DELLA TIRANNIDE, di Vittorio Alfieri - pagina 5
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Il tiranno, ancorché d'indole buona sia egli, rende immediatamente cattivi tutti coloro che a lui si avvicinano; perché la sua sterminata potenza, di cui (benché non ne abusi) mai non si spoglia, vie maggiormente riempie di timore coloro che più da presso la osservano: dal più temere nasce il più simulare; e dal simulare e tacere, l'esser pessimo e vile.
Ma, dall'ambizione nella tirannide ne ridonda spesso all'ambizioso un potere illimitato non meno che quello del tiranno; e tale, che nessuna repubblica mai, a nessuno suo cittadino, né può né vuole compatirne un sì grande.
Perciò pare ai molti scusabile colui, che essendo nato in servaggio, ardisce pure proporsi un così alto fine; di farsi più grande che lo stesso tiranno, all'ombra della di lui imbecillità, o della di lui non curanza.
Risponda ciascuno a questa obiezione, col domandare a se stesso: "Un'autorità ingiusta, illimitata, rapita, e precariamente esercitata sotto il nome d'un altro, ottener si può ella giammai, senza inganno? Può ella esercitarsi mai, senza nuocere a molti, e per lo meno ai concorrenti ad essa? Può ella finalmente mai conservarsi, senza frode crudeltà e prepotenza nessuna?"
Si ambisce dunque l'autorità nelle repubbliche, perché ella in chi l'acquista fa fede di molte virtù, e perch'ella presta largo campo ad accrescersi quell'individuo la propria gloria coll'util di tutti.
Si ambisce nelle tirannidi, perché ella vi somministra i mezzi di soddisfare alle private passioni; di sterminatamente arricchire; di vendicare le ingiurie e di farne, senza timor di vendetta; di beneficare i più infami servigj; e di fare in somma tremare quei tanti che nacquero eguali, o superiori, a colui che la esercita.
Né si può in verun modo dubitare, che nella repubblica, e nella tirannide, gli ambiziosi non abbiano questi fra loro diversi disegni.
Già prima di acquistare l'autorità il repubblicano benissimo sa che non potrà egli sempre serbarla; che non potrà abusarne, perché dovrà dar conto di sé rigidissimo ai suoi eguali; e che l'averla acquistata è una prova che egli era migliore, o più atto da ciò, che non i competitori suoi.
Così, nella tirannide, non ignora lo schiavo, che quella autorità ch'egli ambisce, non avrà nessun limite; ch'ella è perciò odiosissima a tutti; che lo abusarne è necessario per conservarla; che il ricercarla attesta la pessima indole del candidato; che l'ottenerla chiaramente dimostra ch'egli era tra i concorrenti tutti il più reo.
Eppure codesti due ambiziosi, queste cose tutte sapendo già prima, senza punto arrestarsi corrono entrambi del pari la intrapresa carriera.
Ora, chi potrà pure asserire che l'ambizioso in repubblica non abbia per meta la gloria più assai che la potenza? e che l'ambizioso nella tirannide si proponga altra meta, che la potenza, la ricchezza, e la infamia?
Ma, non tutte le ambizioni, hanno per loro scopo la suprema autorità.
Quindi, nell'uno e nell'altro governo, si trova poi sempre un infinito numero di semi-ambiziosi, a cui bastano i semplici onori senza potenza; ed un numero ancor più infinito di vili, a cui basta il guadagno senza potenza né onori.
E milita anche per costoro, nell'uno e nell'altro governo, la stessa differenza e ragione.
Gli onori nelle repubbliche non si rapiscono coll'ingannare un solo, ma si ottengono col giovare o piacere ai più: ed i più non vogliono onorare quell'uno, se egli non lo merita affatto; perché facendolo, disonorano pur troppo se stessi.
Gli onori nella tirannide (se onori chiamar pur si possono) vengono distribuiti dall'arbitrio d'un solo; si accordano alla nobiltà del sangue per lo più; alla fida e total servitù degli avi; alla perfetta e cieca obbedienza, cioè all'intera ignoranza di se stesso; al raggiro; al favore; e alcune volte, al valore contra gli esterni nemici.
Ma, gli onori tutti (qualunque siano) sempre per loro natura diversi in codesti diversi governi, sono pur anche, come ognun vede, per un diverso fine ricercati.
Nella tirannide, ciascuno vuol rappresentare al popolo una anche menoma parte del tiranno.
Quindi un titolo, un nastro, o altra simile inezia, appagano spesso l'ambizioncella d'uno schiavicello; perché questi onorucci fan prova, non già ch'egli sia veramente stimabile, ma che il tiranno lo stima; e perché egli spera, non già che il popolo l'onori, ma che lo rispetti e lo tema.
Nella repubblica, manifesta e non dubbia cosa è, per qual ragione gli onori si cerchino; perché veramente onorano chi li riceve.
L'ambizione d'arricchire, chiamata più propriamente CUPIDIGIA, non può aver luogo nelle repubbliche, fin ch'elle corrotte non sono; e quando anche il siano, i mezzi per arricchirvi essendo principalmente la guerra, il commercio, e non mai la depredazione impunita del pubblico erario, ancorché il guadagno sia uno scopo per se stesso vilissimo, nondimeno per questi due mezzi egli viene ad essere la ricompensa di due sublimi virtù; il coraggio, e la fede.
L'ambizione d'arricchire è la più universale nelle tirannidi; e quanto elle sono più ricche ed estese, tanto più facile a soddisfarsi per vie non legittime da chiunque vi maneggia danaro del pubblico.
Oltre questo, molti altri mezzi se ne trovano; e altrettanti esser sogliono, quanti sono i vizj del tiranno, e di chi lo governa.
Lo scopo, che si propongono gli uomini nello straricchire, è vizioso nell'uno e nell'altro governo; e più ancora nelle repubbliche che nelle tirannidi; perché in quelle si cercano le ricchezze eccessive, o per corrompere i cittadini, o per soverchiar l'uguaglianza; in queste, per godersele nei vizj e nel lusso.
Con tutto ciò, mi pare pur sempre assai più escusabile l'avidità di acquistare, in quei governi dove i mezzi ne son men vili, dove l'acquistato è sicuro, e dove in somma lo scopo (ancorché più reo) può essere almeno più grande.
In vece che nei governi assoluti, quelle ricchezze che sono il frutto di mille brighe, di mille iniquità e viltà, e dell'assoluto capriccio di un solo, possono essere in un momento ritolte da altre simili brighe, iniquità e viltà, o dal capriccio stesso che già le dava, o che rapire lasciavale.
Parmi d'aver parlato di ogni sorta d'ambizione, che allignare possa nella tirannide.
Conchiudo; che questa stessa passione, che è stata e può essere la vita dei liberi stati, la più esecrabil peste si fa dei non liberi.
CAPITOLO SESTO
DEL PRIMO MINISTRO
Ad consulatum non nisi per Sejanum aditus: neque Sejani voluntas nisi scelere quaerebatur.
E fra le più atroci calamità pubbliche, cagionate dall'ambizione nella tirannide, si dee, come atrocissima e massima, reputar la persona del primo ministro, da me nel precedente capitolo soltanto accennata, e di cui credo importante ora, e necessarissimo, il discorrere a lungo.
Questa fatal dignità altrettanto maggior lustro acquista a chi la possiede, quanto è maggiore la incapacità del tiranno, che la comparte.
Ma siccome il solo favore di esso la crea; siccome, ad un tiranno incapace non è da presumersi che possa piacere pur mai un ministro illuminato e capace; ne risulta per lo più, che costui non meno inetto al governare che lo stesso tiranno, gli rassomiglia interamente nella impossibilità del ben fare, e di gran lunga lo supera nella capacità desiderio e necessità del far male.
I tiranni d'Europa cedono a codesti loro primi ministri l'usufrutto di tutti i loro diritti; ma niuno ne vien loro accordato dai sudditi con maggiore estensione e in più supremo grado, che il giusto abborrimento di tutti.
E questo abborrimento sta nella natura dell'uomo, che male può comportare, che altri, nato suo eguale, rapisca ed eserciti quella autorità caduta in sorte a chi egli crede nato suo maggiore: autorità, che per altre illegittime mani passando, viene a duplicare per lo meno la sua propria gravezza.
Ma questo primo ministro, dal sapersi sommamente abborrito, ne viene egli pure ad abborrire altrui sommamente; ond'egli gastiga, e perseguita, e opprime, ed annichila chiunque l'ha offeso; chiunque può offenderlo; chiunque ne ha, o glie ne viene imputato, il pensiero; e chiunque finalmente, non ha la sorte di andargli a genio.
Il primo ministro perciò facilmente persuade poi a quel tiranno di legno, di cui ha saputo farsi l'anima egli, che tutte le violenze e crudeltà ch'egli adopera per assicurare se stesso, necessarie siano per assicurare il tiranno.
Accade alle volte, che, o per capriccio, o per debolezza, o per timore, il tiranno ritoglie ad un tratto il favore e l'autorità al ministro; lo esiglia dalla sua presenza; e gli lascia, per singolare benignità, le predate ricchezze e la vita.
Ma questa mutazione non è altro, che un aggravio novello al misero soggiogato popolo.
Il che facilmente dimostrasi.
Il ministro anteriore, benché convinto di mille rapine, di mille inganni, di mille ingiustizie, non discade tuttavia quasi mai dalla sua dignità, se non in quel punto, ove un altro più accorto di lui gli ha saputo far perdere il favor del tiranno.
Ma, comunque egli giunga, ei giunge pure in somma quel giorno, in cui al ministro è ritolta l'autorità e il favore.
Allora bisogna, che lo stato si prepari a sopportare il ministro successore, il quale dee pur sempre essere di alcun poco più reo del predecessore; ma, volendosi egli far credere migliore, innova e sovverte ogni cosa stabilita dall'altro, ed in tutto se gli vuole mostrare dissimile.
Eppure costui vuole, e dee volere (come il predecessore) ed arricchirsi, e mantenersi in carica, e vendicarsi, e ingannare, ed opprimere, ed atterrire.
Ogni mutazione dunque nella tirannide, così di tiranno, che di ministro, altro non è ad un popolo infelicemente servo, che come il mutare fasciatura e chirurgo ad una immensa piaga insanabile, che ne rinnuova il fetore e gli spasimi.
Ma, che il ministro successore debba esser poi di alcun poco più reo dell'antecessore, colla stessa facilità si dimostra.
Per soverchiare un uomo cattivo accorto e potente, egli è pur d'uopo vincerlo in cattività e accortezza.
Un ministro di tiranno per lo più non precipita, senza che alcuno di quelli che direttamente o indirettamente erano autori della sua rovina, a lui non sottentri.
Ora, come seppe egli costui atterrare quei tanti ripari, che avea fatti quel primo per assicurarsi nel seggio suo? certamente, non per fortuna lo vinse, ma per arte maggiore.
Domando: "Se nelle corti una maggior arte possa supporre minori vizj in chi la possiede e felicemente la esercita".
La non-ferocia dei moderni tiranni, che in essi non è altro che il prodotto della non-ferocia dei moderni popoli, non comporta che agli ex-ministri venga tolta la vita, e neppure le ricchezze, ancorch'elle siano per lo più il frutto delle loro iniquità e rapine: né soffrono costoro alcun altro gastigo, che quello di vedersi lo scherno e l'obbrobrio di tutti, e massime di quei vili che maggiormente sotto essi tremavano.
Alcuni di questi vicetiranni smessi, hanno la sfacciataggine di far pompa di animo tranquillo nella loro avversa fortuna; e ardiscono stoltamente arrogarsi il nome di filosofi disingannati.
E costoro fanno ridere davvero gli uomini savj, che ben sapendo cosa sia un filosofo, chiaramente veggono ch'egli non è, né può essere mai stato, un vicetiranno.
Ma perderei le parole, il tempo, e la maestà da un così alto tema richiesta, se dimostrar io volessi che un ente cotanto vile ed iniquo non può né essere stato mai, né divenire, un filosofo.
Proverò bensì, (come cosa assai più importante) che un primo ministro del tiranno non è mai, né può essere, un uomo buono ed onesto: intendendo io da prima per politica onestà e vera essenza dell'uomo, quella per cui la persona pubblica antepone il bene di tutti al bene d'un solo, e la verità ad ogni cosa.
E, nell'avere io definita la politica onestà, parmi di aver largamente provato il mio assunto.
Se il tiranno stesso non vuole, e non può volere, il vero ed intero ben pubblico, il quale sarebbe immediatamente la distruzione della sua propria potenza, è egli credibile che lo potrà mai volere, ed operare, colui che precariamente lo rappresenta? colui, che un capriccio ed un cenno aveano quasi collocato sul trono, e che un capriccio ed un cenno ne lo precipitano?
Che il ministro poi non può essere privatamente uomo onesto, intendendo per privata onestà la costumatezza e la fede, si potrebbe pur anche ampiamente provare, e con ragioni invincibili: ma i ministri stessi, colle loro opere, tutto dì ce lo provano assai meglio che nessuno scrittore provarlo potrebbe con le parole.
Si osservi soltanto, che non esiste ministro nessuno che voglia perder la carica; che niuna carica è più invidiata della sua; che niun uomo ha più nemici di lui, né più calunnie, o vere accuse, da combattere: ora, se la virtù per se stessa possa in un governo niente virtuoso resistere con una forza non sua al vizio, al raggiro, e all'invidia, ne lascio giudice ognuno.
Dalla potenza illimitata del tiranno trasferita nel di lui ministro, si viene a produrre la prepotenza; cioè l'abuso di un potere abusivo già per se stesso.
Crescono la potenza e l'abuso ogniqualvolta vengono innestati nella persona di un suddito, perché questo tiranno elettivo e casuale si trova costretto a difendere con quella potenza il tiranno ereditario e se stesso.
Una persona di più da difendersi, richiede necessariamente più mezzi di difesa; e un'autorità più illegittima, richiede mezzi più illegittimi.
Perciò la creazione, o l'intrusione di questo personaggio nella tirannide, si dee senza dubbio riputare come la più sublime perfezione di ogni arbitraria potestà.
Ed eccone in uno scorcio la prova.
Il tiranno, che non si è mai creduto né visto nessun eguale, odia per innato timore l'universale dei sudditi suoi; ma non ne avendo egli mai ricevuto ingiurie private, gl'individui non odia.
La spada sta dunque, fin ch'egli stesso la tiene, in mano di un uomo, che per non essere stato offeso, non sa cui ferire.
Ma, tosto ch'egli cede questo prezioso e terribile simbolo dell'autorità ad un suddito, che si è veduto degli eguali, e dei superiori; ad uno, che, per essere sommamente iniquo ed odioso, dee sommamente essere odiato dai molti e dai più; chi ardirà mai credere allora, o asserire, o sperare che costui non ferisca?
CAPITOLO SETTIMO
DELLA MILIZIA
Ma, o regni il tiranno stesso, o regni il ministro, a ogni modo sempre i difensori delle loro inique persone, gli esecutori ciechi e crudeli delle loro assolute volontà, sono i mercenarj soldati.
Di questi ve ne ha nei moderni tempi di più specie; ma tutte però ad un medesimo fine destinate.
In alcuni paesi d'Europa si arruolano gli uomini per forza; in altri, con minor violenza, e maggior obbrobrio per quei popoli, si offrono essi spontaneamente di perdere la lor libertà, o (per meglio dire) ciò che essi stoltamente chiamano di tal nome.
Costoro s'inducono a questo traffico di se stessi, spinti per lo più dalla lor dappocaggine e vizj, e lusingati dalla speranza di soverchiare ed opprimere i loro eguali.
Molti tiranni usano anche d'avere al lor soldo alcune milizie straniere, nelle quali maggiormente si affidano.
E, per una strana contraddizione, che molto disonora gli uomini, gli Svizzeri, che sono il popolo quasi il più libero dell'Europa, si lasciano prescegliere e comprare, per servir di custodi alla persona di quasi tutti i tiranni di essa.
Ma, o straniere siano o nazionali, o volontarie o sforzate, le milizie a ogni modo son sempre il braccio, la molla, la base, la ragione sola, e migliore, delle tirannidi e dei tiranni.
Un tiranno di nuova invenzione cominciò in questo secolo a stabilire e mantenere un esercito intero e perpetuo in armi.
Costui, nel volere un esercito, allorché non avea nemici al di fuori, ampiamente provò quella già nota asserzione; che il tiranno ha sempre in casa i nemici.
Non era però cosa nuova, che i tiranni avessero per nemici i loro sudditi tutti; e non era nuovo neppure, che senza aver essi quei tanto formidabili eserciti, sforzassero nondimeno i lor sudditi ad obbedire e tremare.
Ma, tra l'idea che si ha delle cose, e le cose stesse, di mezzo vi entrano i sensi; ed i sensi, nell'uomo, son tutto.
Quel tiranno che nei secoli addietro se ne stava disarmato, se gli sopravveniva allora il capriccio o il bisogno di aggravare oltre l'usato i suoi sudditi, soleva per lo più astenersene; perché mormorandone essi o resistendogli, pensava che gli sarebbe necessario di armarsi per fargli obbedire e tacere.
Ma ai tempi nostri, quell'autorità e forza, che il padre o l'avo del presente tiranno sapeano bensì d'avere, ma non se la vedeano sempre sotto gli occhi; quell'autorità e forza viene ora ampiamente dimostrata al regnante da quelle tante sue schiere, che non solo lo assicurano dalle offese dei sudditi, ma che ad offenderli nuovamente lo invitano.
Onde, fra l'idea del potere nei passati tiranni, e la effettiva realità del potere nei presenti, corre per l'appunto la stessa differenza, che passa tra la possibilità ideale d'una cosa, e la palpabile esecuzione di essa.
La moderna milizia, colla sua perpetuità, annulla nelle moderne tirannidi l'apparenza stessa del viver civile; di libertà seppellisce il nome perfino; e l'uomo invilisce a tal segno, che cose politicamente virtuose, giuste, giovevoli, ed alte, non può egli né fare, né dire, né ascoltar, né pensare.
Da questa infame moltitudine di oziosi soldati, vili nell'obbedire, insolenti e feroci nell'eseguire, e sempre più intrepidi contro alla patria che contro ai nemici, nasce il mortale abuso dell'esservi uno stato di più nello stato; cioè un corpo permanente e terribile, che ha opinioni ed interessi diversi e in tutto contrarj a quelli del pubblico; e un corpo, che per la sua illegittima e viziosa istituzione, porta in se stesso la impossibilità dimostrata di ogni civile ben vivere.
L'interesse di tutti o dei più, fra i popoli di ogni qualunque governo, si è di non essere oppressi, o il meno che il possono: nella tirannide i soldati, che non debbono aver mai interesse diverso da quello del tiranno che li pasce e che la loro superba pigrizia vezzeggia; i soldati, hanno necessariamente interesse di opprimere i popoli quanto più il possono; poiché quanto più opprimono, tanto più considerati sono essi, e necessarj, e temuti.
Non accade nella tirannide, come nelle vere repubbliche, che le interne dissensioni vengano ad esservi una parte di vita; e che, saggiamente mantenutevi ed adoprate, vi accrescano libertà.
Ogni diversità di interesse nella tirannide, accresce al contrario la pubblica infelicità, e la universal servitù: e quindi bisogna che il debole per così dire si annichili, e che il forte si insuperbisca oltre ogni misura.
Nella tirannide perciò le soldatesche son tutto, ed i popoli nulla.
Questi prepotenti, o siano volontariamente o sforzatamente arruolati, sogliono essere, quanto ai costumi, la più vile feccia della feccia della plebe: e sì gli uni che gli altri, appena hanno investita la livrea della loro duplicata servitù, fattisi orgogliosi, come se fossero meno schiavi che i loro consimili; spogliatisi del nome di contadini di cui erano indegni, sprezzano i loro eguali, e li reputano assai da meno di loro.
E in fatti, i veri contadini coltivatori nella tirannide si dichiarano assai minori dei contadini soldati, poiché sopportano essi questa genia militante, che ardisce disprezzargli, insultargli, spogliargli, ed opprimerli.
E a questa sì fatta genia potrebbero lievemente resistere i popoli, se volessero pure conoscere un solo istante la loro forza, poiché si troverebbero tuttavia mille contr'uno.
E se tanta pur fosse la viltà degli oppressi, che colla forza aperta non ardissero affrontare questi loro oppressori, potrebbero anche facilmente con arte e doni corrompergli e comprarli; che quel loro valore sta per chi meglio lo paga.
Ma da un sì fatto mezzo ne ridonderebbero in appresso più mali; tra cui non è il menomo, il ritrovarsi poscia fra il popolo una sì gran moltitudine d'enti, che soldati non potrebbero esser più, e che cittadini (ove anco il volessero) divenir non saprebbero.
Vero è, che il popolo li teme e quindi gli odia; ma non gli odia pur mai quanto egli abborrisce il tiranno, e non quanto costoro sel meritano.
Questa non è una delle più leggiere prove, che il popolo nella tirannide non ragiona, e non pensa: che se egli osservasse, che senza codesti soldati non potrebbe oramai più sussistere tiranno nessuno, gli abborrirebbe assai più; e da quest'odio estremo perverrebbe il popolo assai più presto allo spegnere affatto cotali soldati.
E non paja contraddizione il dire; che senza soldati non sussisterebbe il tiranno, dopo aver detto di sopra, che non sempre i tiranni hanno avuto eserciti perpetui.
Coll'accrescere i mezzi di usare la forza, hanno i tiranni accresciuta la violenza in tal modo, che se ora quei mezzi scemassero, verrebbe di tanto a scemare nei popoli il timore, che si distruggerebbe forse la tirannide affatto.
Perciò quegli eserciti, che non erano necessarj prima che si oltrepassassero certi limiti, e prima che il popolo fosse intimorito e rattenuto da una forza effettiva e palpabile, vengono ad essere necessarissimi dopo: perché natura dell'uomo è, che chiunque per molti anni ha avuto davanti agli occhi e ceduto ad una forza effettiva, non si lasci più intimorire da una forza ideale.
Quindi, nel presente stato delle tirannidi europee, al cessare dei perpetui eserciti, immantinente cesseran le tirannidi.
Il popolo non può dunque mai con verisimiglianza sperare di vedersi diminuito o tolto questo continuo aggravio ed obbrobrio, dello stipendiare egli stesso i suoi proprj carnefici, tratti dalle sue proprie viscere, e così tosto immemori affatto dei loro più sacri e naturali legami.
Ma il popolo ha pur sempre, non la speranza soltanto, ma la piena e dimostrata certezza di torsi egli stesso questo aggravio ed obbrobrio, ogniqualvolta egli veramente volendolo non chiederà ad altrui ciò che sta soltanto in sua mano di prendersi.
Ogni tiranno europeo assolda quanti più può di questi satelliti, e più assai che non può; egli se ne compiace, se ne trastulla, e ne va oltre modo superbo.
Sono costoro il vero e primo giojello delle loro corone: e, mantenuti a stento dai sudori e digiuni del popolo, preparati son sempre a beverne il sangue, ad ogni minimo cenno del tiranno.
Si accorda, in ragione del numero dei loro soldati, un diverso grado di considerazione ai diversi tiranni.
E siccome non possono essi diminuire i satelliti loro senza che scemi l'opinione che si ha della loro potenza; e siccome una persona abborrita, ove ella mai cessi di essere temuta, apertamente si dileggia da prima, e tosto poscia si spegne; egli è da credersi, che i tiranni non aspetteranno mai questo manifesto disprezzo precursore infallibile della loro intera rovina, e che sempre dissangueranno il popolo per mantenere coi molti soldati se stessi.
I tiranni, padroni pur anche per alcun tempo dell'opinione, hanno tentato di persuadere in Europa, ed hanno effettivamente persuaso ai più stupidi fra i loro sudditi, così plebei come nobili, che ella sia onorevole cosa la loro milizia.
E col portarne essi stessi la livrea, coll'impostura di passare essi stessi per tutti i gradi di quella, coll'accordarle molte prerogative insultanti ed ingiuste sopra tutte le altre classi dello stato, e massime sopra i magistrati tutti, hanno con ciò offuscato gl'intelletti, ed invogliato gli stoltissimi sudditi di questo mestiere esecrabile.
Ma una sola osservazione basta a distruggere questa loro scurrile impostura.
O tu reputi i soldati come gli esecutori della tirannica volontà al di dentro; e allora può ella mai parerti onorevol cosa lo esercitare contra il padre, i fratelli, i congiunti, e gli amici, una forza illimitata ed ingiusta? O tu li reputi come i difensori della patria; cioè di quel luogo dove per tua sventura sei nato; dove per forza rimani; dove non hai né libertà, né sicurezza, né proprietà nessuna inviolabile; e allora, onorevol cosa ti può ella parere il difendere codesto tuo sì fatto paese, e il tiranno che continuamente lo distrugge ed opprime quanto e assai più, che nol farebbe il nemico? e l'impedire in somma un altro tiranno di liberarti dal tuo? Che ti può egli togliere oramai quel secondo, che non ti sia stato già tolto dal primo? Anzi, potrà il nuovo tiranno, per necessaria accortezza, trattarti da principio molto più umanamente che il vecchio.
Conchiudo adunque; Che, non si potendo dir patria là dove non ci è libertà e sicurezza, il portar l'armi dove non ci è patria riesce pur sempre il più infame di tutti i mestieri: poiché altro non è, se non vendere a vilissimo prezzo la propria volontà, e gli amici, e i parenti, e il proprio interesse, e la vita, e l'onore, per una causa obbrobriosa ed ingiusta.
CAPITOLO OTTAVO
DELLA RELIGIONE
Quella qualunque opinione che l'uomo si è fatta o lasciata fare da altri, circa alle cose che egli non intende, come sarebbero l'anima e la divinità; quell'opinione suol essere anch'essa per lo più uno dei saldissimi sostegni della tirannide.
L'idea che dal volgo si ha del tiranno viene talmente a rassomigliarsi alla idea da quasi tutti i popoli falsamente concepita di un Dio, che se ne potrebbe indurre, il primo tiranno non essere stato (come supporre si suole) il più forte, ma bensì il più astuto conoscitore del cuore degli uomini; e quindi il primo a dar loro una idea, qual ch'ella si fosse, della divinità.
Perciò, fra moltissimi popoli, dalla tirannide religiosa veniva creata la tirannide civile; spesso si sono entrambe riunite in un ente solo; e quasi sempre si sono l'una l'altra ajutate.
La religion pagana, col suo moltiplicare sterminatamente gli Dei; e col fare del cielo una quasi repubblica, e sottomettere Giove stesso alle leggi del fato, e ad altri usi e privilegj della corte celeste; dovea essere, e fu in fatti, assai favorevole al viver libero.
La giudaica, e quindi la cristiana e maomettana, coll'ammettere un solo Dio, assoluto e terribile signor d'ogni cosa, doveano essere, e sono state, e sono tuttavia assai più favorevoli alla tirannide.
Queste cose tutte, già dette da altri, tralascio come non mie; e proseguendo il mio tema, che della moderna tirannide in Europa principalissimamente tratta, non esaminerò tra le diverse religioni se non se la nostra, ed in quanto ella influisce su le nostre tirannidi.
La cristiana religione, che è quella di quasi tutta la Europa, non è per se stessa favorevole al viver libero: ma la cattolica religione riesce incompatibile quasi col viver libero.
A voler provare la prima di queste proposizioni, basterà, credo, il dimostrare che essa in nessun modo non induce, né persuade, né esorta gli uomini al viver liberi.
Ed il primo, e principale incitamento ad un effetto così importante, dovrebbero pur gli uomini riceverlo dalla lor religione; poiché non vi è cosa che più li signoreggi; che maggiormente imprima in essi questa o quella opinione; e che maggiormente gli infiammi all'eseguire alte imprese.
Ed in fatti, nella pagana antichità, i Giovi, gli Apollini, le Sibille, gli Oracoli, a gara tutti comandavano ai diversi popoli e l'amor della patria e la libertà.
Ma la religion cristiana, nata in un popolo non libero, non guerriero, non illuminato, e già intieramente soggiogato dai sacerdoti, non comanda se non la cieca obbedienza; non nomina né pure mai libertà; ed il tiranno (o sacerdote o laico sia egli), interamente assimila a Dio.
Se si esamina in qual modo ella si propagasse, si vedrà che sempre si procacciò più facilmente l'ingresso nelle tirannidi, che nelle repubbliche.
Al cadere dell'imperio romano, (in cui ella non poté trovar seggio, se non quando la militare tirannide v'ebbe intieramente annullato ogni vivere civile) quelle tante nazioni barbare che l'occuparono, stabilite poi nella Italia, nelle Gallie, nelle Spagne, e nell'Africa, sotto i loro diversi condottieri abbracciarono indi a non molto la religion cristiana.
E la ragione mi par ne sia questa.
Quei loro condottieri volendo rimanere tiranni; e quei lor popoli, avvezzi ad esser liberi quando non erano in guerra, non volendo obbedire se non come soldati a capitano, e non mai come schiavi a tiranno; in questa disparità di umori frapponendosi il cristianesimo, egli vi appariva introduttore di una certa via di mezzo, per cui si andava persuadendo ai popoli l'obbedire, e ai capitani fatti tiranni si veniva assicurando l'imperio; ove questi una parte della loro autorità divider volessero coi sacerdoti.
In prova di che, si osservi quell'altra parte di quelle stesse nazioni boreali rimastasi povera, semplice, e libera nelle natie sue selve, essere poi stata l'ultimo popolo d'Europa che ricevesse, più assai per violenza che per via di persuasione, la religion cristiana.
Le poche nazioni che fuori d'Europa la ricevettero, vi furono per lo più indotte dal timore e dalla forza, come le diverse piagge di America e d'Affrica; ma dallo stesso ferocissimo fanatismo con cui veniva abbracciata nella Cina, e più nel Giappone, si può manifestamente dedurre quanto ella volentieri si alligni, e prosperi, nelle tirannidi.
I troppi abusi di essa sforzarono col tempo alcuni popoli assai più savj che imaginosi, a raffrenarla, spogliandola di molte dannose superstizioni.
E costoro, distinti poi col nome di eretici, si riaprirono con tal mezzo una strada alla libertà, la quale fra essi rinacque dopo essere stata lungamente sbandita d'Europa, e bastantemente vi prosperò; come gli Svizzeri, la Olanda, molte città di Germania, la Inghilterra, e la nuova America, ce lo provano.
Ma i popoli, che, non la frenando, vollero conservarla intera, (non però mai quale era stata predicata da Cristo, ma quale con arte, con inganno, ed anche con la violenza l'aveano i suoi successori trasfigurata) si chiusero essi sempre più ogni strada al riprocrear libertà.
Addurrò ora, non tutte, ma le principali ragioni, per cui mi pare quasi impossibile che uno stato cattolico possa o farsi libero veramente, o rimaner tale, rimanendo cattolico.
Il culto delle immagini, la presenza effettiva nella eucaristia, ed altri punti dogmatici, non saranno per certo mai quelli, che, creduti o no, verranno ad influire sopra il viver libero politico.
Ma, IL PAPA, ma, LA INQUISIZIONE, IL PURGATORIO, LA CONFESSIONE, IL MATRIMONIO FATTOSI INDISSOLUBILE SACRAMENTO e IL CELIBATO DEI RELIGIOSI; sono queste le sei anella della sacra catena, che veramente a tal segno rassodano la profana, che ella di tanto ne diventa più grave ed infrangibile.
E, dalla prima di queste sei cose incominciando, dico: Che un popolo, che crede potervi esser un uomo, che rappresenti immediatamente Dio; un uomo, che non possa errar mai; egli è certamente un popolo stupido.
Ma se, non lo credendo, egli viene per ciò tormentato, sforzato, e perseguitato da una forza superiore effettiva, ne accaderà che quella prima generazione d'uomini crederà nel papa, per timore; i figli, per abitudine; i nepoti, per stupidità.
Ecco in qual guisa un popolo che rimane cattolico, dee necessariamente, per via del papa e della inquisizione, divenire ignorantissimo, servissimo, e stupidissimo.
Ma, mi dirà taluno: "Gli eretici credono pure nella trinità; e questa al senso umano pare una cosa certamente ancora più assurda che le sopraccennate: non sono dunque gli eretici meno stupidi dei cattolici".
Rispondo; che anche i Romani credevano nel volo e nel beccar degli augelli, cosa assai più puerile ed assurda; eppure erano liberi e grandi; e non divennero stupidi e vili, se non quando, spogliati della lor libertà, credettero nella infame divinità di Cesare, di Augusto, e degli altri lor simili e peggiori tiranni.
Quindi, la trinità nostra, per non essere cosa soggetta ai sensi, si creda ella o no, non può influire mai sopra il viver politico: ma, l'autorità più o meno di un uomo; l'autorità illimitata sopra le più importanti cose, e velata dal sacro ammanto della religione, importa e molte, e notabili conseguenze; tali in somma, che ogni popolo che crede od ammette una tale autorità, si rende schiavo per sempre.
Lo ammetterla senza crederla, che è il caso nostro presente in quasi tutta l'Europa cattolica, mi pare una di quelle umane contraddizioni sì stranamente ripugnanti alla sana ragione, ch'elle non possono essere gran fatto durevoli; e quindi non occorre maggiormente parlarne.
Ma i popoli che l'autorità del papa ammettono perché la credono, come erano i nostri avi, ed alcune presenti nazioni, necessariamente la credono o per timore, o per ignoranza e stupidità.
Se per queste ultime ragioni la credono, chiaro è che una nazione stupida ed ignorante affatto, non può, nel presente stato delle cose, esser libera: ma, se per timore la credono i popoli, da chi vien egli in loro inspirato codesto timore? non dalle papali scomuniche certamente, poiché in esse non hanno fede costoro; dalle armi dunque e dalla forza spaventati saranno, ed indotti a finger di credere.
E da quali armi mai? da qual vera forza? dalle armi e forza del tiranno, che politicamente e religiosamente gli opprime.
Dunque, dovendo i popoli temere l'armi di chi li governa, in una cosa che dovrebbe essere ad arbitrio di ciascuno il crederla o no, ne risulta che chi governa tai popoli, di necessità è tiranno; e che essi, attesa questa loro sforzata credenza, non sono, né possono farsi mai liberi.
Ed in fatti, né Atene, né Sparta, né Roma, né altre vere ed illuminate repubbliche, non isforzarono mai i lor popoli a credere nella infallibilità degli oracoli; né, molto meno, a rendersi tributarj e ciecamente obbedienti a niuno lontano sacerdozio.
LA INQUISIZIONE, quel tribunale sì iniquo di cui basta il nome per far raccapricciare d'orrore, sussiste pur tuttavia più o meno potente in quasi tutti i paesi cattolici.
Il tiranno se ne prevale a piacer suo; ed allarga, o ristringe la inquisitoria autorità, secondo che meglio a lui giova.
Ma, questa autorità dei preti e dei frati (vale a dire, della classe la più crudele, la più sciolta da ogni legame sociale, ma la più codarda ad un tempo) quale influenza avrebbe ella per se stessa, qual terrore potrebbe ella infondere nei popoli, se il tiranno non la assistesse e munisse colla propria sua forza effettiva? Ora, una forza che sostiene un tribunale ingiusto e tirannico, non è certamente né giusta né legittima: dove alligna l'Inquisizione, alligna indubitabilmente la tirannia; dove ci è cattolicismo, vi è o vi può essere ad ogni istante l'Inquisizione: non si può dunque essere a un tempo stesso un popolo cattolico veramente, e un popolo libero.
Ma, che dirò io poi della CONFESSIONE? Tralascio il dirne ciò che a tutti è ben noto; che la certezza del perdono di ogni qualunque iniquità col solo confessarla, riesce assai più di sprone che di freno ai delitti; e tante altre cose tralascio, che dall'uso, o abuso di un tal sacramento manifestamente ogni giorno derivano.
Io mi ristringo a dire soltanto; che un popolo che confessa le sue opere, parole, e pensieri ad un uomo, credendo di rivelarli per un tal mezzo a Dio; un popolo, che fra gli altri peccati suoi è costretto a confessare come uno dei maggiori, ogni menomo desiderio di scuotere l'ingiusto giogo della tirannide, e di porsi nella naturale ma discreta libertà; un tal popolo non può esser libero, né merita d'esserlo.
La dottrina del PURGATORIO, cagione ad un tempo ed effetto della confessione, contribuisce non poco altresì ad invilire, impoverire, e quindi a rendere schiavi i cattolici popoli.
Per redimere da codesta pena i loro padri ed avi, colla speranza di esserne poi redenti dai loro figli e nipoti, danno costoro ai preti non solamente il loro superfluo, ma anche talvolta il lor necessario.
Quindi la sterminata ricchezza dei preti; e dalla loro ricchezza, la lor connivenza col tiranno; e da questa doppia congiura, la doppia universal servitù.
Onde, di povero che suol essere in ogni qualunque governo il popolo, fatto poverissimo per questo mezzo di più nella tirannide cattolica, egli vi dee rimanere in tal modo avvilito, che non penserà né ardirà mai tentare di farsi libero.
I sacerdoti all'incontro, di poveri (benché non mendici) che esser dovrebbero, fatti per mezzo di codesto lor purgatorio ricchissimi, e quindi moltiplicati e superbi, sono sempre in ogni governo inclinati, anzi sforzati da queste loro illegittime sterminate ricchezze, a collegarsi con gli oppressori del popolo, e a divenire essi stessi oppressori per conservarle.
Dalla indissolubilità del MATRIMONIO FATTOSI SACRAMENTO, ne risultano palpabilmente quei tanti politici mali, che ogni giorno vediamo nelle nostre tirannidi: cattivi mariti, peggiori mogli, non buoni padri, e pessimi figli: e ciò tutto, perché quella sforzata indissolubilità non ristringe i legami domestici; ma bensì, col perpetuarli senza addolcirli, interamente li corrompe e dissolve.
E finalmente poi, siccome dall'essere i popoli cattolici sforzatamente perpetui conjugi, non sogliono esser essi fra loro né mariti veri, né mogli, né padri; così, dall'essere i preti cattolici sforzatamente PERPETUI CELIBI, non sogliono mostrarsi né fratelli, né figli, né cittadini; che per conoscere e praticare virtuosamente questi tre stati, troppo importa il conoscere per esperienza l'appassionatissimo umano stato di padre e marito.
Da queste fin qui addotte ragioni, mi pare che ne risulti chiaramente (oltre la maggior ragione di tutte, che sono i fatti) che un popolo cattolico già soggiogato dalla tirannide, difficilissimamente può farsi libero, e rimanersi veramente cattolico.
E per addurne un solo esempio, che troppi addurne potrei, nella ribellione delle Fiandre, quelle provincie povere, che non avendo impinguati i lor preti si erano potute far eretiche, rimasero libere; le grasse e ridondanti di frati, di abati, e di vescovi, rimasero cattoliche e serve.
Vediamo ora, se un popolo che già si ritrovi libero e cattolico, si possa lungamente mantener l'uno e l'altro.
Che un popolo soggiogato da tanti e sì fatti politici errori, quanti ne importa il viver cattolico, possa essere politicamente libero, ella è cosa certamente molto difficile: ma, dove pure ei lo fosse, io credo che il conservarsi tale, sia cosa impossibile.
Un popolo, che crede nella infallibile e illimitata autorità del papa, è già interamente disposto a credere in un tiranno, che con maggiori forze effettive e avvalorate dal suffragio e scomuniche di quel papa istesso, lo persuaderà, o sforzerà ad obbedire a lui solo nelle cose politiche, come già obbedisce al solo papa nelle religiose.
Un popolo, che trema della Inquisizione, quanto più non dovrà egli tremare di quell'armi stesse che la Inquisizione avvalorano? Un popolo, che si confessa di cuore, può egli non essere sempre schiavo di chi può assolverlo o no? Dico di più; che dal ceto stesso dei sacerdoti, (ove un laico tiranno non vi fosse) ne insorgerebbe uno religioso ben tosto; o se da altra parte insorgesse un tiranno, lo approverebbero e seconderebbero i sacerdoti, sperandone il contraccambio da lui.
Ed è cosa anche provata dai fatti; si veda perfino nelle semi-repubbliche italiane, i sacerdoti esservi saliti assai meno in ricchezza e in potenza, che nelle tirannidi espresse di un solo.
Un popolo finalmente, che si spropria dell'aver suo, togliendolo a se stesso, a' suoi congiunti, e ai proprj suoi figli, per darlo ai sacerdoti celibi, diventerà coll'andar del tempo indubitabilmente così bisognoso e mendico, che egli sarà preda di chiunque lo vorrà conquistare, o far servo.
Non so se al sacerdozio si debba la prima invenzione del trattare come cosa sacrosanta il politico impero, o se l'impero abbia ciò inventato in favore del sacerdozio.
Questa reciproca e simulata idolatria, è certamente molto vetusta; e vediamo nell'antico testamento a vicenda sempre i re chiamar sacri i sacerdoti, e i sacerdoti i re; ma da nessuno mai dei due udiamo chiamare, o reputare mai sacri, gl'incontestabili naturali diritti di tutte le umane società.
Il vero si è, che quasi tutti i popoli della terra sono stati, e sono (e saranno sempre, pur troppo!) tolti in mezzo da queste due classi di uomini, che sempre fra loro si sono andate vicendevolmente conoscendo inique, e che con tutto ciò si sono reciprocamente chiamate sacre: due classi, che dai popoli sono state spesso abborrite, alcuna volta svelate, e sempre pure adorate.
È il vero altresì, che in questo nostro secolo i presenti cattolici poco credono nel papa; che pochissimo potere ha la inquisizion religiosa; che si confessano soltanto gl'idioti; che non si comprano oramai le indulgenze, se non dai ladri religiosi e volgari: ma, al papa, alla Inquisizione, alla confessione, e all'elemosine purgatoriali, in questo secolo, fra i presenti cattolici, ampiamente supplisce la sola MILIZIA; e mi spiego.
Il tiranno ottiene ora dal terrore che a tutti inspirano i suoi tanti e perpetui soldati, quello stesso effetto che egli per l'addietro otteneva dalla superstizione, e dalla totale ignoranza dei popoli.
Poco gl'importa oramai che in Dio non si creda; basta al tiranno, che in lui solo si creda; e di questa nostra credenza, molto più vile e assai meno consolatoria per noi, glie n'entrano mallevadori continui gli eserciti suoi.
Vi sono nondimeno in Europa alcuni tiranni, che volendo con ipocrisia mascherare tutte l'opere loro, pigliano a sostenere le parti della religione, per farsi pii reputare, e per piacere al maggior numero che pur tuttora la rispetta, e la crede.
Ogni savio tiranno, ed accorto, così dee pure operare; sia per non privarsi con una inutile incredulità di un così prezioso ramo dell'autorità assoluta, quale è l'ira dei preti amministrata da lui, e viceversa, la sua, amministrata da essi; sia perché usando altrimenti, potrebbe egli avvenirsi in un qualche fanatico di religione, il quale facesse le veci di un fanatico di libertà: e quelli sono e men rari e più assai incalzanti, che questi.
E perché mai sono quelli men rari? attribuir ciò si dee all'essere il nome di religione in bocca di tutti; e in bocca di pochissimi, e in cuore quasi a nessuno, il nome di libertà.
Il più sublime dunque ed il più utile fanatismo, da cui veramente ne ridonderebbero degli uomini maggiori di quanti ve ne siano stati giammai, sarebbe pur quello, che creasse e propagasse una religione ed un Dio, che sotto gravissime pene presenti e future comandassero agli uomini di esser liberi.
Ma, coloro che inspiravano il fanatismo negli altri, non erano per lo più mai fanatici essi stessi; e pur troppo a loro giovava d'inspirarlo per una religione ed un Dio, che agli uomini severamente comandassero di essere servi.
CAPITOLO NONO
DELLE TIRANNIDI ANTICHE, PARAGONATE COLLE MODERNE
Le cagioni stesse hanno certamente in ogni tempo e luogo, con piccolissime differenze, prodotto gli stessi effetti.
Tutti i popoli corrottissimi hanno soggiaciuto ai tiranni, fra' quali ve ne sono stati dei pessimi, dei cattivi, dei mezzani, e perfino anco dei buoni.
Nei moderni tempi i Caligoli, i Neroni, i Dionigi, i Falaridi, ecc., rarissimi sono: e se anche vi nascono, assumono costoro fra noi una tutt'altra maschera.
Ma meno feroce d'assai è anche il popolo moderno: quindi la ferocia del tiranno sta sempre in proporzione di quella dei sudditi.
Le nostre tirannidi, in oltre, differiscono dalle antiche moltissimo; ancorché di queste e di quelle la milizia sia il nervo, la ragione, e la base.
Né so, che questa differenza ch'io sto per notare, sia stata da altri osservata.
Quasi tutte le antiche tirannidi, e principalmente la romana imperiale, nacquero e si corroborarono per via della forza militare stabilita senza nessunissimo rispetto su la rovina totale d'ogni preventiva forza civile e legale.
All'incontro le tirannidi moderne in Europa sono cresciute e si sono corroborate per via d'un potere, militare sì e violento, ma pure fatto, per così dir, scaturire da quell'apparente o reale potere civile e legale, che si trovava già stabilito presso a quei popoli.
Servirono a ciò di plausibil pretesto le ragioni di difesa d'uno stato contro all'altro; la conseguenza ne riuscì più sordamente tirannica che fra gli antichi; ma ella ne è pur troppo più funesta e durevole, perché in tutto è velata dall'ammanto ideale di una legittima civile possanza.
I Romani erano educati fra il sangue; i loro crudeli spettacoli, che a tempo di repubblica virtuosamente feroci li rendevano, al cessar d'esser liberi non li faceano cessare per ciò di essere sanguinarj.
Nerone, Caligola, ecc., ecc., trucidavano la madre, la moglie, i fratelli, e chiunque a lor dispiacesse: ma Nerone, Caligola, e i simili a loro, morivano pur sempre di ferro.
I nostri tiranni non uccidono mai apertamente i loro congiunti; rarissimamente versano senza necessità il sangue dei sudditi, e ciò non fanno se non sotto il manto della giustizia: ma anche i tiranni nostri se ne muojono in letto.
Non negherò, che a raddolcire gli universali costumi non poco contribuisse la religione cristiana; benché da Costantino fino a Carlo VI tanti tratti di stupida ignorante e non grandiosa ferocia si possono pur leggere nelle storie di tutti quei popoli intermediarj, che storia a dir vero non meritavano.
Nondimeno attribuire si debbe in qualche parte il raddolcimento universale dei costumi, e una certa urbanità nella tirannide diversamente modificata, alla influenza della cristiana religione.
Il tiranno, anch'egli ignorante per lo più e superstizioso, e sempre codardo, il tiranno anch'egli si confessa; e benché sempre vada assolto dalle oppressioni e dalle angarie fatte ai suoi sudditi, non lo sarebbe forse poi in questi nostri tempi dell'aver trucidato apertamente la madre e i fratelli, o dell'aver messo a fuoco e a sangue una propria città e provincia, se non se ricomprando con enorme prezzo, e con una total sommissione ai sacerdoti, la disusata enormità di un tanto misfatto.
Se sia un bene od un male, che dall'essere raddolciti tanto gli universali costumi ne risultino queste nostre tirannidi assai meno feroci, ma assai più durevoli e sicure che le antiche, ne può esser giudice chiunque vorrà paragonare gli effetti e le influenze di queste e di quelle.
Quanto a me, dovendone brevissimamente parlare, direi; che difficilmente può nascere ai tempi nostri un Nerone ed esercitar l'arte sua; ma che assai più difficilmente ancora può nascere un Bruto, e in pubblico vantaggio la mano adoprare ed il senno.
CAPITOLO DECIMO
DEL FALSO ONORE
Ma, se le antiche tirannidi e le moderne si rassomigliano nell'aver esse la paura per base, la milizia e la religione per mezzi, differiscono alquanto le moderne dalle antiche per aver esse nel falso onore, e nella classe della nobiltà ereditaria permanente, ritrovato un sostegno, che può assicurarne la durata in eterno.
Ragionerò in questo capitolo del falso onore; e alla nobiltà, che ben se lo merita, riserberò un capitolo a parte.
L'onore, nome da tanti già definito, da tutti i popoli, e in tutti i tempi diversamente inteso, e a parer mio indefinibile; l'onore verrà ora da me semplicemente interpretato così: La brama, e il diritto, di essere onorato dai più.
Ed il falso distinguerò dal vero, falsa chiamando quella brama d'onore, che non ha per ragione e per base la virtù dell'onorato, e l'utile vero degli onoranti; e vera all'incontro chiamerò quella brama di onore, che altra ragione e base non ammette se non la utile e praticata virtù.
Ciò posto, esaminiamo qual sia questo onore nelle tirannidi, chi lo professi, a chi giovi, da qual virtù nasca, e qual virtù ed utile egli promuova.
L'onore nelle tirannidi si va spacciando egli stesso come il solo legittimo impulso, che spinge tutti coloro che pretendono di non operar per paura.
Il tiranno, contento oltre ogni credere, che la paura mascherata sotto altro titolo venga nondimeno a produrre un medesimo, anzi un maggior effetto in suo pro, straordinariamente seconda questa volgare illusione.
Col semplice nome di onore, che sempre gli sta tra le labbra, egli riesce pure a spingere i suoi sudditi a coraggiose e magnanime imprese, le quali veramente onorevoli sarebbero, se fatte non fossero in suo privato vantaggio, ed in pubblico danno.
Ma, se onore vuol dire; Il giusto diritto di essere veramente onorato dai buoni ed onesti, come utile ai più; e se la virtù sola può essere base a un tal dritto; come può egli il tiranno profferire mai un tal nome? Lo ripetono anche i sudditi a gara; ma se la loro brama e diritto d'essere onorati si fondasse su la pratica della vera virtù, potrebbero eglino servire, obbedire, e giovare a un tiranno che nuoce a tutti? E noi stessi schiavi moderni, ove ricordare pure vogliamo la memoria d'un uomo giustamente onorato per molte età da molti e diversi popoli, e che quindi moltissimo onore abbia avuto nel cuore, facciamo noi menzione di un Milziade, di un Temistocle, di un Regolo, ovvero d'uno Spitridate, di un Sejano, o di altro prepotente schiavo di tiranno? Noi stessi dunque (e senza avvedercene) sommamente onorando quegli uomini liberi, grandi, e giustamente onorevoli ed onorati, veniamo manifestamente a mostrare, che il vero onore era il loro; e che il nostro, il quale in tutto è l'opposto di quello, è il falso; poiché niente onoriamo la memoria di quei pretesi grandi in tirannide.
Ma, se l'onore nelle tirannidi è falso, e se, immedesimatosi colla paura, egli è pure la principalissima molla di un tal governo, da un falso principio falsissime conseguenze risultar ne dovranno; e ne risultano in fatti.
L'onore nella tirannide impone, che mai non si manchi di fede al tiranno.
Impone l'onore nella repubblica, che chiunque volesse farsi tiranno, sia spento.
Per giudicare qual sia tra questi due onori il verace, esaminiamo alla sfuggita questa fede, che il servo non dee rompere al tiranno.
Il rompere la data fede, è certamente cosa, che dee disonorar l'uomo in ogni qualunque governo: ma la fede dev'essere liberamente giurata, non estorquita dalla violenza, non mantenuta dal terrore, non illimitata, non cieca, non ereditaria; e, sovra ogni cosa, reciproca dev'esser la fede.
Ogni moderno tiranno, al riappiccarsi in fronte la corona del padre, anch'egli ha giurato una fede qualunque ai suoi sudditi, che già rotta e annullata dal di lui padre, lo sarà parimente e doppiamente da esso.
Il tiranno è dunque di necessità sempre il primo ad essere spergiuro, e fedifrago: egli è dunque il primo a calpestarsi fra' piedi il proprio onore, insieme con le altrui cose tutte.
Ed i suoi sudditi perderebbero l'onor loro, nel romper essi quella fede che altri ha manifestamente già rotta? La pretesa virtù, in questo caso frequente pur tanto nelle tirannidi, sta dunque direttamente in opposizione coll'onor vero; poiché, se un privato ti manca di fede, anche l'onore stesso delle tirannidi t'impone di fargliela a forza osservare, per vendicare in tal modo il disprezzo ch'egli ha mostrato espressamente di te nell'infrangerla.
Manifestamente dunque falso è quell'onore che comanda di serbar rispetto, ed amore, e fede a chi non serba, o può impunemente non serbare, alcuna di queste tre cose a nessuno.
Da questo falso onore nasce poi la falsissima conseguenza, che si venga a credere legittima infrangibile e sacra quell'autorità, che l'onore stesso costringe a mantenere e difendere.
A questo modo, nella tirannide, guasti essendo e confusi i nomi di tutte le cose, i capricci del tiranno messi in carta, col sacro nome di leggi s'intitolano; e si rispettano, ed eseguiscono, come tali.
Così, a quella terra dove si nasce, si dà nella tirannide risibilmente il nome di patria; perché non si pensa che patria è quella sola, dove l'uomo liberamente esercita, e sotto la securtà d'invariabili leggi, quei più preziosi diritti che natura gli ha dati.
Così, si ardisce nella tirannide appellare senato (col nome cioè dei liberi scelti patrizj di Roma) una informe raccolta di giudici trascelti dal principe, togati di porpora, e specialmente dotti in servire.
Così finalmente, si viene a chiamare nella tirannide col titolo sacro d'onore la dimostrata impossibilità di essere giustamente onorato dai buoni, come di essere utile ai molti.
Ma, per maggiormente accertarci, che l'onor nostro sia il falso, paragoniamolo alquanto più lungamente a quello delle repubbliche antiche, nelle sue cagioni, mezzi, ed effetti; e certo arrossiremo noi tosto di profferire un tal nome; che se dicessimo non essere egli a noi noto affatto, con una tale ignoranza escuseremmo almeno la infamia nostra in gran parte.
Comandava l'onore antico a quei popoli liberi, di dar la vita per la libertà; vale a dire pel maggior vantaggio di tutti: ci comanda il moderno onore di dar la vita pel tiranno; vale a dire per colui che sommamente nuoce a noi tutti.
Voleva l'antico onore, che le ingiurie private cedessero sempre alle pubbliche: vuole il moderno che si abbiano le pubbliche per nulla, e che atrocemente si vendichino le private.
Voleva l'antico, che i suoi seguaci serbassero amore e fede inviolabile alla patria sola: il nostro la vuole e comanda pel solo tiranno.
E non finirei, se i precetti di questo e di quello, in tutto contrarj fra loro, annoverare volessi.
Ma i mezzi per essere onorato, non meno dai popoli servi che dai liberi, sono pur sempre il coraggio e una certa virtù: colla somma differenza nondimeno, che l'onore nelle repubbliche, scevro da ogni privato interesse, riesce di pura ricompensa a se stesso; ma nelle tirannidi questo onore impiegatosi in pro del tiranno, vien sempre contaminato da mercedi e favori, che più o meno distribuiti dal principe, accrescono, minorano, o anche, negati, spengono affatto l'onore nel cuore de' suoi servi.
Le conseguenze poi di questi due diversi onori, facilissime sono a dedursi.
Libertà, grandezza d'animo, virtù domestiche e pubbliche, il nome e il felice stato di cittadino; ecco quali erano i dolci frutti dell'antico onore: tirannia, ferocia inutile, vil cupidigia, servaggio, e timore; ecco innegabilmente quali sono i frutti del moderno.
I Greci e' Romani erano in somma il prodotto del vero onor ben diretto; i popoli tutti presenti d'Europa, (meno gl'Inglesi) sono il prodotto del falso onore moderno.
Paragonando fra loro questi popoli, la diversa felicità e potenza da essi acquistata, le diverse cose operate da loro, la fama che ottengono, e quella che meritano, si viene ad avere un'ampia e perfetta misura di ciò che possa nel cuor dell'uomo questa divina brama di essere giustamente onorato, allorché dai saggi governi ella è bene indrizzata e accresciuta, o allorché dai tirannici ella viene diminuita, o traviata dal vero.
Mi si dirà che, o buono sia o cattivo il principio, a ogni modo il sagrificar la propria vita, il mantenere la data fede a costo di essa, l'esporla per vendicare le ingiurie private, tutto ciò suppone pur sempre una somma virtù.
Né io imprendo stoltamente a negare, che nelle tirannidi vi sia moltissima gente capace di virtù, e nata per esercitarla: piango solamente in me stesso di vederla falsamente adoprarsi nel sostenere, e difendere il vizio, e quindi nello snaturare, e distruggere se stessa.
E niuno politico scrittore ardirà certamente chiamare virtù uno sforzo, ancorché massimamente sublime, da cui, in vece del pubblico bene, ne debba poi ridondare un male per tutti, e la prolungazione del pubblico danno.
Ora, perché dunque quella stessa vita, che tanti e sì fatti uomini ripieni di falso onore vanno così prodigamente spendendo pel tiranno, perché quella vita stessa non vien ella da loro sagrificata, con più ragione e con ugual virtù, per togliere a colui la tirannide? E quel valore inutile (poiché non ne ridonda alcun bene) quell'efferato valore, con cui nelle tirannidi si vendicano le private offese, perché non si adopera tutto contro al tiranno, che tutti, e in più supremo grado, non cessa pur mai un momento di offendere? E quella fede che così ostinatamente cieca si osserva verso il nemico di tutti, perché, con egual pertinacia e con più illuminata virtù, non si giura ella ed osserva inverso i sacri ed infranti diritti dell'uomo?
Nelle tirannidi dunque, a tal segno ridotti son gl'individui, che, qualunque impulso dalla natura abbiano ricevuto all'operar cose grandi, essi edificano pur sempre sul falso, ogniqualvolta non sanno o non osano calpestare il moderno onore, e riassumere l'antico.
CAPITOLO UNDECIMO
DELLA NOBILTÀ
Havvi una classe di gente, che fa prova e vanto di essere da molte generazioni illustre, ancorché oziosa si rimanga ed inutile.
Intitolasi nobiltà; e si dee, non meno che la classe dei sacerdoti, riguardare come uno dei maggiori ostacoli al viver libero, e uno dei più feroci e permanenti sostegni della tirannide.
E benché alcune repubbliche liberissime, e Roma tra le altre, avessero anch'elle in sé questo ceto, è da osservarsi, che già lo avevano quando dalla tirannide sorgeano a libertà; che questo ceto era pur sempre il maggior fautore dei cacciati Tarquinj; che i Romani non accordarono d'allora in poi nobiltà, se non alla sola virtù; che la costanza tutta, e tutte le politiche virtù di quel popolo erano necessarie per impedire per tanti anni ai patrizj di assumere la tirannide; e che finalmente poi dopo una lunga e vana resistenza, era forza che il popolo credendo di abbattergli, ad essi pur soggiacesse.
I Cesari in somma erano patrizj, che mascheratisi da Marii, fingendo di vendicare il popolo contra i nobili, amendue li soggiogarono.
Dico dunque; che i nobili nelle repubbliche, ove essi vi siano prima ch'elle nascano, o tosto o tardi le distruggeranno, e faran serve; ancorché non vi siano da prima più potenti che il popolo.
Ma, in una repubblica, in cui nobili non vi siano, il popolo libero non dee mai creare nel proprio seno un sì fatale stromento di servitù, né mai staccare dalla causa comune nessuno individuo, né (molto meno) staccarne a perpetuità, nessuna intera classe di cittadini.
Pure, per altra parte moltissimo giovando alla emulazione, e non poco alla miglior discussione dei pubblici affari, l'aver nella repubblica un ceto minore in numero, e maggiore in virtù al ceto di tutti, potrebbe un popolo libero a ciò provvedere col crearsi questo ceto egli stesso, e crearlo a vita od a tempo, ma non ereditario giammai; affinché possano costoro operare nella repubblica quel tal bene che vi oprerebbe forse la nobiltà, senza poterne operare mai niuno dei mali, che ella tutto giorno pur vi opera.
Natura dell'uomo si è, che quanto egli più ha, tanto desidera più, e tanto maggiormente in grado si trova di assumersi più.
Al ceto dei nobili ereditarj, avendo essi la primazìa e le ricchezze, altro non manca se non la maggiore autorità, e quindi ad altro non pensano che ad usurparla.
Per via della forza nol possono, perché in numero si trovano pur sempre di tanto minori del popolo.
Per arte dunque, per corruzione, e per fraude, tentano di usurparla.
Ma, o fra loro tutti si accordano, e, per invidia l'uno dell'altro, rimanendo la usurpata autorità nelle mani di loro tutti, ecco allora creata la tirannide aristocratica: ovvero tra quei nobili se ne trova uno più accorto, più valente, e più reo degli altri, che parte ne inganna, parte ne perseguita o distrugge, e fingendo di assumere le parti e la difesa del popolo, si fa assoluto signore di tutti; ed ecco, come sorge la tirannide d'un solo.
Ed ecco, come ogni tirannide ha sempre per origine la primazìa ereditaria di pochi: poiché la tirannide importando necessariamente sempre lesione e danno dei più, ella non si può mai originare né lungamente esercitare da tutti, che al certo non possono mai volere la lesione ed il danno di se stessi.
Conchiudo adunque, quanto alla ereditaria nobiltà, che quelle repubbliche, in cui ella è già stabilita, non possono durar libere di vera politica libertà; e che nelle tirannidi questa vera libertà non vi si può mai stabilire, o stabilita durarvi, finché vi rimangono de' nobili ereditarj: e le tirannidi nelle loro rivoluzioni non muteranno altro mai che il tiranno, ogniqualvolta non abbatteranno con esso ad un tempo la nobiltà.
Così Roma, benché cacciasse i tiranni Tarquinj, rimanendovi pure, dopo svanito il comune pericolo, assai più potenti i patrizj che il popolo, Roma non fu veramente libera e grande, che alla creazione dei tribuni.
Questo popolar magistrato, contrastando di pari colla potenza patrizia, ed essendo abbastanza potente per tenerla a freno, e non abbastanza per distruggerla affatto, per molto tempo sforzava i nobili a gareggiare col popolo in virtù; e ne nacque perciò per gran tempo il bene di tutti.
Ma il mal seme pur rimaneva, e all'accrescersi della universale potenza e ricchezza, rigermogliò più che mai rigogliosa ogni superbia e corruzione nei nobili; e questi poi, così guasti, in breve la repubblica spensero.
Fu dottamente e con sagace verità oss
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