TUTTE LE NOVELLE, di Giovanni Verga - pagina 4
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Ad un tratto ella s'era lasciata scivolare il manto sulle spalle, fissandolo sempre con quegli occhi indiavolati, rossa come non l'aveva mai vista, e afferrandogli il capo per le tempie gli avea avventato in faccia un bacio caldo e febbrile.
Il povero Donati saltò alto un palmo sul letto, si svegliò con un gran batticuore, e stette cinque minuti fregandosi gli occhi, ancora balordo.
A poco a poco si calmò, finì col ridere di se stesso, e non ci pensò più.
Il giorno dopo fece l'indiano; finse di non accorgersi di certi sorrisi maliziosi della Lina, dell'aria affaccendata di lei, dell'insolito va e vieni che c'era per casa.
Disse che avrebbe passata la sera all'ufficio, per un lavoro straordinario, e andò a piantarsi in sentinella sul marciapiede del Gabinetto di lettura.
Aspetta e aspetta, finalmente, verso le cinque, Lina comparve lesta lesta dai Quattro Cantoni, un po' impacciata nel manto, ma impacciata con grazia; andò difilato dov'egli trovavasi, come se l'avesse saputo, si cacciò in mezzo alla folla, e infilò senz'altro il suo braccino sotto quello di lui.
Donati l'avrebbe riconosciuta a questo soltanto.
Ella, spiritosa e chiacchierina, badava a stordirlo con un cicaleccio tutto scoppiettio, ad inventargli mille frottole per intrigarlo, ad imbarazzarlo con quel po' d'inglese e di francese che l'era rimasto del collegio, facendosi credere ora una signora forestiera, ora una ragazza che avesse il diritto di cavargli gli occhi, ora una amica che si fosse travestita per salvarlo da un gran pericolo, ora una lontana parente che si fosse rammentata di lui per venirgli a chiedere la strenna di una catenella d'oro.
Donati fingeva di cascarci, se la rideva sotto i baffi, se la godeva mezzo mondo, si divertiva ad intrigarla lui, alla sua volta, lasciandole supporre che avesse indovinato dei gran segreti, permettendole di edificare cento storie che non esistevano, sul fantastico addentellato che ella stessa gli avea offerto.
Infine, quando la vide più curiosa, quando le sorprese negli occhi il primo baleno di un sentimento nuovo, qualcosa fra la sorpresa e la timidità di trovarsi con tutt'altro uomo, scoppiò a ridere, e con quella sua faceta bonomia le disse: - Cara Lina, quando volete sorprendere il mio segreto, e farvi passare per l'incognita che ha il diritto di cavarmi gli occhi, non dovete mettere quel braccialetto lì, che me li cava davvero, tanto lo conosco! - Lina si mise a ridere anche lei, sollevò un po' il manto, e disse: - Bravo! Ora che avete vinto, giacché siamo davanti al Caffè di Sicilia, offritemi un sorbetto -.
Ed entrarono.
Bizzarria del caso! andarono a mettersi proprio a quel medesimo tavolino che Donati avea visto in sogno, l'uno di faccia all'altra, come nel sogno.
Lina avea caldo e si faceva vento col fazzoletto; lasciò scivolare il manto sulle spalle, e appoggiò il gomito sul tavolino.
Donati la vedeva fare senza aprir bocca.
Da alcuni minuti Donati mostravasi singolarmente imbarazzato; rispondeva sconnesso, a sproposito, e finalmente le parole gli erano morte in bocca.
Lina chiacchierava per due, un po' rossa dal caldo, coll'occhio acceso dalla maschera, come nel sogno.
Finalmente si avvide del turbamento che Donati non sapeva padroneggiare, e ad una risposta di lui più sbalestrata delle altre, dissegli: - O...
cos'avete? -
Ei si fece rosso.
Infine, davvero...
che aveva? Era una cosa ridicola! Possibile che quel sogno della notte lo avesse imbecillito per tutta la giornata! e si stringeva nelle spalle ridendo ingenuamente di se stesso.
- To'! - rispose, - ho che sono un asino.
Una sciocchezza! e se ve la nascondessi sarei sciocco due volte: ecco! - e le raccontò il sogno quale s'era riprodotto punto per punto nella realtà, meno una circostanza che tacque, ben inteso, o piuttosto tradusse ad usum delphini, dicendole che ella nel sogno gli avesse confessato di amarlo - nientedimeno!
Donati rideva ancora, rideva di tutto cuore riandando per filo e per segno le stramberie della notte, che raccontate diventavano più assurde; rideva dell'impressione singolare che il ripetersi di talune circostanze del sogno avea fatto su di lui.
Ella da principio s'era fatta rossa; l'ascoltava in silenzio, col mento sulla mano, senza guardarlo più, senza ridere più.
Quando egli ebbe finito, abbozzò un pallido sorriso per non lasciarlo senza risposta - non ne trovò una migliore - e s'alzò.
Se ne andarono in fretta, discorrendo a sbalzi, qualche volta cercando le parole.
Donati non era precisamente certo di non aver detto qualche corbelleria; ma sentiva in nube che avrebbe dato una mesata del suo stipendio perché non avesse parlato, ed anzi perché non avesse avuto di che parlare.
La festa finì zitta zitta, e senza allegria.
Tutti gli anni, il domani della festa, i tre amici solevano andare a desinare in campagna.
Stavolta Lina fu indisposta e non se ne fece nulla.
Donati avrebbe voluto a qualunque costo che quel giorno si fosse passato come tutti gli altri anni, perché avea sempre sullo stomaco il sogno e il gran ciarlare che ne avea fatto, e avrebbe voluto metterci sopra una buona pietra, col seguitare a far quello che avevano sempre fatto, e non pensarci più.
La sera però la passarono come di consueto, in famiglia.
Lina comparve un po' tardi, con un viso di donna che ha l'emicrania, ma calma e serena.
Donati le domandò come si sentisse.
Ella gli piantò gli occhi in faccia, due occhi che gli fecero l'effetto di due chiodi, e rispose secco secco: - Bene -.
Fu la prima sera passata freddamente.
D'allora in poi ce ne furono parecchie di simili.
Lina agucchiava, Donati suonava o leggeva, e Corsi s'ingegnava di attaccare uno scampolo di conversazione, alla quale la moglie rispondeva con monosillabi tenendo gli occhi fitti sul lavoro, e Donati con una specie di grugnito senza lasciare il libro, né il sigaro; persino Corsi, allegro per natura ed espansivo, diveniva anch'esso taciturno ed uggito; spirava un'aria di musoneria in casa sua che agghiacciava tutto.
Si lasciavano di buon'ora, Lina porgeva appena la mano: qualche volta non compariva che un momento per dare la buona notte.
Il povero Donati non sapeva darsi pace.
Si sentiva colpevole, ma la colpa maggiore era stata quella di esagerare il male che aveva fatto, colla sua aria di reo; e chiamava in aiuto tutti i santi, perché gli dessero il coraggio di prendere una buona volta la Lina a quattro occhi e dirle: - Orsù, infine, cos'avete? cosa è stato? cosa ho fatto? - Ma quella domanda semplicissima diveniva la cosa più difficile di questo mondo.
Il nuovo contegno di lei, la sua riservatezza, la sua freddezza insolita, la rendevano tutt'altra donna, una donna che gli chiudeva in bocca le perorazioni più eloquenti, e gli legava la lingua e i movimenti.
Una di quelle sere, voltandosi all'improvviso, sorprese gli occhi di Lina, fissi su di lui con tale espressione che gli fece rimescolare il sangue dai piedi alla testa; era uno sguardo che non le avea mai visto, profondo, in cui brillava dell'amarezza, una curiosità insolita, acre e pungente.
Lina avvampò in viso e chinò il capo; ei non osò più voltarsi per timore d'incontrare un'altra volta quegli occhi indiavolati.
Finalmente, una volta che Corsi non c'era, gli parve ad un tratto sentirsi invadere dal coraggio che avea tanto invocato.
Lina era immersa a capo fitto in quel che stava leggendo, e non fiatava da un gran pezzo; ei si alzò, fece un passo verso di lei, e balbettò:
- Lina! -
Ella si rizzò, spaventata da quella sola parola, pallida come un cencio e tutta tremante.
Donati rimase a bocca aperta e non seppe andare innanzi.
Rimasero alcuni istanti così.
Ella si rimise per la prima; prese il ricamo che aveva accanto, ma le mani le tremavano ancora talmente che l'ago punzecchiava stoffa.
Egli si arrovellava dentro di sé d'essere così grullo.
- Cosa avete? - disse infine.
- Siete in collera con me? Non mi perdonerete mai? -
La donna alzò il capo, sgomenta, e lo guardò come esterrefatta.
Chinò la fronte di nuovo e balbettò con voce spenta e mal ferma alcune parole inintelligibili.
A poco a poco Donati diradò le sue visite.
Corsi gli si mostrava sempre più freddo.
Quando i due antichi amici si trovavano insieme, provavano, senza saper perché, un imbarazzo inesplicabile.
La freddezza di entrambi si comunicava e si moltiplicava dall'uno all'altro.
Corsi avea tutto indovinato dal nuovo contegno della moglie e dell'amico, oppure Lina gli avea tutto raccontato? L'ultima volta che Donati andò da lei, pel suo onomastico, la trovò che era sola in casa.
Lina si fece di bracia e represse a stento un movimento di sorpresa.
Donati non sapeva trovare il verso del pelo del suo cappello, né le prime frasi di un discorso che andasse.
Ella stava sul canapè, in gran cerimonia, sì da far venire la voglia al disgraziato visitatore d'andarsene dalla finestra.
La visita durò dieci minuti.
Mentre scendeva le scale l'ex-Polluce mormorava con voce soffocata nella gola: - È finita! è finita! -
D'allora in poi non ebbe più il coraggio di picchiare a quell'uscio.
Veniva a casa mogio mogio, il più tardi che poteva, guardando furtivamente quella finestra rischiarata che gli rammentava le sere gioconde passate accanto al fuoco, col cuore e i piedi caldi, e affrettava il passo sul ripiano della scala.
Giammai le sue modeste stanzucce non gli erano sembrate più silenziose, più fredde, e più melanconiche; adesso il povero romito ci stava il meno che potesse.
Stando fuori, fece come aveva fatto Corsi, conobbe un'altra Lina.
Venuto il settembre, Corsi avea sloggiato senza nemmen dirgli addio, e non s'erano più visti.
Lina era stata inferma, e gravemente: Donati l'aveva saputo molto tempo dopo.
Gli avevano detto che la malattia l'avea cambiata di molto; ei ci aveva pensato spesso, avea avuto spesso dinanzi agli occhi quel profilo delicato e pallido, e quegli occhi febbrili, come una trafitta, come un rimorso; ma non avrebbe immaginato mai l'impressione che dovevano fare su di lui quel viso e quell'occhiata furtiva la prima volta che, andando colla sua fidanzata, incontrò Lina.
- Ella s'era voltata a guardarlo di nascosto, come si guarda un mostro o un malfattore.
Intanto era trascorso l'anno, ed era sopravvenuta la festa di Sant'Agata.
Donati doveva sposare da lì a poco.
Egli aspettava in mezzo alla folla una 'ntuppatedda che quasi gli aveva promesso di farsi vedere un momento quando si sentì afferrare all'improvviso pel braccio.
Gettò una rapida occhiata sulla donna mascherata, ma la sua fidanzata era più piccola di statura e non aveva quell'occhio nero così sfavillante.
Ei sentì che il cuore dava un tuffo; non seppe cosa dire, e si lasciò rimorchiare dentro il caffè.
La sua compagna cercò un tavolino appartato e sedette di faccia a lui; sembrava stanca e commossa fuor di modo.
Ei la considerava ansiosamente.
- Lina! - esclamò infine.
- Ah! - diss'ella con un riso che voleva dir tante cose; e appoggiò la fronte incappucciata sulla mano.
Donati balbettava parole senza senso.
- Vi sorprende vedermi qui? - domandò Lina dopo un lungo silenzio.
- Voi?
- Vi sorprende? -
Donati chinò il capo.
Ella lasciò scivolare il manto sulle spalle, e mormorò: - Vedete!
- Mio Dio! - esclamò Donati.
- Vi faccio pietà? Oh, almeno! Ma non è colpa vostra, no!...
Ho avuto sempre una salute cagionevole.
State tranquillo dunque...
Non vorrei avvelenare la vostra luna di miele.
- Oh, cosa dite mai!...
Se sapeste...
se sapeste quanto ho sofferto!...
- Voi?
- Sì!...
e quanto mi sono pentito!...
- Ah! vi siete pentito!
- Non so darmi pace!...
Non so comprendere io stesso perché...
cosa sia avvenuto per...
- Non lo sapete?
- No, per l'anima mia!
- È accaduto...
che vi ho amato.
- Voi! voi! -
Ella si fece ancora più pallida; si rizzò in piedi quasi fosse spinta da una molla, e gli disse con voce sorda:
- Perché mi avete raccontato quel sogno dunque? -
X
Quella fatale tendenza verso l'ignoto che c'è nel cuore umano, e si rivela nelle grandi come nelle piccole cose, nella sete di scienza come nella curiosità del bambino, è uno dei principali caratteri dell'amore, direi la principale attrattiva: triste attrattiva, gravida di noie o di lagrime - e di cui la triste scienza inaridisce il cuore anzi tempo.
Cotesto amore dunque che ha ispirato tanti capolavori, e che riempie per metà gli ergastoli e gli ospedali, non avrebbe in sé tutte le condizioni di essere, che a patto di servire come mezzo transitorio di fini assai più elevati - o assai più modesti, secondo il punto di vista - e non verrebbe che l'ultimo nella scala dei sentimenti? La ragione della sua caducità starebbe nella sua essenza più intima? e il terribile dissolvente che c'è nella sazietà, o nel matrimonio, dipenderebbe dall'insensato soddisfacimento d'una pericolosa curiosità? La colpa più grave del fanciullo-uomo sarebbe la pazza avidità del desiderio che gli fa frugare colle carezze e coi baci il congegno nascosto del giocattolo-donna, il quale ieri ancora, gli faceva tremare il cuore in petto come foglia?
All'ultimo veglione della Scala, in mezzo a quel turbine d'allegria frenetica, avevo incontrato una donna mascherata, della quale non avevo visto il viso, di cui non conoscevo il nome, che non avrei forse riveduta mai più, e che mi fece battere il cuore quando i suoi sguardi s'incontrarono nei miei, e mi fece passare una notte insonne, col suo sorriso sempre dinanzi agli occhi, e negli orecchi il fruscìo del raso del suo dominò.
Ella appoggiavasi al braccio di un bel giovanotto, era circondata dagli eleganti del Circolo, adulata, corteggiata, portata in trionfo; era svelta, elegante, un po' magrolina, avea due graziose fossette agli òmeri, le braccia delicate, il mento roseo, gli occhi neri e lucenti, il collo eburneo, un po' troppo lungo ed esile, ombreggiato da vaghe sfumature, là dove folleggiavano certi ricciolini ribelli; il suo sorriso era affascinante; vestiva tutta di bianco, con una gala di nastro color di rosa al cappuccio, e faceva strisciare sul tappeto il lembo della veste, come una regina avrebbe fatto col suo manto.
Tutto ciò insieme a quel pezzettino di raso nero che le celava il viso, ricamato da tutti i punti interrogativi della curiosità, dove brillavano i suoi occhi, e dietro al quale l'immaginazione avrebbe potuto vedere tutte le bellezze della donna, e porla su tutti i gradini della scala sociale.
Ella imponeva l'ingenuità, la grazia, il pudore di una fanciulla da collegio in mezzo ad un crocchio di uomini, fra i quali una signora per bene non sarebbesi avventurata neppure in maschera.
Era seduta colle spalle rivolte alla sala accanto al suo giovanotto, e gli parlava come parlano le donne innamorate, divorandolo cogli occhi, e facendogli indovinare i vaghi rossori che scorrevano sotto la sua maschera, e i sorrisi affascinanti; gli posava la mano sulla spalla, e l'accarezzava col ventaglio; sembrava che si facesse promettere qualche cosa, con una insistenza affettuosa e carezzevole.
Io avrei dato qualunque cosa per essere al posto di quel giovanotto, il quale sembrava mediocremente lusingato di quella preferenza; avrei voluto indovinare tutto ciò che non potevo udire, tutto ciò che si agitava nel cuore di lei; avrei voluto penetrare attraverso la seta di quella maschera; l'incognito di quel viso, di quella persona, e di quel modesto romanzetto sbocciato al gas della Scala aveva mille attrattive per un osservatore.
La mia simpatia, o la mia curiosità, avrà dovuto penetrarla come corrente elettrica; perché si volse a guardarmi due o tre volte, con quei suoi occhioni neri; poi si alzò, prese il braccio del suo compagno e si allontanò.
Sembrommi che all'allegria di quella festa fosse succeduta una inesplicabile musoneria, che mi mancasse qualche cosa; la cercavo con un'avida speranza di rivederla, quasi cotesta sconosciuta fosse diggià qualche cosa per me.
Sul tardi ci trovammo di nuovo faccia a faccia accanto alla porta, mentre ella usciva dalla sala ed io vi rientravo.
Rimanemmo immobili, guardandoci fissamente a lungo, come due che si conoscono, quasi anch'io, dopo averla guardata tre o quattro volte durante la sera, fossi diventato qualche cosa per lei, il cuore mi batteva e sentivo che doveva battere anche a lei; sembravami che entrambi bevessimo qualche cosa l'uno negli occhi dell'altra; assaporavo il suo sorriso assai prima che le sue labbra si schiudessero: ella mi sorrise infatti - un getto di buonumore e di simpatia che diceva: "So che ti piaccio, e anche tu mi piaci!".
La parola più affettuosa, la lingua più dolce del mondo, non avrebbero potuto riprodurre l'eloquenza di quel sorriso; il pensatore più eminente, o l'uomo di mondo più spensierato, non avrebbe potuto analizzare quel sentimento che irrompeva improvviso in un'occhiata, fra due persone che s'incontravano in mezzo alla folla, come due viaggiatori che partono per opposte direzioni s'incontrano in una stazione, l'una accanto ad uomo che amava forse ancora, l'altro che avea visto il braccio di lei sull'òmero di quell'uomo.
Due o tre volte ella si rivolse a guardarmi collo stesso sorriso, ed io la seguii, senza sapere io stesso dietro a quale lusinga corressi.
La folla me la fece perdere di vista; la cercai inutilmente nel ridotto, pei corridoi, nel caffè, in platea, da Canetta, in quei palchi che potei passare in rassegna, dappertutto.
Avevo la febbre di uno strano desiderio; divoravo cogli occhi tutti i dominò bianchi, tutte le vesti che avessero ondulazioni graziose.
A un tratto me la vidi improvvisamente dinanzi, o piuttosto incontrai il suo sguardo che mi cercava.
Io dava il braccio ad una donna che rivedevo quella sera dopo lungo tempo.
Nello sguardo dell'incognita c'era una muta interrogazione; ella mi sorrise di nuovo; non potei far altro che mandarle un saluto mentre mi passava accanto; ella si voltò vivamente, mi lanciò a bruciapelo uno sguardo ed un sorriso e ripeté: - Addio! - Non dimenticherò mai più quella voce e quell'accento!
Non la vidi più.
Rimasi a digerire il mio dispetto e il cicaleccio della mia compagna.
Sognai tutta la notte, senza chiudere gli occhi, quel viso che non conoscevo; sentivami in cuore un solco luminoso lasciatovi da quello sguardo; l'impossibilità di rintracciarla dava all'apparizione di quella sconosciuta un prestigio di cosa straordinaria; nel sorriso di lei io poteva immaginare un poema d'amore, che riceveva tutto l'interesse dall'essere troncato sul fiore e per sempre.
Per sempre! non è parola che scuote maggiormente l'animo umano? Io prolungai quel sogno per tutto il giorno.
Sembravami che ci fosse qualche cosa di nuovo in me, e che avessi ricevuto il sacramento di una perdita immensa.
Quando la mia immaginazione si stancò di vagare nelle azzurre immensità dell'ignoto, per una reazione naturale del pensiero, io guardai con sorpresa nel mio cuore, e domandai a me stesso, se mi fossi innamorato di quel pezzettino di raso nero che nascondeva un viso sconosciuto.
Lo sguardo di quell'incognita mi aveva messo il cuore in sussulto mentre davo il braccio ad un'altra donna che un tempo avevo amato come un pazzo, e che in quel momento istesso si esponeva al più grave pericolo per me.
Io maledivo l'ostinazione di cotesto affetto che mi impediva di correre dietro alla sconosciuta con tutto l'egoismo che c'è in un altro amore.
Per due o tre giorni cercai ansiosamente quell'amante che non conoscevo, e sentivo che il rivederla mi avrebbe tolto qualche cosa di Lei.
La rividi in Galleria, la riconobbi a quello sguardo e a quel sorriso che mi dicevano: "Son io, mi ravvisi?".
Mi sentivo spinto fatalmente verso di lei, e venti volte fui sul punto di prenderle la mano al cospetto delle persone che l'accompagnavano.
In piazza della Scala si rivolse due o tre volte per vedere se la seguissi.
Le vaghe incertezze, le gioie tumultuose, i febbrili desideri dell'amore a vent'anni mi inondarono il cuore in una volta: l'ondeggiare della sua veste sembravami avesse qualche cosa di carezzevole; il suo paltoncino bianco, e il fazzoletto che pel freddo si teneva sul viso, avevano irradiazioni luminose.
Io non saprei ridire l'emozione che provai al pensiero di poterle dare il braccio, o di poter toccare un lembo di quel fazzoletto.
Ad un tratto ella attraversò la via, insieme alla sua compagna, e seguìta dalla sua scorta di parenti, camminando sulla punta dei piedi e rialzando il lembo del suo vestito, venne a mettersi al mio fianco.
Mi guardò in viso, come se aspettasse qualche cosa da me.
Io sentii un dolore acuto, e volsi le spalle.
La rividi ancora parecchie volte, e gli occhi di lei mi domandavano: - Cos'hai? - io non osavo dirle: - Non mi piaci più -.
Ella si stancò di sollecitare i miei sguardi, e quando mi incontrò volse altrove il capo.
Una sera, sotto il portico della Scala, sentii afferrarmi la mano da una mano tremante che vi lasciò un bigliettino microscopico.
Mi rivolsi vivamente: non vidi che visi sconosciuti, e un po' più lungi la mia incognita che si allontanava senza guardarmi; sebbene fosse passata così lontano, sebbene da qualche tempo distogliesse da me lo sguardo con indifferenza, tutte le volte che mi incontrava, il mio pensiero corse a lei senza esitare un momento, nello stesso tempo che per una strana contraddizione tacciavo di follia il mio presentimento.
Una sola parola riempiva tutto il biglietto: "Seguitemi".
Chi? dove? perché? Coteste interrogazioni diedero colori di fuoco a quella semplice parola; il mistero che vi era racchiuso si rannodava, con logica irresistibile, a quell'incognita, e le ridava tutta quella vaga e indefinibile attrattiva che il vedermela al fianco, sotto il fanale a gas, avea fatto svanire in un lampo; il dubbio d'ingannarmi mi mise addosso mille impazienze.
Ella non sembrava nemmeno accorgersi di me - io la seguii.
Quando la porta della sua casa mi si chiuse in faccia rimasi in mezzo alla strada, senza avere la forza di andarmene, coi piedi nella neve, tutte le finestre della via che mi guardavano, e i questurini che venivano a passarmi vicino.
Dalle undici alle due del mattino io non ebbi un momento di esitazione o di stanchezza; non dubitai un istante.
Udii aprire pian piano la porta, e vidi nell'ombra dell'arcata una forma bianca.
Ella tremava come una foglia quando le toccai la mano; sembrava che avesse la febbre; mi disse con voce strozzata dalla commozione: - Che avete? che vi ho fatto? ditemelo - come se ci conoscessimo da dieci anni.
Certe situazioni, certe parole, certe inflessioni di voce hanno significazioni evidenti, irresistibili; la giovinetta che avevo incontrata al veglione, in mezzo ad uomini che portavano in trionfo Cora Pearl, e la quale mi gettava le braccia al collo nel buio di una scala, dava la più luminosa prova di candore coll'espansione della sua simpatia: sentimento strano che non sapevo spiegare, e di cui non osavo chiederle ragione.
Nella sua fiducia c'era tanta innocenza che avrei voluto rubarle gli orecchini per insegnarle a diffidare degli uomini.
Sentivo fra le mie le sue povere mani tremanti, e le sue parole sommesse sembrava che mi sfiorassero il viso come un bacio.
Certi sentimenti inesplicabili hanno un fondamento essenzialmente materiale; tutto l'incanto di quell'ora di paradiso stava nel buio di quella scala.
Sembravami che le larve dell'ideale avessero preso corpo e mi stringessero le mani: - Io ti son piaciuta senza che tu mi avessi vista in viso, - ella mi disse.
- Ecco perché ti amo - e non mi domandò nemmeno come mi chiamassi.
Ella si fece promettere che sarei tornato a vederla la notte seguente.
Ahimè! insensata promessa che rimpiccioliva il desiderio nelle meschine proporzioni di un volgare appuntamento.
Noi avremmo dovuto inventare tutti gli ostacoli che mancavano alla nostra felicità, o non rivederci mai più.
La notte seguente tornai da lei con un sentimento penoso, come se avessi perduto qualche cosa.
La rividi nel suo salottino, raggiante di bellezza, ed il cuore mi si dilatò di gioia, quasi le prime sensazioni della sciagura fossero piacevoli; contemplavo avidamente quelle leggiadre sembianze che s'imporporavano per me, e in mezzo alla festa del mio cuore sentivo insinuarsi un vago turbamento - il mio ideale svaniva; tutto quello che c'era in quella bellezza veramente incantevole era tolto ai miei sogni; sembravami che il mio pensiero si fosse impoverito trovandosi costretto nei limiti della realtà.
- Che hai? - mi disse.
- Nulla, - risposi, - c'è troppa luce qui -.
Ella, povera ragazza, moderò la fiamma della lucerna.
Non si avvedeva del turbamento che c'era in me, e non avea paura della funesta avidità con la quale i miei occhi la divoravano.
Parlava sorridente, giuliva, come un uccelletto innamorato canta su di un ramoscello; mi raccontò la sua storia, una di quelle storie che l'angelo custode ascolta sorridendo.
Aveva amato il cugino con cui l'avevo vista al veglione, era venuta colla zia da Lecco per lui, e il cugino, in capo a due o tre giorni di esitazione, le avea fatto capire bellamente che non l'amava più.
Allora, dopo le prime lagrime, ella avea pensato a quello sconosciuto che al veglione della Scala l'avea guardata in quel modo.
- Io ti ho letto negli occhi che ti piacevo, - mi disse, - e ti sorrisi perché ciò mi rendeva tutta lieta; in quel momento avevo un gran dolore in cuore.
Se mio cugino avesse seguitato ad amarmi, io non te lo avrei mai detto, ma ti avrei sempre voluto bene come ad un fratello.
Ora che mio cugino non vuol saperne più di me...
ebbene, anch'io voglio amare chi più mi piace! - Tossiva di quanto in quanto, le guance le si imporporavano, e gli occhi le si facevano umidi.
- Non mi dire che mi sposerai, se vuoi lasciarmi come quell'altro...
Sono stata tanto malata! - Addio! - le dissi.
- Tornerai domani? La zia va dalle mie cugine, non aver paura; tornerai? - Addio -.
Non la vidi più.
Sentii che mi sarei trovato umile e basso dinanzi alla fiducia e all'entusiasmo di quell'amore che non dividevo più.
E sentivo del pari di aver perduto irremissibilmente un tesoro.
In novembre ricevetti una lettera listata di nero; era lo stesso carattere che aveva scritto seguitemi; le mani mi tremavano prima d'aprirla: Se volete ripetere l'addio che deste ad una mascherina all'ultimo veglione della Scala, scrivevami, recatevi al Cimitero fra una settimana, e cercate della croce sulla quale sarà scritto X.
Quella lettera, per un caso che farebbe credere alla fatalità, s'era smarrita alla posta, e mi pervenne con qualche giorno di ritardo.
Io volai a quella casa che non avevo più riveduta; scorgendo le persiane chiuse, il cuore mi si strinse dolorosamente.
Corsi al Cimitero, senza osare di credere al presagio funesto di quella lettera; al primo viale che infilai, quasi il destino si fosse incaricato di guidare i miei passi, alla prima terra smossa di fresco, su di una croce di ferro, lessi quel segno che ella avea desiderato sulla tomba, triste geroglifico del suo amore; e lì, coi ginocchi nella polvere, mi parve di guardare in un immenso buio, tutto riempito dalla figura della mia incognita, dal suo sorriso, dal suono della sua voce, delle parole che mi ha dette, dai luoghi dove l'avevo vista.
Sentii un gran freddo.
CERTI ARGOMENTI
C'era un aneddoto che dopo più di un anno, faceva ancora le spese della conversazione alla tavola rotonda dell'Albergo di Russia, a Napoli, quando i tre o quattro ospiti che tutti gli anni solevano trovarsi al medesimo posto, dal cominciar del novembre alla fine di maggio, rimanevano faccia a faccia, col sigaro in bocca e i gomiti sulla tovaglia.
A quella medesima tavola s'erano incontrati un tale Assanti, uomo elegante ed uomo di spirito, ed una signora Dal Colle, donna elegante e donna di spirito, un po' civetta, capricciosa e bizzarra, sul conto della quale si raccontavano certe storielle singolari, ben inteso senza provarne una sola, e che veniva ad epoche fisse, come una rondine, da Baden, da Vienna o da Parigi.
Tra i due commensali e vicini di tavola si era dichiarata una decisa e poco velata antipatia, non ostante che fossero entrambi persone assai bene educate, e scambiassero alle volte, il meno che potevano, degli atti e delle parole di cortesia.
Una sera, dopo il caffè, Assanti, trovandosi nella sala dei fumatori, insieme a tre o quattro amici che parlavano della sua vicina, avea motivato la sua antipatia con un lusso di buon umore che aveva fatto rider tutti.
Ad un tratto però si fece silenzio come per incanto, la signora Dal Colle passava nella sala contigua per andare a mettersi al pianoforte, come soleva fare qualche volta.
- Ha udito tutto! - Non ha potuto udire! - dicevano sommessamente fra di loro quei signori.
Il solo colpevole non se n'era preoccupato gran fatto.
Si strinse nelle spalle, e disse ridendo: - Or ora vedremo se ha udito -.
La signora scartabellava dei quaderni di musica, e non voltava nemmeno la testa; Assanti le si avvicinò col più bell'inchino, e le domandò tranquillamente:
- Scusi, ha udito quel che dicevamo a proposito di lei? -
Ella gli piantò in faccia i due grand'occhi ben aperti, due occhi innocenti o traditori, e rispose colla massima disinvoltura:
- Scusi, perché mi fa questa domanda?
- Perché abbiamo scommesso d'indovinare quel che avrebbe suonato stassera -.
La donna sorrise, inchinò il capo, e incominciò a suonare la Bella Elena.
- Signori, - disse Assanti voltandosi verso i suoi amici, che rimanevano mogi e ingrulliti, - avete perduto -.
Infatti sembrava impossibile che una donna potesse restare così bene nei gangheri dopo avere udito tutto quel che si era detto nella sala dei fumatori; e, cosa strana, un po' per la novità della cosa, un po' per obbligo di cortesia, Assanti, discorrendo con la Dal Colle di musica e d'altro, avea osservato come più d'una volta cane e gatta si fossero trovati d'accordo, sicché il discorso era andato per le lunghe, e gli amici, ad uno ad uno, se l'erano sgattaiolata.
- Non ha udito nulla! - pensava Assanti.
Ad un tratto, quando furono soli, cambiando improvvisamente accento e maniere, la Dal Colle domandò, puntandogli contro quegli occhi indiavolati:
- È contento che gli abbia fatto vincere la scommessa, mio signor nemico? -
Egli s'inchinò e stette coraggiosamente ad aspettar l'assalto.
- Perché ci facciamo la guerra? - riprese ella con un altro tono di voce.
- Perché ella mi faceva paura.
- Oh! oh! eccoci in piena galanteria! Ebbene, mio bel cavaliere, quando mi salterà in capo di vendicarmi ne incaricherò voi stesso.
Ma francamente, non sarebbe stato meglio che fossimo andati d'accordo fin da principio?
- Facciamo la pace allora.
- Adesso è troppo tardi.
- Perché?
- Perché, perché...
- disse alzandosi, - prima di tutto perché ora vi detesto - e poi perché fra due o tre settimane partirò.
- Vi seguirò.
- Dove?
- Dove andrete!
- Ma non lo so dove andrò; né lo saprete voi.
Nemici dunque -.
Assanti la salutò ridendo, ma dovette convenire che la sua graziosa nemica poteva avere tutti i difetti, all'infuori di uno.
Il domani, mentre si vestiva per andare a pranzo, trovò sul tavolino un biglietto scritto da mano sconosciuta.
"Venite al n.
11, a mezzanotte.
Non bussate."
Egli si mise a ridere, e disse fra di sé:
- Non v'è dubbio, ha udito tutto; ma il tranello è troppo grossolano per una donna di spirito! che peccato! -
La signora Dal Colle non era venuta a tavola.
Assanti sorrise più di una volta sotto i baffi volgendo gli occhi a quel posto vuoto.
Dopo desinare andò a teatro, e non ci pensò più.
Finita l'opera, passò una mezz'ora al caffè di Europa, e quando tornò all'albergo il gas era spento.
Passando pel corridoio, dinanzi all'uscio di quel famoso numero undici, si rammentò un'altra volta del biglietto che avea in tasca e involontariamente rallentò il passo.
Si mise alla finestra, fumò il suo sigaro, lesse il suo giornale, e poi andò a letto.
Il letto era duro ed uggioso insolitamente quella notte; faceva caldo, e Assanti avea un bel voltarsi e rivoltarsi senza poter chiudere occhio.
Quelle due linee sottili che teneva chiuse nel portafogli posto sulla tavola a capo del letto, sgusciavano fuori della busta, s'allungavano serpeggiando in ghirigori per le pareti, gli si attortigliavano alle sbarre del cortinaggio, s'insinuavano sotto l'uscio, e guizzavano pel corridoio oscuro, lasciando sul tappeto una striscia fosforescente.
Spense il lume, lo riaccese, rilesse il bigliettino, stavolta senza ridere, ché l'odore del foglietto profumato gli dava alla testa, spense il lume di nuovo per addormentarsi, e fu peggio di prima; nelle tenebre faceva sogni stravaganti ad occhi aperti; vedeva quell'uscio del numero undici socchiuso, una forma bianca che sporgeva la testa dal vano, e quella donna, per la quale il giorno innanzi non avrebbe mosso un dito, ora che gli era passata pel capo sotto altro aspetto, un solo istante, per ischerzo, assumeva forme e sorrisi affascinanti.
Il sangue gli martellava nelle vene.
Finalmente si vestì a guisa di sonnambulo, quasi non avesse coscienza di quel che facesse; arrivò a mettere la mano sulla maniglia dell'uscio, e tornò a cacciarsi frettolosamente fra le coltri, vergognoso della ridicola tentazione alla quale avea ceduto con facilità inesplicabile, come se la sua nemica avesse potuto vederlo e dargli la baia.
La notte dormì male, e si levò di cattivo umore.
All'ora del pranzo trovò la Dal Colle al suo solito posto, gaia e disinvolta come se nulla fosse stato, e civetta più che mai.
Non gli fece l'onore di accorgersi menomamente di lui, e una volta gli lanciò a bruciapelo uno sguardo schernitore che avrebbe fatto montare la mosca al naso ad un uomo meno padrone di sé dell'Assanti.
Egli si era fatto il suo piano di rappresaglie e di allusioni pungenti, ma aspettò inutilmente tutta la sera nel salotto dove la Dal Colle soleva far della musica.
A poco a poco, a suo dispetto, quel sangue freddo, quella sicurezza, quella disinvoltura, lo dominavano e lo facevano arrabbiare.
Evidentemente costei che l'aveva vinto con la burla più grossolana del mondo era più forte di lui; sapeva che sarebbe bastato un nonnulla, un cattivo scherzo, per insinuarglisi tutta nelle fibre come una spina, impadronirsene, metterlo sossopra, e agitarlo co' suoi menomi capricci.
Dopo che la Dal Colle si era data la soddisfazione di quella piccola vendetta da donna, sembrava non pensasse più ad Assanti, e si lasciava fare la corte da un certo barone Ciriani, il quale passava per un don Giovanni, inclusa la bravura e la fortuna di duellista; ora ad Assanti sembrava che la Dal Colle in quel lasciarsi corteggiare, così sotto i suoi occhi, ci mettesse dell'ostentazione, e questo lo seccava assai.
La furba sapeva al certo che si può fare a fidanza, toccando certi tasti, colla semplicità mascolina, s'avesse a fare coll'uomo più avveduto di questo mondo.
Era bastata la lusinga più lontana, più sciocca, più inverosimile, perché Assanti si montasse la testa a poco a poco, sino a credere che i successi ottenuti dal Ciriani fossero rubati a lui, e che la civetteria di lei fosse un torto che gli si faceva.
Il brillante giovanotto era ridotto alla più grulla figura possibile; cominciava ad accorgersene anche lui, ciò aumentava la sua stizza, e un dispetto ne chiamava un altro, sino a fargli perdere la tramontana; sicché alla sua volta intraprese contro il Ciriani un sistema di ostilità così poco velate, e di provocazione così diretta, che non ci volle meno di tutta l'abilità della donna per scongiurare il pericolo di un serio guaio.
Finalmente ella parve stanca della lotta che dovea sostenere con Assanti quotidianamente, e prendendolo una sera a quattr'occhi nel vano della finestra, dissegli:
- Orsù, mio bel nemico, a che giuoco giuochiamo? Con qual diritto ad ogni momento vi gettate a testa bassa fra me e il Ciriani?
- Con qual diritto mi fate questa domanda? - ribatté Assanti.
- Parliamoci chiaro.
Voi mi eravate debitore di una piccola soddisfazione di amor proprio, ed io ho ottenuto il mio intento col mezzo più semplice.
Non vi ho fatto il torto di pensare che avreste preso sul serio il mio biglietto, ho reso sempre giustizia al vostro spirito, e del resto nemmeno un ragazzo di scuola ci sarebbe cascato; ma eccovi lì, fra vergognoso, bizzoso, e incapricciato, e questo deve bastarmi.
Ora siamo pari; lasciatemi tranquilla, caro mio; Ciriani non c'entra.
- Ce lo tireremo pei capelli!
- Impresa arrischiata! Sapete che come duellista ha una brutta riputazione.
- Ebbene, - esclamò Assanti un po' rosso in viso, - se mi gettassi attraverso cotesta riputazione, mi perdonereste?
- La storia del biglietto? Per chi mi prendete, caro signore, cercando di scambiarmi le carte in mano?
- Non ridete così, in fede mia! Son qui, dinanzi a voi, ridotto ad arrossire di quel che ho fatto e detto contro di voi; mi sento ridicolo, deve bastarvi.
- Ridicolo, perché?
- Perché vi amo.
- Da quando in qua?
- Dacché mi ci avete fatto pensare.
- Dacché siete indispettito contro di me allora?
- Non so se sia amore o dispetto, so che così non può durare, che voi m'avete stregato, e che finirete per farmi impazzire.
- Oibò! -
Assanti rimase zitto un istante, di faccia al sorriso mordente della Dal Colle; poi riprese, cambiando tono e maniere, e facendosi improvvisamente serio.
- Orsù, bisogna fare qualche cosa perché prestiate fede a quel che vi dico.
Bisogna provocare Ciriani e rendermi ridicolo completamente.
- Guardatevene bene! - diss'ella senza ridere più.
- Detesto gli scandali, e non mi vedreste mai più, né voi, né lui! -
La signora Dal Colle faceva i preparativi per la partenza; Assanti venne a saperlo il giorno dopo.
- Partite? - le disse.
- Sì: fuggo.
Siete soddisfatto? Facciamo la pace prima di lasciarci.
- No, facciamo di meglio: ditemi dove andrete.
Noi siamo qualcosa più di due semplici conoscenze, siamo due nemici; siamo liberi entrambi e padroni di noi; entrambi scorrazziamo pel mondo onde fuggire la noia.
C'incontreremo in tutte le stazioni, ci faremo dei dispetti, ci faremo la guerra, ci odieremo, e così non avremo il tempo di annoiarci.
- No, no! E il pericolo d'innamorarsi lo contate per nulla?
- Anche voi?
- Sì, mi par di sì, dopo quello che mi avete detto ieri sera.
- Ebbene! alla peggio!...
- Non la prendete così; parlo sul serio, e sapete che sono franca.
- In tal caso franchezza per franchezza...
Chiudete gli occhi e lasciate fare al pericolo.
- Ci penserò.
- ...Ci ho pensato, - gli disse il giorno dopo, poche ore prima di partire all'insaputa di lui.
- No, sarebbe peggio di una disgrazia, sarebbe una sciocchezza.
È un gran brutto affare, due amanti che un giorno o l'altro possano ridersi sul naso! e questo giorno arriverebbe, a meno di un miracolo...
poiché bisognerebbe proprio un miracolo! qualcosa di grosso! un atto di eroismo, una grande azione o una grande follia, per scongiurare cotesto pericolo...
e come io non farò mai nulla di tutto questo, né voi lo farete, né voglio che lo facciate, così...
nemici!
- Chi vi dice che non lo farò?
- Davvero?...
Mi par di essere in piena cavalleria!...
Ebbene, allora!...
Intanto a rivederci -.
Il giorno dopo non si vide né alla tavola rotonda, né altrove.
Assanti seppe che era partita, e che anche il Ciriani era partito.
Quella notizia gli fece ardere il sangue nelle vene come se l'avessero schiaffeggiato.
Ogni minima parola, ogni sorriso, ogni inflessione di voce di lei, nell'ultimo colloquio che avevano avuto, gli tornava alla mente, con acute punture di dispetto, di gelosia, ed anche d'amore.
Dal momento che era fuggita con un altro, quella donna eragli divenuta diabolicamente necessaria, per tutto quello che non era stato, per tutto quello che s'era detto fra di loro.
Allora cotesto eroe da salone, per puntiglio o per vanità, si sentì capace di quelle virtù eroiche da palcoscenico, delle quali ella si era promessa in premio.
Avrebbe voluto acciuffarsi con dieci Ciriani; avrebbe voluto traversare un villaggio in fiamme sulla punta dei suoi stivalini verniciati, recandosi lei sulle braccia; avrebbe voluto saltare un precipizio di mezza lega per salvarla, senza fare uno strappo ai suoi pantaloni di Lennon.
Si sentiva invaso da una specie di febbre.
Partì sulle tracce di lei; gettò il denaro a due mani; viaggiò notte e giorno, in ferrovia, in carrozza e a cavallo, con un tempaccio da lupi, in mezzo alle selvagge solitudini per le quali correva la linea di Foggia, allora incompleta, col pericolo di cadere di momento in momento nelle mani dei briganti che scorrazzavano per quelle parti.
Finalmente ebbe le prime notizie della Dal Colle ad Ariano; ella viaggiava in carrozza, seguita dai suoi domestici, senza l'ombra di un Ciriani.
Prima di annottare, una o due poste prima di Bovino, l'oste ed il conduttore cercarono di dissuaderlo di andare innanzi, perché la campagna era infestata dai briganti.
Fu come se gli avessero messo il diavolo addosso.
Lei era in pericolo: non pensava ad altro.
La notte istessa, poco dopo Bovino, raggiunse le due carrozze colle quali ella viaggiava, ferme dinanzi ad un povero casolare che era la posta dei cavalli.
Il lanternino appeso all'uscio era stato fracassato da mano invisibile; la porta era spalancata, e la stalla vuota.
I postiglioni avevano chiamato e strepitato senza che comparisse alcuno.
Assanti da lontano gridava di non andare avanti: uno dei postiglioni temendo d'essere inseguito dai briganti gli sparò addosso una pistolettata senza colpirlo.
- Fermatevi, - ripeté Assanti.
- Fermatevi, in nome di Dio! o siete perduti -.
Allo sportello di una delle due carrozze si vide dietro il cristallo, al riflesso incerto dei fanali, il viso un po' pallido della Dal Colle.
Ella riconobbe Assanti in mezzo a quella scena di confusione e di spavento, e gridò al cocchiere con accento febbrile:
- Avanti! avanti! duecento lire di mancia!
- Avanti ci sono i briganti! - gridò il giovane quasi fuori di sé.
In quell'istante, senza che si vedesse anima viva, si udì una voce che sembrava venire da una rupe che sovrastava il lato sinistro della via.
- Fermi tutti!...
o per la Madonna! siete morti! -
Il cocchiere applicò una vigorosa frustata ai cavalli che puntarono zampe ed inarcarono le schiene per slanciarsi al galoppo; ma prima che avessero fatto un sol passo si udì un colpo di fucile ed il cavallo di sinistra cadde imbrogliandosi nei finimenti; il cocchiere si buttò da cassetta e sparì nelle tenebre; la seconda carrozza, quella in cui erano i domestici della Dal Colle, voltò indietro, e fuggì a rotta di collo.
Tutto ciò era avvenuto in meno che non ci vuole per dirlo.
Assanti si slanciò allo sportello della vettura, afferrò la donna per la vita come una bambina, la spinse nella stalla e ne chiuse la porta alla meglio, ammucchiandovi contro tutto quel che poté trovare.
Al primo trambusto di quella scena era succeduto un silenzio profondo e misterioso; gli assalitori, prima di scendere nella strada, volevano al certo misurare la resistenza che avrebbero incontrata.
La Dal Colle, ritta in un angolo, non diceva una sola parola, e Assanti, rivolto verso l'uscio, colla cabina a due colpi in pugno, aspettava.
Come si furono abituati all'oscurità, scorsero, alla fioca luce dei fanali della carrozza che trapelava dalle commessure mal connesse dell'uscio, una scala a piuoli, la quale dal fondo della stalla metteva per una botola al fienile soprastante.
Sulla strada si cominciava ad udire un tramestio attorno alla carrozza, rimasta dinanzi al casolare.
Assanti fece salire la sua compagna al piano di sopra, e quando fu salito anche lui, tirò su la scala.
Al difuori durava ancora il silenzio, e di quando in quando il cavallo rimasto in piedi, scuoteva la sonagliera.
- Voi mi scaricherete la vostra carabina alla testa se dovessi cader viva nelle mani di coloro! - furono le prime parole che la donna gli rivolse con voce breve e febbrile.
- Sì! - rispose Assanti collo stesso tono.
Egli era corso alla finestra; non si vedeva nessuno; la carrozza era sempre ferma dinanzi all'uscio, descrivendo un breve cerchio di luce coi suoi due fanali; il cavallo fiutava con curiosità il compagno caduto.
Ad un tratto si udì un secondo colpo di fucile, e dall'architrave della finestra, a due dita dal capo di Assanti, caddero dei calcinacci.
La Dal Colle lo tirò indietro bruscamente.
Allora per la prima volta i loro sguardi s'incontrarono.
Ella era pallida come uno spettro, ma i suoi occhi erano sfavillanti.
All'improvviso la porta della stalla fu scossa da un urto che rimbombò come se l'avesse sconquassata.
Assanti corse alla finestra e fece fuoco; si udì un grido, seguito da una scarica generale diretta contro di lui.
Assanti si chinò sulla botola, mirò alla porta della stalla e fece fuoco una seconda volta.
I briganti, a quei colpi di carabina che venivano dall'alto e dal basso, credettero di avere a fare con parecchi, decisi di vender cara la loro vita, e ricorsero ad un altro mezzo di attacco più sicuro e meno pericoloso.
La fucilata cessò come per incanto.
Si udirono al di fuori rumori diversi, che da principio i due assediati non sapevano spiegarsi: un via vai, un risuonare di sonagliuoli dei cavalli, un muovere di ruote; poi rimbombò un secondo e forte urto alla porta della stalla, come se la carrozza vi fosse stata spinta contro a guisa d'ariete.
Assanti trasalì per l'imminenza di un nuovo e sconosciuto pericolo; il cuore gli batteva forte.
- Chi ci avrebbe detto che il miracolo di cui vi parlavo sarebbe stato così vicino! - disse la Dal Colle con uno strano sorriso.
Ei le afferrò la mano ed ella non la ritirò.
In quel momento un riflesso rossastro si disegnò come una apparizione infernale di faccia alla porta, sulla parete nera della stalla.
Il giovane, dimentico del pericolo passato per quello più grande che li minacciava, corse alla finestra, e la spalancò; le fiamme che bruciavano la carrozza e l'uscio della stalla illuminarono vivamente il fienile.
- Cosa fanno adesso? - domandò la donna stringendosi a lui con mano tremante.
- Bruciano la casa! - rispose Assanti con voce sorda.
- Voi mi avete promesso che morremo insieme! - diss'ella dopo un minuto di silenzio.
Presso la finestra le travi del solaio cominciavano a scoppiettare, e le fiamme mostravano attraverso le assi le loro lingue azzurrognole che lambivano le pareti; il fumo annebbiava la stanzuccia e li soffocava.
La donna guardava Assanti con occhi singolari.
- Vi siete perduto per me! - mormorò finalmente, con un accento di cui egli non avrebbe supposto capace quella donna leggiera.
- Vi amo! - egli rispose.
Allora in mezzo al fumo che li accecava, dinanzi alle fiamme che allungavano verso di loro lingue sitibonde, sotto una pioggia di faville infuocate, fra gli urli dei banditi che danzavano e sghignazzavano attorno a quell'orribile rogo, ella gli avvinse le braccia al collo, e posò la guancia sulla guancia di lui.
Tutt'a un tratto si udì sulla strada un gran tumulto, colpi di fuoco, urli di dolore, grida di collera.
I carabinieri di Bovino avevano incontrato la carrozza colla quale erano scappati i domestici della Dal Colle, ed erano accorsi in fretta.
Un brigadiere si precipitò fra le fiamme, e strappò i due amanti da quell'amplesso di morte.
Albeggiava appena.
Assanti e la Dal Colle furono accompagnati a Bovino.
Ella era pallidissima.
Quando furono soli nella miglior stanza dell'albergo, gli stese la mano.
- Ora separiamoci.
- Come, separarci!...
- Abbiamo passato un bel momento, abbiamo realizzato il miracolo che sembrava impossibile alla tavola rotonda dell'Albergo di Russia.
Non lo guastiamo! Siamo stati degli eroi, e siccome non potremmo aver sempre sottomano dei briganti per esaltarci, finiremo per trovarci ridicoli.
Lasciamoci eroi dunque.
- Che donna siete mai?
- Mi dicono che sono una matta: ma mi accorgo che una matta è sempre più ragionevole dell'uomo più savio.
Vediamo, amico mio, discorriamola ora che la stanchezza fa dar giù la febbre.
In due settimane voi passate dall'antipatia all'entusiasmo; vi gettate a corpo perduto su di me, e mi fate il sacrificio della vostra vita, senza sapere se io ne sia degna.
- È ragionevole cotesto? Avete fatto per me una bella azione, qualcosa che può toccare il cuore o la testa di una donna, e far mettere il cappuccio alle sue follie...
non c'è che dire; ma siete certo che non abbiate fatto il sacrificio pel sacrificio? perché vi eravate montata la testa? più per voi che per
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