DELLA TIRANNIDE, di Vittorio Alfieri - pagina 3
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E vede anch'egli benissimo, che la giustizia si tradisce o si vende; che gli uffizj e gli onori più importanti cadono sempre ai peggiori; e queste cose tutte, ancorché ben le veda, non le ammenda pur mai il tiranno.
E perché non le ammenda? perché, se i magistrati fossero giusti, incorrotti, ed onesti, verrebbe tolto a lui primo ogni iniquo mezzo di colorare le sue private vendette sotto il nome di giustizia.
Ne avviene da ciò, e da altre simili cose, che dovendo egli mal grado suo, e senza avvedersene quasi, reputare se stesso come il primo vizio dello stato, traluce all'intelletto suo un fosco barlume di verità che gl'insegna, che se alcuna idea di vera giustizia si venisse a introdurre nel suo popolo, la prima giustizia si farebbe di lui: appunto perché nessun altr'uomo (per quanto sia egli scellerato) non può mai in una qualunque società nuocere sì gravemente ed a tanti, come può nuocere impunemente ogni giorno quest'uno nella propria tirannide.
Ciascun tiranno dunque, al solo nome di vera giustizia, trema: ogni vero lume di sana ragione gli accresce il sospetto; ogni verità luminosa lo adira; lo spaventano i buoni; e non crede mai sicuro se stesso, se egli non affida ogni più importante carica a gente ben sua; cioè venduta e simile a lui, e ciecamente pensante al suo modo: il che importa, una gente più assai ingiusta, più tremante, e quindi più crudele, e più mille volte opprimente, ch'egli nol sia.
"Ma, un tal principe si può dare" (dirammi taluno) "il quale ami gli uomini, aborrisca il vizio, e non lasci trionfare né rimuneri altro, che la sola virtù".
Al che rispondo io, col domandare: "Può egli esistere un uomo buono ed amico degli uomini, il quale, non essendo stupido, si creda pure, o finga di credersi, per diritto divino, superiore assolutamente non solo ad ogni individuo, ma alla massa di tutti riuniti; e stimi non dover dar conto delle opere sue e di sé, fuorché a Dio?" Io mi farò a credere che un tal ente possa essere un uomo buono, allor quando avrò visto un solo esempio, per cui, avendo costui voluto veramente il maggior bene di quegli altri enti suoi, ma di una minore specie di lui, egli avrà prese le più efficaci misure per impedire che in quella sua società dove egli solo era il tutto, e gli altri tutti il nulla, un qualche altro eletto da Dio al paro di lui, non potesse d'allora in poi commettere illimitatamente e impunemente quel male stesso che egli sapea certamente essersi commesso in quello stesso suo stato prima che ei vi regnasse; e che egli certamente sapea, attesa la natura dell'uomo, dovervisi poi commettere di bel nuovo dopo il suo regno.
Ma, come potrà egli chiamarsi buono quell'uomo, che dovendo e potendo fare un così gran bene a un sì fatto numero d'uomini, pure nol fa? E per qual altra ragione nol fa egli, se non perché un tal bene potrebbe diminuire ai suoi venturi figli o successori del suo illimitato orribil potere, del nuocere con impunità? E si noti di più, che costui potrebbe con un tal nobile mezzo acquistare a se stesso, in vece di quell'infame illimitato potere di nuocere ch'egli avrebbe distrutto, una immensa e non mai finora tentata gloria; e la più eminente che possa cadere mai nella mente dell'uomo; di avere, colle proprie legittime privazioni, stabilita la durevole felicità di un popolo intero.
Ora, ch'è egli dunque codesto buon principe, di cui ci vanno ogni giorno intronando gli orecchi la viltà ed il timore? un uomo, che non si reputa un uomo; (ed infatti non lo è; ma in tutt'altro senso ch'ei non l'estima) un ente, che forse vuole il bene del corpo degli altri, cioè che non siano né nudi, né mendici; ma, che volendoli ciecamente obbedienti all'arbitrio d'un solo, necessariamente li vuole ad un tempo e stupidi, e vili, e viziosi, e assai men uomini in somma che bruti.
Un tale buon principe (che buono altramente non può esser mai chiunque possiede una usurpata, illegittima, illimitata autorità) potrà egli giustamente da chi ragiona chiamarsi meno tiranno che il pessimo, poiché gli stessi pessimi effetti dall'uno come dall'altro ridondano? e, come tale, si dovrà egli meno abborrire da chi conosce e sente il servaggio? Il conservare, il difendere ad ogni costo, il reputare come la più nobile sua prerogativa lo sterminato potere di nuocere a tutti, non è egli sempre uno imperdonabil delitto agli occhi di tutti, ancorché pure chi è reo di tal pregio in modo nessuno mai non ne abusi? E si può egli creder mai, che codesto sognato buon principe possa andare esente dalla paura, poiché egli pure persiste nel rimanere, per via della forza, maggior delle leggi? E può egli costui, più che gli altri suoi pari, esimere i sudditi dalla paura, poich'essi all'ombra di leggi in nulla sottoposte a soldati, non possono securamente mai ridersi di niuno de' suoi assoluti capricci, che volesse (anco istantaneamente) usurparsi il titolo sacro di legge? Io crederei all'incontro, che per lo più quei tiranni che hanno da natura una miglior indole, riescano, quanto all'effetto, i peggiori pel popolo.
Ed eccone una prova.
Gli uomini buoni suppongono sempre che gli altri sian tali; i tiranni tutti per lo più niente affatto conoscono gli uomini, presi universalmente; ma niente affatto poi certamente conoscono quelli che non vedono mai, e pochissimo quelli che vedono.
Ora, non v'ha dubbio, che gli uomini che si accostano a loro son sempre i cattivi, perché un uomo veramente buono sfuggirà di continuo, come un mostro, la presenza d'ogni altro uomo, la cui sterminata autorità, oltre al poterlo spogliar di ogni cosa, può anche per l'influenza dell'esempio e della necessità, costringerlo a cessar di esser buono.
Ne avviene da ciò, che al tiranno cattivo accostandosi i cattivi uomini, vi si fanno l'un l'altro pessimi; ma i ribaldi accostandosi all'ottimo tiranno, si fingono allora buoni, e lo ingannano.
E questo accade ogni dì; talché la tirannide per lo più non risiede nella persona del tiranno, ma nell'abusiva e iniqua potenza di lui, amministrata dalla necessaria tristizia de'cortigiani.
Ma, dovunque risieda la tirannide, pe' miseri sudditi la servitù riesce pur sempre la stessa; e anzi, più dura riesce per l'universale sotto il tiranno buono, ancorché forse alquanto meno crudele riesca per gl'individui.
Il tiranno buono forse non trema da principio in se stesso, perché la coscienza non lo rimorde di nessuna usata violenza; o, per dir meglio, egli trema assai meno del reo: che infin ch'egli tiene un'autorità illimitata, ch'egli benissimo sa (per quanto ignorante egli sia) non essere legittima mai, non si può interamente esimere dalla paura.
Ed in prova, per quanto sia pacifico e sicuro al di fuori il tiranno, non annulla pur mai i soldati al di dentro.
Ma, anche supponendo che il mite tiranno non tremi egli stesso, tremano pur sempre in nome di lui per se stessi quei pochi pessimi che, usurpata sotto l'ombre del nome suo l'autorità principesca, la esercitano.
Quindi la paura vien sempre ad essere la base, la cagione, ed il mezzo di ogni tirannide, anche sotto l'ottimo tiranno.
E non mi si alleghino Tito, Trajano, Marc'Aurelio, Antonino; e altri simili, ma sempre pochissimi, virtuosi tiranni.
Una prova invincibile che costoro non andavano mai esenti dalla paura, si è, che nessuno di essi dava alle leggi autorità sovra la sua propria persona; e non la dava egli, perché espressamente sapea che ne sarebbe stato offeso egli primo: nessuno di essi annullava i soldati perpetui, o ardiva sottoporgli ad un'altra autorità che alla propria; perché convinto era che non rimaneva la persona sua abbastanza difesa senz'essi.
Ciascuno dunque di costoro era pienamente certo in se stesso, che l'autorità sua era illimitata, poiché sottoporla non voleva alle leggi; e che illegittima ell'era, poiché sussistere non potea senza il terror degli eserciti.
Domando, se un tale ottimo tiranno si possa dagli uomini reputare e chiamare un uomo buono? colui, che trovandosi in mano un potere ch'egli conosce vizioso, illegittimo, e dannosissimo, non solamente non se ne spoglia egli stesso, ma non imprende almeno (potendolo pur fare con laude e gloria immensa) di spogliarne coloro che verran dopo lui: gente, a cui, per non esserne essi ancora al possesso, nulla affatto si toglie coll'impedir loro quella usurpazione stessa; e massimamente venendo loro impedita da quei tiranni che figli non lasciano.
Né sotto Tito, Trajano, Marc'Aurelio, e Antonino, cessava la paura nei sudditi.
La prova ne sia, che nessuno dei sudditi ardiva francamente dir loro, che si facessero (quali esser doveano) minori delle leggi, e che la repubblica restituissero.
Ma facil cosa è ad intendersi perché gli scrittori si accordino nel dar tante lodi a codesti virtuosi tiranni; e nel dire, che se gli altri tutti potessero ad essi rassomigliarsi, il più eccellente governo sarebbe il principato.
Eccone la ragione.
Allorché una paura è stata estrema e terribile, il trovarsela ad un sol tratto scemata dei due terzi, fa sì, che il terzo rimanente si chiama e si reputa un nulla.
Qual ente è egli dunque costui, che dalla sola sua spontanea e libera benignità possa e debba dipendere assolutamente la felicità o infelicità di tanti e tanti milioni di uomini? Costui, può egli essere disappassionato interamente? egli sarebbe stupido affatto.
Può egli amar tutti, e non odiar mai nessuno? può egli non essere ingannato mai? può egli aver la possanza di far tutti i mali, e non ne fare pur mai nessunissimo? può egli, in somma, reputar sé di una specie diversa e superiore agli altri uomini, e con tutto ciò anteporre il bene di tutti al ben di se stesso?
Non credo che alcun uomo al mondo vi sia, che volesse dare al suo più vero e sperimentato amico un arbitrio intero sopra il suo proprio avere, su la propria vita, ed onore; né, se un tal uom pur ci fosse, quel suo verace amico vorrebbe mai accettare un così strano pericoloso e odioso incarico.
Ora, ciò che un sol uomo non concederebbe mai per sé solo al suo più intimo amico, tutti lo concederebbero per se stessi, e pe' lor discendenti, e lo lascierebbero tener colla viva forza, da un solo, che amico loro non è né può essere? da un solo, che essi per lo più non conoscono; a cui pochissimi si avvicinano; ed a cui non possono neppure i molti dolersi delle ingiustizie ricevute in suo nome? Certo, una tal frenesia non è mai caduta, se non istantaneamente, in pensiero ad una moltitudine d'uomini: o, se pure una tale stupida moltitudine vi è stata mai, che concedesse ad un solo una sì stravagante autorità, non potea essa costringer giammai le future generazioni a raffermarla e soffrirla.
Ogni illimitata autorità è dunque sempre, o nella origine sua, o nel progresso, una manifesta e atrocissima usurpazione sul dritto naturale di tutti.
Quindi io lascio giudice ogni uomo, se quell'uno che la esercita può mai tranquillamente e senza paura godersi la funesta e usurpata prerogativa di poter nuocere illimitatamente e impunemente a ciascuno ed a tutti: mentre ogni qualunque onesto privato si riputerebbe infelicissimo di potere in simil guisa nuocere al miglior suo amico, per dritto spontaneamente concedutogli: e mentre, certamente, ogni amicizia fra costoro verrebbe a cessare, all'incominciare della possibilità di esercitar un tal dritto.
La natura dell'uomo è di temere e perciò di abborrire chiunque gli può nuocere, ancorché giustamente gli nuoca.
Ed in prova, fra que' popoli dove l'autorità paterna e maritale sono eccessive, si ritrovano i più spessi e terribili esempj della ingratitudine, disamore, disobbedienza, odio, e delitti delle mogli e dei figli.
Quindi è, che il nuocere giustamente a chi male opera, essendo nelle buone repubbliche una prerogativa delle leggi soltanto; e i magistrati, semplici esecutori di esse, elettivi essendovi ed a tempo; nelle buone repubbliche si viene a temer molto le leggi, senza punto odiarle, perché non sono persona; si viene a rispettarne semplicemente gli esecutori, senza moltissimo odiarli, perché troppi son essi, e tuttora si vanno cangiando; e si viene finalmente a non odiar né temere individuo nessuno.
Ma all'incontro la immagine dell'ereditario tiranno si appresenta sempre ai popoli sotto l'aspetto di un uomo, che avendo loro involato una preziosissima cosa, audacemente lor nega che l'abbiano essi posseduta giammai; e tiene perpetuamente sguainata la spada, per impedire che ritolta gli sia.
Può non ferire costui; ma chi può non temerne? Possono i popoli non si curare di ridomandargliela; ma il tiranno, non potendosi accertar mai della lor non curanza, non si lascia perciò mai ritrovar senza spada.
Non è dunque coraggio contra coraggio, ma paura contro paura, la molla che questa usurpazione mantiene.
Ma, mentre io della PAURA sì lungamente favello, già già mi sento gridar d'ogni intorno: " E quando fra due ereditarj tiranni si combatte, quei tanti e tanti animosi uomini che affrontano per essi la morte, sono eglino guidati dalla paura, ovver dall'onore?" Rispondo; che di questa specie d'onore parlerò a suo luogo; che anche gli orientali, popoli sempre servi, i quali a parer nostro non conoscono onore, e che riputiamo di sì gran lunga inferiori a noi, gli orientali anch'essi animosissimamente combattono pe' loro tiranni, e danno per quelli la vita.
Ne attribuisco in parte la cagione alla naturale ferocia dell'uomo; al bollore del sangue che nei pericoli si accresce ed accieca; alla vanagloria ed emulazione, per cui nessun uomo vuol parere minore di un altro; ai pregiudizj succhiati col latte; ed in ultimo lo attribuisco, più che ad ogni altra cosa, alla già tante volte nominata PAURA.
Questa terribilissima passione, sotto tanti e così diversi aspetti si trasfigura nel cuor dell'uomo, ch'ella vi si può per anco travestire in coraggio.
Ed i moderni eserciti nostri, nei quali vengono puniti di morte quelli che fuggono dalla battaglia, ne possono fare ampia fede.
Questi nostri eroi tiranneschi, che per pochi bajocchi il giorno vendono al tiranno la loro viltà, appresentati dai loro condottieri a fronte del nemico, si trovano avere alle spalle i loro proprj sergenti con le spade sguainate; e spesso anche delle artiglierie vi si trovano, affinché, atterriti da tergo, codesti vigliacchi simulino coraggio da fronte.
Senza aver molto onore, potranno dunque cotali soldati anteporre una morte non certa e onorevole ad una infame e certissima.
CAPITOLO QUARTO
DELLA VILTÀ
Dalla paura di tutti nasce nella tirannide la viltà dei più.
Ma i vili in supremo grado necessariamente son quelli, che si avvicinano più al tiranno, cioè al fonte di ogni attiva e passiva paura.
Grandissima perciò, a parer mio, passa la differenza fra la viltà e la paura.
Può l'uomo onesto, per le fatali sue natìe circostanze, trovarsi costretto a temere; e temerà costui con una certa dignità; vale a dire, egli temerà tacendo, sfuggendo sempre perfino l'aspetto di quell'uno che tutti atterrisce, e fra se stesso piangendo, o con pochi a lui simili, la necessità di temere, e la impossibilità d'annullare, o di rimediare a un così indegno timore.
All'incontro, l'uomo già vile per propria natura, facendo pompa del timor suo, e sotto la infame maschera di un finto amore ascondendolo, cercherà di accostarsi, d'immedesimarsi, per quanto egli potrà, col tiranno: e spererà quest'iniquo di scemare in tal guisa a se stesso il proprio timore, e di centuplicarlo in altrui.
Onde, ella mi pare ben dimostrata cosa, che nella tirannide, ancorché avviliti sian tutti, non perciò tutti son vili.
CAPITOLO QUINTO
DELL'AMBIZIONE
Quel possente stimolo, per cui tutti gli uomini, qual più, qual meno, ricercando vanno di farsi maggiori degli altri, e di sé; quella bollente passione, che produce del pari e le più gloriose e le più abbominevoli imprese; l'ambizione in somma, nella tirannide non perde punto della sua attività, come tante altre nobili passioni dell'uomo, che in un tal governo intorpidite rimangono e nulle.
Ma, l'ambizione nella tirannide, trovandosi intercette tutte le vie e tutti i fini virtuosi e sublimi, quanto ella è maggiore, altrettanto più vile riesce e viziosa.
Il più alto scopo dell'ambizione in chi è nato non libero, si è di ottenere una qualunque parte della sovrana autorità: ma in ciò quasi del tutto si assomigliano e le tirannidi e le più libere e virtuose repubbliche.
Tuttavia, quanto diversa sia quell'autorità parimente desiata, quanto diversi i mezzi per ottenerla, quanto diversi i fini allor quando ottenuta siasi, ciascuno per se stesso lo vede.
Si perviene ad un'assoluta autorità nella tirannide, piacendo, secondando, e assomigliandosi al tiranno: un popolo libero non concede la limitata e passeggera autorità, se non se a una certa virtù, ai servigj importanti resi alla patria, all'amore del ben pubblico in somma, attestato coi fatti.
Né i tutti possono volere altro utile mai, che quello dei tutti; né altri premiare, se non quelli che arrecano loro quest'utile.
È vero nondimeno, che possono i tutti alle volte ingannarsi, ma per breve tempo; e l'ammenda del loro errore sta in essi pur sempre.
Ma il tiranno, che è uno solo, ed un contra tutti, ha sempre un interesse non solamente diverso, ma per lo più direttamente opposto a quello di tutti: egli dee dunque rimunerare chi è utile a lui; e quindi, non che premiare, perseguitare e punire debb'egli chiunque veramente tentasse di farsi utile a tutti.
Ma, se il caso pure volesse che il bene di quell'uno fosse ad un tempo in qualche parte il bene di tutti, il tiranno nel rimunerarne l'autore pretesterebbe forse il ben pubblico; ma, in essenza, egli ricompenserebbe il servigio prestato al suo privato interesse.
E così colui, che avrà per caso servito lo stato (se pure una tirannide può dirsi mai stato, e se giovar si può ai servi, non liberandoli prima d'ogni cosa dalla lor servitù) colui pur sempre dirà, ch'egli ha servito il tiranno; svelando con queste parole o il vile suo animo, o il suo cieco intelletto.
Ed il tiranno stesso, ove la paura sua, e la dissimulazione che n'è figlia, non gli vadano rammentando che si dee pur nominare, almeno per la forma, lo stato; il tiranno anch'egli dirà, per innavvertenza, di aver premiato i servigj prestati a lui stesso.
Così Giulio Cesare scrittore, parlando di Giulio Cesare capitano, e futuro tiranno, si lasciava sfuggir dalla penna le seguenti parole: Scutoque ad eum (ad Caesarem) relato Scaevae Centurionis, inventa sunt in eo foramina CCXXX: quem Caesar, ut erat DE SE meritus et de republica, donatum millibus ducentis, etc.
Si vede in questo passo dalle parole, DE SE meritus, quanto il buon Cesare, essendosi pure prefisso nei suoi commentarj di non parlar di se stesso se non alla terza persona, ne parlasse qui inavvertentemente alla prima; e talmente alla prima, che la parola de republica non veniva che dopo la parola DE SE, quasi per formoletta di correzione.
In tal modo scriveva e pensava il più magnanimo di tutti i tiranni, allor quando non si era ancor fatto tale; quando egli stava ancora in dubbio se potrebbe riuscir nella impresa: ed era costui nato e vissuto cittadino fino a ben oltre gli anni quaranta.
Ora, che penserà e dirà egli su tal punto un volgare tiranno? colui, che nato, educato tale, certo di morire sul trono, se ne vive fino alla sazietà nauseato di non trovar mai ostacoli a qualunque sua voglia?
Risulta, mi pare, da quanto ho detto fin qui; che l'ottenere il favore di un solo attesta pur sempre più vizj che virtù in colui che l'ottiene; ancorché quel solo che lo accorda, potesse esser virtuoso; poiché, per piacere a quel solo, bisogna pur essere o mostrarsi utile a lui, mentre la virtù vuole che l'uomo pubblico evidentemente sia utile al pubblico.
E parimente risulta dal fin qui detto; che l'ottenere il favore di un popolo libero, ancorché corrotto sia egli, attesta nondimeno necessariamente in chi l'ottiene, alcuna capacità e virtù; poiché, per piacere a molti ed ai più, bisogna manifestamente essere, o farsi credere, utile a tutti; cosa, che, o da vera o da finta intenzione ella nasca, sempre a ogni modo richiede una tal quale capacità e virtù.
In vece che il mostrarsi piacevole ed utile a un solo potente col fine di usurparsi una parte della di lui potenza, richiede sempre e viltà di mezzi, e picciolezza di animo, e raggiri, e doppiezze, e iniquità moltissime, per competere e soverchiare i tanti altri concorrenti per lo stesso mezzo ad una cosa stessa.
E quanto asserisco, mi sarà facile il provar con esempj.
Erano già molto corrotti i Romani, e già già vacillava la lor libertà, allorché Mario, guadagnati a sé i suffragj del popolo, si facea console a dispetto di Silla e dei nobili.
Ma si consideri bene quale si fosse codesto Mario; quali e quante virtù egli avesse già manifestate e nel foro e nel campo; e tosto si vedrà che il popolo giustamente lo favoriva, poiché (secondo le circostanze ed i tempi) le virtù sue soverchiavano di molto i suoi vizj.
Erano i Francesi, non liberi, (che stati fino ai dì nostri non lo sono pur mai) ma in una crisi favorevole a far nascere libertà, ed a fissare per sempre i giusti limiti di un ragionevole principato, allorché saliva sul trono Arrigo quarto, quell'idolo dei Francesi un secolo dopo morte.
Sully, integerrimo ministro di quell'ottimo principe, ne godeva in quel tempo, e ne meritava, il favore.
Ma, se si vuole per l'appunto appurare qual fosse la politica virtù di codesti due uomini, ella si giudichi da quello che fecero.
Sully, ebbe egli mai la virtù e l'ardire di prevalersi di un tal favore, e di sforzare con evidenza di ragioni inespugnabili quell'ottimo re, a innalzare per sempre le stabili e libere leggi sopra di sé e dei suoi successori? e se egli ne avesse avuto l'ardire, si può egli presumere, che avrebbe conservato il favore di Arrigo? Dunque codesto favore di un tiranno anche ottimo, non si può assolutamente acquistar dal suo suddito per via di vera politica virtù; né si può (molto meno) per via di vera politica virtù conservare.
Esaminiamo ora da prima i fonti dell'autorità.
I mezzi per ottenerla nelle repubbliche, sono il difenderle e l'illustrarle; lo accrescerne l'impero e la gloria; l'assicurarne la libertà, ove sane elle siano; il rimediare agli abusi, o tentarlo, se corrotte elle sono; e in fine, il dimostrar loro sempre la verità, per quanto spiacevole ed oltraggiosa ella paja.
I mezzi per ottenere autorità dal tiranno, sono il difenderlo, ma più ancora dai sudditi che non dai nemici; il laudarlo; il colorirne i difetti; lo accrescerne l'impero e la forza; l'assicurarne l'illimitato potere apertamente, s'egli è un tiranno volgare; lo assicurarglielo sotto apparenza di ben pubblico, s'egli è un accorto tiranno: e a ogni modo, il tacere a lui sempre, e sovra tutte le altre, questa importantissima verità: Che sotto l'assoluto governo di un solo ogni cosa debb'essere indispensabilmente sconvolta e viziosa.
Ed una tal verità è impossibile a dirsi da chi vuol mantenersi il favor del tiranno; ed è forse impossibile a pensarsi e sentirsi da chi lo abbia ricercato mai, e ottenuto.
Ma, questa manifesta e divina verità, riesce non meno impossibile a tacersi da chi vuol veramente il bene di tutti: e impossibile finalmente riesce a soffrirsi dal tiranno, che vuole, e dee volere, prima d'ogni altra cosa, il privato utile di se stesso.
Le corti tutte son dunque per necessità ripienissime di pessima gente; e, se pure il caso vi ha intruso alcun buono, e che tale mantenervisi ardisca, e mostrarsi, dee tosto o tardi costui cader vittima dei tanti altri rei che lo insidiano, lo temono, e lo abborriscono, perché sono vivamente offesi dalla di lui insopportabil virtù.
Quindi è, che dove un solo è signore di tutto e di tutti, non può allignare altra compagnia, se non se scellerata.
Di questa verità tutti i secoli, e tutte le tirannidi, han fatto e faranno indubitabile fede; e con tutto ciò, in ogni secolo, in ogni tirannide, da tutti i popoli servi ella è stata e sarà pochissimo creduta, e meno sentita.
Il tiranno, ancorché d'indole buona sia egli, rende immediatamente cattivi tutti coloro che a lui si avvicinano; perché la sua sterminata potenza, di cui (benché non ne abusi) mai non si spoglia, vie maggiormente riempie di timore coloro che più da presso la osservano: dal più temere nasce il più simulare; e dal simulare e tacere, l'esser pessimo e vile.
Ma, dall'ambizione nella tirannide ne ridonda spesso all'ambizioso un potere illimitato non meno che quello del tiranno; e tale, che nessuna repubblica mai, a nessuno suo cittadino, né può né vuole compatirne un sì grande.
Perciò pare ai molti scusabile colui, che essendo nato in servaggio, ardisce pure proporsi un così alto fine; di farsi più grande che lo stesso tiranno, all'ombra della di lui imbecillità, o della di lui non curanza.
Risponda ciascuno a questa obiezione, col domandare a se stesso: "Un'autorità ingiusta, illimitata, rapita, e precariamente esercitata sotto il nome d'un altro, ottener si può ella giammai, senza inganno? Può ella esercitarsi mai, senza nuocere a molti, e per lo meno ai concorrenti ad essa? Può ella finalmente mai conservarsi, senza frode crudeltà e prepotenza nessuna?"
Si ambisce dunque l'autorità nelle repubbliche, perché ella in chi l'acquista fa fede di molte virtù, e perch'ella presta largo campo ad accrescersi quell'individuo la propria gloria coll'util di tutti.
Si ambisce nelle tirannidi, perché ella vi somministra i mezzi di soddisfare alle private passioni; di sterminatamente arricchire; di vendicare le ingiurie e di farne, senza timor di vendetta; di beneficare i più infami servigj; e di fare in somma tremare quei tanti che nacquero eguali, o superiori, a colui che la esercita.
Né si può in verun modo dubitare, che nella repubblica, e nella tirannide, gli ambiziosi non abbiano questi fra loro diversi disegni.
Già prima di acquistare l'autorità il repubblicano benissimo sa che non potrà egli sempre serbarla; che non potrà abusarne, perché dovrà dar conto di sé rigidissimo ai suoi eguali; e che l'averla acquistata è una prova che egli era migliore, o più atto da ciò, che non i competitori suoi.
Così, nella tirannide, non ignora lo schiavo, che quella autorità ch'egli ambisce, non avrà nessun limite; ch'ella è perciò odiosissima a tutti; che lo abusarne è necessario per conservarla; che il ricercarla attesta la pessima indole del candidato; che l'ottenerla chiaramente dimostra ch'egli era tra i concorrenti tutti il più reo.
Eppure codesti due ambiziosi, queste cose tutte sapendo già prima, senza punto arrestarsi corrono entrambi del pari la intrapresa carriera.
Ora, chi potrà pure asserire che l'ambizioso in repubblica non abbia per meta la gloria più assai che la potenza? e che l'ambizioso nella tirannide si proponga altra meta, che la potenza, la ricchezza, e la infamia?
Ma, non tutte le ambizioni, hanno per loro scopo la suprema autorità.
Quindi, nell'uno e nell'altro governo, si trova poi sempre un infinito numero di semi-ambiziosi, a cui bastano i semplici onori senza potenza; ed un numero ancor più infinito di vili, a cui basta il guadagno senza potenza né onori.
E milita anche per costoro, nell'uno e nell'altro governo, la stessa differenza e ragione.
Gli onori nelle repubbliche non si rapiscono coll'ingannare un solo, ma si ottengono col giovare o piacere ai più: ed i più non vogliono onorare quell'uno, se egli non lo merita affatto; perché facendolo, disonorano pur troppo se stessi.
Gli onori nella tirannide (se onori chiamar pur si possono) vengono distribuiti dall'arbitrio d'un solo; si accordano alla nobiltà del sangue per lo più; alla fida e total servitù degli avi; alla perfetta e cieca obbedienza, cioè all'intera ignoranza di se stesso; al raggiro; al favore; e alcune volte, al valore contra gli esterni nemici.
Ma, gli onori tutti (qualunque siano) sempre per loro natura diversi in codesti diversi governi, sono pur anche, come ognun vede, per un diverso fine ricercati.
Nella tirannide, ciascuno vuol rappresentare al popolo una anche menoma parte del tiranno.
Quindi un titolo, un nastro, o altra simile inezia, appagano spesso l'ambizioncella d'uno schiavicello; perché questi onorucci fan prova, non già ch'egli sia veramente stimabile, ma che il tiranno lo stima; e perché egli spera, non già che il popolo l'onori, ma che lo rispetti e lo tema.
Nella repubblica, manifesta e non dubbia cosa è, per qual ragione gli onori si cerchino; perché veramente onorano chi li riceve.
L'ambizione d'arricchire, chiamata più propriamente CUPIDIGIA, non può aver luogo nelle repubbliche, fin ch'elle corrotte non sono; e quando anche il siano, i mezzi per arricchirvi essendo principalmente la guerra, il commercio, e non mai la depredazione impunita del pubblico erario, ancorché il guadagno sia uno scopo per se stesso vilissimo, nondimeno per questi due mezzi egli viene ad essere la ricompensa di due sublimi virtù; il coraggio, e la fede.
L'ambizione d'arricchire è la più universale nelle tirannidi; e quanto elle sono più ricche ed estese, tanto più facile a soddisfarsi per vie non legittime da chiunque vi maneggia danaro del pubblico.
Oltre questo, molti altri mezzi se ne trovano; e altrettanti esser sogliono, quanti sono i vizj del tiranno, e di chi lo governa.
Lo scopo, che si propongono gli uomini nello straricchire, è vizioso nell'uno e nell'altro governo; e più ancora nelle repubbliche che nelle tirannidi; perché in quelle si cercano le ricchezze eccessive, o per corrompere i cittadini, o per soverchiar l'uguaglianza; in queste, per godersele nei vizj e nel lusso.
Con tutto ciò, mi pare pur sempre assai più escusabile l'avidità di acquistare, in quei governi dove i mezzi ne son men vili, dove l'acquistato è sicuro, e dove in somma lo scopo (ancorché più reo) può essere almeno più grande.
In vece che nei governi assoluti, quelle ricchezze che sono il frutto di mille brighe, di mille iniquità e viltà, e dell'assoluto capriccio di un solo, possono essere in un momento ritolte da altre simili brighe, iniquità e viltà, o dal capriccio stesso che già le dava, o che rapire lasciavale.
Parmi d'aver parlato di ogni sorta d'ambizione, che allignare possa nella tirannide.
Conchiudo; che questa stessa passione, che è stata e può essere la vita dei liberi stati, la più esecrabil peste si fa dei non liberi.
CAPITOLO SESTO
DEL PRIMO MINISTRO
Ad consulatum non nisi per Sejanum aditus: neque Sejani voluntas nisi scelere quaerebatur.
E fra le più atroci calamità pubbliche, cagionate dall'ambizione nella tirannide, si dee, come atrocissima e massima, reputar la persona del primo ministro, da me nel precedente capitolo soltanto accennata, e di cui credo importante ora, e necessarissimo, il discorrere a lungo.
Questa fatal dignità altrettanto maggior lustro acquista a chi la possiede, quanto è maggiore la incapacità del tiranno, che la comparte.
Ma siccome il solo favore di esso la crea; siccome, ad un tiranno incapace non è da presumersi che possa piacere pur mai un ministro illuminato e capace; ne risulta per lo più, che costui non meno inetto al governare che lo stesso tiranno, gli rassomiglia interamente nella impossibilità del ben fare, e di gran lunga lo supera nella capacità desiderio e necessità del far male.
I tiranni d'Europa cedono a codesti loro primi ministri l'usufrutto di tutti i loro diritti; ma niuno ne vien loro accordato dai sudditi con maggiore estensione e in più supremo grado, che il giusto abborrimento di tutti.
E questo abborrimento sta nella natura dell'uomo, che male può comportare, che altri, nato suo eguale, rapisca ed eserciti quella autorità caduta in sorte a chi egli crede nato suo maggiore: autorità, che per altre illegittime mani passando, viene a duplicare per lo meno la sua propria gravezza.
Ma questo primo ministro, dal sapersi sommamente abborrito, ne viene egli pure ad abborrire altrui sommamente; ond'egli gastiga, e perseguita, e opprime, ed annichila chiunque l'ha offeso; chiunque può offenderlo; chiunque ne ha, o glie ne viene imputato, il pensiero; e chiunque finalmente, non ha la sorte di andargli a genio.
Il primo ministro perciò facilmente persuade poi a quel tiranno di legno, di cui ha saputo farsi l'anima egli, che tutte le violenze e crudeltà ch'egli adopera per assicurare se stesso, necessarie siano per assicurare il tiranno.
Accade alle volte, che, o per capriccio, o per debolezza, o per timore, il tiranno ritoglie ad un tratto il favore e l'autorità al ministro; lo esiglia dalla sua presenza; e gli lascia, per singolare benignità, le predate ricchezze e la vita.
Ma questa mutazione non è altro, che un aggravio novello al misero soggiogato popolo.
Il che facilmente dimostrasi.
Il ministro anteriore, benché convinto di mille rapine, di mille inganni, di mille ingiustizie, non discade tuttavia quasi mai dalla sua dignità, se non in quel punto, ove un altro più accorto di lui gli ha saputo far perdere il favor del tiranno.
Ma, comunque egli giunga, ei giunge pure in somma quel giorno, in cui al ministro è ritolta l'autorità e il favore.
Allora bisogna, che lo stato si prepari a sopportare il ministro successore, il quale dee pur sempre essere di alcun poco più reo del predecessore; ma, volendosi egli far credere migliore, innova e sovverte ogni cosa stabilita dall'altro, ed in tutto se gli vuole mostrare dissimile.
Eppure costui vuole, e dee volere (come il predecessore) ed arricchirsi, e mantenersi in carica, e vendicarsi, e ingannare, ed opprimere, ed atterrire.
Ogni mutazione dunque nella tirannide, così di tiranno, che di ministro, altro non è ad un popolo infelicemente servo, che come il mutare fasciatura e chirurgo ad una immensa piaga insanabile, che ne rinnuova il fetore e gli spasimi.
Ma, che il ministro successore debba esser poi di alcun poco più reo dell'antecessore, colla stessa facilità si dimostra.
Per soverchiare un uomo cattivo accorto e potente, egli è pur d'uopo vincerlo in cattività e accortezza.
Un ministro di tiranno per lo più non precipita, senza che alcuno di quelli che direttamente o indirettamente erano autori della sua rovina, a lui non sottentri.
Ora, come seppe egli costui atterrare quei tanti ripari, che avea fatti quel primo per assicurarsi nel seggio suo? certamente, non per fortuna lo vinse, ma per arte maggiore.
Domando: "Se nelle corti una maggior arte possa supporre minori vizj in chi la possiede e felicemente la esercita".
La non-ferocia dei moderni tiranni, che in essi non è altro che il prodotto della non-ferocia dei moderni popoli, non comporta che agli ex-ministri venga tolta la vita, e neppure le ricchezze, ancorch'elle siano per lo più il frutto delle loro iniquità e rapine: né soffrono costoro alcun altro gastigo, che quello di vedersi lo scherno e l'obbrobrio di tutti, e massime di quei vili che maggiormente sotto essi tremavano.
Alcuni di questi vicetiranni smessi, hanno la sfacciataggine di far pompa di animo tranquillo nella loro avversa fortuna; e ardiscono stoltamente arrogarsi il nome di filosofi disingannati.
E costoro fanno ridere davvero gli uomini savj, che ben sapendo cosa sia un filosofo, chiaramente veggono ch'egli non è, né può essere mai stato, un vicetiranno.
Ma perderei le parole, il tempo, e la maestà da un così alto tema richiesta, se dimostrar io volessi che un ente cotanto vile ed iniquo non può né essere stato mai, né divenire, un filosofo.
Proverò bensì, (come cosa assai più importante) che un primo ministro del tiranno non è mai, né può essere, un uomo buono ed onesto: intendendo io da prima per politica onestà e vera essenza dell'uomo, quella per cui la persona pubblica antepone il bene di tutti al bene d'un solo, e la verità ad ogni cosa.
E, nell'avere io definita la politica onestà, parmi di aver largamente provato il mio assunto.
Se il tiranno stesso non vuole, e non può volere, il vero ed intero ben pubblico, il quale sarebbe immediatamente la distruzione della sua propria potenza, è egli credibile che lo potrà mai volere, ed operare, colui che precariamente lo rappresenta? colui, che un capriccio ed un cenno aveano quasi collocato sul trono, e che un capriccio ed un cenno ne lo precipitano?
Che il ministro poi non può essere privatamente uomo onesto, intendendo per privata onestà la costumatezza e la fede, si potrebbe pur anche ampiamente provare, e c
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