TUTTE LE NOVELLE, di Giovanni Verga - pagina 2
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Paolo fu malato, e nessuno seppe nulla di lui per tre interi giorni, nemmen la Principessa.
Erano incominciati i giorni squallidi e lunghi in cui si va a passeggiare nelle vie polverose fuori le porte, a guardare le mostre dei gioiellieri, e a leggere i giornali appesi agli sportelli delle edicole, i giorni in cui l'acqua che scorre sotto i ponti del Naviglio dà le vertigini, e guardando in alto si vedono sempre le guglie del Duomo che vi affascinano.
La sera, quando aspettava in via Silvio Pellico, faceva più freddo del solito, le ore erano più lunghe, e la Principessa non aveva più la solita andatura svelta e leggiadra.
In quel tempo gli capitò addosso una fortuna colossale, qualcosa come quattromila lire all'anno perché andasse a pestare il piano pei caffè e i concerti americani.
Accettò colla stessa gioia come se avesse avuto il diritto di scegliere: dopo pensò alla Principessa.
La sera, la invitò a cena, in un gabinetto riservato dei Biffi, al pari di un riccone dissoluto.
Avea avuto un acconto di cento lire e ne spese buona parte.
La povera ragazza spalancava gli occhi a quel festino da Sardanapalo, e dopo il caffè, col capo alquanto peso, appoggiò le spalle al muro, seduta come era sul divano.
Era un po' pallida, un po' triste, ma più bella che mai.
Paolo le metteva spesso le labbra sul collo, vicino alla nuca; ella lo lasciava fare, e lo guardava con occhi attoniti, quasi avesse il presentimento di una sciagura.
Ei sentivasi il cuore stretto in una morsa, e per dirle che le voleva un gran bene le domandava come avrebbero fatto quando non si fossero più visti.
La Principessa stava zitta, volgendo il capo dalla parte dell'ombra, cogli occhi chiusi, e non si muoveva per dissimulare certi lagrimoni grossi e lucenti che scorrevano e scorrevano per le guance.
Allorché il giovane se ne accorse ne fu sorpreso: era la prima volta che la vedeva piangere.
- Cos'hai? - domandava.
Ella non rispondeva, o diceva - nulla! - con voce soffocata; - diceva sempre così, ch'era poco espansiva, e aveva superbiette da bambina.
- Pensi a quell'altro? - domandò Paolo per la prima volta.
- Sì! - accennò ella col capo, - sì - ed era vero.
Allora si mise a singhiozzare.
L'altro! voleva dire il passato: voleva dire i bei giorni di sole e d'allegria, la primavera della giovinezza, il suo povero affetto destinato a strascinarsi così, da un Paolo all'altro, senza pianger troppo quand'era gaio; voleva dire il presente che se ne andava, quel giovane che oramai faceva parte del suo cuore e della sua carne, e che sarebbe divenuto un estraneo anche lui, fra un mese, fra un anno o due.
Paolo in quel momento ruminava forse vagamente i medesimi pensieri e non ebbe il coraggio di aprir bocca.
Soltanto l'abbracciò stretto stretto e si mise a piangere anche lui.
- Avevano cominciato per ridere.
- Mi lasci? - balbettò la Principessa.
- Chi te l'ha detto? - Nessuno, lo so, lo indovino.
Partirai? - Ei chinò il capo.
Ella lo fissò ancora un istante cogli occhi pieni di lagrime, poi si voltò in là, e pianse cheta cheta.
Allora, forse perché non avea la testa a casa, o il cuore troppo grosso, ricominciò a vaneggiare, e gli raccontò quel che gli aveva sempre nascosto per timidità o per amor proprio; gli disse com'era andata con quell'altro.
A casa non erano ricchi, per dir la verità; il babbo aveva un piccolo impiego nell'amministrazione delle ferrovie, e la mamma ricamava; ma da molto tempo la sua vista s'era indebolita, e allora la Principessa era entrata in un magazzino di mode per aiutare alquanto la famiglia.
Colà, un po' le belle vesti che vedeva, un po' le belle parole che le si dicevano, un po' l'esempio, un po' la vanità, un po' la facilità, un po' le sue compagne e un po' quel giovanotto che si trovava sempre sui suoi passi, avevano fatto il resto.
Non avea capito di aver fatto il male, che allorquando aveva sentito il bisogno di nasconderlo ai suoi genitori: il babbo era un galantuomo, la mamma una santa donna; sarebbero morti di dolore se avessero potuto sospettare la cosa, e non l'aveano mai creduto possibile, giacché avevano esposto la figliuola alla tentazione.
La colpa era tutta sua...
o piuttosto non era sua; ma di chi era dunque? Certo che non avrebbe voluto conoscere quell'altro, ora che conosceva il suo Paolo, e quando Paolo l'avrebbe lasciata non voleva conoscer più nessuno...
Parlava a voce bassa, sonnecchiando, appoggiando il capo sulla spalla di lui.
Allorché uscirono dal Biffi indugiarono alquanto pel cammino, rifacendo tutta la triste via crucis dei loro cari e mesti ricordi: la cantonata dove s'erano incontrati, il marciapiedi sul quale s'erano fermati a barattar parole la prima volta.
- To'! - dicevano, - è qui! - No è più in là -.
Andavano come oziando, intontiti; nel separarsi si dissero - a domani -.
Il giorno dopo Paolo faceva le valige, e la Principessa, inginocchiata dinanzi al vecchio baule sgangherato, l'aiutava ad assestavi le poche robe, i libri, le carte di musica sulle quali ella avea scarabocchiato il suo nome, in quei giorni là.
- Quei panni glieli aveva visti indosso tante volte! - una cosa copriva l'altra, e stringeva il cuore il vederle scomparire così, una alla volta.
Paolo le porgeva ad uno ad uno i panni che andava a prendere dal cassettone o dall'armadio; ella li guardava un momento, li voltava e rivoltava, poi li riponeva per bene, senza che facessero una piega, fra le calze e i fazzoletti; non dicevano molte parole, e mostravano d'aver fretta.
La ragazza avea messo da banda un vecchio calendario sul quale Paolo soleva fare delle annotazioni.
- Questo me lo lascerai? - gli disse.
Ei fece cenno di sì senza voltarsi.
Quando il baule fu pieno rimanevano ancora qua e là, su per le seggiole e il portamantelli, dei panni logori e il vecchio soprabito.
- A quella roba penserò domani, - disse Paolo; la ragazza premeva sul coperchio col ginocchio mentre egli affibbiava le corregge; poi andò a raccogliere il velo e l'ombrellino che aveva lasciati sul letto e si mise a sedere sulla sponda tristamente.
Le pareti erano nude e tristi; nella camera non rimaneva altro che quella gran cassa, e Paolo il quale andava e venia, frugando nei cassetti, e raccogliendo in un gran fagotto le altre robe.
La sera andarono a spasso l'ultima volta.
Ella gli si appoggiava al braccio timidamente, quasi l'amante cominciasse a diventare un estraneo per lei.
Entrarono al Fossati, come nei giorni di festa, ma partirono di buon'ora, e non si divertirono molto.
Il giovine pensava che tutta quella gente lì ci sarebbe tornata altre volte e avrebbe trovato la Principessa - ella, che non avrebbe più visto Paolo fra tutta quella gente.
Solevano bere la birra in un caffeuzzo al Foro Bonaparte; Paolo amava quella gran piazza per la quale avea passeggiato tante volte, nelle sere di estate, colla sua Principessa sotto il braccio.
Da lontano s'udiva la musica del caffè Gnocchi, e si vedevano illuminate le finestre rotonde del Teatro Dal Verme.
Di tratto in tratto, lungo la via oscura, formicolavano dei lumi e della gente dinanzi i caffè e le birrerie.
Le stelle sembravano tremolare in un azzurro cupo e profondo; qua e là, nel buio dei viali e fra mezzo agli alberi, luccicava una punta di gas, davanti alla quale passavano a due a due delle ombre nere e tacite.
Paolo pensava: - Ecco l'ultima sera! -
S'erano messi a sedere lontano dalla folla, nel cantuccio meno illuminato, volgendo le spalle ad una controspalliera di arbusti rachitici piantati in vecchie botti di petrolio; la Principessa strappò due fogliuzze e ne diede una a Paolo - altre volte si sarebbe messa a ridere.
- Venne un cieco che strimpellava un intero repertorio sulla chitarra; Paolo gli diede tutti i soldoni che aveva in tasca.
Si rividero un'ultima volta alla stazione, al momento della partenza, nell'ora amara dell'addio affrettato, distratto, senza pudore, senza espansione e senza poesia, fra la ressa, l'indifferenza, il frastuono e la folla della partenza.
La Principessa seguiva Paolo come un'ombra, dal registro dei bagagli allo sportellino dei biglietti, facendo tanti passi quanti ne faceva lui, senza aprir bocca, col suo ombrellino sotto il braccio: era bianca come un cencio e null'altro.
- Egli al contrario era tutto sossopra e avea un'aria affaccendata.
Al momento d'entrare nella sala d'aspetto un impiegato domandò i biglietti; Paolo mostrò il suo; ma la povera ragazza non ne aveva; - colà dunque si strinsero la mano in fretta dinanzi un mondo di gente che spingeva per entrare, e l'impiegato che marcava il biglietto.
Ella era rimasta ritta accanto all'uscio, col suo ombrellino fra le mani, come se aspettasse ancora qualcheduno, guardando qua e là i grandi avvisi incollati alle pareti, e i viaggiatori che andavano dallo sportello dei biglietti alle sale d'aspetto; li accompagnava con quello stesso sguardo imbalordito dentro la sala, e poi tornava a guardare gli altri che giungevano.
Infine, dopo dieci minuti di quell'agonia, suonò la campana, e s'udì il fischio della macchina.
La ragazza strinse forte il suo ombrellino, e se ne andò lenta lenta, barcollando un poco; fuori della stazione si mise a sedere su di un banco di pietra.
- Addio! tu che te ne vai, tu con cui il mio cuore ha vissuto! Addio tu che sei andato prima di lui! Addio tu che verrai dopo di lui, e te ne andrai come lui se n'è andato, addio! - Povera ragazza!
E tu, povero grande artista da birreria, va a strascinare la tua catena; va a vestirti meglio e a mangiare tutti i giorni; va ad ubbriacare i tuoi sogni di una volta fra il fumo delle pipe e del gin, nei lontani paesi dove nessuno ti conosce e nessuno ti vuol bene; va a dimenticare la Principessa fra le altre principesse di laggiù, quando i danari raccolti alla porta del caffè avranno scacciato la melanconica immagine dell'ultimo addio scambiato là, in quella triste sala d'aspetto.
E poi, quando tornerai, non più giovane, né povero, né sciocco, né entusiasta, né visionario come allora, e incontrerai la Principessa, non le parlare del bel tempo passato, di quel riso, di quelle lagrime, ché anche ella si è ingrassata, non si veste più a credenza al Cordusio, e non ti comprenderebbe più.
E ciò è ancora più triste - qualchevolta.
LA CODA DEL DIAVOLO
Questo racconto è fatto per le persone che vanno colle mani dietro la schiena contando i sassi, per coloro che cercano il pelo nell'uovo e il motivo per cui tutte le cose umane danno una mano alla ragione e l'altra all'assurdo; per quegli altri cui si rizzerebbe il fiocco di cotone sul berretto da notte quando avessero fatto un brutto sogno, e che lascerebbero trascorrere impunemente gli Idi di Marzo; per gli spiritisti, i giuocatori di lotto, gli innamorati, e i novellieri; per tutti coloro che considerano col microscopio gli uncini coi quali un fatto ne tira un altro, quando mettete la mano nel cestone della vita; per i chimici e gli alchimisti che da 5000 anni passano il loro tempo a cercare il punto preciso dove il sogno finisce e comincia la realtà, e a decomporvi le unità più semplici della verità nelle vostre idee, nei vostri principi, e nei vostri sentimenti, investigando quanta parte del voi nella notte ci sia nel voi desto, e la reciproca azione e reazione, gente sofistica la quale sarebbe capace di dirvi tranquillamente che dormite ancora quando il sole vi sembra allegro, o la pioggia vi sembra uggiosa - o quando credete d'andare a spasso tenendo sotto il braccio la moglie vostra, il che sarebbe peggio.
Infine, per le persone che non vi permetterebbero di aprir bocca, fosse per dire una sciocchezza, senza provare qualche cosa, questo racconto potrebbe provare e spiegare molte cose, le quali si lasciano in bianco apposta, perché ciascuno vi trovi quello che vi cerca.
Narro la storia ora che i personaggi di essa sono tutti in salvo dalle indiscrete ricerche dei curiosi; poiché dei tre personaggi - è una storia a tre personaggi, come le storie perfette, e di tutti e tre avete già indovinato l'azione, per poco pratica che abbiate di queste cose - lui è al Cairo, o lì presso, a dirigere non so che lavori ferroviari; lei è morta, poveretta! e l'altro in certo modo è morto anche lui, si è trasformato, ha preso moglie, non si rammenta più di nulla, e non si riconoscerebbe più nemmeno dinanzi ad uno specchio di dieci anni addietro, se non fossero certi calabroni petulanti e ronzanti attorno a sua moglie, che gli mettono lo specchio sotto il naso, e somigliano così a lui quand'era petulante e ronzante anch'esso, da fargli montare la mosca al naso.
Insomma, tre personaggi comodissimi che non contano più, che non esistono quasi - potete anche immaginare che non siano mai esistiti.
Lui e l'altro erano due buoni e bravi ragazzi, due anime gemelle, amici fin dall'infanzia, Oreste e Pilade dell'Amministrazione ferroviaria.
Lui era ingegnere, l'altro disegnatore; abitavano nella medesima casa, e andavano sempre insieme, ciò che li avea fatti soprannominare i Fratelli Siamesi; si vedevano tutti i giorni all'ufficio dalle nove del mattino alle cinque della sera.
Non si seppe spiegare come lui avesse potuto conoscere la Lina, farle la corte, e sposarla; - era l'unico torto in trent'anni che Damone avesse fatto al suo Pitia.
Ma alla fin fine non era stato un torto nemmen quello.
Pitia-Donati sulle prime avea tenuto il broncio al suo Damone-Corsi, è vero, ma il broncio non era durato una settimana.
Lina era tale ragazza che si sarebbe fatta voler bene da un orso, e Donati poi non era un orso; ella sapeva quali gelosie dovesse disarmare, e col suo dolce sorriso e le sue maniere gentili e carezzevoli s'era messa tranquillamente nell'intimità dei due amici come un ramoscello d'ellera, invece di ficcarcisi come un cuneo.
In capo ad alcuni mesi erano tre amici invece di due, ecco tutto il cambiamento.
Donati sapeva d'avere anche una sorella oltre il fratello, e Corsi lo sapeva meglio di lui.
Di tutto quello che immaginate, e che avvenne difatti, non c'era neppur l'ombra del sospetto nella mente di alcuno dei tre - altrimenti la storia che vi racconto non avrebbe avuto nulla di singolare.
Più singolare ancora è che questo stato di cose sia durato otto anni, e avrebbe potuto durare anche indefinitamente.
Da principio nelle manifestazioni dell'amicizia, della gran simpatia che sentivano l'un per l'altro Donati e Lina, c'era stato un leggiero imbarazzo, forse causato dal timore che potessero essere male interpretate; poi l'abitudine, la lealtà dei loro cuori, la purezza istessa di quei sentimenti, li avevano resi più espansivi, più schietti, e più fiduciosi.
Donati avea assistito la Lina in una lunga e pericolosa malattia come un vero fratello avrebbe potuto fare, ed ella avea per il quasi fratello di suo marito tutte le cure, tutte le delicate premure di una sorella.
La intimità delle due piccole famiglie era divenuta così cordiale, così sincera, così aperta a due battenti, che gli amici, i conoscenti, il mondo, non la stimavano né troppa, né sospetta.
Così rara, ne convengo, com'era rara l'onestà di quelle anime; ma se in una sola di esse ci fosse stato del poco di buono, non avrei bisogno di tirare in campo il Fato degli antichi, o la coda del diavolo dei moderni.
La sera, dopo il desinare, andavano a spasso tutti e tre.
Donati dava il braccio alla Lina, e si impettiva allorché leggeva negli occhi dei viandanti "che bella donnina!".
La domenica pranzavano insieme, e prendevano un palchetto al Comunale o all'Alfieri.
Donati avea la smania delle sorprese; sorprese che si poteano indovinare col calendario alla mano, a Natale, a Pasqua, e il dì dell'onomastico di Lina.
Arrivava con un'aria disinvolta che lo tradiva peggio delle sue tasche rigonfie come bisacce, e si fregava le mani vedendo sorridere la Lina.
La sera, d'inverno, si raccoglievano nel salotto, presso il tavolino; facevano quattro chiacchiere; sfogliavano delle riviste, dei romanzi nuovi, indovinavano delle sciarade, o Lina suonava il piano.
Donati aveva una pazienza ammirabile per sorbirsi il racconto dettagliato di tutti i romanzi che leggeva Lina - era il solo vizio che ella avesse - sapeva indovinare delicatamente l'arte di ascoltare, di farsi punto ammirativo, o punto interrogativo, di agitarsi sulla seggiola, di convertire lo sbadiglio in esclamazione, mentre, povero diavolo, cascava dal sonno, o capiva poco, o, semplice e tranquillo com'era, non s'interessava affatto a tutti i punti ammirativi cui si credeva obbligato dalla situazione.
Spesso, risalendo nelle sue stanze, trovava dei fiori freschi sullo scrittoio, un tappetino nuovo dinanzi al canapè, qualche cosuccia elegante messa in bella mostra sui mobili modesti.
Un risolino giocondo che veniva dal fondo dell'anima faceva capolino discretamente su quel viso sereno da galantuomo, e si rifletteva su tutte quelle cosucce silenziose; allora a mo' di ringraziamento, egli picchiava due o tre colpi sul pavimento.
Lina si era data un gran da fare per cercargli moglie; ei rispondeva invariabilmente: - Oibò! stiamo benone così.
Non mettiamo il diavolo in casa -.
Il poveretto era così persuaso d'appartenere a quella famigliuola, era così contento di quella tranquilla esistenza, che avrebbe creduto di metter il fuoco all'appartamento, se avesse fatto un sol passo al di fuori della falsariga sulla quale era uso a camminare, e sulla quale erano regolate tutte le sue azioni, da perfetto impiegato.
Ai suoi amici che gli consigliavano di farsi una famiglia, rispondeva: - Ne ho una e mi basta -.
E gli amici non ridevano.
Lina invece diceva che non bastava; pensava agli anni più maturi, alle infermità, alla vecchiaia del suo amico, come avrebbe potuto farlo una madre.
Qualche volta prima di chiudere la finestra, sentendolo passeggiare tutto solo nella camera soprastante, alzava gli occhi al soffitto e mormorava: - Povero giovane! - L'isolamento di quella vita melanconica, scolorita, monotona, nell'età delle passioni e dei piaceri, dava un certo risalto a quel carattere calmo e modesto, ingigantiva la figura austera di quel solitario, esagerava l'idea del sacrificio, rendeva l'uomo simpatico, si insinuava come una puntura in mezzo alla felicità di lei, così piena, così completa; le faceva pensare, con un sentimento di dolcezza, alla parte di protezione, di affetto fraterno e di conforto che ella poteva esercitarvi.
A voi, cercatori d'uncini!
A Catania la quaresima vien senza carnevale; ma in compenso c'è la festa di Sant'Agata, - gran veglione di cui tutta la città è il teatro - nel quale le signore, ed anche le pedine, hanno il diritto di mascherarsi, sotto il pretesto d'intrigare amici e conoscenti, e d'andar attorno, dove vogliono, come vogliono, con chi vogliono, senza che il marito abbia diritto di metterci la punta del naso.
Questo si chiama il diritto di 'ntuppatedda, diritto il quale, checché ne dicano i cronisti, dovette esserci lasciato dai Saraceni, a giudicarne dal gran valore che ha per la donna dell'harem.
Il costume componesi di un vestito elegante e severo, possibilmente nero, chiuso quasi per intero nel manto, il quale poi copre tutta la persona e lascia scoperto soltanto un occhio per vederci e per far perdere la tramontana, o per far dare al diavolo.
La sola civetteria che il costume permette è una punta di guanto, una punta di stivalino, una punta di sottana o di fazzoletto ricamato, una punta di qualche cosa da far valere insomma, tanto da lasciare indovinare il rimanente.
Dalle quattro alle otto o alle nove di sera la 'ntuppatedda è padrona di sé (cosa che da noi ha un certo valore), delle strade, dei ritrovi, di voi, se avete la fortuna di esser conosciuto da lei, della vostra borsa e della vostra testa, se ne avete; è padrona di staccarvi dal braccio di un amico, di farvi piantare in asso la moglie o l'amante, di farvi scendere di carrozza, di farvi interrompere gli affari, di prendervi dal caffè, di chiamarvi se siete alla finestra, di menarvi pel naso da un capo all'altro della città, fra il mogio e il fatuo, ma in fondo con cera parlante d'uomo che ha una paura maledetta di sembrar ridicolo; di farvi pestare i piedi dalla folla, di farvi comperare, per amore di quel solo occhio che potete scorgere, sotto pretesto che ne ha il capriccio, tutto ciò che lascereste volentieri dal mercante, di rompervi la testa e le gambe - le 'ntuppatedde più delicate, più fragili, sono instancabili, - di rendervi geloso, di rendervi innamorato, di rendervi imbecille, e allorché siete rifinito, intontito, balordo, di piantarvi lì, sul marciapiede della via, o alla porta del caffè, con un sorriso stentato di cuor contento che fa pietà, e con un punto interrogativo negli occhi, un punto interrogativo fra il curioso e l'indispettito.
Per dir tutta la verità, c'è sempre qualcuno che non è lasciato così, né con quel viso; ma sono pochi gli eletti, mentre voi ve ne restate colla vostra curiosità in corpo, nove volte su dieci, foste anche il marito della donna che vi ha rimorchiato al suo braccio per quattro o cinque ore - il segreto della 'ntuppatedda è sacro.
Singolare usanza in un paese che ha la riputazione di possedere i mariti più suscettibili di cristianità! È vero che è un'usanza che se ne va.
Ora accade che una volta, tre o quattro giorni prima della festa, Lina, burlona com'era, parlando di 'ntuppatedde, dicesse a Donati:
- Stavolta, sapete, non vi consiglio di farvi vedere per le strade -.
Donati sapeva che Lina non s'era travestita mai da 'ntuppatedda, e siccome era la sola sua amica da cui potesse aspettarsi una sorpresa, rispose facendo una spallata:
- Poiché me la son passata liscia per otto anni!...
- Liscia o non liscia, a voi! Uomo avvisato uomo salvato -.
Ma Donati non cercava di salvarsi, anzi quel tal pericolo lo attraeva, senza fargli sospettare il detto del Vangelo.
Sarebbe stata una festa, una superba occasione di fare alla Lina un bel regaluccio fingendo di non riconoscerla, di prendere il di sopra e intrigarla invece di lasciarsi intrigare, di godersi l'imbarazzo di lei, far lo gnorri, e riderne poi di gusto insieme a lei.
Stette tutto il giorno almanaccandoci sopra, mentre all'ufficio tirava linee rette e curve, passandosi la lezione a memoria, studiando le botte e le risposte, facendo provvista di spirito a mente riposata.
L'idea di condursi sotto il braccio quella bella donnina, potendo fingere di non conoscerla, di trovarsi solo con lei, in mezzo alla folla, di essere per un'ora il suo solo protettore, uno sconosciuto, un uomo nuovo, avea qualcosa di clandestino che lo faceva ringalluzzire come di una buona fortuna.
Ora ecco la coda del diavolo, quella benedetta coda che si diverte a mettere sossopra tutte le buone intenzioni di cui è lastricato l'inferno, insinuandosi fra le commessure di esse, scoprendo il rovescio dei migliori sentimenti, mettendo in luce l'altro lato delle azioni più oneste, dei fatti che sembrano avere il motivo meno indeterminato.
La notte che precedette il giorno della festa Donati fece un brutto sogno; ma così vivo, così strano, così sorprendente, accompagnato da tale verità di circostanze, che allorché fu sveglio rimase un bel pezzo incerto se fosse stato o no un brutto sogno, e non poté chiudere occhio pel resto della notte.
Sognò di trovarsi insieme a Lina, una Lina che parevagli di non aver conosciuto mai, vestita da 'ntuppatedda, coll'occhio nero e luccicante, la voce e le mani tremanti d'emozione, erano seduti ad un tavolino del Caffè di Sicilia, dov'egli non soleva andar mai, stavano immobili, zitti, guardandosi.
Ad un tratto ella s'era lasciata scivolare il manto sulle spalle, fissandolo sempre con quegli occhi indiavolati, rossa come non l'aveva mai vista, e afferrandogli il capo per le tempie gli avea avventato in faccia un bacio caldo e febbrile.
Il povero Donati saltò alto un palmo sul letto, si svegliò con un gran batticuore, e stette cinque minuti fregandosi gli occhi, ancora balordo.
A poco a poco si calmò, finì col ridere di se stesso, e non ci pensò più.
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