DELLA TIRANNIDE, di Vittorio Alfieri - pagina 10
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Questo popolar magistrato, contrastando di pari colla potenza patrizia, ed essendo abbastanza potente per tenerla a freno, e non abbastanza per distruggerla affatto, per molto tempo sforzava i nobili a gareggiare col popolo in virtù; e ne nacque perciò per gran tempo il bene di tutti.
Ma il mal seme pur rimaneva, e all'accrescersi della universale potenza e ricchezza, rigermogliò più che mai rigogliosa ogni superbia e corruzione nei nobili; e questi poi, così guasti, in breve la repubblica spensero.
Fu dottamente e con sagace verità osservato, prima dal nostro gran Machiavelli, e con qualche maggior ordine poi da Montesquieu, che quelle gare stesse fra la nobiltà ed il popolo erano state per più secoli il nerbo, la grandezza, e la vita, di Roma: ma la sacra verità comandava pur anco, che si osservasse da codesti due grandi, che quelle dissensioni stesse ne erano state poi la intera rovina; e il come, e il perché, ampiamente da essi indagar si dovea.
Ed io mi fo a credere, che se tali due sommi avessero voluto, od osato spingere alquanto più oltre il loro riflessivo ragionamento, avrebbero essi indubitabilmente assegnato per principalissima cagione di una tale intera rovina la ereditaria nobiltà.
Che se le dissensioni, o per dir meglio le disparità di opinioni, sono necessarie in una repubblica per mantenervi la vita e la libertà, bisogna pur confessare che le disparità d'interessi dannosissime vi riescono, e di necessità mortifere ogniqualvolta l'uno dei due diversi interessi interamente la vince.
Ora, mi pare innegabile, che ogni primazìa ereditaria di pochi genera per forza in quei pochi un interesse di conservazione e di accrescimento, diverso ed opposto all'interesse di tutti.
Ed ecco il vizio radicale, per cui ogniqualvolta in uno stato esisterà una classe di nobili e di sacerdoti, a parte dal popolo, saranno questi lo scandalo, la corruzione, e la rovina di tutti: e i nobili, per essere ereditarj, riusciranno quasi più dannosi che i sacerdoti, i quali sono elettivi soltanto: ma, per dire il vero, abbondantemente suppliscono a ciò i sacerdoti, colle loro ereditarie impolitiche massime, che da ogni loro individuo in un colla tonaca e col piviale si assumono; oltre che, per maggiormente perfezionare questo comune danno, le più cospicue sacerdotali dignità sogliono anche cadere esclusivamente nelle mani dei nobili: dal che ne risulta, che i sacerdoti doppiamente dannosi riescono al pubblico bene.
E benché in Inghilterra vi siano per ora, e nobili e libertà, non mi rimuovo io perciò in nulla da questo mio su mentovato parere.
Si osservi da prima, che in Inghilterra i veri nobili antichi, nelle spesse e sanguinose rivoluzioni erano presso che tutti spenti; che i nuovi nobili, usciti di fresco dal popolo per favor del re, non possono in un paese libero assumere né in una né in due generazioni quella superbia e quello sprezzo del popolo stesso, fra cui serbano essi ancora i loro parenti ed amici; quella superbia, dico, che vien bevuta col latte dai nobili antichi, interamente staccati nelle nostre tirannidi da tempo immemorabile dal popolo, di cui sono lungamente stati gli oppressori e tiranni.
Si osservi in oltre, che i nobili in Inghilterra, presi in se stessi, sono meno potenti del popolo; e che, uniti col popolo, sono più che il re; ma che, uniti col re, non sono però mai più che il popolo.
Si osservi in oltre, che se in alcuna cosa la repubblica inglese pare più saldamente costituita che la romana, si è nell'essere in Inghilterra la dissensione permanente e vivificante, non accesa fra i nobili e il popolo come in Roma, ma accesa bensì fra il popolo e il popolo; cioè, fra il ministero e chi vi si oppone.
Quindi, non essendo questa dissensione generata da disparità di ereditario interesse, ma da disparità di passeggera opinione, ella vien forse a giovare assai più che a nuocere; poiché nessuno talmente aderisce a una parte, ch'egli non possa spessissimo passare dalla contraria; nessuna delle due parti avendovi interessi permanentemente opposti, e incompatibili col vero bene di tutti.
Una nobiltà dunque così felicemente rattemperata, come la inglese lo pare, per certo riesce assai meno nociva che ogni altra; e al potersi veramente far utile al pubblico, altro forse non le mancherebbe che di non essere ereditaria.
Una classe di uomini principali, e non amovibili membri del governo, ov'ella fosse creata dalla vera virtù e dai liberi suffragj di tutti, vi riuscirebbe veramente onorevole, e giustamente onorata; e grandissima emulazione di virtù si verrebbe ad accendere fra i concorrenti ad essa.
Ma, se disgraziatamente ereditaria una tal classe si ammette, ancorch'ella si creasse da liberi e virtuosi suffragj, tuttavia ad ogni individuo inglese che verrà creato nobile ereditario, si perderà per tal mezzo una intera stirpe, che così viene staccata dall'interesse comune, deviata dal vantaggio di tutti, e privata di ogni emulazione al ben fare.
Quindi è, che i nobili in Inghilterra, ancorché alquanto meno dannosi che nelle tirannidi, potendovi pure essere moltiplicati dal re ad arbitrio suo, e senza alcun limite; credendosi essi maggiori del popolo; essendovi e più ricchi, e più sazj, e più oziosi, e più guasti assai che non è il popolo; i nobili in Inghilterra saranno in ogni tempo maggiormente propensi all'autorità del re, il quale creati gli ha e spegnerli non potrebbe, che non all'autorità del popolo, il quale non può creargli e li potrebbe pure distruggere.
In Inghilterra perciò (come sempre sono stati altrove) i nobili saranno, o già sono, i corrompitori della libertà; ove, prima di ciò, abbattuti maggiormente non siano dal popolo.
Ma, non essendo la repubblica il mio tema, abbastanza, e troppo lungamente forse, ho io parlato fin qui dei nobili nelle repubbliche.
Mi convien dunque ora lungamente ragionare dei nobili nelle moderne nostre tirannidi.
Distrutto il romano imperio, ne furono, come ognun sa, divise le provincie fra diversi popoli; ed infiniti stati da quell'immenso stato nascevano.
Ma, in tutti insorgeva una nuova specie di governo fino allora ignota, in cui molti piccioli tiranni rendendo omaggio ad un solo e maggiore, teneano, sotto il titolo di feudatarj, nella oppressione e servitù i varj lor popoli.
Alcuni di questi tiranni feudatarj divennero così potenti, che ribellatisi al loro sovrano, si crearono stato a parte; e non pochi dei presenti tiranni d'Europa son della stirpe di quei signorotti.
E, per contraria vicenda, molti dei tiranni sovrani si fecero altresì col tempo abbastanza potenti, per distruggere o spodestare affatto quei secondi tiranni, e rimanere essi soli sovrani.
Comunque ciò fosse, il soggiacere al tiranno maggiore, o ai tirannelli, non sollevò mai il popolo dal peso delle sue catene: anzi, è verisimile che, assicurato ed ingrandito il loro stato, i tiranni maggiori, avendo meno rispetti, più illimitata potenza, e minori nemici, ne divennero con molta più impunità e sicurezza oppressori del loro misero gregge.
Ma, quanto erano stati da temersi pel tiranno quei nobili feudatarj, finché aveano avuto autorità e forza; quanto erano stati ostacolo, e in un certo modo freno, alla compiuta tirannide di quel solo, altrettanto poi ne divennero essi la base e il sostegno, tosto che rimasero spogliati dell'autorità e della forza.
I tiranni si prevalsero da prima del popolo stesso per abbassare i signorotti; ed il popolo che avea da vendicar tante ingiurie, volonteroso seguitò l'animosità di quel solo e maggior tiranno contro ai tanti e minori.
Allora, qual dei signorotti si dette per accordo al tiranno, e quale contr'esso rivolse le armi.
Ma, o patteggiati, o vinti ch'ei fossero, tutti, od i più, coll'andar del tempo soggiacquero.
Non si estinse tuttavia interamente mai quel male che ridondava da questa secondaria tirannide feudale; non si scemò punto la servitù per il popolo; notabilmente si accrebbe bensì l'autorità e la forza del tiranno.
Conobbero i tiranni la necessità di mantenere una classe fra essi ed il popolo, che paresse alquanto più potente che il popolo, e fosse assai meno potente di loro: e benissimo conobbero che distribuendo fra costoro gli onori tutti e le cariche, diverrebbero questi col tempo i più feroci e saldi satelliti della loro tirannide.
Né s'ingannarono in tal fatto i tiranni.
I nobili, spogliati affatto della loro autorità e forza, ma non interamente delle loro ricchezze e superbia, manifestamente conobbero che non potevano essi nella tirannide continuare ad essere tenuti maggiori del popolo, se non se risplendendo della luce del tiranno.
L'impossibilità di riacquistare l'antica potenza li costrinse ad adattare la loro ambizione alla necessità ed ai tempi.
Dal popolo, che non s'era certamente scordato delle loro antiche oppressioni; dal popolo, che gli abborriva perché li credeva ancora troppo più potenti di lui; dal popolo in somma, troppo avvilito per soccorrergli ancor che il volesse, videro chiaramente i nobili che non v'era luogo a sperarne mutazione alcuna favorevole a loro.
Si gittarono dunque interamente in braccia al tiranno; ed egli non li temendo oramai, e vedendo quanto potevano riuscire utili alla propagazione della tirannide, li prelesse ad essere i depositarj e il sostegno.
E questa è la nobiltà, che nelle tirannidi d'Europa tutto giorno poi vedesi così insolente col popolo, e così vil coi tiranni.
Questa classe, in ogni tirannide, è sempre la più corrotta; ella è perciò l'ornamento principalissimo delle corti, il maggior obbrobrio della servitù, e il giusto ludibrio dei pochi che pensano.
Degeneri dai loro avi nella fierezza, i nobili sono gl'inventori primieri d'ogni adulazione, d'ogni più vile prostituzione al tiranno: ma non tralignano già essi nella superbia e crudeltà contro al popolo.
Anzi, vie più inferociti per la loro perduta potenza effettiva, lo tiranneggiano quanto più sanno e possono con i flagelli stessi del tiranno, se egli lo permette; e se egli lo vieta, (il che di rado accadeva fino allo stabilimento della perpetua milizia) non lasciano pure di opprimere il popolo di furto con quanta prepotenza più possono.
Ma, dallo stabilimento in poi dei perpetui eserciti in Europa, i tiranni vedendosi armati e effettivamente potenti, hanno incominciato a tenere in assai minor conto la nobiltà, e a sottoporla anch'essa alla giustizia non meno che il popolo, allor quando ad essi così giova, o piace, di fare.
La vista politica del tiranno nel volersi mostrare imparziale pe' nobili, è stata di riguadagnarsi il popolo, e di riaddossare ai nobili l'odiosità degli antecedenti governi.
Ed io mi fo a credere, che se il tiranno potesse amare una qualche classe dei sudditi suoi, ove fossero egualmente vili e obbedienti i nobili ed il popolo, egli pure inclinerebbe più per il popolo; ancorché pur sempre sentisse, che a tenere il popolo a freno egli è, in un certo modo, necessarissimo il naturale argine della nobiltà, cioè, dei più ricchi ed illustri.
E di questo semiamore, o sia minore odio del tiranno pel popolo, ne assegnerei la seguente ragione.
La nobiltà, per quanto sia ignorante e mal educata, pure, come alquanto meno oppressa e più agiata, ella ha il tempo ed i mezzi di riflettere alquanto più che il popolo; ella si avvicina molto più al tiranno; ella ne studia e ne conosce più l'indole, i vizj, e la nullità.
Si aggiunga a questa ragione, il bisogno che il tiranno ancora pur crede di aver talvolta dei nobili; e da questo tutto si verrà facilmente ad intendere quell'innato odio contr'essi, che sta nel cuor del tiranno; il quale non può né dee voler che si pensi; né può, molto meno, aggradire chiunque lo spia e conosce.
Nasce da questo intrinseco odio quella pompa di popolarità, che molti dei moderni tiranni europei van facendo; come anche le tante mortificazioni, che vanno compartendo ai lor nobili.
Il popolo, soddisfatto di vedere abbassati i suoi signorotti, ne sopporta più volentieri il comune oppressore, e la divisa oppressione.
I nobili rodono la catena; ma troppo corrotti, effemminati e deboli sono, per romperla.
Il tiranno se ne sta fra' due, distribuendo ad entrambi a vicenda, frammiste a molte battiture, alcune fallaci dolcezze; e così vie più sempre corrobora egli e perpetua la tirannide.
Non distrugge egli i nobili, se non se a minuto i più antichi, per riprocrearne dei nuovi, non meno orgogliosi col popolo, ma più soggetti e arrendevoli a lui: e non li distrugge il tiranno, perché li crede (ed il sono) essenzialissima parte della tirannide.
Non gli teme, perch'egli è armato: non gli stima, perché li conosce: non gli ama, perché lo conoscono.
Il popolo non mormora dei gravosi eserciti, perch'egli non ragiona, e ne trema: ma con molta gioja bensì per via degli eserciti vede i nobili starsi non meno soggetti e tremanti di lui.
I nobili ereditarj son dunque una parte integrante della tirannide, perché non può allignar lungamente libertà vera, dove esiste una classe primeggiante, che tale non sia per virtù ed elezione.
Ma la milizia perpetua, fattasi oramai parte della tirannide più integrante ancora di quel che lo sia la nobiltà, ha tolto ai nobili la possibilità di far fronte al tiranno, e diminuita in loro quella di opprimere il popolo.
CAPITOLO DUODECIMO
DELLE TIRANNIDI ASIATICHE, PARAGONATE COLL'EUROPEE
Pare, che molte tirannidi d'oriente smentiscano quanto ho detto finora circa alla necessità dei nobili inerente all'essenza della tirannide; non vi essendo in esse alcuna nobiltà ereditaria; né ammettendo esse a prima vista altra distinzione di ordini, che un signor solo e tutti gli altri servi egualmente.
E, a dir vero, l'Asia in ogni tempo non solo non conobbe libertà, ma soggiacque quasi sempre tutta a tirannidi inaudite, esercitate in regioni vastissime; in cui non si scorge nessun viver civile, nessuna stabilità, e nessune leggi, che non soggiacciano al capriccio del tiranno, eccettuatene tuttavia le religiose.
Ma io, con tutto ciò, non dispero di poter dimostrare che la tirannide in ogni tempo e luogo è tirannide; e che usando ella gli stessi mezzi per mantenersi, produce, ancorché sotto diverso aspetto, gli stessissimi effetti.
Non esaminerò perché siano tali i popoli dell'oriente; le ragioni, che riuscirebbero assai più congetturali che dimostrative, o ne sono state assegnate, o lo verranno da altri più dotti e profondi che non son io.
Ma, partendo dal dato, io dico; che la paura, la milizia, e la religione, innegabilmente sono esse pure le tre basi e molle delle tirannidi asiatiche, come delle europee; e che sono esse il più saldo appoggio di quelli e di questi tiranni.
Il falso onore, di cui ampiamente ho parlato, non pare da prima occupare alcun luogo nella mente e nel cuore degli orientali; ma pure, se bene si esamina, si vedrà che lo conoscono anch'essi e lo praticano.
Per quei popoli il tiranno è un articolo vero di fede; essi tengono la religione assai più in pregio di noi: quindi in tutto ciò che spetta all'uno o all'altra dimostrano d'avere moltissimo onore.
Non ci è esempio di maomettani che si facciano cristiani come tutto dì v'è esempio di cristiani che rinnegano.
In tal modo, a tutto ciò che la nobiltà ereditaria, e la milizia perpetua (quali le abbiamo in Europa) potrebbero operare di più in favore delle orientali tirannidi, vi suppliscono dunque ampiamente le asiatiche religioni; e massime la maomettana, ch'è più creduta, più osservata, e assai più potente ancora, che non lo sia oramai in nessun luogo la nostra.
Ma, ancorché la nobiltà ereditaria non sussista in gran parte d'oriente (toltine però la Cina, il Giappone, e molti stati dell'Indie, il che certamente non è picciola parte dell'Asia) nondimeno nei paesi maomettani gli strumenti principali della tirannide sono, come nella cristianità, i sacerdoti, i capi della milizia, i governatori delle provincie, e i barbassori di corte: e costoro tutti, benché non vi siano nati nobili, si debbono pure riputare come una classe, che essendo più che il popolo e meno che il tiranno, e accattando dal tiranno il lustro e l'autorità, viene per l'appunto ad occupare lo stessissimo luogo nelle tirannidi asiatiche, che occupa la nobiltà ereditaria nelle europee.
Vero è, che fra quei nobili d'Asia, morendo essi di morte naturale o violenta, cessa nei loro figli la nobiltà: ma tosto pure alle loro cariche ne sottentran degli altri, e quanti mai ne verranno, tutti, ancorché d'origine plebea, assumeranno tosto il pensare dei nobili; il quale non è altro che di opprimere i popoli, e tenersi col tiranno.
Ed anzi, questi nobili recenti, di tanto più feroci saranno, quanto l'uomo che è nato più vile, che è stato più oppresso, e che ha conosciuto più eguali, diviene assai più superbo e feroce ogniqualvolta egli, per altra via che quella della virtù, perviene ad innalzarsi sovr'essi.
Ma certamente la virtù non potrà essere mai la scala agli onori e all'autorità, in nessuna tirannide.
L'effetto vien dunque ad essere lo stesso in oriente come in occidente; poiché fra il popolo e il tiranno entrano pur sempre di mezzo i nobili (o ereditarj siano o fattizj) e la permanente milizia: due classi, senza di cui non v'è né vi può esser tirannide; e colle quali non v'è, né vi può essere lungamente mai libertà.
Ma mi si dirà forse, che in ogni democrazia, od in qualsivoglia mista repubblica, i sacerdoti, i magistrati, ed i capi della milizia, sono parimente sempre maggiori del popolo.
A ciò è da rispondersi, distinguendo: Costoro nella repubblica sono ciascuno maggiori d'ogni privato individuo; ma minori dell'universale, essendo eletti da tutti, o dal più gran numero; essendo eletti per lo più a tempo, e non a vita; sottoposti alle leggi, e costretti a dare, quando che sia, un rigido conto di se stessi.
Ma costoro, nella tirannide, sono maggiori, e d'ogni individuo, e dell'universale; perché sono eletti da un solo che può più di tutti; perché non danno conto del loro operare, se non a lui; e perché in somma niun'altra cosa vien loro apposta a delitto dal tiranno, fuorché l'aver dispiaciuto, o arrecato danno a lui solo: il che chiaramente vuol dire per lo più, l'aver giovato, o tentato di giovare, a tutti od ai più.
Ma, se io abbastanza ho dimostrato (come a me pare) che nelle tirannidi dell'oriente i tiranni adoperano gli stessi mezzi che in queste, esaminiamo ora quali siano le apparenti differenze tra gli effetti; perché vi siano; e se elle siano in favore o in disfavore degli europei.
Mostransi di rado al pubblico gli orientali tiranni, e inaccessibili sono in privato; i nostri veggiamo ogni giorno: ma il vederli non scema però in noi la paura, né in essi la potenza; e benché lo avvezzarci a quell'oggetto diminuisca alquanto la stupida venerazione per esso, l'odio nondimeno dee pur sempre rimanere il medesimo, e di gran lunga maggiore il fastidio e la noja.
Difficilissimo è l'accostarsi ai tiranni d'oriente; ai nostri, a qual con lettere o suppliche, a quale in persona, possiamo assai facilmente ogni giorno accostarci: ma, e che ne ridonda? son forse fra noi meno oppressi gl'innocenti ed i buoni? son forse più conosciuti i rei, allontanati, o puniti?
Gl'impieghi, gli onori, le dignità si conferiscono in oriente agli schiavi più graditi al padrone.
Il solo capriccio li dona, e il solo capriccio li ritoglie; ma un ministro o qualunque altro, che spogliato venga di alcuno importante impiego, viene altresì privato per lo più della vita.
E lo stesso capriccio conferisce nel nostro occidente gli stessi onori e dignità a quegli schiavi più dotti nell'arte di piacere e compiacere al tiranno: e tanto più vili schiavi costoro, e degni in ciò veramente di esserlo, quanto, non essendo gli europei, come gli orientali, nati nella servitù effettiva dei serragli, di buon animo spontaneamente vanno porgendo le mani ed il collo al più obbrobrioso di tutti i gioghi.
Ma, se i nostri tiranni, nel toglier loro la carica non li privano a un tempo della vita, ciò forse non accade per altra ragione, se non perché questi scelti servi europei, a sì manifeste prove si sono dimostrati per vili, che i tiranni nostri in nessun modo non possono, né debbono, in nulla temerli.
Nelle tirannidi dell'oriente, pochissime leggi, oltre alle religiose, vi sussistono: moltissime se ne ha nelle nostre; ma ogni giorno si mutano, s'infrangono, si annullano, e per fin si deridono.
Qual è men vergognosa ed infame a soffrirsi delle due seguenti usurpazioni? o d'uno che ti oltraggia e ti opprime, perché tu, non credendo che altrimenti una società esistere potesse, glie ne hai conceduto illimitatamente la signoria, né hai provveduto in nessuna maniera a moderargliela; o d'uno che ti fa lo stesso e anche peggio, benché tu abbi provveduto con impotenti leggi, e con gl'inutili suoi giuramenti, che egli opprimere ed oltraggiare non ti potesse?
Negli orientali governi nulla vi ha di sicuro, se non la sola servitù: ma, che v'ha egli di sicuro nei nostri? I tiranni europei sono di gran lunga più umani? cioè, hanno i tiranni europei molto minore il bisogno di essere crudeli.
Nell'oriente, le scienze e le lettere proscritte, i regni spopolati, la stupidità e miseria del popolo, nessuna industria, nessun commercio; non son tutte queste, e tante altre, le innegabili prove del vizio distruttivo, che sta in quei governi? Rispondo, distinguendo di nuovo.
La religion maomettana, come più inerte e meno curante della nostra, riesce altresì molto più distruttiva di essa.
Ma in quelle parti d'oriente, dove non ci è maomettismo, come specialmente alla Cina e al Giappone, tutti questi soprammentovati lagrimevoli effetti, che stoltamente noi assegniamo alla sola orientale tirannide, in un'altra orientale e niente minore tirannide, vi si vedono cessare; o almeno non v'esistere maggiori che nelle tirannidi europee.
Parmi adunque, che sia da conchiudere; che la tirannide nell'Asia, e principalmente nel maomettismo, suol riuscire più oppressiva che nell'Europa: ma bisogna ad un tempo stesso confessare; che il tiranno e quelli che fan le sue parti, assai meno sicuri vivono in Asia che non in Europa.
Quindi dall'essere le nostre tirannidi alquanto più miti, se a noi ne ridonda pure qualche vantaggio, amaramente ci vien compensato dalla maggiore infamia che sta nel servire, sapendolo; e dalla quasi impossibilità, in cui il nostro effemminato vivere ci pone, di distruggere, di mutare o di crollare almeno d'alquanto le nostre tirannidi.
Noi coltiviamo le scienze, le lettere, il commercio, le arti tutte, ed ogni civile costume; negar non si può: ma noi colti, noi dotti, noi in somma che siamo il fiore degli abitanti di questo globo, noi soffriam pure tacitamente quello stesso tiranno, che soffrono (è vero) ma che pur anche talvolta robustamente distruggono quegli asiatici popoli, rozzi, ignoranti, e, a parer nostro, di tanto più vili di noi.
Chi non sa che vi è stata, e che vi può essere libertà, non conosce e non sente la servitù; e chi questa non sente, scusabilissimo è se la soffre.
Ma che direm noi di que' popoli, che sanno, e sentono, e fremono di essere servi; e la servitù pure si godono, e tacciono?
La differenza dunque, che passa fra l'Asia e l'Europa, si è; che i tiranni orientali tutto possono, e tutto fanno; ma sono anche spesso privati del trono ed uccisi: gli occidentali tiranni possono tutto, fanno soltanto ciò che a loro occorre di fare, e stanno quasi sempre inespugnabili, securi, e impuniti.
I popoli d'Asia di niuna loro cosa sicuri possessori sen vivono; ma credono in parte che così debba essere; e dove in certo modo contro all'universale si ecceda, si vendicano almeno del tiranno, benché mai non ispengano, né minorino, la tirannide.
I popoli d'Europa niuna cosa possedono con maggior sicurezza che quelli dell'Asia, benché vengano spogliati del loro in una diversa e più cortese maniera; ma questi sanno quali siano i dritti dell'uomo; ed ignorar non li possono, poiché li vedono felicemente esercitati da alcune pochissime nazioni, che vivono libere in mezzo alla universal servitù: e benché ogni giorno si veda nelle tirannidi europee (massime in quanto spetta alle pecuniarie gravezze) eccedere dal tiranno ogni modo, nondimeno per codardia e viltà dei nostri popoli non si ardisce mai tentare nessuna lodevol vendetta, non che si ardiscano tentare di riassumere i naturali diritti, così inutilmente da lor conosciuti.
CAPITOLO DECIMOTERZO
DEL LUSSO
Non credo, che mi sarà difficile il provare, che il moderno lusso in Europa sia una delle principalissime cagioni, per cui la servitù, gravosa e dolce ad un tempo, vien poco sentita dai nostri popoli, i quali perciò non pensano né si attentano di scuoterla veramente.
Né intendo io di trattare la questione, oramai da tanti egregj scrittori esaurita, se sia il lusso da proscriversi o no.
Ogni privato lusso eccedente, suppone una mostruosa diseguaglianza di ricchezze fra' cittadini, di cui la parte ricca già necessariamente è superba, necessitosa e avvilita la povera, e corrottissime tutte del pari.
Onde, posta questa disuguaglianza, sarà inutilissimo e forse anche dannoso il voler proscrivere il lusso: né altro rimedio rimane contr'esso, che il tentare d'indirizzarlo per vie meno ree ad un qualche scopo men reo.
M'ingegnerò io bensì di provare in questo capitolo; che il lusso, conseguenza naturalissima della ereditaria nobiltà, nelle tirannidi riesce anch'egli una delle principalissime basi di esse; e che dove ci è molto lusso non vi può sorgere durevole libertà; e che dove ci è libertà, introducendovisi moltissimo lusso, questo in brevissimo tempo corromperla dovrà, e quindi annullarla.
Il primo e il più mortifero effetto del privato lusso, si è; che quella pubblica stima che nella semplicità del modesto vivere si suole accordare al più eccellente in virtù, nello splendido vivere vien trasferita al più ricco.
Né d'altronde si ricerchi la cagione della servitù, in tutti quei popoli, fra cui le ricchezze danno ogni cosa.
Ma pure, la uguaglianza dei beni di fortuna essendo presso ai presenti europei una cosa chimerica affatto, si dovrà egli conchiudere che non vi può essere libertà in Europa, perché le ricchezze vi sono tanto disuguali? e possono elle non esserlo, atteso il commercio, e il lucro delle pubbliche cariche? Rispondo; che difficilmente vi può essere o durare una vera politica libertà, là dove la disparità delle ricchezze sia eccessiva; ma che pure, due mezzi vi sono per andarla strascinando (dove ella già fosse allignata) in mezzo a una tale disparità, ancorché il lusso sterminatore tutto dì la libertà vi combatta.
Il primo di questi mezzi sarà, che le buone leggi abbiano provveduto, o provvedano, che la eccessiva disuguaglianza delle ricchezze provenga anzi dalla industria, dal commercio, e dall'arti, che non dall'inerte accumulamento di moltissimi beni di terra in pochissime persone, alle quali non possono questi beni pervenire in tal copia, senza che infiniti altri cittadini non siano spogliati della parte loro.
Con un tale compenso le ricchezze dei pochi non occasionando allora la povertà totale dei più, verrà pure ad esservi un certo stato di mezzo, per cui quel tal popolo sarà diviso in pochi ricchissimi, in moltissimi agiati, ed in pochi pezzenti.
Tuttavia, questa divisione non può quasi mai nascere, o almeno sussistere, se non in una repubblica; in vece che la divisione in alcuni ricchissimi, e in moltissimi pezzenti, dee nascere, e tutto dì si vede sussistere, nelle tirannidi, le quali di una tale disproporzione si corroborano.
Il secondo mezzo di rettificare il lusso, e diminuirne la maligna influenza sul dritto vivere civile, sarà di non permetterlo nelle cose private, e d'incoraggirlo e onorarlo nelle pubbliche.
Di questi due mezzi le poche repubbliche d'Europa si vanno pur prevalendo, ma debolmente ed invano; come quelle che sono corrottissime anch'esse dal fastoso e pestifero vivere delle vicine tirannidi.
E questi altresì sono i due mezzi, che i nostri tiranni non adoprano, e non debbono adoprar mai contro al lusso; come quelli che in esso ritrovano uno dei più fidi satelliti della tirannide.
Un popolo misero e molle, che si sostenta col tessere drappi d'oro e di seta, onde si cuoprano poi i pochi ricchi orgogliosi; di necessità un tal popolo viene a stimar maggiormente coloro, che più consumandone, gli dan più guadagno.
Così, viceversa, il popolo romano che solea ritrarre il suo vitto dalle terre conquistate coll'armi, e fra lui distribuite poi dal senato, sommamente stimava quel console o quel tribuno, per le di cui vittorie più larghi campi gli venivano compartiti.
Essendo dunque dal privato lusso sovvertite in tal modo le opinioni tutte del vero e del retto; un popolo, che onora e stima maggiormente coloro, che con maggiore ostentazione di lusso lo insultano, e che effettivamente lo spogliano, benché in apparenza lo pascano; un tal popolo, potrà egli avere idea, desiderio, diritto, e mezzi, di riassumere libertà?
E que' grandi, (cioè chiamati tali) che i loro averi a gara profondono, e spesso gli altrui, per vana pompa assai più, che per vero godimento; quei grandi, o sia ricchi, a cui tante superfluità si son fatte insipide, ma necessarie; que' ricchi in somma, che a mensa, a veglia, a' festini, ed a letto, traggono fra gli orrori della sazietà la loro effemminata, tediosa, ed inutile vita; que' ricchi, potrann' eglino, più che la vilissima feccia del popolo, innalzarsi a conoscere, a pregiare, desiderare, e volere la libertà? Costoro primi ne piangerebbero; e assumere non saprebbero esistenza nessuna, se non avessero un intero ed unico tiranno, che perpetuando il dolce loro ozio, alla lor dappocaggine comandasse.
Inevitabile dunque, e necessario è il lusso nelle tirannidi.
E crescono in esse tutti i vizj in proporzione del lusso, che è il principe loro; del lusso, che tutti li nobilita, coll'addobbarli; che a tal segno confonde i nomi delle cose, che la disonestà dei costumi chiamasi fra' ricchi, galanteria; l'adulare, un saper vivere; l'esser vile, prudenza; l'essere infame, necessità.
E di questi vizj tutti, e dei molti più altri ch'io taccio, i quali hanno tutti per base, e per immediata cagione il lusso, chi maggiormente ne gode, chi ne ricava più manifesto e immenso il vantaggio? I tiranni, che da essi ricevono, e per via di essi in eterno si assicurano, il pacifico ed assoluto comando.
Il lusso dunque (che io definirei; L'immoderato amore ed uso degli agj superflui e pomposi) corrompe in una nazione ugualmente tutti i ceti diversi.
Il popolo, che ne ritrae anch'egli qualche apparente vantaggio, e che non sa e non riflette, che per lo più la pompa dei ricchi non è altro che il frutto delle estorsioni fatte a lui, passate nelle casse del tiranno, e da esso quindi profuse fra questi secondi oppressori; il popolo, è anch'egli necessariamente corrotto dal tristo esempio dei ricchi, e dalle vili oziose occupazioni con che si guadagna egli a stento il suo vitto.
Perciò quel fasto dei grandi che dovrebbe sì ferocemente irritarlo, al popolo piace non poco, e stupidamente lo ammira.
Che gli altri ceti debbano essere corrottissimi dal lusso che praticano, inutile mi pare il dimostrarlo.
Corrotti in una nazione tutti i diversi ceti, è manifestamente impossibile che ella diventi o duri mai libera, se da prima il lusso che è il più feroce corruttore di essa, non si sbandisce.
Principalissima cura perciò del tiranno debb'essere, ed è, (benché alle volte la stolta ostentazione del contrario ei vada facendo) l'incoraggire, propagare, ed accarezzare il lusso, da cui egli ritrae più assai giovamento che da un esercito intero.
E il detto fin qui, basti per provare che non v'ha cosa nelle nostre tirannidi, che ci faccia più lietamente sopportare e anche assaporare la servitù, che l'uso continuo e smoderato del lusso: come pure, a provare ad un tempo, che dove radicata si è questa peste, non vi può sorgere od allignar libertà.
Si esamini ora, se là, dove già è stabilita una qualunque libertà, possa allignare il lusso; e qual dei due debba cedere il campo.
S'io bado alle storie, in ogni secolo, in ogni contrada, vedo sempre sparire la libertà da tutti quei governi che han lasciato introdurre il lusso dei privati; e mai non la vedo robustamente risorgere fra quei popoli, che son già corrotti dal lusso.
Ma, siccome la storia di tutto ciò che è stato non è forse assolutamente la prova innegabile di tutto ciò che può essere; a me pare, che alla disuguaglianza delle ricchezze nei cittadini non ancora interamente corrotti, in quel brevissimo intervallo in cui possono essi mantenersi tali, i governi liberi non abbiano altro rimedio da opporre più efficace che la semplice opinione.
Quindi volendo essi concedere a queste mal ripartite ricchezze uno sfogo che ad un tempo circolare le faccia, e non distrugga del tutto la libertà, persuaderanno ai ricchi d'impiegarle in opere pubbliche; onoreranno questo solo loro fasto, annettendo un'idea di disprezzo a qualunque altro uso che ne facessero i ricchi nella loro privata vita, oltre quella decenza e quegli agj ragionevoli, richiesti dal loro stato, e compatibili colla pubblica decenza.
I liberi governi persuaderanno ad un tempo agli uomini poveri, (non intendo con ciò dire, ai pezzenti) che non è delitto né infamia l'esser tali; e lo persuaderan facilmente, coll'accordare a questi non meno che agli altri l'adito a tutti gli onori ed uffizj.
E non per insultare alla miseria escludo io principalmente i necessitosi; ma perché costoro, come troppo corrottibili, e per lo più vilmente educati, non sono meno lontani dalla possibilità del dritto pensare e operare, di quel che lo siano, per le ragioni appunto contrarie, i ricchissimi.
Ma queste saggie cautele riusciranno pur anche inutili a lungo andare.
La natura dell'uomo non si cangia; dove ci sono ricchezze grandi e disugualmente ripartite, o tosto o tardi dee sorgere un gran lusso fra i privati, e quindi una gran servitù per tutti.
Questa servitù difficilmente da prima si può allontanare da un popolo dove alcuni ricchissimi siano, e poverissimi i più; ma quando poi ella si è cominciata a introdurre, provato che hanno i ricchissimi quanto la universal servitù riesca favorevole al loro lusso, vivamente poi sempre si adoprano affinch'ella non si possa più scuoter mai.
Sarebbe dunque mestieri, a voler riacquistare durevole libertà nelle nostre tirannidi, non solamente il tiranno distruggere, ma pur troppo anche i ricchissimi, quali che siano; perché costoro, col lusso non estirpabile, sempre anderan corrompendo se stessi ed altrui.
CAPITOLO DECIMOQUARTO
DELLA MOGLIE E PROLE DELLA TIRANNIDE
Come in un mostruoso governo, dove niun uomo vive sicuro né del suo, né di se stesso, ve ne siano pure alcuni che ardiscano scegliere una compagna della propria infelicità, e perpetuare ardiscano la propria e l'altrui servitù col procrearvi dei figli, difficil cosa è ad intendersi, ragionando; ed impossibile parrebbe a credersi, se tutto dì nol vedessimo.
Dovendone addur le ragioni, direi; che la natura, in ciò più possente ancora che non è la tirannide, spinge gl'individui ad abbracciar questo conjugale stato con una forza più efficace di quella con cui la tirannide da esso gli stoglie.
E non volendo io ora distinguere se non in due soli ceti questi uomini soggiogati da un tale governo, cioè in poveri e ricchi; direi, che si ammogliano nella tirannide i ricchi, per una loro stolta persuasione che la stirpe loro, ancorché inutilissima al mondo e spesso anche oscura, vi riesca nondimeno necessaria, e gran parte del di lui ornamento componga; i poveri, perché nulla sanno, nulla pensano, e in nulla possono oramai peggiorare il loro infelicissimo stato.
Lascio per ora da parte i poveri; non già perché sprezzabili siano, ma perché ad essi nuoce assai meno il far come fanno.
Parlerò espressamente de' ricchi; non per altra ragione, se non perché essendo, o dovendo costoro essere meglio educati; avendo essi in qualche picciola parte conservato il diritto di riflettere; e non potendo quindi non sentire la loro servitù; debbono i ricchi, quando non siano del tutto stolidi, moltissimo riflettere alle conseguenze del pigliar moglie nella tirannide.
E per fare una distinzione meno spiacente, o meno oltraggiosa per gli uomini, che non è quella di poveri e ricchi, la farò tra gli enti pensanti, ed i non pensanti.
Dico dunque, che chi pensa, e può campare senza guadagnarsi il vitto, non dee mai pigliar moglie nella tirannide; perché, pigliandovela, egli tradisce il proprio pensare, la verità, se stesso, e i suoi figli.
Non è difficile di provare quanto io asserisco.
Suppongo, che l'uomo pensante dee conoscere il vero; quindi indubitabilmente si dee dolere non poco in se stesso di esser nato nella tirannide; governo, in cui nulla d'uomo si conserva oltre la faccia.
Ora, colui che si duole di esservi nato, avrà egli il coraggio, o per dir meglio, la crudeltà, di farvisi rinascere in altrui? di aggiungere al timore che egli ha per se stesso, l'avere a temere per la moglie, e quindi pe' figli? Parmi ciò un moltiplicare i mali a tal segno, che io non potrò pur mai credere, che chi piglia moglie nella tirannide, pensi, e conosca pienamente il vero.
Il primo oggetto del matrimonio egli è, senza dubbio, di avere una fedele e dolce compagna delle private vicende, la quale dalla morte soltanto ci possa esser tolta.
Supponendo ora il non supponibile, cioè che in una tirannide non fossero corrotti i costumi, onde questa compagna potesse non aver altra cura né desiderio, che di piacere al marito; chi può assicurare costui, che ella dal tiranno, o dai suoi tanti potenti satelliti, non gli verrà sedotta, corrotta, o anche tolta? Collatino, parmi, è un esempio chiaro abbastanza per dimostrare la possibilità di un tal fatto: ma gli alti effetti che da quello stupro ne nacquero, sono ai tempi nostri assai meno sperabili, benché le cagioni tutto dì ne sussistano.
Mi odo già dire; Che il tiranno non può voler la moglie di tutti; che è caso anche raro nei nostri presenti costumi, ch'egli cerchi a sedurne due o tre; e che questo farà egli con promesse, doni, ed onori ai mariti, ma non mai con l'aperta violenza.
Ecco le scellerate ragioni che rassicurano il cuore dei presenti mariti, i quali niun'altra cosa temono al mondo, che di non esser essi quei felici che compreranno a prezzo della propria infamia il diritto di opprimere i meno vili di loro.
Molti secoli dopo Collatino, nelle Spagne, rozze ancora e quindi non molto corrotte, un altro regio stupro ne facea cacciare i tiranni indigeni, e chiamarne de' nuovi stranieri.
Ma nei tempi nostri illuminati e dolcissimi, uno stupro con violenza accader non potrebbe, perché non v'è donna che si negasse al tiranno; e la vendetta qualunque, se egli pure accadesse, ne riuscirebbe impossibile; perché non v'è padre o fratello o marito, che non si stimasse onorato di un tal disonore.
E la verità qui mi sforza a dir cosa, che nelle tirannidi moverà al riso il più degli schiavi, ma che in qualche altro cantuccio del globo, dove i costumi e la libertà rifugiati si siano, moverà ad un tempo dolore, maraviglia, e indegnazione; ed è, che se pure ai dì nostri vi fosse quel tale insofferente e magnanimo, che con memorabile vendetta facesse ripentire il tiranno di avergli fatto un così grave oltraggio, l'universale lo tratterebbe di stolido, d'insensato, e di traditore; e stranezza chiamerebbero in lui il non voler con molti manifesti vantaggi sopportar dal tiranno quella ingiuria stessa, che tutto dì si suole, senza utile niuno, ricevere e sopportar dai privati.
Inorridisco io stesso nel dover riferire queste argute viltà, che sono il più elegante condimento del moderno pensare; e che, con vocabolo francese, lietamente chiamansi SPIRITO: ma nella forza del vero talmente confido, che io ardisco sperare che tornerà pure un tal giorno, in cui, non meno ch'io nello scrivere di tali costumi, inorridiranno i molti nel leggerli.
Se nell'ammogliarsi dunque il primo scopo si è d'aver moglie; ove non si voglia pure confondere (come di tante altre cose si fa) il mantenerla coll'averla; avere non si può, perché se non la tolgono al marito il tiranno, o alcuno de' tanti suoi sgherri, ai quali invano si resisterebbe, gliela tolgono infallibilmente i corrotti scellerati universali costumi, conseguenza necessarissima dell'universal servitù.
Ora, che dirò io dei figli? Quanto più cari essere sogliono i figli che la moglie, tanto più grave e funesto è l'errore di chi procreandoli somministra al tiranno un sì possente mezzo di più per offenderlo, intimorirlo, ed opprimerlo; come a se stesso procaccia un mezzo di più per esserne offeso ed oppresso.
E da una delle due susseguenti sventure è impossibile cosa di preservarsi.
O i figli dell'uomo pensante si educheranno simili al padre; e perciò, senza dubbio, infelicissimi anch'essi: o dal padre riescon dissimili, e infelicissimo lui renderanno.
Nati per le triste loro circostanze al servire, non si possono, senza tradirgli, educare al pensare; ma, nati pur sempre per natura al pensare, non può lo sventurato padre, senza tradire la verità il suo onore e se stesso, educargli al servire.
Qual partito rimane adunque nella tirannide all'uomo pensante, quando egli, per somma sfortuna e inescusabile sconsideratezza, ha dato pur l'essere ad altri infelici? È di tal sorta l'errore, che il pentimento non vale; così terribili ne sono gli effetti e così inevitabili, che le vie di mezzo non bastano.
Bisognerebbe dunque nelle tirannidi, o soffocare i proprj figliuoli appena son nati, o abbandonargli alla pubblica educazione ed al volgar non-pensare.
Questo partito da quasi tutti i moderni padri si siegue, e non è men crudele dell'altro, ma molto è più vile bensì.
E, a chi mi dicesse (ciò che anch'io pur troppo so, ancorch'io padre non sia) che troppo alla natura ripugna il trucidare i proprj figliuoli, risponderei; che ripugna alla natura nostra non meno il ciecamente servire all'arbitrio e alla violenza d'un solo: e se poi così bene al servir ci avvezziamo, questo infame pregio in noi non si accresce, se non se in proporzione che si scemano in noi tutti gli altri naturali e veri pregi dell'uomo.
Quindi è, che i filosofi pensatori fra i popoli liberi nessuna differenza, o pochissima, han posto infra la vita d'un bruto, e quella d'un uomo, che non sia per aver mai libertà, volontà, sicurezza, costumi, ed onore verace.
E tali pur troppo debbono riuscire quei figli, che stoltamente procreati si sono nella tirannide; a cui se il padre non toglie la vita del corpo, necessariamente toglie loro una più nobile vita, quella dell'intelletto e dell'animo: ovvero, se sventuratamente l'una e l'altra in essi del pari coltiva, altro non fa un tal misero padre, che educar vittime per la tirannide.
Conchiudo; che chi ha moglie e prole nella tirannide, tante più volte è replicatamente schiavo, e avvilito, quanti più sono gl'individui per cui egli è sforzato sempre a tremare.
CAPITOLO DECIMOQUINTO
DELL'AMOR DI SE STESSO NELLA TIRANNIDE
La tirannide è tanto contraria alla nostra natura, ch'ella sconvolge, indebolisce, od annulla nell'uomo presso che tutti gli affetti naturali.
Quindi non si ama da noi la patria, perché ella non ci è; non si amano i parenti, la moglie, ed i figli, perché son cose poco nostre e poco sicure; non vi sono veri amici, perché l'aprire interamente il suo cuore nelle cose importanti, può sempre trasmutare un amico in un delatore premiato, e spesso anche (pur troppo!) in un delatore onorato.
L'effetto necessario, che risulta nel cuor dell'uomo dal non potere amar queste cose su mentovate, si è, di amare smoderatamente se stesso.
E parmi, che ne sia questa una delle principali ragioni: dal non essere securo, nasce nell'uomo il timore; dal continuo temere, nascono i due contrarj eccessi; o un soverchio amore, o una soverchia indifferenza per quella cosa che sta in pericolo: nella tirannide, temendo sempre noi tutti per le cose nostre e per noi, ma amando (perché così vuol natura) prima d'ogni altra cosa noi stessi, ne veniamo a poco a poco a temere sommamente per noi, e ogni dì meno per quelle cose nostre, che non fanno parte immediata di noi.
Nelle repubbliche vere, amavano i cittadini prima la patria, poi la famiglia, quindi se stessi: nelle tirannidi all'incontro, sempre si ama la propria esistenza sopra ogni cosa.
Perciò l'amor di se stesso nella tirannide non è già l'amore dei proprj diritti, né della propria gloria, né del proprio onore; ma è semplicemente l'amor della vita animale.
E questa vita, per una non so qual fatalità, nello stesso modo che la vediamo tenersi tanto più cara dai vecchj, i quali oramai l'han perduta, che non dai giovani, a cui tutta rimane; così tanto più riesce cara a chi serve, quanto ella è men sicura, e val meno.
CAPITOLO DECIMOSESTO
SE SI POSSA AMARE IL TIRANNO, E DA CHI
Colui che potrà impunemente offendere tutti, e non essere mai impunemente offeso da chi che sia, sarà per necessità temutissimo, e quindi per necessità abborrito da tutti.
Ma costui potendo altresì beneficare, arricchire, onorare chi più gli piace, chiunque riceve favori da lui non può senza una vile ingratitudine, e senza essere assai peggiore di lui, non amarlo.
Rispondo a ciò, che il tutto è verissimo; e più d'ogni cosa vero è, che chiunque riceve favori dal tiranno suol essergli sempre ingrato nel cuore; ed è quasi sempre assai peggiore di lui.
Dovendone assegnar le ragioni, direi; che il troppo immenso divario fra le cose che il tiranno può dare e quelle che può togliere, rende necessario ed estremo lo abborrimento nei molti oltraggiati, e finto e stentato l'amore nei pochi beneficati.
Egli può dare ricchezze, autorità, e onori supposti; ma egli può togliere tutto ciò ch'ei dà, e di più la vita, e il vero onore; cose, che non è in sua possanza di dare egli mai a nessuno.
Con tutto ciò, la totale ignoranza dei proprj diritti può benissimo far nascere in alcuni uomini questo funesto errore, di amare in un certo modo colui che spogliandoli delle loro più sacre prerogative d'uomo, non toglie però loro la proprietà di alcune altre cose minori; il che, a parer di costoro, egli potrebbe pur anche legittimamente, o almeno con impunità, praticare.
E certo uno stranissimo amore fia questo, e in tutto per l'appunto paragonabile
a quell'amore che si verrebbe ad aver per una tigre, che non ti divorasse potendolo.
Cadranno in questo stupido affetto le genti rozze e povere, che non hanno altra felicità, se non quella di non vedere mai il tiranno, e di neppure conoscerlo; e costoro assai poco verranno a temerlo, perché pochissimo a loro rimane da perdere: onde una certa tal quale giustizia venendo loro amministrata in nome di esso, la loro irriflessiva ignoranza fa loro credere, che senza il tiranno neppur quella semi-giustizia otterrebbero.
Ma non potranno certamente mai pensare in tal modo coloro, che tutto dì se gli accostano, e che ne conoscono l'incapacità o la reità; ancorché ne ritraggano essi splendore, onori, e ricchezze.
Troppo è nota a questi pochi la immensa potenza del tiranno, troppo care tengono essi quelle ricchezze che ne han ricevute, per non temere sommamente colui che le può loro nello stesso modo ritogliere: e il temere e l'odiare sono interamente sinonimi.
Ma pure, il timore, pigliando nelle corti la maschera dell'amore, vi si viene a comporre un misto mostruosissimo affetto, degno veramente dei tiranni che lo ispirano, e degli schiavi che lo professano.
Quello stesso Sejano, che nella grotta crollante e vicinissima a rovinare, salvava la vita a Tiberio con manifesto pericolo della propria, avendone egli dappoi ricevuti infiniti altri favori, congiurava pur contro lui.
Sejano, amava egli Tiberio in quel punto in cui pose se stesso a un così evidente pericolo per salvarlo? certo no: Sejano in quel punto serviva dunque alla propria sua ambizione, nello stesso modo che ogni giorno vediamo nei nostri eserciti i più splendidi e molli e corrotti officiali di essi affrontare la morte, non per altro se non per far progredire la loro ambizioncella, e per maggiormente acquistarsi la grazia del tiranno.
Sejano, abborriva egli maggiormente Tiberio quando gli congiurò contra, che quando il salvò? assai più certamente abborrivalo dopo, perché la immensità delle cose da lui ricevute, gli facea più da presso e con maggior terrore rimirare la immensità, più grande ancora, delle cose che quello stesso Tiberio gli poteva ritogliere.
Quindi, non si credendo Sejano in sicuro, se egli non ispegneva quella sola potenza che avrebbe potuto trionfar della sua, non dubitò poscia punto, anzi con lungo e premeditato disegno, imprese a togliersi il tiranno dagli occhi.
Né ai Tiberj, in qualunque tempo o luogo essi nascano e regnino, toccar mai potranno altri amici se non i Sejani.
Se dunque il tiranno è sommamente abborrito da quegli stessi ch'egli benefica, che sarà egli poi da quei tanti che direttamente o indirettamente egli offende o dispoglia?
La sola intera stupidità dei poveri e rozzi e lontani, può dunque (come ho di sopra dimostrato) amare il tiranno, appunto perché nessuno di questi lo vede né lo conosce; e questo amarlo va interpretato, il non affatto abborrirlo.
Da ogni altra persona qualunque, nella tirannide, si può fingere bensì e anche far pompa di amare il tiranno; ma veramente amarlo, non mai.
Questa servile bugiarda ed infame pompa verrà per lo più praticata dai più vili; e da quelli perciò, i quali maggiormente temendolo, maggiormente lo abborriscono.
CAPITOLO DECIMOSETTIMO
SE IL TIRANNO POSSA AMARE I SUOI SUDDITI, E COME
Nello stesso modo con cui si è di sopra dimostrato, che i sudditi non possono amare il tiranno, perché essendo egli troppo smisuratamente maggiore di loro non corre proporzione nessuna fra il bene ed il male che ne possono essi ricevere; nel modo stesso mi sarà facile il dimostrare, che il tiranno non può amare i suoi sudditi; perché, essendo essi tanto smisuratamente minori di lui, non ne può egli ricevere alcuna specie di bene spontaneo, riputandosi egli in dritto di prendere qualunque cosa essi volessero dargli.
E si noti così alla sfuggita, che lo amare, o sia egli di amicizia, o d'amore, o di benignità, o di gratitudine, o d'altro; lo amare si è uno degli umani affetti, che più di tutti richiede, se non perfettissima uguaglianza, rapprossimazione almeno e comunanza, e reciprocità fra gli individui.
Ammessa questa definizione dell'amare umano, ciascuno rimane giudice, se niuna di tutte queste cose sussistere possa infra il tiranno e i suoi schiavi; cioè, fra la parte sforzante e la parte sforzata.
Corre nondimeno una gran differenza, in questa reciproca maniera del non-amarsi, infra il tiranno ed i sudditi.
Questi, come tutti, (qual più qual meno, quale direttamente quale indirettamente, quale in un tempo e quale nell'altro) come offesi tutti e costretti dal tiranno, tutti lo abborriscono per lo più, e così dev'essere: ma il tiranno, come un ente non offendibile dall'universale, fuorché per manifesta ribellione contra di lui; il tiranno non abborrisce se non se quei pochissimi che egli vede o suppone essere nel loro cuore insofferenti del giogo; che se costoro mai si attentassero di mostrarlo, la vendetta del tiranno immediatamente verrebbe ad estinguerne l'odio.
Non odia dunque il tiranno i suoi sudditi, perché in veruna maniera essi non l'offendono: e qualora si ritrova in trono per caso un qualche tiranno d'indole mite ed umana, egli si può pur anche usurpare la fama di amarli; né in tal caso, da altro una tal fama proviene, se non dall'essere la natura di quel principe, per se stessa, men rea di quel che lo sia per se stessa l'autorità e la possibilità impunita del nuocere, che è posta in lui.
Ma io, sbadatamente, quasi ometteva una validissima ragione per cui il tiranno dee anch'egli (e non poco) se non abborrire, disprezzare almeno quella parte de' suoi sudditi che egli vede abitualmente e conosce; ed è questa; che quella parte di essi che gli si fa innanzi, e che cerca di avere alcuna comunicazione col tiranno, ella è certamente la più rea di tutte; ed egli, dopo una certa esperienza di regno, ne viene manifestamente convinto.
Quanto alla parte ch'egli non conosce né vede, e che in veruna maniera non lo offende, io mi fo a credere che il tiranno dotato di umana indole la possa benissimo amare: ma questo indefinibile amore di colui che può giovare e nuocere sommamente, per quelli che non possono a lui giovare né nuocere, non si può assomigliare ad alcun altro amore, che a quello con cui gli uomini amano i loro cani e cavalli; cioè, in proporzione della loro docilità, ubbidienza, e perfetta servitù.
Ma certamente assai minor differenza soglion porre i padroni fra essi e i loro cani e cavalli, di quella che ponga il tiranno, ancorché moderato, infra se stesso e i suoi sudditi.
Cotesto suo amore per essi non sarà dunque altro, che un oltraggio di più da lui fatto alla trista specie degli uomini.
CAPITOLO DECIMOTTAVO
DELLE TIRANNIDI AMPIE, PARAGONATE COLLE RISTRETTE
Che siano più orgogliosi e superbi i tiranni delle estese tirannidi, come assai più potenti, la intendo: ma, che gli schiavi delle estese tirannidi ardiscano reputarsi da più che gli schiavi delle ristrette, parmi esser questo il più espresso delirio che possa entrare nella mente dell'uomo; ed una evidentissima prova mi pare, che gli schiavi non pensano e non ragionano.
Se la ragione potesse ammettere alcuna differenza fra schiavo e schiavo, ella sarebbe certamente in favore del minor gregge.
Quanti più sono gli uomini che ciecamente obbediscono ad un solo, tanto più vili e stupidi ed infami riputare si debbono, vie più sempre scemandosi la proporzione tra l'oppressore e gli oppressi.
Quindi nell'udire io le millanterie d'un Francese, o d'uno Spagnuolo, che riputar si vorrebbe un ente maggiore di un Portoghese, o di un Napoletano, parmi di udire una pecora del regio armento schernire la pecora d'un contadino, perché questa pasce in una mandra di dieci, ed ella in una mandra di mille.
Se dunque differenza alcuna vi passa fra le tirannidi grandi e le picciole, ella non istà nella essenza della cosa, che una sola è per tutto; ma nella persona bensì del tiranno.
Qualunque di essi si troverà soverchiare oltremodo in potenza i vicini tiranni, ne diverrà verisimilmente più prepotente coi sudditi, dovendo egli nelle sue ampie circostanze molto minori rispetti adoprare: ma per altra parte, avendo egli più numero di sudditi, più importanti affari, più onori da distribuire, più ricchezze da pigliarsi e da dare, (e non avendo con tutto ciò maggior senno) quella sua autorità riuscirà alquanto men fastidiosa nelle cose minute, ma egualmente inetta, ed assai più gravosa, nelle importanti.
Il tiranno picciolo dovendo all'incontro usare infiniti rispetti co' suoi vicini, sforzato sarà di rimbalzo ad osservarne anche qualcuno più co' suoi sudditi: onde egli nell'offenderli, massimamente nella roba, dovrà procedere alquanto più guardingo.
Ma, volendo egli pur dare sfogo alla sua autorità soverchiante, facilmente verrà ad impacciarsi nei più minuti affari dei privati; ed affacciandosi, direi così, allo sportello di ogni casa, vorrà saperne, e frammettersi nei più minimi pettegolezzi di quelle.
Nelle tirannidi ampie i miseri sudditi saranno dunque maggiormente angariati, nelle ristrette più infastiditi; ed ugualmente infelici in entrambe: perché agli uomini non arreca minor danno e dolore la noja, che l'oppressione.
LIBRO SECONDO
CAPITOLO PRIMO
INTRODUZIONE AL LIBRO SECONDO
Ho ragionato nel passato libro, quanto più seppi brevemente, delle cagioni e mezzi della tirannide; e accennata ho di volo una minima parte degli effetti che ne derivano.
Non intendo io di aver detto su ciò tutto quel che può dirsi; ma quanto bensì mi parve più importante, e meno detto da altri.
Più brevemente ancora ragionerò, in questo secondo libro, dei modi con cui si possa sopportar la tirannide volendola, o non volendola, scuoterla.
CAPITOLO SECONDO
IN QUAL MODO SI POSSA VEGETARE NELLA TIRANNIDE
Il vivere senz'anima, è il più breve e il più sicuro compenso per lungamente vivere in sicurezza nella tirannide; ma di questa obbrobriosa morte continua (che io per l'onore della umana specie non chiamerò vita, ma vegetazione) non posso, né voglio insegnare i precetti; ancorché io gli abbia, senza volerli pure imparare, pur troppo bevuti col latte.
Ciascuno per sé li ricavi dal proprio timore, dalla propria viltà, dalle proprie circostanze più o meno servili e fatali; e in fine, dal tristo e continuo esempio dei più, ciascun li ricavi.
CAPITOLO TERZO
COME SI POSSA VIVERE NELLA TIRANNIDE
Io dunque parlerò a quei pochissimi, che degni di nascere in libero governo fra uomini, si trovano dalla sempre ingiusta fortuna, direi balestrati, in mezzo ai turpissimi armenti di coloro, che nessuna delle umane facoltà esercitando, nessuno dei dritti dell'uomo conoscendo, o serbandone, si vanno pure usurpando di uomini il nome.
E, dovendo io pur dimostrare a que' pochissimi, in qual modo si possa vivere quasi uomo nella tirannide, sommamente mi duole che io dovrò dar loro dei precetti pur troppo ancora contrarj alla libera loro e magnanima natura.
Oh quanto più volentieri, nato io in altri tempi e governi, m'ingegnerei di dar (non coi detti, ma coi fatti bensì) gli esempj del viver libero! Ma, poiché vano è del tutto il dolersi dei mali che sono o pajono privi di un presente rimedio, facciasi come nelle insanabili piaghe, a cui non si cerca oramai guarigione, ma solamente un qualche sollievo.
Dico per tanto; che allorché l'uomo nella tirannide, mediante il proprio ingegno, vi si trova capace di sentirne tutto il peso, ma per la mancanza di proprie ed altrui forze vi si trova ad un tempo stesso incapace di scuoterlo; dee allora un tal uomo, per primo fondamentale precetto star sempre lontano dal tiranno, da' suoi satelliti, dagli infami suoi onori, dalle inique sue cariche, dai vizj, lusinghe, e corruzioni sue, dalle mura terreno ed aria perfino, che egli respira, e che lo circondano.
In questa sola severa total lontananza, non che troppo, non mai esagerata abbastanza; in questa sola lontananza ricerchi un tal uomo non tanto la propria sicurezza, quanto la intera stima di se medesimo, e la purità della propria fama; entrambe sempre, o più o meno, contaminate, allorché l'uomo in qualunque modo si avvicina alla pestilenziale atmosfera delle corti.
Debitamente così, ed in tempo, allontanatosi l'uomo da esse, sentendosi egli purissimo, verrà ad estimare se stesso ancor più che se fosse nato libero in un giusto governo; poiché liber'uomo egli ha saputo pur farsi in uno servile.
Se costui, oltre ciò, non si trova nella funesta necessità di doversi servilmente procacciare il vitto, poiché la nobile fiamma di gloria non è spenta affatto nel di lui cuore dalla perversità de' suoi tempi, non potendo egli assolutamente acquistare la gloria del fare, ricerchi, con ansietà bollore ed ostinazione, quella del pensare, del dire, e dello scrivere.
Ma, come pensare, e dire, e scrivere potrà egli in un mostruoso governo, in cui l'una sola di queste tre cose diventa un capitale delitto? Pensare, per proprio sollievo, e per ritrovare in quel giusto orgoglio di chi pensa un nobile compenso alla umiliazion di chi serve: dire, ai pochissimi avverati buoni, e come tali, degnissimi di compassione, di amicizia, e di conoscere pienamente il vero: scrivere, finalmente, per proprio sfogo, da prima; ma, dove sublimi poi riuscissero gli scritti, ogni cosa allora sagrificare alla lodevole gloria di giovar veramente a tutti od ai più, col pubblicare gli scritti.
L'uomo, che in tal modo vive nella tirannide, e degno così manifestasi di non vi essere nato, sarà da quasi tutti i suoi conservi o sommamente sprezzato, ovvero odiatissimo: sprezzato da quelli, che per non aver idea nessuna di vera virtù, stoltamente credono da meno di loro chiunque vive lontano dal tiranno e dai grandi; cioè da ogni vizio, viltà, e corruzione: odiato da quegli altri, che avendo mal grado loro l'idea del retto e del bene, per esecrabile viltà d'animo, e reità di costumi, sfacciatamente seguono il peggio.
Ma, e quello sprezzo di una gente per se stessa disprezzabilissima, sarà una convincente prova, che un tal uomo è veramente stimabile; e l'odio di questi altri per se stessi odiosissimi, indubitabil prova sarà, che egli merita e l'amore e la stima de' buoni.
Quindi non dee egli punto curare né lo sprezzo, né l'odio.
Ma, se questo sprezzo e quest'odio degli schiavi si propaga fino al padrone, quel vero e solo uomo, che ne merita il nome, e i doveri ne compie, per via dello sprezzo può essere sommamente avvilito nella tirannide; e, per via dell'odio, può esservi ridotto a manifesto e inevitabil pericolo.
Questo libricciuolo non è scritto pe' codardi.
Coloro, che con una condotta di mezzo fra la viltà e la prudenza, non se ne possono viver sicuri, venendo pur ricercati nella loro oscura e tacita dimora dalla inquirente autorità del tiranno, arditamente si mostrino tali ch'ei sono; e basti per loro discolpa il poter dire, che non hanno essi ricercato i pericoli; ma che, trovatili, non debbono, né vogliono, né sanno sfuggirli.
CAPITOLO QUARTO
COME SI DEBBA MORIRE NELLA TIRANNIDE
Benché la più verace gloria, cioè quella di farsi utile con alte imprese alla patria ed ai concittadini, non possa aver luogo in chi, nato nella tirannide, inoperoso per forza ci vive; nessuno tuttavia può contendere a chi ne avesse il nobile ed ardente desiderio, la gloria di morire da libero, abbenché pur nato servo.
Questa gloria, quantunque ella paja inutile ad altrui, riesce nondimeno utilissima sempre, per mezzo del sublime esempio; e, come rarissima, Tacito, quell'alto conoscitore degli uomini, la giudica pure esser somma.
Alla eroica morte di Trasea, di Seneca, di Cremuzio Cordo, e di molti altri Romani proscritti dai loro primi tiranni, altro in fatti non mancava, che una più spontanea cagione, per agguagliar la virtù di costoro a quella dei Curzj, dei Decj, e dei Regoli.
E siccome, là dove ci è patria e libertà, la virtù in sommo grado sta nel difenderla e morire per essa, così nella immobilmente radicata tirannide non vi può essere maggior gloria, che di generosamente morire per non viver servo.
Parmi adunque, che nei nostri scellerati governi, i pochissimi uomini virtuosi e pensanti vi debbano vivere da prudenti, finché la prudenza non degenera in viltà; e morire da forti, ogniqualvolta la fortuna, o la ragione, a ciò li costringa.
Un cotal poco verrà ammendata così, con una libera e chiara morte, la trapassata obbrobriosa vita servile.
CAPITOLO QUINTO
FINO A QUAL PUNTO SI POSSA SOPPORTAR LA TIRANNIDE
Ma, fino a qual segno si possa sopportar l'oppressione di un tirannico governo, difficile riesce a prefiggersi: poiché non a tutti i popoli, né a tutti gl'individui, gli stessi oltraggi portano un egual colpo.
Nondimeno, parlando io sempre a coloro, che non meritando oltraggio nessuno, vivissimamente quindi sentono nel più profondo cuore i più leggieri eziandio; ed essendo costoro i pochissimi (che se tali i moltissimi fossero, immediatamente ogni pubblico oltraggiator cesserebbe) a costoro dico; che si può da lor sopportare che il tiranno tolga loro gli averi, perché nessun privato avere vale quell'estremo universale scompiglio, che ne potrebbe nascere dalla loro dubbia vendetta.
Così perversi sono i presenti tempi, che da una privata vendetta, ancorché felicemente eseguita, non ne potrebbe pur nascer mai nessun vero permanente bene pel pubblico, ma se gli potrebbe accrescer bensì moltissimo il danno.
Onde, volendo io che i buoni, nella stessa tirannide, siano, per quanto essere il possono, cittadini; e volendo, che ai loro conservi, o giovino, o inutilmente almeno non nuocano; ai buoni non darei mai per consiglio di sturbare inutilmente la pace, o sia il sopore di tutti, per far vendetta delle loro tolte sostanze.
Ma le offese di sangue nella persona dei più stretti parenti od amici, allorch'elle siano manifestamente ingiuste, ed atroci; e così, le offese nel proprio verace onore; io non ardirei mai consigliare a chi ha faccia d'uomo di tollerarle.
Si può vivere senza le sostanze, perché nessuno muore di necessità; e perché l'uomo, per l'esser povero, non riesce perciò mai vile a se stesso, ove egli non lo sia divenuto pe' suoi vizj e reità: ma non si può sopravvivere alla perdita sforzata ed ingiusta di una teneramente amata persona; né, molto meno, alla perdita del proprio onore.
Quindi, dovendo assolutamente un tal uomo morire, ed essendo estrema la ingiuria ricevuta, non può egli né dee più allora conservare rispetti; e, che che avvenire ne possa, il forte dee sempre morir vendicato: e chi nulla teme, può tutto.
Per unica prova di quanto asserisco, addurrò la sola riflessione, che di quante tirannidi sono state distrutte, o di quanti tiranni sono stati spenti, per destare quel primo impeto universale necessarissimo a ciò, non vi fu mai altra più incalzante ragione che le ingiurie fatte dal tiranno nell'onore principalmente, quindi nel sangue, poi nell'avere.
Questo insegnamento non è dunque mio; ma egli sta nella natura degli uomini tutti.
Ma pure, a chi dovesse, e volesse, vendicare una simile ingiuria, consiglierei pur sempre di farsi solo all'impresa, e di omettere interamente ogni pensiero alla propria salvezza, e come non alto, e come vano, e come sempre dannoso ad ogni magnanima importante vendetta.
E chi non si sente capace di questa totale omissione di se stesso, non si reputi stoltamente capace, né degno, di eseguire una sì alta vendetta; e si persuada, che meritava egli veramente l'oltraggio che ha ricevuto; e pazientemente quindi sel goda.
Ma, se l'offeso si trova del pari dotato di alto animo e d'illuminato intelletto; se da quella sua privata vendetta ne ardisce egli concepire e sperare la universale permanente libertà; tanto più allora si muova egli (ma sempre pur solo) al compiere la prima e la più importante impresa; ometta egli parimente ogni pensiero della propria salvezza; tutte quelle risentite parole, che, con grave ed inutil pericolo per sé e per l'impresa, egli avrebbe mosso agli amici per indurgli a congiurare con lui, tutte le cangi in un solo importantissimo, tacito, e ben assestato colpo: e lasci poi all'effetto che ne dee necessariamente ridondare, l'incarico di estendere e di corroborar la congiura; e al solo destino ogni cura della propria salvezza abbandoni.
Ma cogli esempli più estesamente mi spiego.
Il popolo di Roma si sollevò contro ai tiranni, congiurò felicemente contr'essi, e la tirannide al tutto distrusse, allorché finalmente si mosse, dopo tante altre battiture, colpito dal compassionevole atroce spettacolo di Lucrezia contaminata dal tiranno, e di propria mano svenata.
Ma, se Lucrezia non avesse in se stessa generosamente compiuta la prima vendetta, egli è da credersi che Collatino, o Bruto, inutilmente forse, e con grave dubbio e pericolo, avrebbero congiurato contro ai tiranni: perché il popolo, e il più degli uomini, non son mai commossi, né per metà pure, dalle più convincenti ragioni, quanto lo sono da una giusta e compiuta vendetta; massimamente, allorché ad essa si aggiunge un qualche spettacolo terribile e sanguinoso, che ai loro occhi apprestatosi, i loro cuori fortemente riscuota.
Se dunque Lucrezia non si fosse uccisa da sé, Collatino, come il più fieramente oltraggiato, avrebbe dovuto perdere risolutamente se stesso uccidendo l'adultero tiranno; e se egli in tale impresa periva, doveva lasciar poi a Bruto l'incarico di muovere, per via di quella sua giusta uccisione, il popolo a libertà e a furore.
Ma, se non fosse stato così pubblico ed importante quest'ultimo tirannico oltraggio; e se, per essere questo aggiunto a molti altri, non fosse stata oramai matura la liberazione del popolo di Roma; i parenti e gli amici di Collatino avrebbero forse congiurato, ma contra i soli Tarquinj: in vece che Collatino, senza punto congiurare con altri, avrebbe egli solo certamente potuto uccidere il tiranno, e quindi forse anche salvare se stesso; e, congiunto poscia con Bruto, avrebbe liberato anco Roma.
È dunque da notarsi in codesto accidente, che l'uomo oltraggiato gravemente nella tirannide, non dee mai da prima congiurare con altri che con se stesso; perché almeno assicura egli così la propria privata vendetta; e, con quel terribile spettacolo che egli appresta ai suoi cittadini, lascia in qualche aspetto di probabilità, e assai più matura, la pubblica, a chi la volesse e sapesse eseguirla.
All'opposto, col congiurare in molti per fare la prima privata vendetta, elle si perdono spessissimo entrambe.
Quell'uomo dunque, che capace si reputa di ordire e spingere una alta e giovevol congiura, il cui fine debba essere la vera politica libertà, non la imprenda giammai, se non se dopo moltissimi universali oltraggi fatti dal tiranno, e immediatamente dopo una qualche privata atroce vendetta contr'essi, felicemente eseguita da uno dei gravemente oltraggiati.
E così, chi si sente davvero capace di solennemente vendicare un proprio privato importantissimo oltraggio, senza cercarsi compagni, altamente e pienamente lo vendichi; e lasci poscia ordir la congiura da chi vien dopo: che s'ella riesce a buon fine, l'onore ne sarà pur sempre in gran parte anche suo; bench'egli rimanesse spento già prima: e se la pubblica consecutiva congiura poi non riesce, tanto maggiore ne risulterà a lui privato la gloria, e la maraviglia degli uomini, che vedranno la sua privata congiura aver da lui solo ottenuto un pienissimo effetto.
Ma le congiure, ancorch'elle riescano, hanno per lo più funestissime conseguenze, perché elle si fanno quasi sempre contro al tiranno, e non contra la tirannide.
Onde, per vendicare una privata ingiuria, si moltiplicano senza alcun pro gl'infelici; e, o sia che il tiranno ne scampi, o sia che un nuovo gli succeda, si viene ad ogni modo per quella privata vendetta e centuplicar la tirannide, e la pubblica calamità.
Quell'uomo dunque, che dal tiranno riceve una mortale ingiuria nel sangue, o nell'onore, si dee figurare che il tiranno lo abbia condannato inevitabilmente a morire; ma che nella impossibilità, in cui egli è, di scamparne, gli rimane pure la intera possibilità di vendicarsene prima, e di non morir quindi infame del tutto.
Né altro deve egli pensare in quel punto, se non che, tra i precetti del tiranno, il primo e il solo non mai trasgredito da lui, si è di vendicarsi di quelli che ha offeso egli stesso.
Sia dunque il primo precetto di chi più gravemente è stato offeso da lui, il prevenire a ogni costo con la sua giusta vendetta la non giusta e feroce d'altrui.
CAPITOLO SESTO
SE UN POPOLO, CHE NON SENTE LA TIRANNIDE, LA MERITI, O NO
Quel popolo che non sente la propria servitù, è necessariamente tale, che non concepisce alcuna idea di politica libertà.
Pure, siccome la totale mancanza di questa naturale idea non proviene già dagli individui, ma bensì dalle invecchiate loro circostanze, che son giunte a segno di soffocare in essi ogni lume primitivo della ragion naturale; la umanità vuole, che al loro errore si compatisca, e che non si disprezzino affatto costoro, ancorché disprezzati siano e disprezzabili.
Nati nella servitù, di servi padri, nati anch'essi di servi, donde oramai, donde potrebber costoro aver ritratto alcuna idea di libertà primitiva? Naturale ed innata nell'uomo ella è, mi si dirà da taluno; ma, e quante altre cose non meno naturali, dalla educazione, dall'uso, e dalla violenza, non vengono in noi indebolite o cancellate interamente ogni giorno?
Nella romana repubblica, in cui ogni Romano nascea cittadino e riputavasi libero, vi nasceano pur anco fra i soggiogati popoli alcuni schiavi, che non poteano ignorar di esser tali, ogni giorno vedendo davanti a sé i loro padroni esser liberi; e coloro si credeano pur di esser servi, e nati per esserlo; e ciò soltanto, perché erano educati, e di padre in figlio sforzati, a riputarsi tali.
Ora, se nel seno stesso della più splendida politica libertà che siasi mai vista sul globo, quegli uomini ignoranti e avviliti credeano di dover essi soli esser servi, non sarà maraviglia che nelle nostre tirannidi, dove non si profferisce né il nome pure di libertà, veri servi si credano quei che vi nascono; o, per dir meglio, che non conoscendo essi libertà, non conoscano né anche servaggio.
Parmi perciò, che i popoli nostri si debbano assi più compiangere che non odiare o sprezzare; essendo essi innocentemente, e per sola ignoranza, complici senza saperlo del delitto di servire, di cui ben ampia già e terribile ne van sopportando la pena.
Ma l'odio, lo sprezzo, e se altro sentimento vi ha più obbrobrioso e feroce, tutti si debbono bensì dai pochi enti pensanti fieramente rivolgere contro a quella picciola classe di uomini, che, non essendo stolidi affatto né inetti, ed accorgendosi benissimo di viver servi nella tirannide, sfacciatamente pure ogni giorno il vero, se stessi, e gli altri tutti tradiscono, correndo a gara ad adulare il tiranno, ad onorarlo, a difenderlo, ed a porgere primi l'infame collo a' suoi lacci; e ciò, col sol patto che doppiamente da essi avvinto ed oppresso ne rimanga il misero ed innocente popolo; presso cui, per ottenere il lor barbaro intento, caldissimi propagatori con astuzia si fanno di ogni dannosa ignoranza.
E, spingendo io più oltre questa importante differenza fra quella parte di schiavi che nella tirannide si fa istrumento d'oppressione, e quella che (senza saperne il perché) si fa vittima, ardisco asserire una cosa che parrà forse ai molti non vera, ma che io credo pure verissima.
Ed è; che dalla fedeltà stessa, dalla cecità e ostinazione maggiore, con cui i popoli nella tirannide difendono il loro tiranno, si debbe arguire che essi farebbero altrettanti e più sforzi per la libertà, se mai l'acquistassero; e se fin dalle fasce, in vece del nome del tiranno, come cosa sacra avessero udito sempre religiosamente insegnarsi il nome di repubblica.
Il vizio dunque della tirannide, e il maggiore obbrobrio della servitù, non risiede nel popolo; che in ogni governo è sempre la classe la meno corrotta; ma interamente risiede in quei pochi che il popolo ingannano.
Ed in prova, si osservi che ogniqualvolta il tiranno eccede quel modo comportabile dalla umana stupidità, il primo sempre, anzi il solo per lo più che risentirsi ardisca delle estreme ingiurie, si è il più basso popolo, il quale pure, nella pienissima sua ignoranza, stoltamente reputa il tiranno essere quasi un Dio.
All'incontro, gli ultimi sempre ad offendersi e a ricercarne vendetta, ancorché ingiuriatissimi siano dal tiranno, son quelli della più illustre classe, ed i suoi più famigliari, i quali pure indubitabilmente convinti sono, ch'egli è assai meno che un uomo.
Onde conchiudo; che nella tirannide meritano solo di esser servi quei pochi, che avendo in sè la idea di libertà, (e quindi o la forza o l'arte per tentare almeno di riacquistarla per sé, facendola ad un tempo riacquistare ad altrui) antepongono tuttavia di vivere in servitù; ed anzi se ne pregiano essi; e, quanto più sanno e possono, vi costringono il rimanente dei loro simili.
CAPITOLO SETTIMO
COME SI POSSA RIMEDIARE ALLA TIRANNIDE
La volontà, o la opinione di tutti o dei più, mantiene sola la tirannide: la volontà e l'opinione di tutti o dei più, può sola veramente distruggerla.
Ma, se nelle nostre tirannidi l'universale non ha idea d'altro governo, come si può egli arrivare ad infondere in tutti, o nei più, questo nuovo pensiero di libertà? Risponderò, piangendo, che mezzo brevemente efficace a produr tale effetto, nessuno ve ne ha; e che ne' paesi dove la tirannide da molte generazioni ha preso radice, moltissime ve ne vuole prima che la lenta opinion la disvelga.
E già mi avveggo, che in grazia di questa fatal verità, mi perdonano i tiranni europei tutto ciò che finora intorno ad essi mi è occorso di ragionare.
Ma, per moderare alquanto questa loro non meno stolta che inumanissima gioja, osserverò; che ancorché non vi siano efficaci e pronti rimedj contro la tirannide, ve ne sono molti tuttavia ed uno principalissimo, rapidissimo, ed infallibile, contra i tiranni.
Stanno i rimedj contro al tiranno in mano d'ogni qualunque più oscuro privato: ma i più efficaci e brevi e certi rimedj contra la tirannide, stanno (chi 'l crederebbe?) in mano dello stesso tiranno: e mi spiego.
Un animo feroce e libero, allor quando è privatamente oltraggiato, o quando gli oltraggi fatti all'universale vivissimamente il colpiscono, può da sé solo in un istante e con tutta certezza efficacemente rimediare al tiranno, col ferro: e, se molti di questi animi allignassero nelle tirannidi, ben presto anco la moltitudine stessa cangerebbe il pensiero, e si verrebbe così a rimediare ad un tempo stesso alla tirannide.
Ma, siccome gli animi di una tal tempra sono cosa rarissima, e principalmente in questi scellerati governi; e siccome lo spegnere il solo tiranno null'altro opera per lo più, che accrescere la tirannide; io sono costretto, fremendo, a scrivere qui una durissima verità; ed è, che nella crudeltà stessa, nelle continue ingiustizie, nelle rapine, e nelle atroci disonestà del tiranno, sta posto il più breve, il più efficace, il più certo rimedio contra la tirannide.
Quanto più reo e scellerato è il tiranno, quanto più oltre spinge manifestamente l'abuso dell'abusiva sua illimitata autorità; tanto più lascia egli luogo a sperare, che la moltitudine finalmente si risenta; e che ascolti ed intenda e s'infiammi del vero; e ponga quindi solennemente fine per sempre a un così feroce e sragionevol governo.
È da considerarsi, che la moltitudine rarissimamente si persuade della possibilità di quel male che ella stessa provato non abbia, e lungamente provato: quindi gli uomini volgari la tirannide non reputano per un mostruoso governo, finché uno o più successivi mostri imperanti non ne han fatto loro funesta ed innegabile prova con mostruosi eccessi inauditi.
Se in verun conto mai un buon cittadino potesse divenire ministro d'un tiranno, ed avesse fermato in se stesso il sublime pensiero di sagrificare la propria vita, e di più anche la propria fama, per sicuramente ed in breve tempo spegnere la tirannide, costui non avrebbe altro migliore né più certo mezzo, che di consigliare in tal modo il tiranno, di secondare e per fino talmente instigare la sua tirannesca natura, che abbandonandosi egli ad ogni più atroce eccesso rendesse ad un tempo del pari la sua persona e la sua autorità odiosissima e insopportabile a tutti.
E dico io espressamente queste tre parole; La sua persona, la sua autorità, e a tutti; perché ogni eccesso privato del tiranno non nuocerebbe se non a lui stesso; ma ogni pubblico eccesso, aggiuntosi ai privati, egualmente a furore movendo l'universale e gl'individui, nuocerebbe ugualmente alla tirannide ed al tiranno; e li potrebbe quindi ad un tempo stesso interamente entrambi distruggere.
Questo infame ed atrocissimo mezzo (che io primo il conosco per tale) indubitabilmente pure sarebbe, come sempre lo è stato, il solo efficace e brevissimo mezzo ad una impresa così importante e difficile.
Inorridito ho nel dirlo; ma vie più inorridiscono in pensare quai siano questi governi, ne' quali se un uomo buono operar pur volesse colla maggior certezza e brevità il sommo bene di tutti, si troverebbe costretto a farsi prima egli stesso scellerato ed infame, ovvero a desistersi dall'altramente ineseguibile impresa.
Quindi è, che un tal uomo non si può mai ritrovare; e che questo sopraccennato rapido effetto dell'abuso della tirannide non si può aspettare se non per via di un ministro scellerato davvero.
Ma questi, non volendo perdere del proprio altro che la fama (che già per lo più mai non ebbe); e volendo egli assolutamente conservare la usurpata autorità, le prede, e la vita; questi lascierà bensì diventare il tiranno crudele e reo quanto è necessario per fare infelicissimi i sudditi, ma non mai a quell'eccesso che si bisognerebbe per tutti destargli a furore e a vendetta.
Da ciò proviene, che in questo mansuetissimo secolo cotanto si è assottigliata l'arte del tiranneggiare, ed ella (come ho dimostrato nel primo libro) si appoggia su tante e così ben velate e varie e saldissime basi, che non eccedendo i tiranni, o rarissimamente eccedendo i modi coll'universale, e non gli eccedendo quasiché mai co' privati, se non sotto un qualche velo di apparente legalità, la tirannide si è come assicurata in eterno.
Or ecco, ch'io già mi sento dintorno gridare: "Ma, essendo queste tirannidi moderate e soffribili, perché con tanto calore ed astio svelarle e perseguirle?" Perché non sempre le più crudeli ingiurie son quelle che offendono più crudelmente; perché si debbono misurare i mali dalla loro grandezza e dai loro effetti, più che dalla lor forza; perché, in somma, colui che ti cava ogni giorno poche oncie di sangue ti uccide a lungo andare ugualmente che colui che ad un tratto ti svena, ma ti fa stentare assai più.
Tutte le facoltà dell'animo nostro intorpidite; tutti i diritti dell'uomo menomati o ritolti; tutte le magnanime volontà impedite o deviate dal vero; e mille e mille altre simili continue offese, che troppo lungo e pomposo declamatore parrei, se qui ad una ad una annoverarle volessi; ove la vita vera dell'uomo consista nell'anima e nell'intelletto, il vivere in tal modo tremando, non è egli un continuo morire? E che rileva all'uomo, che nato si sente al pensare e all'operare altamente, di conservare tremante la vita del corpo, gli averi, e l'altre sue cose (e queste né anco sicure) per poi perdere, senza speranza di riacquistarli giammai, tutti, assolutamente tutti, i più nobili e veri pregi dell'anima?
CAPITOLO OTTAVO
CON QUAL GOVERNO GIOVEREBBE PIÙ DI SUPPLIRE ALLA TIRANNIDE
Ma, già già mille altre obbiezioni non meno importanti m'insorgono d'ogni intorno: e queste saranno le ultime alle quali io mi creda in dovere di alquanto rispondere.
"Più facil cosa è il biasimare e il distruggere, che non il rettificare e creare.
Che la tirannide sia un governo esecrabile e vizioso in se stesso, già ben lo sapevano tutti coloro che stupidi affatto non sono; e per quelli che il sono, inutilissimo era il dimostrarlo.
Le storie tutte fanno fede della massima instabilità dei liberi governi: onde riesce cosa intieramente vana il dimostrare che non si dee soffrir la tirannide, se infallibili mezzi non s'insegnano per eternare la libertà".
Queste, o simili obbiezioni (che ne potrei riempire inutilmente le pagine) è assai facile il farle, e non così facile l'impugnarle.
Quanto alla prima, rispondo di volo; che io non credo niente inutile il dimostrare ai non affatto stupidi, non già che la tirannide sia un governo esecrabile e vizioso in se stesso, poich'essi dicono di saperlo, ma che quella specie di governo sotto cui essi vivono, e che sotto il blandissimo nome di monarchia si vanno godendo, altro in fatti non è se non una intera e schietta tirannide, accomodata ai tempi; tirannide niente meno insultante e gravosa per gli uomini che qualsivoglia altra antica od asiatica, ma assai più saldamente fondata, e assai più durevole quindi, e fatale.
Alla seconda obbiezione mi conviene rispondere alquanto più lungamente.
Il dimostrare qual sia il male, quali ne siano le cagioni, i mezzi, ed in parte gli effetti, vien certamente ad essere un tacito insegnamento di ciò che potrebbe essere il bene; che in tutto è il contrario del male.
"Se dunque venisse fatto pur mai di estirpar la tirannide in alcuna ragguardevol parte di Europa, come per esempio in tutta la Italia, qual tempra di governo vi si potrebb'egli introdurre, che non venisse dopo alcun tempo a ricadere in tirannide di uno o di più?"
Se io, colla dovuta modestia e coscienza delle poche mie proprie forze, mi fo a rispondere a questo importante quesito, dico; che quando si ritrovasse l'Italia nelle circostanze a ciò necessarie, quegl'Italiani che a quei tempi si troveranno aver meglio letto e considerato tutto ciò che da Platone in poi è stato scoperto e insegnato da tanti uomini sommi circa alla meno viziosa forma dei governi; quegl'Italiani d'allora, che avran meglio studiato e conosciuto nelle diverse storie, e nei diversi paesi dello stesso lor secolo, la natura, l'indole, i costumi, e le passioni degli uomini; quelli soli potranno allora con adequato senno provvedere a ciò che operare allor si dovrebbe pel meglio; cioè, pel meno male.
Se io, all'incontro, presuntuosamente rispondere volessi al quesito, mi troverei costretto di farlo col pormi ad un'altra opera, e intitolarla DELLA REPUBBLICA; nella quale individuatamente ed a lungo mi proverei a ragionare su tale materia.
Ma, quando pur anche mi credessi io di avere e senno, e lumi, e dottrina, ed ingegno da ciò; bisognerebbe nondimeno sempre, che io (per non acquistarmi gratuitamente alla prima il nome di stolto) in fronte di un tal libro mi protestassi, ch'ella è impossibil cosa fra gli uomini di nulla stabilir di perfetto e d'inalterabile; e principalmente in un tal genere di cose, che richiedendo continuamente sforzo e virtù, (atteso il contrario e continuo impulso della umana natura, che assai più è propensa al bene dei privati individui, e quindi tosto al male di tutti o dei più) vanno insensibilmente ogni giorno menomandosi e corrompendosi per se stesse.
E sarei anche sforzato in quella mia prefazione di aggiungervi, che quegli ordini che convengono ad uno stato, disconvengono spessissimo all'altro; che quelli che bene si adattano al principiare di uno stato novello, non operano poi abbastanza nel progredire, e alle volte anzi nuocono nel continuare; che il cangiargli a seconda col cangiarsi degli uomini dei costumi e dei tempi, ella è cosa altrettanto necessaria, quanto impossibile a prevedersi, e difficilissima ad eseguirsi in tempo.
E mille e mille altre simili cose io mi troverei costretto a premettere a quella REPUBBLICA mia; le quali cose per essere già state dette meglio ch'io non le direi mai, massimamente da quel nostro divino ingegno del Machiavelli, non solamente inutili per se stesse riuscirebbero, ma pur troppo, contra l'intenzione dell'autore, una preventiva dimostrazione sarebbero della inutilità di un tal libro.
E per quanto poi quella mia teorica repubblica potesse parer saggia, ragionata, e adattabile a' tempi, luoghi, religioni, opinioni, e costumi diversi; ella non verrebbe tuttavia mai ad essere eseguibile in nessunissimo cantuccio della terra, senza quivi prima ricevere da un saggio legislatore effettivo quelle tante e tali modificazioni e mutazioni, che necessarie sarebbero per quella data effettiva società; la quale certamente in alcuna cosa differirà da alcuna delle supposizioni dell'ideale legislatore.
Ma quando anche poi una tale scritta repubblica venisse effettivamente nel suo intero adattata ad un qualche popolo, tutta la umana saviezza (non che la pochissima mia) non perverrebbe pur mai a stabilirvi in tal modo un governo, che il caso, cioè un avvenimento non preveduto, non avesse la forza di poterlo inaspettatamente assai peggiorare, come anche di poter migliorarlo, o mutarlo, o affatto distruggerlo.
Stoltissima superbia sarebbe or dunque la mia, se un tale assunto imprendessi, sapendo già prima, che quando anche pure mi lusingassi di poter dire delle cose non dette, per lo meno inutile riuscirebbe il mio libro.
Tuttavia non meno scusabile che folle una mia tale superbia sarebbe (come di chiunque altro a simile impresa oramai si accingesse), ogniqualvolta un tal libro non avesse stoltamente per fine la gloria letteraria e legislatrice, ma fosse semplicemente un virtuoso e ben intenzionato sfogo di un ottimo cittadino: e come tale, inutile allora non riuscirebbe del tutto.
Dalle cose finora da me, per quanto ho saputo, rapidamente presentare al lettore, ne potrebbe frattanto, s'io non erro, ridondar questo bene: che, ove una repubblica insorgente in questi, o nei futuri tempi, sopra le rovine d'alcuna distrutta tirannide, badasse a spegnere, o a menomare quanto più le fosse possibile la pestifera influenza di quelle tante cagioni della passata servitù da me ampiamente nel primo libro dimostrate, si può credere che una tale insorgente repubblica verrebbe ad ottenere alcun peso, e stabilità.
Che se io minutamente ho dimostrato come sia costituita la tirannide, indirettamente avrò dimostrato forse, come potrebbe essere costituita una repubblica.
E il primo di tutti i rimedj contro alla tirannide, ancorché tacito e lento, egli è pur sempre il sentirla; e sentirla vivamente i molti non possono, (abbenché oppressi ne siano) là dove i pochi non osino appien disvelarla.
Ma, quanto è necessario l'impeto, l'audacia, e (per così dire) una sacra rabbia, per disvelare, combattere, e distruggere la tirannide, altrettanto è necessaria una sagace e spassionata prudenza, per riedificare su quelle rovine; onde difficilmente l'uomo stesso potrebbe esser atto egualmente a due imprese pur tanto diverse nei loro mezzi, benché similissime nella lor meta.
Ed io, per amor del vero, son pure costretto a notar qui di passo, che le opinioni politiche (come le religiose) non si potendo mai totalmente cangiare senza che molte violenze si adoprino, ogni nuovo governo è da principio pur troppo sforzato ad essere spesso crudelmente severo, e alcune volte anche ingiusto, per convincere o contenere con la forza chi non desidera, o non capisce, o non ama, o non vuole innovazioni ancorché giovevoli.
Aggiungerò, che, per maggiore sventura delle umane cose, è altresì più spesso necessaria la violenza, e qualche apparente ingiustizia nel posar le basi di un libero governo su le rovine d'uno ingiusto e tirannico, che non per innalzar la tirannide su le rovine della libertà.
La ragione, a parer mio, è patente.
La tirannide non sottentra alla libertà, se non se con una forza effettiva, e talmente preponderante, che col solo continuo minacciare facilmente contiene l'universale.
E mentre con l'una mano brandisce un ferro spietato, ella spande coll'altra a piena mano quell'oro che ha colla spada estorquito.
Onde, distrutti alcuni pochi capi-popolo, corrottine molti altri più, che già guasti erano e preparati al servaggio, il rimanente obbedisce e si tace.
Ma, la nascente libertà, combattuta ferocissimamente da quei tanti che s'impinguavano della tirannide, freddamente spalleggiata dal popolo, che, oltre alla sua propria lieve natura, per non averla egli ancora gustata, poco l'apprezza e mal la conosce; la nascente libertà, divina impareggiabile fiamma, che in pochi petti arde pura nella sua immensità, e che da quei soli pochi viene alquanto inspirata e a stento mantenuta nel petto agghiacciato dei più; ov'essa per qualche beata circostanza perviene a pigliare alcun corpo, non dovendo trascurar l'occasione di mettere, se può, profonde e salde radici, si trova pur troppo costretta ad abbattere quei tanti rei che cittadini ridivenir più non possono, e che pur possono tanti altri impedirne, o guastarne.
Deplorabile necessità, a cui Roma, felice maestra in ogni sublime esempio, ebbe pur anche la ventura di non andar quasi punto soggetta; poiché dal lagrimevole straordinario spettacolo dei figli di Bruto fatti uccider dal padre, ella ricevea fortemente quel lungo e generoso impulso di libertà, che per ben tre secoli poi la fece sì grande e beata.
Ritornando ora al proposito mio, conchiudo con questo capitolo il libro, col dire; che non vi essendo alla tirannide altro definitivo rimedio che la universal volontà e opinione; e non potendosi questa cangiare se non lentissimamente e incertamente pel solo mezzo dei pochi che pensano, sentono, ragionano, e scrivono; il più virtuoso individuo, il più costumato, il più umano, si trova pur troppo sforzato a desiderar nel suo cuore, che i tiranni stessi, coll'eccedere ogni ragionevole modo, più rapidamente e con maggior certezza cangino questa universal volontà e opinione.
E se al primo aspetto un tal desiderio pare inumano, iniquo, e perfino scellerato, si consideri che le importantissime mutazioni non possono mai succedere fra gli uomini (come dianzi ho notato) senza importanti pericoli e danni; e che a costo di molto pianto e di moltissimo sangue (e non altramente giammai) passano i popoli dal servire all'essere liberi, più ancora, che dall'esser liberi al servire.
Un ottimo cittadino può dunque, senza cessar di esser tale, ardentemente desiderare questo mal passeggero; perché, oltre al troncare ad un tratto moltissimi altri danni niente minori ed assai più durevoli, ne dee nascere un bene molto maggiore e permanente.
Questo desiderio non è reo in se stesso, poiché altro fine non si propone che il vero e durevol vantaggio di tutti.
E giunge avventuratamente pure quel giorno, in cui un popolo, già oppresso e avvilito, fattosi libero felice e potente, benedice poi quelle stragi, quelle violenze, e quel sangue, per cui da molte obbrobriose generazioni di servi e corrotti individui se n'è venuta a procrear finalmente una illustre ed egregia, di liberi e virtuosi uomini.
PROTESTA DELL'AUTORE
Non la incalzante povertade audace,
Scarsa motrice a generosa impresa;
Non l'aura vana, in cui gli stolti han pace
D'ogni lor brama in debil fuoco accesa;
Non l'ozio servo, in che la Italia giace;
Cagion, ah! no, queste non fur, ch'intesa
M'ebber la mente all'alto onor verace
Di far con penna ai falsi imperj offesa.
Un Dio feroce, ignoto un Dio, da tergo
Me flagellava infin da quei primi anni,
A cui maturo e impavido mi attergo.
Né pace han mai, né tregua, i caldi affanni
Del mio libero spirto, ov'io non vergo
Aspre carte in eccidio dei tiranni.
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