siasi, ciascuno per se stesso lo vede.
Si perviene ad un'assoluta autorità nella tirannide, piacendo, secondando, e assomigliandosi al tiranno: un popolo libero non concede la limitata e passeggera autorità, se non se a una certa virtù, ai servigj importanti resi alla patria, all'amore del ben pubblico in somma, attestato coi fatti.
Né i tutti possono volere altro utile mai, che quello dei tutti; né altri premiare, se non quelli che arrecano loro quest'utile.
È vero nondimeno, che possono i tutti alle volte ingannarsi, ma per breve tempo; e l'ammenda del loro errore sta in essi pur sempre.
Ma il tiranno, che è uno solo, ed un contra tutti, ha sempre un interesse non solamente diverso, ma per lo più direttamente opposto a quello di tutti: egli dee dunque rimunerare chi è utile a lui; e quindi, non che premiare, perseguitare e punire debb'egli chiunque veramente tentasse di farsi utile a tutti.
Ma, se il caso pure volesse che il bene di quell'uno fosse ad un tempo in qualche parte il bene di tutti, il tiranno nel rimunerarne l'autore pretesterebbe forse il ben pubblico; ma, in essenza, egli ricompenserebbe il servigio prestato al suo privato interesse.
E così colui, che avrà per caso servito lo stato (se pure una tirannide può dirsi mai stato, e se giovar si può ai servi, non liberandoli prima d'ogni cosa dalla lor servitù) colui pur sempre dirà, ch'egli ha servito il tiranno; svelando con queste parole o il vile suo animo, o il suo cieco intelletto.
Ed il tiranno stesso, ove la paura sua, e la dissimulazione che n'è figlia, non gli vadano rammentando che si dee pur nominare, almeno per la forma, lo stato; il tiranno anch'egli dirà, per innavvertenza, di aver premiato i servigj prestati a lui stesso.
Così Giulio Cesare scrittore, parlando di Giulio Cesare capitano, e futuro tiranno, si lasciava sfuggir dalla penna le seguenti parole: Scutoque ad eum (ad Caesarem) relato Scaevae Centurionis, inventa sunt in eo foramina CCXXX: quem Caesar, ut erat DE SE meritus et de republica, donatum millibus ducentis, etc.
Si vede in questo passo dalle parole, DE SE meritus, quanto il buon Cesare, essendosi pure prefisso nei suoi commentarj di non parlar di se stesso se non alla terza persona, ne parlasse qui inavvertentemente alla prima; e talmente alla prima, che la parola de republica non veniva che dopo la parola DE SE, quasi per formoletta di correzione.
In tal modo scriveva e pensava il più magnanimo di tutti i tiranni, allor quando non si era ancor fatto tale; quando egli stava ancora in dubbio se potrebbe riuscir nella impresa: ed era costui nato e vissuto cittadino fino a ben oltre gli anni quaranta.
Ora, che penserà e dirà egli su tal punto un volgare tiranno? colui, che nato, educato tale, certo di morire sul trono, se ne vive fino alla sazietà nauseato di non trovar mai ostacoli a qualunque sua voglia?
Risulta, mi pare, da quanto ho detto fin qui; che l'ottenere il favore di un solo attesta pur sempre più vizj che virtù in colui che l'ottiene; ancorché quel solo che lo accorda, potesse esser virtuoso; poiché, per piacere a quel solo, bisogna pur essere o mostrarsi utile a lui, mentre la virtù vuole che l'uomo pubblico evidentemente sia utile al pubblico.
E parimente risulta dal fin qui detto; che l'ottenere il favore di un popolo libero, ancorché corrotto sia egli, attesta nondimeno necessariamente in chi l'ottiene, alcuna capacità e virtù; poiché, per piacere a molti ed ai più, bisogna manifestamente essere, o farsi credere, utile a tutti; cosa, che, o da vera o da finta intenzione ella nasca, sempre a ogni modo richiede una tal quale capacità e virtù.
In vece che il mostrarsi piacevole ed utile a un solo potente col fine di usurparsi una parte della di lui potenza, richiede sempre e viltà di mezzi, e picciolezza di animo, e raggiri, e doppiezze, e iniquità moltissime, per competere e soverchiare i tanti altri concorrenti per lo stesso mezzo ad una cosa stessa.
E quanto asserisco, mi sarà facile il provar con esempj.
Erano già molto corrotti i Romani, e già già vacillava la lor libertà, allorché Mario, guadagnati a sé i suffragj del popolo, si facea console a dispetto di Silla e dei nobili.
Ma si consideri bene quale si fosse codesto Mario; quali e quante virtù egli avesse già manifestate e nel foro e nel campo; e tosto si vedrà che il popolo giustamente lo favoriva, poiché (secondo le circostanze ed i tempi) le virtù sue soverchiavano di molto i suoi vizj.
Erano i Francesi, non liberi, (che stati fino ai dì nostri non lo sono pur mai) ma in una crisi favorevole a far nascere libertà, ed a fissare per sempre i giusti limiti di un ragionevole principato, allorché saliva sul trono Arrigo quarto, quell'idolo dei Francesi un secolo dopo morte.
Sully, integerrimo ministro di quell'ottimo principe, ne godeva in quel tempo, e ne meritava, il favore.
Ma, se si vuole per l'appunto appurare qual fosse la politica virtù di codesti due uomini, ella si giudichi da quello che fecero.
Sully, ebbe egli mai la virtù e l'ardire di prevalersi di un tal favore, e di sforzare con evidenza di ragioni inespugnabili quell'ottimo re, a innalzare per sempre le stabili e libere leggi sopra di sé e dei suoi successori? e se egli ne avesse avuto l'ardire, si può egli presumere, che avrebbe conservato il favore di Arrigo? Dunque codesto favore di un tiranno anche ottimo, non si può assolutamente acquistar dal suo suddito per via di vera politica virtù; né si può (molto meno) per via di vera politica virtù conservare.
Esaminiamo ora da prima i fonti dell'autorità.
I mezzi per ottenerla nelle repubbliche, sono il difenderle e l'illustrarle; lo accrescerne l'impero e la gloria; l'assicurarne la libertà, ove sane elle siano; il rimediare agli abusi, o tentarlo, se corrotte elle sono; e in fine, il dimostrar loro sempre la verità, per quanto spiacevole ed oltraggiosa ella paja.
I mezzi per ottenere autorità dal tiranno, sono il difenderlo, ma più ancora dai sudditi che non dai nemici; il laudarlo; il colorirne i difetti; lo accrescerne l'impero e la forza; l'assicurarne l'illimitato potere apertamente, s'egli è un tiranno volgare; lo assicurarglielo sotto apparenza di ben pubblico, s'egli è un accorto tiranno: e a ogni modo, il tacere a lui sempre, e sovra tutte le altre, questa importantissima verità: Che sotto l'assoluto governo di un solo ogni cosa debb'essere indispensabilmente sconvolta e viziosa.
Ed una tal verità è impossibile a dirsi da chi vuol mantenersi il favor del tiranno; ed è forse impossibile a pensarsi e sentirsi da chi lo abbia ricercato mai, e ottenuto.
Ma, questa manifesta e divina verità, riesce non meno impossibile a tacersi da chi vuol veramente il bene di tutti: e impossibile finalmente riesce a soffrirsi dal tiranno, che vuole, e dee volere, prima d'ogni altra cosa, il privato utile di se stesso.
Le corti tutte son dunque per necessità ripienissime di pessima gente; e, se pure il caso vi ha intruso alcun buono, e che tale mantenervisi ardisca, e mostrarsi, dee tosto o tardi costui cader vittima dei tanti altri rei che lo insidiano, lo temono, e lo abborriscono, perché sono vivamente offesi dalla di lui insopportabil virtù.
Quindi è, che dove un solo è signore di tutto e di tutti, non può allignare altra compagnia, se non se scellerata.
Di questa verità tutti i secoli, e tutte le tirannidi, han fatto e faranno indubitabile fede; e con tutto ciò, in ogni secolo, in ogni tirannide, da tutti i popoli servi ella è stata e sarà pochissimo creduta, e meno sentita.
Il tiranno, ancorché d'indole buona sia egli, rende immediatamente cattivi tutti coloro che a lui si avvicinano; perché la sua sterminata potenza, di cui (benché non ne abusi) mai non si spoglia, vie maggiormente riempie di timore coloro che più da presso la osservano: dal più temere nasce il più simulare; e dal simulare e tacere, l'esser pessimo e vile.
Ma, dall'ambizione nella tirannide ne ridonda spesso all'ambizioso un potere illimitato non meno che quello del tiranno; e tale, che nessuna repubblica mai, a nessuno suo cittadino, né può né vuole compatirne un sì grande.
Perciò pare ai molti scusabile colui, che essendo nato in servaggio, ardisce pure proporsi un così alto fine; di farsi più grande che lo stesso tiranno, all'ombra della di lui imbecillità, o della di lui non curanza.
Risponda ciascuno a questa obiezione, col domandare a se stesso: "Un'autorità ingiusta, illimitata, rapita, e precariamente esercitata sotto il nome d'un altro, ottener si può ella giammai, senza inganno? Può ella esercitarsi mai, senza nuocere a molti, e per lo meno ai concorrenti ad essa? Può ella finalmente mai conservarsi, senza frode crudeltà e prepotenza nessuna?"
Si ambisce dunque l'autorità nelle repubbliche, perché ella in chi l'acquista fa fede di molte virtù, e perch'ella presta largo campo ad accrescersi quell'individuo la propria gloria coll'util di tutti.
Si ambisce nelle tirannidi, perché ella vi somministra i mezzi di soddisfare alle private passioni; di sterminatamente arricchire; di vendicare le ingiurie e di farne, senza timor di vendetta; di beneficare i più infami servigj; e di fare in somma tremare quei tanti che nacquero eguali, o superiori, a colui che la esercita.
Né si può in verun modo dubitare, che nella repubblica, e nella tirannide, gli ambiziosi non abbiano questi fra loro diversi disegni.
Già prima di acquistare l'autorità il repubblicano benissimo sa che non potrà egli sempre serbarla; che non potrà abusarne, perché dovrà dar conto di sé rigidissimo ai suoi eguali; e che l'averla acquistata è una prova che egli era migliore, o più atto da ciò, che non i competitori suoi.
Così, nella tirannide, non ignora lo schiavo, che quella autorità ch'egli ambisce, non avrà nessun limite; ch'ella è perciò odiosissima a tutti; che lo abusarne è necessario per conservarla; che il ricercarla attesta la pessima indole del candidato; che l'ottenerla chiaramente dimostra ch'egli era tra i concorrenti tutti il più reo.
Eppure codesti due ambiziosi, queste cose tutte sapendo già prima, senza punto arrestarsi corrono entrambi del pari la intrapresa carriera.
Ora, chi potrà pure asserire che l'ambizioso in repubblica non abbia per meta la gloria più assai che la potenza? e che l'ambizioso nella tirannide si proponga altra meta, che la potenza, la ricchezza, e la infamia?
Ma, non tutte le ambizioni, hanno per loro scopo la suprema autorità.
Quindi, nell'uno e nell'altro governo, si trova poi sempre un infinito numero di semi-ambiziosi, a cui bastano i semplici onori senza potenza; ed un numero ancor più infinito di vili, a cui basta il guadagno senza potenza né onori.
E milita anche per costoro, nell'uno e nell'altro governo, la stessa differenza e ragione.
Gli onori nelle repubbliche non si rapiscono coll'ingannare un solo, ma si ottengono col giovare o piacere ai più: ed i più non vogliono onorare quell'uno, se egli non lo merita affatto; perché facendolo, disonorano pur troppo se stessi.
Gli onori nella tirannide (se onori chiamar pur si possono) vengono distribuiti dall'arbitrio d'un solo; si accordano alla nobiltà del sangue per lo più; alla fida e total servitù degli avi; alla perfetta e cieca obbedienza, cioè all'intera ignoranza di se stesso; al raggiro; al favore; e alcune volte, al valore contra gli esterni nemici.
Ma, gli onori tutti (qualunque siano) sempre per loro natura diversi in codesti diversi governi, sono pur anche, come ognun vede, per un diverso fine ricercati.
Nella tirannide, ciascuno vuol rappresentare al popolo una anche menoma parte del tiranno.
Quindi un titolo, un nastro, o altra simile inezia, appagano spesso l'ambizioncella d'uno schiavicello; perché questi onorucci fan prova, non già ch'egli sia veramente stimabile, ma che il tiranno lo stima; e perché egli spera, non già che il popolo l'onori, ma che lo rispetti e lo tema.
Nella repubblica, manifesta e non dubbia cosa è, per qual ragione gli onori si cerchino; perché veramente onorano chi li riceve.
L'ambizione d'arricchire, chiamata più propriamente CUPIDIGIA, non può aver luogo nelle repubbliche, fin ch'elle corrotte non sono; e quando anche il siano, i mezzi per arricchirvi essendo principalmente la guerra, il commercio, e non mai la depredazione impunita del pubblico erario, ancorché il guadagno sia uno scopo per se stesso vilissimo, nondimeno per questi due mezzi egli viene ad essere la ricompensa di due sublimi virtù; il coraggio, e la fede.
L'ambizione d'arricchire è la più universale nelle tirannidi; e quanto elle sono più ricche ed estese, tanto più facile a soddisfarsi per vie non legittime da chiunque vi maneggia danaro del pubblico.
Oltre questo, molti altri mezzi se ne trovano; e altrettanti esser sogliono, quanti sono i vizj del tiranno, e di chi lo governa.
Lo scopo, che si propongono gli uomini nello straricchire, è vizioso nell'uno e nell'altro governo; e più ancora nelle repubbliche che nelle tirannidi; perché in quelle si cercano le ricchezze eccessive, o per corrompere i cittadini, o per soverchiar l'uguaglianza; in queste, per godersele nei vizj e nel lusso.
Con tutto ciò, mi pare pur sempre assai più escusabile l'avidità di acquistare, in quei governi dove i mezzi ne son men vili, dove l'acquistato è sicuro, e dove in somma lo scopo (ancorché più reo) può essere almeno più grande.
In vece che nei governi assoluti, quelle ricchezze che sono il frutto di mille brighe, di mille iniquità e viltà, e dell'assoluto capriccio di un solo, possono essere in un momento ritolte da altre simili brighe, iniquità e viltà, o dal capriccio stesso che già le dava, o che rapire lasciavale.
Parmi d'aver parlato di ogni sorta d'ambizione, che allignare possa nella tirannide.
Conchiudo; che questa stessa passione, che è stata e può essere la vita dei liberi stati, la più esecrabil peste si fa dei non liberi.
CAPITOLO SESTO
DEL PRIMO MINISTRO
Ad consulatum non nisi per Sejanum aditus: neque Sejani voluntas nisi scelere quaerebatur.
E fra le più atroci calamità pubbliche, cagionate dall'ambizione nella tirannide, si dee, come atrocissima e massima, reputar la persona del primo ministro, da me nel precedente capitolo soltanto accennata, e di cui credo importante ora, e necessarissimo, il discorrere a lungo.
Questa fatal dignità altrettanto maggior lustro acquista a chi la possiede, quanto è maggiore la incapacità del tiranno, che la comparte.
Ma siccome il solo favore di esso la crea; siccome, ad un tiranno incapace non è da presumersi che possa piacere pur mai un ministro illuminato e capace; ne risulta per lo più, che costui non meno inetto al governare che lo stesso tiranno, gli rassomiglia interamente nella impossibilità del ben fare, e di gran lunga lo supera nella capacità desiderio e necessità del far male.
I tiranni d'Europa cedono a codesti loro primi ministri l'usufrutto di tutti i loro diritti; ma niuno ne vien loro accordato dai sudditi con maggiore estensione e in più supremo grado, che il giusto abborrimento di tutti.
E questo abborrimento sta nella natura dell'uomo, che male può comportare, che altri, nato suo eguale, rapisca ed eserciti quella autorità caduta in sorte a chi egli crede nato suo maggiore: autorità, che per altre illegittime mani passando, viene a duplicare per lo meno la sua propria gravezza.
Ma questo primo ministro, dal sapersi sommamente abborrito, ne viene egli pure ad abborrire altrui sommamente; ond'egli gastiga, e perseguita, e opprime, ed annichila chiunque l'ha offeso; chiunque può offenderlo; chiunque ne ha, o glie ne viene imputato, il pensiero; e chiunque finalmente, non ha la sorte di andargli a genio.
Il primo ministro perciò facilmente persuade poi a quel tiranno di legno, di cui ha saputo farsi l'anima egli, che tutte le violenze e crudeltà ch'egli adopera per assicurare se stesso, necessarie siano per assicurare il tiranno.
Accade alle volte, che, o per capriccio, o per debolezza, o per timore, il tiranno ritoglie ad un tratto il favore e l'autorità al ministro; lo esiglia dalla sua presenza; e gli lascia, per singolare benignità, le predate ricchezze e la vita.
Ma questa mutazione non è altro, che un aggravio novello al misero soggiogato popolo.
Il che facilmente dimostrasi.
Il ministro anteriore, benché convinto di mille rapine, di mille inganni, di mille ingiustizie, non discade tuttavia quasi mai dalla sua dignità, se non in quel punto, ove un altro più accorto di lui gli ha saputo far perdere il favor del tiranno.
Ma, comunque egli giunga, ei giunge pure in somma quel giorno, in cui al ministro è ritolta l'autorità e il favore.
Allora bisogna, che lo stato si prepari a sopportare il ministro successore, il quale dee pur sempre essere di alcun poco più reo del predecessore; ma, volendosi egli far credere migliore, innova e sovverte ogni cosa stabilita dall'altro, ed in tutto se gli vuole mostrare dissimile.
Eppure costui vuole, e dee volere (come il predecessore) ed arricchirsi, e mantenersi in carica, e vendicarsi, e ingannare, ed opprimere, ed atterrire.
Ogni mutazione dunque nella tirannide, così di tiranno, che di ministro, altro non è ad un popolo infelicemente servo, che come il mutare fasciatura e chirurgo ad una immensa piaga insanabile, che ne rinnuova il fetore e gli spasimi.
Ma, che il ministro successore debba esser poi di alcun poco più reo dell'antecessore, colla stessa facilità si dimostra.
Per soverchiare un uomo cattivo accorto e potente, egli è pur d'uopo vincerlo in cattività e accortezza.
Un ministro di tiranno per lo più non precipita, senza che alcuno di quelli che direttamente o indirettamente erano autori della sua rovina, a lui non sottentri.
Ora, come seppe egli costui atterrare quei tanti ripari, che avea fatti quel primo per assicurarsi nel seggio suo? certamente, non per fortuna lo vinse, ma per arte maggiore.
Domando: "Se nelle corti una maggior arte possa supporre minori vizj in chi la possiede e felicemente la esercita".
La non-ferocia dei moderni tiranni, che in essi non è altro che il prodotto della non-ferocia dei moderni popoli, non comporta che agli ex-ministri venga tolta la vita, e neppure le ricchezze, ancorch'elle siano per lo più il frutto delle loro iniquità e rapine: né soffrono costoro alcun altro gastigo, che quello di vedersi lo scherno e l'obbrobrio di tutti, e massime di quei vili che maggiormente sotto essi tremavano.
Alcuni di questi vicetiranni smessi, hanno la sfacciataggine di far pompa di animo tranquillo nella loro avversa fortuna; e ardiscono stoltamente arrogarsi il nome di filosofi disingannati.
E costoro fanno ridere davvero gli uomini savj, che ben sapendo cosa sia un filosofo, chiaramente veggono ch'egli non è, né può essere mai stato, un vicetiranno.
Ma perderei le parole, il tempo, e la maestà da un così alto tema richiesta, se dimostrar io volessi che un ente cotanto vile ed iniquo non può né essere stato mai, né divenire, un filosofo.
Proverò bensì, (come cosa assai più importante) che un primo ministro del tiranno non è mai, né può essere, un uomo buono ed onesto: intendendo io da prima per politica onestà e vera essenza dell'uomo, quella per cui la persona pubblica antepone il bene di tutti al bene d'un solo, e la verità ad ogni cosa.
E, nell'avere io definita la politica onestà, parmi di aver largamente provato il mio assunto.
Se il tiranno stesso non vuole, e non può volere, il vero ed intero ben pubblico, il quale sarebbe immediatamente la distruzione della sua propria potenza, è egli credibile che lo potrà mai volere, ed operare, colui che precariamente lo rappresenta? colui, che un capriccio ed un cenno aveano quasi collocato sul trono, e che un capriccio ed un cenno ne lo precipitano?
Che il ministro poi non può essere privatamente uomo onesto, intendendo per privata onestà la costumatezza e la fede, si potrebbe pur anche ampiamente provare, e con ragioni invincibili: ma i ministri stessi, colle loro opere, tutto dì ce lo provano assai meglio che nessuno scrittore provarlo potrebbe con le parole.
Si osservi soltanto, che non esiste ministro nessuno che voglia perder la carica; che niuna carica è più invidiata della sua; che niun uomo ha più nemici di lui, né più calunnie, o vere accuse, da combattere: ora, se la virtù per se stessa possa in un governo niente virtuoso resistere con una forza non sua al vizio, al raggiro, e all'invidia, ne lascio giudice ognuno.
Dalla potenza illimitata del tiranno trasferita nel di lui ministro, si viene a produrre la prepotenza; cioè l'abuso di un potere abusivo già per se stesso.
Crescono la potenza e l'abuso ogniqualvolta vengono innestati nella persona di un suddito, perché questo tiranno elettivo e casuale si trova costretto a difendere con quella potenza il tiranno ereditario e se stesso.
Una persona di più da difendersi, richiede necessariamente più mezzi di difesa; e un'autorità più illegittima, richiede mezzi più illegittimi.
Perciò la creazione, o l'intrusione di questo personaggio nella tirannide, si dee senza dubbio riputare come la più sublime perfezione di ogni arbitraria potestà.
Ed eccone in uno scorcio la prova.
Il tiranno, che non si è mai creduto né visto nessun eguale, odia per innato timore l'universale dei sudditi suoi; ma non ne avendo egli mai ricevuto ingiurie private, gl'individui non odia.
La spada sta dunque, fin ch'egli stesso la tiene, in mano di un uomo, che per non essere stato offeso, non sa cui ferire.
Ma, tosto ch'egli cede questo prezioso e terribile simbolo dell'autorità ad un suddito, che si è veduto degli eguali, e dei superiori; ad uno, che, per essere sommamente iniquo ed odioso, dee sommamente essere odiato dai molti e dai più; chi ardirà mai credere allora, o asserire, o sperare che costui non ferisca?
CAPITOLO SETTIMO
DELLA MILIZIA
Ma, o regni il tiranno stesso, o regni il ministro, a ogni modo sempre i difensori delle loro inique persone, gli esecutori ciechi e crudeli delle loro assolute volontà, sono i mercenarj soldati.
Di questi ve ne ha nei moderni tempi di più specie; ma tutte però ad un medesimo fine destinate.
In alcuni paesi d'Europa si arruolano gli uomini per forza; in altri, con minor violenza, e maggior obbrobrio per quei popoli, si offrono essi spontaneamente di perdere la lor libertà, o (per meglio dire) ciò che essi stoltamente chiamano di tal nome.
Costoro s'inducono a questo traffico di se stessi, spinti per lo più dalla lor dappocaggine e vizj, e lusingati dalla speranza di soverchiare ed opprimere i loro eguali.
Molti tiranni usano anche d'avere al lor soldo alcune milizie straniere, nelle quali maggiormente si affidano.
E, per una strana contraddizione, che molto disonora gli uomini, gli Svizzeri, che sono il popolo quasi il più libero dell'Europa, si lasciano prescegliere e comprare, per servir di custodi alla persona di quasi tutti i tiranni di essa.
Ma, o straniere siano o nazionali, o volontarie o sforzate, le milizie a ogni modo son sempre il braccio, la molla, la base, la ragione sola, e migliore, delle tirannidi e dei tiranni.
Un tiranno di nuova invenzione cominciò in questo secolo a stabilire e mantenere un esercito intero e perpetuo in armi.
Costui, nel volere un esercito, allorché non avea nemici al di fuori, ampiamente provò quella già nota asserzione; che il tiranno ha sempre in casa i nemici.
Non era però cosa nuova, che i tiranni avessero per nemici i loro sudditi tutti; e non era nuovo neppure, che senza aver essi quei tanto formidabili eserciti, sforzassero nondimeno i lor sudditi ad obbedire e tremare.
Ma, tra l'idea che si ha delle cose, e le cose stesse, di mezzo vi entrano i sensi; ed i sensi, nell'uomo, son tutto.
Quel tiranno che nei secoli addietro se ne stava disarmato, se gli sopravveniva allora il capriccio o il bisogno di aggravare oltre l'usato i suoi sudditi, soleva per lo più astenersene; perché mormorandone essi o resistendogli, pensava che gli sarebbe necessario di armarsi per fargli obbedire e tacere.
Ma ai tempi nostri, quell'autorità e forza, che il padre o l'avo del presente tiranno sapeano bensì d'avere, ma non se la vedeano sempre sotto gli occhi; quell'autorità e forza viene ora ampiamente dimostrata al regnante da quelle tante sue schiere, che non solo lo assicurano dalle offese dei sudditi, ma che ad offenderli nuovamente lo invitano.
Onde, fra l'idea del potere nei passati tiranni, e la effettiva realità del potere nei presenti, corre per l'appunto la stessa differenza, che passa tra la possibilità ideale d'una cosa, e la palpabile esecuzione di essa.
La moderna milizia, colla sua perpetuità, annulla nelle moderne tirannidi l'apparenza stessa del viver civile; di libertà seppellisce il nome perfino; e l'uomo invilisce a tal segno, che cose politicamente virtuose, giuste, giovevoli, ed alte, non può egli né fare, né dire, né ascoltar, né pensare.
Da questa infame moltitudine di oziosi soldati, vili nell'obbedire, insolenti e feroci nell'eseguire, e sempre più intrepidi contro alla patria che contro ai nemici, nasce il mortale abuso dell'esservi uno stato di più nello stato; cioè un corpo permanente e terribile, che ha opinioni ed interessi diversi e in tutto contrarj a quelli del pubblico; e un corpo, che per la sua illegittima e viziosa istituzione, porta in se stesso la impossibilità dimostrata di ogni civile ben vivere.
L'interesse di tutti o dei più, fra i popoli di ogni qualunque governo, si è di non essere oppressi, o il meno che il possono: nella tirannide i soldati, che non debbono aver mai interesse diverso da quello del tiranno che li pasce e che la loro superba pigrizia vezzeggia; i soldati, hanno necessariamente interesse di opprimere i popoli quanto più il possono; poiché quanto più opprimono, tanto più considerati sono essi, e necessarj, e temuti.
Non accade nella tirannide, come nelle vere repubbliche, che le interne dissensioni vengano ad esservi una parte di vita; e che, saggiamente mantenutevi ed adoprate, vi accrescano libertà.
Ogni diversità di interesse nella tirannide, accresce al contrario la pubblica infelicità, e la universal servitù: e quindi bisogna che il debole per così dire si annichili, e che il forte si insuperbisca oltre ogni misura.
Nella tirannide perciò le soldatesche son tutto, ed i popoli nulla.
Questi prepotenti, o siano volontariamente o sforzatamente arruolati, sogliono essere, quanto ai costumi, la più vile feccia della feccia della plebe: e sì gli uni che gli altri, appena hanno investita la livrea della loro duplicata servitù, fattisi orgogliosi, come se fossero meno schiavi che i loro consimili; spogliatisi del nome di contadini di cui erano indegni, sprezzano i loro eguali, e li reputano assai da meno di loro.
E in fatti, i veri contadini coltivatori nella tirannide si dichiarano assai minori dei contadini soldati, poiché sopportano essi questa genia militante, che ardisce disprezzargli, insultargli, spogliargli, ed opprimerli.
E a questa sì fatta genia potrebbero lievemente resistere i popoli, se volessero pure conoscere un solo istante la loro forza, poiché si troverebbero tuttavia mille contr'uno.
E se tanta pur fosse la viltà degli oppressi, che colla forza aperta non ardissero affrontare questi loro oppressori, potrebbero anche facilmente con arte e doni corrompergli e comprarli; che quel loro valore sta per chi meglio lo paga.
Ma da un sì fatto mezzo ne ridonderebbero in appresso più mali; tra cui non è il menomo, il ritrovarsi poscia fra il popolo una sì gran moltitudine d'enti, che soldati non potrebbero esser più, e che cittadini (ove anco il volessero) divenir non saprebbero.
Vero è, che il popolo li teme e quindi gli odia; ma non gli odia pur mai quanto egli abborrisce il tiranno, e non quanto costoro sel meritano.
Questa non è una delle più leggiere prove, che il popolo nella tirannide non ragiona, e non pensa: che se egli osservasse, che senza codesti soldati non potrebbe oramai più sussistere tiranno nessuno, gli abborrirebbe assai più; e da quest'odio estremo perverrebbe il popolo assai più presto allo spegnere affatto cotali soldati.
E non paja contraddizione il dire; che senza soldati non sussisterebbe il tiranno, dopo aver detto di sopra, che non sempre i tiranni hanno avuto eserciti perpetui.
Coll'accrescere i mezzi di usare la forza, hanno i tiranni accresciuta la violenza in tal modo, che se ora quei mezzi scemassero, verrebbe di tanto a scemare nei popoli il timore, che si distruggerebbe forse la tirannide affatto.
Perciò quegli eserciti, che non erano necessarj prima che si oltrepassassero certi limiti, e prima che il popolo fosse intimorito e rattenuto da una forza effettiva e palpabile, vengono ad essere necessarissimi dopo: perché natura dell'uomo è, che chiunque per molti anni ha avuto davanti agli occhi e ceduto ad una forza effettiva, non si lasci più intimorire da una forza ideale.
Quindi, nel presente stato delle tirannidi europee, al cessare dei perpetui eserciti, immantinente cesseran le tirannidi.
Il popolo non può dunque mai con verisimiglianza sperare di vedersi diminuito o tolto questo continuo aggravio ed obbrobrio, dello stipendiare egli stesso i suoi proprj carnefici, tratti dalle sue proprie viscere, e così tosto immemori affatto dei loro più sacri e naturali legami.
Ma il popolo ha pur sempre, non la speranza soltanto, ma la piena e dimostrata certezza di torsi egli stesso questo aggravio ed obbrobrio, ogniqualvolta egli veramente volendolo non chiederà ad altrui ciò che sta soltanto in sua mano di prendersi.
Ogni tiranno europeo assolda quanti più può di questi satelliti, e più assai che non può; egli se ne compiace, se ne trastulla, e ne va oltre modo superbo.
Sono costoro il vero e primo giojello delle loro corone: e, mantenuti a stento dai sudori e digiuni del popolo, preparati son sempre a beverne il sangue, ad ogni minimo cenno del tiranno.
Si accorda, in ragione del numero dei loro soldati, un diverso grado di considerazione ai diversi tiranni.
E siccome non possono essi diminuire i satelliti loro senza che scemi l'opinione che si ha della loro potenza; e siccome una persona abborrita, ove ella mai cessi di essere temuta, apertamente si dileggia da prima, e tosto poscia si spegne; egli è da credersi, che i tiranni non aspetteranno mai questo manifesto disprezzo precursore infallibile della loro intera rovina, e che sempre dissangueranno il popolo per mantenere coi molti soldati se stessi.
I tiranni, padroni pur anche per alcun tempo dell'opinione, hanno tentato di persuadere in Europa, ed hanno effettivamente persuaso ai più stupidi fra i loro sudditi, così plebei come nobili, che ella sia onorevole cosa la loro milizia.
E col portarne essi stessi la livrea, coll'impostura di passare essi stessi per tutti i gradi di quella, coll'accordarle molte prerogative insultanti ed ingiuste sopra tutte le altre classi dello stato, e massime sopra i magistrati tutti, hanno con ciò offuscato gl'intelletti, ed invogliato gli stoltissimi sudditi di questo mestiere esecrabile.
Ma una sola osservazione basta a distruggere questa loro scurrile impostura.
O tu reputi i soldati come gli esecutori della tirannica volontà al di dentro; e allora può ella mai parerti onorevol cosa lo esercitare contra il padre, i fratelli, i congiunti, e gli amici, una forza illimitata ed ingiusta? O tu li reputi come i difensori della patria; cioè di quel luogo dove per tua sventura sei nato; dove per forza rimani; dove non hai né libertà, né sicurezza, né proprietà nessuna inviolabile; e allora, onorevol cosa ti può ella parere il difendere codesto tuo sì fatto paese, e il tiranno che continuamente lo distrugge ed opprime quanto e assai più, che nol farebbe il nemico? e l'impedire in somma un altro tiranno di liberarti dal tuo? Che ti può egli togliere oramai quel secondo, che non ti sia stato già tolto dal primo? Anzi, potrà il nuovo tiranno, per necessaria accortezza, trattarti da principio molto più umanamente che il vecchio.
Conchiudo adunque; Che, non si potendo dir patria là dove non ci è libertà e sicurezza, il portar l'armi dove non ci è patria riesce pur sempre il più infame di tutti i mestieri: poiché altro non è, se non vendere a vilissimo prezzo la propria volontà, e gli amici, e i parenti, e il proprio interesse, e la vita, e l'onore, per una causa obbrobriosa ed ingiusta.
CAPITOLO OTTAVO
DELLA RELIGIONE
Quella qualunque opinione che l'uomo si è fatta o lasciata fare da altri, circa alle cose che egli non intende, come sarebbero l'anima e la divinità; quell'opinione suol essere anch'essa per lo più uno dei saldissimi sostegni della tirannide.
L'idea che dal volgo si ha del tiranno viene talmente a rassomigliarsi alla idea da quasi tutti i popoli falsamente concepita di un Dio, che se ne potrebbe indurre, il primo tiranno non essere stato (come supporre si suole) il più forte, ma bensì il più astuto conoscitore del cuore degli uomini; e quindi il primo a dar loro una idea, qual ch'ella si fosse, della divinità.
Perciò, fra moltissimi popoli, dalla tirannide religiosa veniva creata la tirannide civile; spesso si sono entrambe riunite in un ente solo; e quasi sempre si sono l'una l'altra ajutate.
La religion pagana, col suo moltiplicare sterminatamente gli Dei; e col fare del cielo una quasi repubblica, e sottomettere Giove stesso alle leggi del fato, e ad altri usi e privilegj della corte celeste; dovea essere, e fu in fatti, assai favorevole al viver libero.
La giudaica, e quindi la cristiana e maomettana, coll'ammettere un solo Dio, assoluto e terribile signor d'ogni cosa, doveano essere, e sono state, e sono tuttavia assai più favorevoli alla tirannide.
Queste cose tutte, già dette da altri, tralascio come non mie; e proseguendo il mio tema, che della moderna tirannide in Europa principalissimamente tratta, non esaminerò tra le diverse religioni se non se la nostra, ed in quanto ella influisce su le nostre tirannidi.
La cristiana religione, che è quella di quasi tutta la Europa, non è per se stessa favorevole al viver libero: ma la cattolica religione riesce incompatibile quasi col viver libero.
A voler provare la prima di queste proposizioni, basterà, credo, il dimostrare che essa in nessun modo non induce, né persuade, né esorta gli uomini al viver liberi.
Ed il primo, e principale incitamento ad un effetto così importante, dovrebbero pur gli uomini riceverlo dalla lor religione; poiché non vi è cosa che più li signoreggi; che maggiormente imprima in essi questa o quella opinione; e che maggiormente gli infiammi all'eseguire alte imprese.
Ed in fatti, nella pagana antichità, i Giovi, gli Apollini, le Sibille, gli Oracoli, a gara tutti comandavano ai diversi popoli e l'amor della patria e la libertà.
Ma la religion cristiana, nata in un popolo non libero, non guerriero, non illuminato, e già intieramente soggiogato dai sacerdoti, non comanda se non la cieca obbedienza; non nomina né pure mai libertà; ed il tiranno (o sacerdote o laico sia egli), interamente assimila a Dio.
Se si esamina in qual modo ella si propagasse, si vedrà che sempre si procacciò più facilmente l'ingresso nelle tirannidi, che nelle repubbliche.
Al cadere dell'imperio romano, (in cui ella non poté trovar seggio, se non quando la militare tirannide v'ebbe intieramente annullato ogni vivere civile) quelle tante nazioni barbare che l'occuparono, stabilite poi nella Italia, nelle Gallie, nelle Spagne, e nell'Africa, sotto i loro diversi condottieri abbracciarono indi a non molto la religion cristiana.
E la ragione mi par ne sia questa.
Quei loro condottieri volendo rimanere tiranni; e quei lor popoli, avvezzi ad esser liberi quando non erano in guerra, non volendo obbedire se non come soldati a capitano, e non mai come schiavi a tiranno; in questa disparità di umori frapponendosi il cristianesimo, egli vi appariva introduttore di una certa via di mezzo, per cui si andava persuadendo ai popoli l'obbedire, e ai capitani fatti tiranni si veniva assicurando l'imperio; ove questi una parte della loro autorità divider volessero coi sacerdoti.
In prova di che, si osservi quell'altra parte di quelle stesse nazioni boreali rimastasi povera, semplice, e libera nelle natie sue selve, essere poi stata l'ultimo popolo d'Europa che ricevesse, più assai per violenza che per via di persuasione, la religion cristiana.
Le poche nazioni che fuori d'Europa la ricevettero, vi furono per lo più indotte dal timore e dalla forza, come le diverse piagge di America e d'Affrica; ma dallo stesso ferocissimo fanatismo con cui veniva abbracciata nella Cina, e più nel Giappone, si può manifestamente dedurre quanto ella volentieri si alligni, e prosperi, nelle tirannidi.
I troppi abusi di essa sforzarono col tempo alcuni popoli assai più savj che imaginosi, a raffrenarla, spogliandola di molte dannose superstizioni.
E costoro, distinti poi col nome di eretici, si riaprirono con tal mezzo una strada alla libertà, la quale fra essi rinacque dopo essere stata lungamente sbandita d'Europa, e bastantemente vi prosperò; come gli Svizzeri, la Olanda, molte città di Germania, la Inghilterra, e la nuova America, ce lo provano.
Ma i popoli, che, non la frenando, vollero conservarla intera, (non però mai quale era stata predicata da Cristo, ma quale con arte, con inganno, ed anche con la violenza l'aveano i suoi successori trasfigurata) si chiusero essi sempre più ogni strada al riprocrear libertà.
Addurrò ora, non tutte, ma le principali ragioni, per cui mi pare quasi impossibile che uno stato cattolico possa o farsi libero veramente, o rimaner tale, rimanendo cattolico.
Il culto delle immagini, la presenza effettiva nella eucaristia, ed altri punti dogmatici, non saranno per certo mai quelli, che, creduti o no, verranno ad influire sopra il viver libero politico.
Ma, IL PAPA, ma, LA INQUISIZIONE, IL PURGATORIO, LA CONFESSIONE, IL MATRIMONIO FATTOSI INDISSOLUBILE SACRAMENTO e IL CELIBATO DEI RELIGIOSI; sono queste le sei anella della sacra catena, che veramente a tal segno rassodano la profana, che ella di tanto ne diventa più grave ed infrangibile.
E, dalla prima di queste sei cose incominciando, dico: Che un popolo, che crede potervi esser un uomo, che rappresenti immediatamente Dio; un uomo, che non possa errar mai; egli è certamente un popolo stupido.
Ma se, non lo credendo, egli viene per ciò tormentato, sforzato, e perseguitato da una forza superiore effettiva, ne accaderà che quella prima generazione d'uomini crederà nel papa, per timore; i figli, per abitudine; i nepoti, per stupidità.
Ecco in qual guisa un popolo che rimane cattolico, dee necessariamente, per via del papa e della inquisizione, divenire ignorantissimo, servissimo, e stupidissimo.
Ma, mi dirà taluno: "Gli eretici credono pure nella trinità; e questa al senso umano pare una cosa certamente ancora più assurda che le sopraccennate: non sono dunque gli eretici meno stupidi dei cattolici".
Rispondo; che anche i Romani credevano nel volo e nel beccar degli augelli, cosa assai più puerile ed assurda; eppure erano liberi e grandi; e non divennero stupidi e vili, se non quando, spogliati della lor libertà, credettero nella infame divinità di Cesare, di Augusto, e degli altri lor simili e peggiori tiranni.
Quindi, la trinità nostra, per non essere cosa soggetta ai sensi, si creda ella o no, non può influire mai sopra il viver politico: ma, l'autorità più o meno di un uomo; l'autorità illimitata sopra le più importanti cose, e velata dal sacro ammanto della religione, importa e molte, e notabili conseguenze; tali in somma, che ogni popolo che crede od ammette una tale autorità, si rende schiavo per sempre.
Lo ammetterla senza crederla, che è il caso nostro presente in quasi tutta l'Europa cattolica, mi pare una di quelle umane contraddizioni sì stranamente ripugnanti alla sana ragione, ch'elle non possono essere gran fatto durevoli; e quindi non occorre maggiormente parlarne.
Ma i popoli che l'autorità del papa ammettono perché la credono, come erano i nostri avi, ed alcune presenti nazioni, necessariamente la credono o per timore, o per ignoranza e stupidità.
Se per queste ultime ragioni la credono, chiaro è che una nazione stupida ed ignorante affatto, non può, nel presente stato delle cose, esser libera: ma, se per timore la credono i popoli, da chi vien egli in loro inspirato codesto timore? non dalle papali scomuniche certamente, poiché in esse non hanno fede costoro; dalle armi dunque e dalla forza spaventati saranno, ed indotti a finger di credere.
E da quali armi mai? da qual vera forza? dalle armi e forza del tiranno, che politicamente e religiosamente gli opprime.
Dunque, dovendo i popoli temere l'armi di chi li governa, in una cosa che dovrebbe essere ad arbitrio di ciascuno il crederla o no, ne risulta che chi governa tai popoli, di necessità è tiranno; e che essi, attesa questa loro sforzata credenza, non sono, né possono farsi mai liberi.
Ed in fatti, né Atene, né Sparta, né Roma, né altre vere ed illuminate repubbliche, non isforzarono mai i lor popoli a credere nella infallibilità degli oracoli; né, molto meno, a rendersi tributarj e ciecamente obbedienti a niuno lontano sacerdozio.
LA INQUISIZIONE, quel tribunale sì iniquo di cui basta il nome per far raccapricciare d'orrore, sussiste pur tuttavia più o meno potente in quasi tutti i paesi cattolici.
Il tiranno se ne prevale a piacer suo; ed allarga, o ristringe la inquisitoria autorità, secondo che meglio a lui giova.
Ma, questa autorità dei preti e dei frati (vale a dire, della classe la più crudele, la più sciolta da ogni legame sociale, ma la più codarda ad un tempo) quale influenza avrebbe ella per se stessa, qual terrore potrebbe ella infondere nei popoli, se il tiranno non la assistesse e munisse colla propria sua forza effettiva? Ora, una forza che sostiene un tribunale ingiusto e tirannico, non è certamente né giusta né legittima: dove alligna l'Inquisizione, alligna indubitabilmente la tirannia; dove ci è cattolicismo, vi è o vi può essere ad ogni istante l'Inquisizione: non si può dunque essere a un tempo stesso un popolo cattolico veramente, e un popolo libero.
Ma, che dirò io poi della CONFESSIONE? Tralascio il dirne ciò che a tutti è ben noto; che la certezza del perdono di ogni qualunque iniquità col solo confessarla, riesce assai più di sprone che di freno ai delitti; e tante altre cose tralascio, che dall'uso, o abuso di un tal sacramento manifestamente ogni giorno derivano.
Io mi ristringo a dire soltanto; che un popolo che confessa le sue opere, parole, e pensieri ad un uomo, credendo di rivelarli per un tal mezzo a Dio; un popolo, che fra gli altri peccati suoi è costretto a confessare come uno dei maggiori, ogni menomo desiderio di scuotere l'ingiusto giogo della tirannide, e di porsi nella naturale ma discreta libertà; un tal popolo non può esser libero, né merita d'esserlo.
La dottrina del PURGATORIO, cagione ad un tempo ed effetto della confessione, contribuisce non poco altresì ad invilire, impoverire, e quindi a rendere schiavi i cattolici popoli.
Per redimere da codesta pena i loro padri ed avi, colla speranza di esserne poi redenti dai loro figli e nipoti, danno costoro ai preti non solamente il loro superfluo, ma anche talvolta il lor necessario.
Quindi la sterminata ricchezza dei preti; e dalla loro ricchezza, la lor connivenza col tiranno; e da questa doppia congiura, la doppia universal servitù.
Onde, di povero che suol essere in ogni qualunque governo il popolo, fatto poverissimo per questo mezzo di più nella tirannide cattolica, egli vi dee rimanere in tal modo avvilito, che non penserà né ardirà mai tentare di farsi libero.
I sacerdoti all'incontro, di poveri (benché non mendici) che esser dovrebbero, fatti per mezzo di codesto lor purgatorio ricchissimi, e quindi moltiplicati e superbi, sono sempre in ogni governo inclinati, anzi sforzati da queste loro illegittime sterminate ricchezze, a collegarsi con gli
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