DELLA TIRANNIDE, di Vittorio Alfieri - pagina 14
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Sejano, abborriva egli maggiormente Tiberio quando gli congiurò contra, che quando il salvò? assai più certamente abborrivalo dopo, perché la immensità delle cose da lui ricevute, gli facea più da presso e con maggior terrore rimirare la immensità, più grande ancora, delle cose che quello stesso Tiberio gli poteva ritogliere.
Quindi, non si credendo Sejano in sicuro, se egli non ispegneva quella sola potenza che avrebbe potuto trionfar della sua, non dubitò poscia punto, anzi con lungo e premeditato disegno, imprese a togliersi il tiranno dagli occhi.
Né ai Tiberj, in qualunque tempo o luogo essi nascano e regnino, toccar mai potranno altri amici se non i Sejani.
Se dunque il tiranno è sommamente abborrito da quegli stessi ch'egli benefica, che sarà egli poi da quei tanti che direttamente o indirettamente egli offende o dispoglia?
La sola intera stupidità dei poveri e rozzi e lontani, può dunque (come ho di sopra dimostrato) amare il tiranno, appunto perché nessuno di questi lo vede né lo conosce; e questo amarlo va interpretato, il non affatto abborrirlo.
Da ogni altra persona qualunque, nella tirannide, si può fingere bensì e anche far pompa di amare il tiranno; ma veramente amarlo, non mai.
Questa servile bugiarda ed infame pompa verrà per lo più praticata dai più vili; e da quelli perciò, i quali maggiormente temendolo, maggiormente lo abborriscono.
CAPITOLO DECIMOSETTIMO
SE IL TIRANNO POSSA AMARE I SUOI SUDDITI, E COME
Nello stesso modo con cui si è di sopra dimostrato, che i sudditi non possono amare il tiranno, perché essendo egli troppo smisuratamente maggiore di loro non corre proporzione nessuna fra il bene ed il male che ne possono essi ricevere; nel modo stesso mi sarà facile il dimostrare, che il tiranno non può amare i suoi sudditi; perché, essendo essi tanto smisuratamente minori di lui, non ne può egli ricevere alcuna specie di bene spontaneo, riputandosi egli in dritto di prendere qualunque cosa essi volessero dargli.
E si noti così alla sfuggita, che lo amare, o sia egli di amicizia, o d'amore, o di benignità, o di gratitudine, o d'altro; lo amare si è uno degli umani affetti, che più di tutti richiede, se non perfettissima uguaglianza, rapprossimazione almeno e comunanza, e reciprocità fra gli individui.
Ammessa questa definizione dell'amare umano, ciascuno rimane giudice, se niuna di tutte queste cose sussistere possa infra il tiranno e i suoi schiavi; cioè, fra la parte sforzante e la parte sforzata.
Corre nondimeno una gran differenza, in questa reciproca maniera del non-amarsi, infra il tiranno ed i sudditi.
Questi, come tutti, (qual più qual meno, quale direttamente quale indirettamente, quale in un tempo e quale nell'altro) come offesi tutti e costretti dal tiranno, tutti lo abborriscono per lo più, e così dev'essere: ma il tiranno, come un ente non offendibile dall'universale, fuorché per manifesta ribellione contra di lui; il tiranno non abborrisce se non se quei pochissimi che egli vede o suppone essere nel loro cuore insofferenti del giogo; che se costoro mai si attentassero di mostrarlo, la vendetta del tiranno immediatamente verrebbe ad estinguerne l'odio.
Non odia dunque il tiranno i suoi sudditi, perché in veruna maniera essi non l'offendono: e qualora si ritrova in trono per caso un qualche tiranno d'indole mite ed umana, egli si può pur anche usurpare la fama di amarli; né in tal caso, da altro una tal fama proviene, se non dall'essere la natura di quel principe, per se stessa, men rea di quel che lo sia per se stessa l'autorità e la possibilità impunita del nuocere, che è posta in lui.
Ma io, sbadatamente, quasi ometteva una validissima ragione per cui il tiranno dee anch'egli (e non poco) se non abborrire, disprezzare almeno quella parte de' suoi sudditi che egli vede abitualmente e conosce; ed è questa; che quella parte di essi che gli si fa innanzi, e che cerca di avere alcuna comunicazione col tiranno, ella è certamente la più rea di tutte; ed egli, dopo una certa esperienza di regno, ne viene manifestamente convinto.
Quanto alla parte ch'egli non conosce né vede, e che in veruna maniera non lo offende, io mi fo a credere che il tiranno dotato di umana indole la possa benissimo amare: ma questo indefinibile amore di colui che può giovare e nuocere sommamente, per quelli che non possono a lui giovare né nuocere, non si può assomigliare ad alcun altro amore, che a quello con cui gli uomini amano i loro cani e cavalli; cioè, in proporzione della loro docilità, ubbidienza, e perfetta servitù.
Ma certamente assai minor differenza soglion porre i padroni fra essi e i loro cani e cavalli, di quella che ponga il tiranno, ancorché moderato, infra se stesso e i suoi sudditi.
Cotesto suo amore per essi non sarà dunque altro, che un oltraggio di più da lui fatto alla trista specie degli uomini.
CAPITOLO DECIMOTTAVO
DELLE TIRANNIDI AMPIE, PARAGONATE COLLE RISTRETTE
Che siano più orgogliosi e superbi i tiranni delle estese tirannidi, come assai più potenti, la intendo: ma, che gli schiavi delle estese tirannidi ardiscano reputarsi da più che gli schiavi delle ristrette, parmi esser questo il più espresso delirio che possa entrare nella mente dell'uomo; ed una evidentissima prova mi pare, che gli schiavi non pensano e non ragionano.
Se la ragione potesse ammettere alcuna differenza fra schiavo e schiavo, ella sarebbe certamente in favore del minor gregge.
Quanti più sono gli uomini che ciecamente obbediscono ad un solo, tanto più vili e stupidi ed infami riputare si debbono, vie più sempre scemandosi la proporzione tra l'oppressore e gli oppressi.
Quindi nell'udire io le millanterie d'un Francese, o d'uno Spagnuolo, che riputar si vorrebbe un ente maggiore di un Portoghese, o di un Napoletano, parmi di udire una pecora del regio armento schernire la pecora d'un contadino, perché questa pasce in una mandra di dieci, ed ella in una mandra di mille.
Se dunque differenza alcuna vi passa fra le tirannidi grandi e le picciole, ella non istà nella essenza della cosa, che una sola è per tutto; ma nella persona bensì del tiranno.
Qualunque di essi si troverà soverchiare oltremodo in potenza i vicini tiranni, ne diverrà verisimilmente più prepotente coi sudditi, dovendo egli nelle sue ampie circostanze molto minori rispetti adoprare: ma per altra parte, avendo egli più numero di sudditi, più importanti affari, più onori da distribuire, più ricchezze da pigliarsi e da dare, (e non avendo con tutto ciò maggior senno) quella sua autorità riuscirà alquanto men fastidiosa nelle cose minute, ma egualmente inetta, ed assai più gravosa, nelle importanti.
Il tiranno picciolo dovendo all'incontro usare infiniti rispetti co' suoi vicini, sforzato sarà di rimbalzo ad osservarne anche qualcuno più co' suoi sudditi: onde egli nell'offenderli, massimamente nella roba, dovrà procedere alquanto più guardingo.
Ma, volendo egli pur dare sfogo alla sua autorità soverchiante, facilmente verrà ad impacciarsi nei più minuti affari dei privati; ed affacciandosi, direi così, allo sportello di ogni casa, vorrà saperne, e frammettersi nei più minimi pettegolezzi di quelle.
Nelle tirannidi ampie i miseri sudditi saranno dunque maggiormente angariati, nelle ristrette più infastiditi; ed ugualmente infelici in entrambe: perché agli uomini non arreca minor danno e dolore la noja, che l'oppressione.
LIBRO SECONDO
CAPITOLO PRIMO
INTRODUZIONE AL LIBRO SECONDO
Ho ragionato nel passato libro, quanto più seppi brevemente, delle cagioni e mezzi della tirannide; e accennata ho di volo una minima parte degli effetti che ne derivano.
Non intendo io di aver detto su ciò tutto quel che può dirsi; ma quanto bensì mi parve più importante, e meno detto da altri.
Più brevemente ancora ragionerò, in questo secondo libro, dei modi con cui si possa sopportar la tirannide volendola, o non volendola, scuoterla.
CAPITOLO SECONDO
IN QUAL MODO SI POSSA VEGETARE NELLA TIRANNIDE
Il vivere senz'anima, è il più breve e il più sicuro compenso per lungamente vivere in sicurezza nella tirannide; ma di questa obbrobriosa morte continua (che io per l'onore della umana specie non chiamerò vita, ma vegetazione) non posso, né voglio insegnare i precetti; ancorché io gli abbia, senza volerli pure imparare, pur troppo bevuti col latte.
Ciascuno per sé li ricavi dal proprio timore, dalla propria viltà, dalle proprie circostanze più o meno servili e fatali; e in fine, dal tristo e continuo esempio dei più, ciascun li ricavi.
CAPITOLO TERZO
COME SI POSSA VIVERE NELLA TIRANNIDE
Io dunque parlerò a quei pochissimi, che degni di nascere in libero governo fra uomini, si trovano dalla sempre ingiusta fortuna, direi balestrati, in mezzo ai turpissimi armenti di coloro, che nessuna delle umane facoltà esercitando, nessuno dei dritti dell'uomo conoscendo, o serbandone, si vanno pure usurpando di uomini il nome.
E, dovendo io pur dimostrare a que' pochissimi, in qual modo si possa vivere quasi uomo nella tirannide, sommamente mi duole che io dovrò dar loro dei precetti pur troppo ancora contrarj alla libera loro e magnanima natura.
Oh quanto più volentieri, nato io in altri tempi e governi, m'ingegnerei di dar (non coi detti, ma coi fatti bensì) gli esempj del viver libero! Ma, poiché vano è del tutto il dolersi dei mali che sono o pajono privi di un presente rimedio, facciasi come nelle insanabili piaghe, a cui non si cerca oramai guarigione, ma solamente un qualche sollievo.
Dico per tanto; che allorché l'uomo nella tirannide, mediante il proprio ingegno, vi si trova capace di sentirne tutto il peso, ma per la mancanza di proprie ed altrui forze vi si trova ad un tempo stesso incapace di scuoterlo; dee allora un tal uomo, per primo fondamentale precetto star sempre lontano dal tiranno, da' suoi satelliti, dagli infami suoi onori, dalle inique sue cariche, dai vizj, lusinghe, e corruzioni sue, dalle mura terreno ed aria perfino, che egli respira, e che lo circondano.
In questa sola severa total lontananza, non che troppo, non mai esagerata abbastanza; in questa sola lontananza ricerchi un tal uomo non tanto la propria sicurezza, quanto la intera stima di se medesimo, e la purità della propria fama; entrambe sempre, o più o meno, contaminate, allorché l'uomo in qualunque modo si avvicina alla pestilenziale atmosfera delle corti.
Debitamente così, ed in tempo, allontanatosi l'uomo da esse, sentendosi egli purissimo, verrà ad estimare se stesso ancor più che se fosse nato libero in un giusto governo; poiché liber'uomo egli ha saputo pur farsi in uno servile.
Se costui, oltre ciò, non si trova nella funesta necessità di doversi servilmente procacciare il vitto, poiché la nobile fiamma di gloria non è spenta affatto nel di lui cuore dalla perversità de' suoi tempi, non potendo egli assolutamente acquistare la gloria del fare, ricerchi, con ansietà bollore ed ostinazione, quella del pensare, del dire, e dello scrivere.
Ma, come pensare, e dire, e scrivere potrà egli in un mostruoso governo, in cui l'una sola di queste tre cose diventa un capitale delitto? Pensare, per proprio sollievo, e per ritrovare in quel giusto orgoglio di chi pensa un nobile compenso alla umiliazion di chi serve: dire, ai pochissimi avverati buoni, e come tali, degnissimi di compassione, di amicizia, e di conoscere pienamente il vero: scrivere, finalmente, per proprio sfogo, da prima; ma, dove sublimi poi riuscissero gli scritti, ogni cosa allora sagrificare alla lodevole gloria di giovar veramente a tutti od ai più, col pubblicare gli scritti.
L'uomo, che in tal modo vive nella tirannide, e degno così manifestasi di non vi essere nato, sarà da quasi tutti i suoi conservi o sommamente sprezzato, ovvero odiatissimo: sprezzato da quelli, che per non aver idea nessuna di vera virtù, stoltamente credono da meno di loro chiunque vive lontano dal tiranno e dai grandi; cioè da ogni vizio, viltà, e corruzione: odiato da quegli altri, che avendo mal grado loro l'idea del retto e del bene, per esecrabile viltà d'animo, e reità di costumi, sfacciatamente seguono il peggio.
Ma, e quello sprezzo di una gente per se stessa disprezzabilissima, sarà una convincente prova, che un tal uomo è veramente stimabile; e l'odio di questi altri per se stessi odiosissimi, indubitabil prova sarà, che egli merita e l'amore e la stima de' buoni.
Quindi non dee egli punto curare né lo sprezzo, né l'odio.
Ma, se questo sprezzo e quest'odio degli schiavi si propaga fino al padrone, quel vero e solo uomo, che ne merita il nome, e i doveri ne compie, per via dello sprezzo può essere sommamente avvilito nella tirannide; e, per via dell'odio, può esservi ridotto a manifesto e inevitabil pericolo.
Questo libricciuolo non è scritto pe' codardi.
Coloro, che con una condotta di mezzo fra la viltà e la prudenza, non se ne possono viver sicuri, venendo pur ricercati nella loro oscura e tacita dimora dalla inquirente autorità del tiranno, arditamente si mostrino tali ch'ei sono; e basti per loro discolpa il poter dire, che non hanno essi ricercato i pericoli; ma che, trovatili, non debbono, né vogliono, né sanno sfuggirli.
CAPITOLO QUARTO
COME SI DEBBA MORIRE NELLA TIRANNIDE
Benché la più verace gloria, cioè quella di farsi utile con alte imprese alla patria ed ai concittadini, non possa aver luogo in chi, nato nella tirannide, inoperoso per forza ci vive; nessuno tuttavia può contendere a chi ne avesse il nobile ed ardente desiderio, la gloria di morire da libero, abbenché pur nato servo.
Questa gloria, quantunque ella paja inutile ad altrui, riesce nondimeno utilissima sempre, per mezzo del sublime esempio; e, come rarissima, Tacito, quell'alto conoscitore degli uomini, la giudica pure esser somma.
Alla eroica morte di Trasea, di Seneca, di Cremuzio Cordo, e di molti altri Romani proscritti dai loro primi tiranni, altro in fatti non mancava, che una più spontanea cagione, per agguagliar la virtù di costoro a quella dei Curzj, dei Decj, e dei Regoli.
E siccome, là dove ci è patria e libertà, la virtù in sommo grado sta nel difenderla e morire per essa, così nella immobilmente radicata tirannide non vi può essere maggior gloria, che di generosamente morire per non viver servo.
Parmi adunque, che nei nostri scellerati governi, i pochissimi uomini virtuosi e pensanti vi debbano vivere da prudenti, finché la prudenza non degenera in viltà; e morire da forti, ogniqualvolta la fortuna, o la ragione, a ciò li costringa.
Un cotal poco verrà ammendata così, con una libera e chiara morte, la trapassata obbrobriosa vita servile.
CAPITOLO QUINTO
FINO A QUAL PUNTO SI POSSA SOPPORTAR LA TIRANNIDE
Ma, fino a qual segno si possa sopportar l'oppressione di un tirannico governo, difficile riesce a prefiggersi: poiché non a tutti i popoli, né a tutti gl'individui, gli stessi oltraggi portano un egual colpo.
Nondimeno, parlando io sempre a coloro, che non meritando oltraggio nessuno, vivissimamente quindi sentono nel più profondo cuore i più leggieri eziandio; ed essendo costoro i pochissimi (che se tali i moltissimi fossero, immediatamente ogni pubblico oltraggiator cesserebbe) a costoro dico; che si può da lor sopportare che il tiranno tolga loro gli averi, perché nessun privato avere vale quell'estremo universale scompiglio, che ne potrebbe nascere dalla loro dubbia vendetta.
Così perversi sono i presenti tempi, che da una privata vendetta, ancorché felicemente eseguita, non ne potrebbe pur nascer mai nessun vero permanente bene pel pubblico, ma se gli potrebbe accrescer bensì moltissimo il danno.
Onde, volendo io che i buoni, nella stessa tirannide, siano, per quanto essere il possono, cittadini; e volendo, che ai loro conservi, o giovino, o inutilmente almeno non nuocano; ai buoni non darei mai per consiglio di sturbare inutilmente la pace, o sia il sopore di tutti, per far vendetta delle loro tolte sostanze.
Ma le offese di sangue nella persona dei più stretti parenti od amici, allorch'elle siano manifestamente ingiuste, ed atroci; e così, le offese nel proprio verace onore; io non ardirei mai consigliare a chi ha faccia d'uomo di tollerarle.
Si può vivere senza le sostanze, perché nessuno muore di necessità; e perché l'uomo, per l'esser povero, non riesce perciò mai vile a se stesso, ove egli non lo sia divenuto pe' suoi vizj e reità: ma non si può sopravvivere alla perdita sforzata ed ingiusta di una teneramente amata persona; né, molto meno, alla perdita del proprio onore.
Quindi, dovendo assolutamente un tal uomo morire, ed essendo estrema la ingiuria ricevuta, non può egli né dee più allora conservare rispetti; e, che che avvenire ne possa, il forte dee sempre morir vendicato: e chi nulla teme, può tutto.
Per unica prova di quanto asserisco, addurrò la sola riflessione, che di quante tirannidi sono state distrutte, o di quanti tiranni sono stati spenti, per destare quel primo impeto universale necessarissimo a ciò, non vi fu mai altra più incalzante ragione che le ingiurie fatte dal tiranno nell'onore principalmente, quindi nel sangue, poi nell'avere.
Questo insegnamento non è dunque mio; ma egli sta nella natura degli uomini tutti.
Ma pure, a chi dovesse, e volesse, vendicare una simile ingiuria, consiglierei pur sempre di farsi solo all'impresa, e di omettere interamente ogni pensiero alla propria salvezza, e come non alto, e come vano, e come sempre dannoso ad ogni magnanima importante vendetta.
E chi non si sente capace di questa totale omissione di se stesso, non si reputi stoltamente capace, né degno, di eseguire una sì alta vendetta; e si persuada, che meritava egli veramente l'oltraggio che ha ricevuto; e pazientemente quindi sel goda.
Ma, se l'offeso si trova del pari dotato di alto animo e d'illuminato intelletto; se da quella sua privata vendetta ne ardisce egli concepire e sperare la universale permanente libertà; tanto più allora si muova egli (ma sempre pur solo) al compiere la prima e la più importante impresa; ometta egli parimente ogni pensiero della propria salvezza; tutte quelle risentite parole, che, con grave ed inutil pericolo per sé e per l'impresa, egli avrebbe mosso agli amici per indurgli a congiurare con lui, tutte le cangi in un solo importantissimo, tacito, e ben assestato colpo: e lasci poi all'effetto che ne dee necessariamente ridondare, l'incarico di estendere e di corroborar la congiura; e al solo destino ogni cura della propria salvezza abbandoni.
Ma cogli esempli più estesamente mi spiego.
Il popolo di Roma si sollevò contro ai tiranni, congiurò felicemente contr'essi, e la tirannide al tutto distrusse, allorché finalmente si mosse, dopo tante altre battiture, colpito dal compassionevole atroce spettacolo di Lucrezia contaminata dal tiranno, e di propria mano svenata.
Ma, se Lucrezia non avesse in se stessa generosamente compiuta la prima vendetta, egli è da credersi che Collatino, o Bruto, inutilmente forse, e con grave dubbio e pericolo, avrebbero congiurato contro ai tiranni: perché il popolo, e il più degli uomini, non son mai commossi, né per metà pure, dalle più convincenti ragioni, quanto lo sono da una giusta e compiuta vendetta; massimamente, allorché ad essa si aggiunge un qualche spettacolo terribile e sanguinoso, che ai loro occhi apprestatosi, i loro cuori fortemente riscuota.
Se dunque Lucrezia non si fosse uccisa da sé, Collatino, come il più fieramente oltraggiato, avrebbe dovuto perdere risolutamente se stesso uccidendo l'adultero tiranno; e se egli in tale impresa periva, doveva lasciar poi a Bruto l'incarico di muovere, per via di quella sua giusta uccisione, il popolo a libertà e a furore.
Ma, se non fosse stato così pubblico ed importante quest'ultimo tirannico oltraggio; e se, per essere questo aggiunto a molti altri, non fosse stata oramai matura la liberazione del popolo di Roma; i parenti e gli amici di Collatino avrebbero forse congiurato, ma contra i soli Tarquinj: in vece che Collatino, senza punto congiurare con altri, avrebbe egli solo certamente potuto uccidere il tiranno, e quindi forse anche salvare se stesso; e, congiunto poscia con Bruto, avrebbe liberato anco Roma.
È dunque da notarsi in codesto accidente, che l'uomo oltraggiato gravemente nella tirannide, non dee mai da prima congiurare con altri che con se stesso; perché almeno assicura egli così la propria privata vendetta; e, con quel terribile spettacolo che egli appresta ai suoi cittadini, lascia in qualche aspetto di probabilità, e assai più matura, la pubblica, a chi la volesse e sapesse eseguirla.
All'opposto, col congiurare in molti per fare la prima privata vendetta, elle si perdono spessissimo entrambe.
Quell'uomo dunque, che capace si reputa di ordire e spingere una alta e giovevol congiura, il cui fine debba essere la vera politica libertà, non la imprenda giammai, se non se dopo moltissimi universali oltraggi fatti dal tiranno, e immediatamente dopo una qualche privata atroce vendetta contr'essi, felicemente eseguita da uno dei gravemente oltraggiati.
E così, chi si sente davvero capace di solennemente vendicare un proprio privato importantissimo oltraggio, senza cercarsi compagni, altamente e pienamente lo vendichi; e lasci poscia ordir la congiura da chi vien dopo: che s'ella riesce a buon fine, l'onore ne sarà pur sempre in gran parte anche suo; bench'egli rimanesse spento già prima: e se la pubblica consecutiva congiura poi non riesce, tanto maggiore ne risulterà a lui privato la gloria, e la maraviglia degli uomini, che vedranno la sua privata congiura aver da lui solo ottenuto un pienissimo effetto.
Ma le congiure, ancorch'elle riescano, hanno per lo più funestissime conseguenze, perché elle si fanno quasi sempre contro al tiranno, e non contra la tirannide.
Onde, per vendicare una privata ingiuria, si moltiplicano senza alcun pro gl'infelici; e, o sia che il tiranno ne scampi, o sia che un nuovo gli succeda, si viene ad ogni modo per quella privata vendetta e centuplicar la tirannide, e la pubblica calamità.
Quell'uomo dunque, che dal tiranno riceve una mortale ingiuria nel sangue, o nell'onore, si dee figurare che il tiranno lo abbia condannato inevitabilmente a morire; ma che nella impossibilità, in cui egli è, di scamparne, gli rimane pure la intera possibilità di vendicarsene prima, e di non morir quindi infame del tutto.
Né altro deve egli pensare in quel punto, se non che, tra i precetti del tiranno, il primo e il solo non mai trasgredito da lui, si è di vendicarsi di quelli che ha offeso egli stesso.
Sia dunque il primo precetto di chi più gravemente è stato offeso da lui, il prevenire a ogni costo con la sua giusta vendetta la non giusta e feroce d'altrui.
CAPITOLO SESTO
SE UN POPOLO, CHE NON SENTE LA TIRANNIDE, LA MERITI, O NO
Quel popolo che non sente la propria servitù, è necessariamente tale, che non concepisce alcuna idea di politica libertà.
Pure, siccome la totale mancanza di questa naturale idea non proviene già dagli individui, ma bensì dalle invecchiate loro circostanze, che son giunte a segno di soffocare in essi ogni lume primitivo della ragion naturale; la umanità vuole, che al loro errore si compatisca, e che non si disprezzino affatto costoro, ancorché disprezzati siano e disprezzabili.
Nati nella servitù, di servi padri, nati anch'essi di servi, donde oramai, donde potrebber costoro aver ritratto alcuna idea di libertà primitiva? Naturale ed innata nell'uomo ella è, mi si dirà da taluno; ma, e quante altre cose non meno naturali, dalla educazione, dall'uso, e dalla violenza, non vengono in noi indebolite o cancellate interamente ogni giorno?
Nella romana repubblica, in cui ogni Romano nascea cittadino e riputavasi libero, vi nasceano pur anco fra i soggiogati popoli alcuni schiavi, che non poteano ignorar di esser tali, ogni giorno vedendo davanti a sé i loro padroni esser liberi; e coloro si credeano pur di esser servi, e nati per esserlo; e ciò soltanto, perché erano educati, e di padre in figlio sforzati, a riputarsi tali.
Ora, se nel seno stesso della più splendida politica libertà che siasi mai vista sul globo, quegli uomini ignoranti e avviliti credeano di dover essi soli esser servi, non sarà maraviglia che nelle nostre tirannidi, dove non si profferisce né il nome pure di libertà, veri servi si credano quei che vi nascono; o, per dir meglio, che non conoscendo essi libertà, non conoscano né anche servaggio.
Parmi perciò, che i popoli nostri si debbano assi più compiangere che non odiare o sprezzare; essendo essi innocentemente, e per sola ignoranza, complici senza saperlo del delitto di servire, di cui ben ampia già e terribile ne van sopportando la pena.
Ma l'odio, lo sprezzo, e se altro sentimento vi ha più obbrobrioso e feroce, tutti si debbono bensì dai pochi enti pensanti fieramente rivolgere contro a quella picciola classe di uomini, che, non essendo stolidi affatto né inetti, ed accorgendosi benissimo di viver servi nella tirannide, sfacciatamente pure ogni giorno il vero, se stessi, e gli altri tutti tradiscono, correndo a gara ad adulare il tiranno, ad onorarlo, a difenderlo, ed a porgere primi l'infame collo a' suoi lacci; e ciò, col sol patto che doppiamente da essi avvinto ed oppresso ne rimanga il misero ed innocente popolo; presso cui, per ottenere il lor barbaro intento, caldissimi propagatori con astuzia si fanno di ogni dannosa ignoranza.
E, spingendo io più oltre questa importante differenza fra quella parte di schiavi che nella tirannide si fa istrumento d'oppressione, e quella che (senza saperne il perché) si fa vittima, ardisco asserire una cosa che parrà forse ai molti non vera, ma che io credo pure verissima.
Ed è; che dalla fedeltà stessa, dalla cecità e ostinazione maggiore, con cui i popoli nella tirannide difendono il loro tiranno, si debbe arguire che essi farebbero altrettanti e più sforzi per la libertà, se mai l'acquistassero; e se fin dalle fasce, in vece del nome del tiranno, come cosa sacra avessero udito sempre religiosamente insegnarsi il nome di repubblica.
Il vizio dunque della tirannide, e il maggiore obbrobrio della servitù, non risiede nel popolo; che in ogni governo è sempre la classe la meno corrotta; ma interamente risiede in quei pochi che il popolo ingannano.
Ed in prova, si osservi che ogniqualvolta il tiranno eccede quel modo comportabile dalla umana stupidità, il primo sempre, anzi il solo per lo più che risentirsi ardisca delle estreme ingiurie, si è il più basso popolo, il quale pure, nella pienissima sua ignoranza, stoltamente reputa il tiranno essere quasi un Dio.
All'incontro, gli ultimi sempre ad offendersi e a ricercarne vendetta, ancorché ingiuriatissimi siano dal tiranno, son quelli della più illustre classe, ed i suoi più famigliari, i quali pure indubitabilmente convinti sono, ch'egli è assai meno che un uomo.
Onde conchiudo; che nella tirannide meritano solo di esser servi quei pochi, che avendo in sè la idea di libertà, (e quindi o la forza o l'arte per tentare almeno di riacquistarla per sé, facendola ad un tempo riacquistare ad altrui) antepongono tuttavia di vivere in servitù; ed anzi se ne pregiano essi; e, quanto più sanno e possono, vi costringono il rimanente dei loro simili.
CAPITOLO SETTIMO
COME SI POSSA RIMEDIARE ALLA TIRANNIDE
La volontà, o la opinione di tutti o dei più, mantiene sola la tirannide: la volontà e l'opinione di tutti o dei più, può sola veramente distruggerla.
Ma, se nelle nostre tirannidi l'universale non ha idea d'altro governo, come si può egli arrivare ad infondere in tutti, o nei più, questo nuovo pensiero di libertà? Risponderò, piangendo, che mezzo brevemente efficace a produr tale effetto, nessuno ve ne ha; e che ne' paesi dove la tirannide da molte generazioni ha preso radice, moltissime ve ne vuole prima che la lenta opinion la disvelga.
E già mi avveggo, che in grazia di questa fatal verità, mi perdonano i tiranni europei tutto ciò che finora intorno ad essi mi è occorso di ragionare.
Ma, per moderare alquanto questa loro non meno stolta che inumanissima gioja, osserverò; che ancorché non vi siano efficaci e pronti rimedj contro la tirannide, ve ne sono molti tuttavia ed uno principalissimo, rapidissimo, ed infallibile, contra i tiranni.
Stanno i rimedj contro al tiranno in mano d'ogni qualunque più oscuro privato: ma i più efficaci e brevi e certi rimedj contra la tirannide, stanno (chi 'l crederebbe?) in mano dello stesso tiranno: e mi spiego.
Un animo feroce e libero, allor quando è privatamente oltraggiato, o quando gli oltraggi fatti all'universale vivissimamente il colpiscono, può da sé solo in un istante e con tutta certezza efficacemente rimediare al tiranno, col ferro: e, se molti di questi animi allignassero nelle tirannidi, ben presto anco la moltitudine stessa cangerebbe il pensiero, e si verrebbe così a rimediare ad un tempo stesso alla tirannide.
Ma, siccome gli animi di una tal tempra sono cosa rarissima, e principalmente in questi scellerati governi; e siccome lo spegnere il solo tiranno null'altro opera per lo più, che accrescere la tirannide; io sono costretto, fremendo, a scrivere qui una durissima verità; ed è, che nella crudeltà stessa, nelle continue ingiustizie, nelle rapine, e nelle atroci disonestà del tiranno, sta posto il più breve, il più efficace, il più certo rimedio contra la tirannide.
Quanto più reo e scellerato è il tiranno, quanto più oltre spinge manifestamente l'abuso dell'abusiva sua illimitata autorità; tanto più lascia egli luogo a sperare, che la moltitudine finalmente si risenta; e che ascolti ed intenda e s'infiammi del vero; e ponga quindi solennemente fine per sempre a un così feroce e sragionevol governo.
È da considerarsi, che la moltitudine rarissimamente si persuade della possibilità di quel male che ella stessa provato non abbia, e lungamente provato: quindi gli uomini volgari la tirannide non reputano per un mostruoso governo, finché uno o più successivi mostri imperanti non ne han fatto loro funesta ed innegabile prova con mostruosi eccessi inauditi.
Se in verun conto mai un buon cittadino potesse divenire ministro d'un tiranno, ed avesse fermato in se stesso il sublime pensiero di sagrificare la propria vita, e di più anche la propria fama, per sicuramente ed in breve tempo spegnere la tirannide, costui non avrebbe altro migliore né più certo mezzo, che di consigliare in tal modo il tiranno, di secondare e per fino talmente instigare la sua tirannesca natura, che abbandonandosi egli ad ogni più atroce eccesso rendesse ad un tempo del pari la sua persona e la sua autorità odiosissima e insopportabile a tutti.
E dico io espressamente queste tre parole; La sua persona, la sua autorità, e a tutti; perché ogni eccesso privato del tiranno non nuocerebbe se non a lui stesso; ma ogni pubblico eccesso, aggiuntosi ai privati, egualmente a furore movendo l'universale e gl'individui, nuocerebbe ugualmente alla tirannide ed al tiranno; e li potrebbe quindi ad un tempo stesso interamente entrambi distruggere.
Questo infame ed atrocissimo mezzo (che io primo il conosco per tale) indubitabilmente pure sarebbe, come sempre lo è stato, il solo efficace e brevissimo mezzo ad una impresa così importante e difficile.
Inorridito ho nel dirlo; ma vie più inorridiscono in pensare quai siano questi governi, ne' quali se un uomo buono operar pur volesse colla maggior certezza e brevità il sommo bene di tutti, si troverebbe costretto a farsi prima egli stesso scellerato ed infame, ovvero a desistersi dall'altramente ineseguibile impresa.
Quindi è, che un tal uomo non si può mai ritrovare; e che questo sopraccennato rapido effetto dell'abuso della tirannide non si può aspettare se non per via di un ministro scellerato davvero.
Ma questi, non volendo perdere del proprio altro che la fama (che già per lo più mai non ebbe); e volendo egli assolutamente conservare la usurpata autorità, le prede, e la vita; questi lascierà bensì diventare il tiranno crudele e reo quanto è necessario per fare infelicissimi i sudditi, ma non mai a quell'eccesso che si bisognerebbe per tutti destargli a furore e a vendetta.
Da ciò proviene, che in questo mansuetissimo secolo cotanto si è assottigliata l'arte del tiranneggiare, ed ella (come ho dimostrato nel primo libro) si appoggia su tante e così ben velate e varie e saldissime basi, che non eccedendo i tiranni, o rarissimamente eccedendo i modi coll'universale, e non gli eccedendo quasiché mai co' privati, se non sotto un qualche velo di apparente legalità, la tirannide si è come assicurata in eterno.
Or ecco, ch'io già mi sento dintorno gridare: "Ma, essendo queste tirannidi moderate e soffribili, perché con tanto calore ed astio svelarle e perseguirle?" Perché non sempre le più crudeli ingiurie son quelle che offendono più crudelmente; perché si debbono misurare i mali dalla loro grandezza e dai loro effetti, più che dalla lor forza; perché, in somma, colui che ti cava ogni giorno poche oncie di sangue ti uccide a lungo andare ugualmente che colui che ad un tratto ti svena, ma ti fa stentare assai più.
Tutte le facoltà dell'animo nostro intorpidite; tutti i diritti dell'uomo menomati o ritolti; tutte le magnanime volontà impedite o deviate dal vero; e mille e mille altre simili continue offese, che troppo lungo e pomposo declamatore parrei, se qui ad una ad una annoverarle volessi; ove la vita vera dell'uomo consista nell'anima e nell'intelletto, il vivere in tal modo tremando, non è egli un continuo morire? E che rileva all'uomo, che nato si sente al pensare e all'operare altamente, di conservare tremante la vita del corpo, gli averi, e l'altre sue cose (e queste né anco sicure) per poi perdere, senza speranza di riacquistarli giammai, tutti, assolutamente tutti, i più nobili e veri pregi dell'anima?
CAPITOLO OTTAVO
CON QUAL GOVERNO GIOVEREBBE PIÙ DI SUPPLIRE ALLA TIRANNIDE
Ma, già già mille altre obbiezioni non meno importanti m'insorgono d'ogni intorno: e queste saranno le ultime alle quali io mi creda in dovere di alquanto rispondere.
"Più facil cosa è il biasimare e il distruggere, che non il rettificare e creare.
Che la tirannide sia un governo esecrabile e vizioso in se stesso, già ben lo sapevano tutti coloro che stupidi affatto non sono; e per quelli che il sono, inutilissimo era il dimostrarlo.
Le storie tutte fanno fede della massima instabilità dei liberi governi: onde riesce cosa intieramente vana il dimostrare che non si dee soffrir la tirannide, se infallibili mezzi non s'insegnano per eternare la libertà".
Queste, o simili obbiezioni (che ne potrei riempire inutilmente le pagine) è assai facile il farle, e non così facile l'impugnarle.
Quanto alla prima, rispondo di volo; che io non credo niente inutile il dimostrare ai non affatto stupidi, non già che la tirannide sia un governo esecrabile e vizioso in se stesso, poich'essi dicono di saperlo, ma che quella specie di governo sotto cui essi vivono, e che sotto il blandissimo nome di monarchia si vanno godendo, altro in fatti non è se non una intera e schietta tirannide, accomodata ai tempi; tirannide niente meno insultante e gravosa per gli uomini che qualsivoglia altra antica od asiatica, ma assai più saldamente fondata, e assai più durevole quindi, e fatale.
Alla seconda obbiezione mi conviene rispondere alquanto più lungamente.
Il dimostrare qual sia il male, quali ne siano le cagioni, i mezzi, ed in parte gli effetti, vien certamente ad essere un tacito insegnamento di ciò che potrebbe essere il bene; che in tutto è il contrario del male.
"Se dunque venisse fatto pur mai di estirpar la tirannide in alcuna ragguardevol parte di Europa, come per esempio in tutta la Italia, qual tempra di governo vi si potrebb'egli introdurre, che non venisse dopo alcun tempo a ricadere in tirannide di uno o di più?"
Se io, colla dovuta modestia e coscienza delle poche mie proprie forze, mi fo a rispondere a questo importante quesito, dico; che quando si ritrovasse l'Italia nelle circostanze a ciò necessarie, quegl'Italiani che a quei tempi si troveranno aver meglio letto e considerato tutto ciò che da Platone in poi è stato scoperto e insegnato da tanti uomini sommi circa alla meno viziosa forma dei governi; quegl'Italiani d'allora, che avran meglio studiato e conosciuto nelle diverse storie, e nei diversi paesi dello stesso lor secolo, la natura, l'indole, i costumi, e le passioni degli uomini; quelli soli potranno allora con adequato senno provvedere a ciò che operare allor si dovrebbe pel meglio; cioè, pel meno male.
Se io, all'incontro, presuntuosamente rispondere volessi al quesito, mi troverei costretto di farlo col pormi ad un'altra opera, e intitolarla DELLA REPUBBLICA; nella quale individuatamente ed a lungo mi proverei a ragionare su tale materia.
Ma, quando pur anche mi credessi io di avere e senno, e lumi, e dottrina, ed ingegno da ciò; bisognerebbe nondimeno sempre, che io (per non acquistarmi gratuitamente alla prima il nome di stolto) in fronte di un tal libro mi protestassi, ch'ella è impossibil cosa fra gli uomini di nulla stabilir di perfetto e d'inalterabile; e principalmente in un tal genere di cose, che richiedendo continuamente sforzo e virtù, (atteso il contrario e continuo impulso della umana natura, che assai più è propensa al bene dei privati individui, e quindi tosto al male di tutti o dei più) vanno insensibilmente ogni giorno menomandosi e corrompendosi per se stesse.
E sarei anche sforzato in quella mia prefazione di aggiungervi, che quegli ordini che convengono ad uno stato, disconvengono spessissimo all'altro; che quelli che bene si adattano al principiare di uno stato novello, non operano poi abbastanza nel progredire, e alle volte anzi nuocono nel continuare; che il cangiargli a seconda col cangiarsi degli uomini dei costumi e dei tempi, ella è cosa altrettanto necessaria, quanto impossibile a prevedersi, e difficilissima ad eseguirsi in tempo.
E mille e mille altre simili cose io mi troverei costretto a premettere a quella REPUBBLICA mia; le quali cose per essere già state dette meglio ch'io non le direi mai, massimamente da quel nostro divino ingegno del Machiavelli, non solamente inutili per se stesse riuscirebbero, ma pur troppo, contra l'intenzione dell'autore, una preventiva dimostrazione sarebbero della inutilità di un tal libro.
E per quanto poi quella mia teorica repubblica potesse parer saggia, ragionata, e adattabile a' tempi, luoghi, religioni, opinioni, e costumi diversi; ella non verrebbe tuttavia mai ad essere eseguibile in nessunissimo cantuccio della terra, senza quivi prima ricevere da un saggio legislatore effettivo quelle tante e tali modificazioni e mutazioni, che necessarie sarebbero per quella data effettiva società; la quale certamente in alcuna cosa differirà da alcuna delle supposizioni dell'ideale legislatore.
Ma quando anche poi una tale scritta repubblica venisse effettivamente nel suo intero adattata ad un qualche popolo, tutta la umana saviezza (non che la pochissima mia) non perverrebbe pur mai a stabilirvi in tal modo un governo, che il caso, cioè un avvenimento non preveduto, non avesse la forza di poterlo inaspettatamente assai peggiorare, come anche di poter migliorarlo, o mutarlo, o affatto distruggerlo.
Stoltissima superbia sarebbe or dunque la mia, se un tale assunto imprendessi, sapendo già prima, che quando anche pure mi lusingassi di poter dire delle cose non dette, per lo meno inutile riuscirebbe il mio libro.
Tuttavia non meno scusabile che folle una mia tale superbia sarebbe (come di chiunque altro a simile impresa oramai si accingesse), ogniqualvolta un tal libro non avesse stoltamente per fine la gloria letteraria e legislatrice, ma fosse semplicemente un virtuoso e ben intenzionato sfogo di un ottimo cittadino: e come tale, inutile allora non riuscirebbe del tutto.
Dalle cose finora da me, per quanto ho saputo, rapidamente presentare al lettore, ne potrebbe frattanto, s'io non erro, ridondar questo bene: che, ove una repubblica insorgente in questi, o nei futuri tempi, sopra le rovine d'alcuna distrutta tirannide, badasse a spegnere, o a menomare quanto più le fosse possibile la pestifera influenza di quelle tante cagioni della passata servitù da me ampiamente nel primo libro dimostrate, si può credere che una tale insorgente repubblica verrebbe ad ottenere alcun peso, e stabilità.
Che se io minutamente ho dimostrato come sia costituita la tirannide, indirettamente avrò dimostrato forse, come potrebbe essere costituita una repubblica.
E il primo di tutti i rimedj contro alla tirannide, ancorché tacito e lento, egli è pur sempre il sentirla; e sentirla vivamente i molti non possono, (abbenché oppressi ne siano) là dove i pochi non osino appien disvelarla.
Ma, quanto è necessario l'impeto, l'audacia, e (per così dire) una sacra rabbia, per disvelare, combattere, e distruggere la tirannide, altrettanto è necessaria una sagace e spassionata prudenza, per riedificare su quelle rovine; onde difficilmente l'uomo stesso potrebbe esser atto egualmente a due imprese pur tanto diverse nei loro mezzi, benché similissime nella lor meta.
Ed io, per amor del vero, son pure costretto a notar qui di passo, che le opinioni politiche (come le religiose) non si potendo mai totalmente cangiare senza che molte violenze si adoprino, ogni nuovo governo è da principio pur troppo sforzato ad essere spesso crudelmente severo, e alcune volte anche ingiusto, per convincere o contenere con la forza chi non desidera, o non capisce, o non ama, o non vuole innovazioni ancorché giovevoli.
Aggiungerò, che, per maggiore sventura delle umane cose, è altresì più spesso necessaria la violenza, e qualche apparente ingiustizia nel posar le basi di un libero governo su le rovine d'uno ingiusto e tirannico, che non per innalzar la tirannide su le rovine della libertà.
La ragione, a parer mio, è patente.
La tirannide non sottentra alla libertà, se non se con una forza effettiva, e talmente preponderante, che col solo continuo minacciare facilmente contiene l'universale.
E mentre con l'una mano brandisce un ferro spietato, ella spande coll'altra a piena mano quell'oro che ha colla spada estorquito.
Onde, distrutti alcuni pochi capi-popolo, corrottine molti altri più, che già guasti erano e preparati al servaggio, il rimanente obbedisce e si tace.
Ma, la nascente libertà, combattuta ferocissimamente da quei tanti che s'impinguavano della tirannide, freddamente spalleggiata dal popolo, che, oltre alla sua propria lieve natura, per non averla egli ancora gustata, poco l'apprezza e mal la conosce; la nascente libertà, divina impareggiabile fiamma, che in pochi petti arde pura nella sua immensità, e che da quei soli pochi viene alquanto inspirata e a stento mantenuta nel petto agghiacciato dei più; ov'essa per qualche beata circostanza perviene a pigliare alcun corpo, non dovendo trascurar l'occasione di mettere, se può, profonde e salde radici, si trova pur troppo costretta ad abbattere quei tanti rei che cittadini ridivenir più non possono, e che pur possono tanti altri impedirne, o guastarne.
Deplorabile necessità, a cui Roma, felice maestra in ogni sublime esempio, ebbe pur anche la ventura di non andar quasi punto soggetta; poiché dal lagrimevole straordinario spettacolo dei figli di Bruto fatti uccider dal padre, ella ricevea fortemente quel lungo e generoso impulso di libertà, che per ben tre secoli poi la fece sì grande e beata.
Ritornando ora al proposito mio, conchiudo con questo capitolo il libro, col dire; che non vi essendo alla tirannide altro definitivo rimedio che la universal volontà e opinione; e non potendosi questa cangiare se non lentissimamente e incertamente pel solo mezzo dei pochi che pensano, sentono, ragionano, e scrivono; il più virtuoso individuo, il più costumato, il più umano, si trova pur troppo sforzato a desiderar nel suo cuore, che i tiranni stessi, coll'eccedere ogni ragionevole modo, più rapidamente e con maggior certezza cangino questa universal volontà e opinione.
E se al primo aspetto un tal desiderio pare inumano, iniquo, e perfino scellerato, si consideri che le importantissime mutazioni non possono mai succedere fra gli uomini (come dianzi ho notato) senza importanti pericoli e danni; e che a costo di molto pianto e di moltissimo sangue (e non altramente giammai) passano i popoli dal servire all'essere liberi, più ancora, che dall'esser liberi al servire.
Un ottimo cittadino può dunque, senza cessar di esser tale, ardentemente desiderare questo mal passeggero; perché, oltre al troncare ad un tratto moltissimi altri danni niente minori ed assai più durevoli, ne dee nascere un bene molto maggiore e permanente.
Questo desiderio non è reo in se stesso, poiché altro fine non si propone che il vero e durevol vantaggio di tutti.
E giunge avventuratamente pure quel giorno, in cui un popolo, già oppresso e avvilito, fattosi libero felice e potente, benedice poi quelle stragi, quelle violenze, e quel sangue, per cui da molte obbrobriose generazioni di servi e corrotti individui se n'è venuta a procrear finalmente una illustre ed egregia, di liberi e virtuosi uomini.
PROTESTA DELL'AUTORE
Non la incalzante povertade audace,
Scarsa motrice a generosa impresa;
Non l'aura vana, in cui gli stolti han pace
D'ogni lor brama in debil fuoco accesa;
Non l'ozio servo, in che la Italia giace;
Cagion, ah! no, queste non fur, ch'intesa
M'ebber la mente all'alto onor verace
Di far con penna ai falsi imperj offesa.
Un Dio feroce, ignoto un Dio, da tergo
Me flagellava infin da quei primi anni,
A cui maturo e impavido mi attergo.
Né pace han mai, né tregua, i caldi affanni
Del mio libero spirto, ov'io non vergo
Aspre carte in eccidio dei tiranni.
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