TUTTE LE NOVELLE, di Giovanni Verga - pagina 21
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Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano - forse pel quarto d'ora - cose serissime e rispettabilissime anch'esse.
Sembrami che le irrequietudini del pensiero vagabondo s'addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione.
- Sembrami che potrei vedervi passare, al gran trotto dei vostri cavalli, col tintinnìo allegro dei loro finimenti e salutarvi tranquillamente.
Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro al turbine che vi circonda e vi segue, mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell'istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme.
Un dramma che qualche volta forse vi racconterò, e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: - che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell'ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch'egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui.
- E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d'interesse.
Per le ostriche l'argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.
JELI IL PASTORE
Jeli, il guardiano di cavalli, aveva tredici anni quando conobbe don Alfonso, il signorino; ma era così piccolo che non arrivava alla pancia della Bianca, la vecchia giumenta che portava il campanaccio della mandra.
Lo si vedeva sempre di qua e di là, pei monti e nella pianura, dove pascolavano le sue bestie, ritto ed immobile su qualche greppo, o accoccolato su di un gran sasso.
Il suo amico don Alfonso, mentre era in villeggiatura, andava a trovarlo tutti i giorni che Dio mandava a Tebidi, e dividevano fra di loro i buoni bocconi del padroncino, e il pane d'orzo del pastorello, o le frutta rubate al vicino.
Dapprincipio, Jeli dava dell'eccellenza al signorino, come si usa in Sicilia, ma dopo che si furono accapigliati per bene, la loro amicizia fu stabilita solidamente.
Jeli insegnava al suo amico come si fa ad arrampicarsi sino ai nidi delle gazze, sulle cime dei noci più alti del campanile di Licodia, a cogliere un passero a volo con una sassata, a montare correndo di salto sul dorso nudo delle giumente ancora indomite, acciuffando per la criniera la prima che passasse a tiro, senza lasciarsi sbigottire dai nitriti di collera dei puledri indomiti, e dai loro salti disperati.
Ah! le belle scappate pei campi mietuti, colle criniere al vento! i bei giorni d'aprile, quando il vento accavallava ad onde l'erba verde, e le cavalle nitrivano nei pascoli! i bei meriggi d'estate, in cui la campagna, bianchiccia, taceva, sotto il cielo fosco, e i grilli scoppiettavano fra le zolle, come se le stoppie si incendiassero! il bel cielo d'inverno attraverso i rami nudi del mandorlo, che rabbrividivano al rovajo, e il viottolo che suonava gelato sotto lo zoccolo dei cavalli, e le allodole che trillavano in alto, al caldo, nell'azzurro! le belle sere di estate che salivano adagio adagio come la nebbia, il buon odore del fieno in cui si affondavano i gomiti, e il ronzìo malinconico degli insetti della sera, e quelle due note dello zufolo di Jeli, sempre le stesse - iuh! iuh! iuh! - che facevano pensare alle cose lontane, alla festa di San Giovanni, alla notte di Natale, all'alba della scampagnata, a tutti quei grandi avvenimenti trascorsi, che sembrano mesti, così lontani, e facevano guardare in alto, cogli occhi umidi, quasi tutte le stelle che andavano accendendosi in cielo vi piovessero in cuore, e l'allagassero!
Jeli, lui, non pativa di quelle malinconie; se ne stava accoccolato sul ciglione, colle gote enfiate, intentissimo a suonare - iuh! iuh! iuh! - Poi radunava il branco a furia di gridi e di sassate, e lo spingeva nella stalla, di là del poggio alla croce.
Ansando, saliva la costa, di là dal vallone, e gridava qualche volta al suo amico Alfonso: - Chiamati il cane! ohé, chiamati il cane! - oppure: - Tirami una buona sassata allo zaino, che mi fa il capriccioso, e se ne viene adagio adagio, gingillandosi colle macchie del vallone -; oppure: - Domattina portami un ago grosso, di quelli della gnà Lia -.
Ei sapeva fare ogni sorta di lavori coll'ago; e ci aveva un batuffoletto di cenci nella sacca di tela, per rattoppare al bisogno le brache e le maniche del giubbone; sapeva anche tessere dei treccioli di crini di cavallo, e si lavava anche da sé colla creta del vallone il fazzoletto che si metteva al collo, quando aveva freddo.
Insomma, purché ci avesse la sua sacca ad armacollo, non aveva bisogno di nessuno al mondo, fosse stato nei boschi di Resecone, o perduto in fondo alla piana di Caltagirone.
La gnà Lia, soleva dire: - Vedete Jeli il pastore? è stato sempre solo pei campi, come se l'avessero figliato le sue cavalle, ed e perciò che sa farsi la croce con le due mani! -
Del rimanente è vero che Jeli non aveva bisogno di nessuno, ma tutti quelli della fattoria avrebbero fatto volentieri qualche cosa per lui, poiché era un ragazzo servizievole, e ci era sempre il caso di buscarci qualche cosa da lui.
La gnà Lia gli cuoceva il pane per amor del prossimo, ed ei la ricambiava con bei panierini di vimini per le ova, arcolai di canna, ed altre coserelle.
- Facciamo come fanno le sue bestie, - diceva la gnà Lia, - che si grattano il collo a vicenda -.
A Tebidi tutti lo conoscevano da piccolo, che non si vedeva fra le code dei cavalli, quando pascolavano nel piano del lettighiere, ed era cresciuto, si può dire, sotto i loro occhi, sebbene nessuno lo vedesse mai, e ramingasse sempre di qua e di là col suo armento! "Era piovuto dal cielo, e la terra l'aveva raccolto" come dice il proverbio; proprio di quelli che non hanno né casa né parenti.
La sua mamma stava a servire a Vizzini, e non lo vedeva altro che una volta all'anno, quando egli andava coi puledri alla fiera di San Giovanni; e il giorno in cui era morta, erano venuti a chiamarlo - un sabato sera - che il lunedì Jeli tornò alla mandra, sicché non ci rimise neppure la giornata; ma il povero ragazzo era ritornato così sconvolto che alle volte lasciava scappare i puledri nel seminato.
- Ohé, Jeli! - gli gridava allora massaro Agrippino dall'aja; - o che vuoi assaggiare le nerbate delle feste, figlio di cagna? - Jeli si metteva a correre dietro i puledri sbrancati, e li spingeva mogio mogio verso la collina.
Però davanti agli occhi ci aveva sempre la sua mamma, col capo avvolto nel fazzoletto bianco, che non parlava più.
Suo padre faceva il vaccaro a Ragoleti di là di Licodia, "dove la malaria si poteva mietere" dicevano i contadini dei dintorni; ma nei terreni di malaria i pascoli sono grassi, e le vacche non prendono le febbri.
Jeli quindi se ne stava nei campi tutto l'anno, o a Donferrante, o nelle chiuse della commenda, o nella valle del Jacitano, e i cacciatori, o i viandanti che prendevano le scorciatoie, lo vedevano sempre qua e là, come un cane senza padrone.
Ei non ci pativa, perché era avvezzo a stare coi cavalli che gli camminavano dinanzi, passo passo, brucando il trifoglio, e cogli uccelli che girovagavano a stormi, attorno a lui, tutto il tempo che il sole faceva il suo viaggio lento lento, sino a che le ombre si allungavano e poi si dileguavano; egli avea il tempo di veder le nuvole accavallarsi a poco a poco, e figurar monti e vallate; conosceva come spira il vento quando porta il temporale, e di che colore sia il nuvolo quando sta per nevicare.
Ogni cosa aveva il suo aspetto e il suo significato, e c'era sempre che vedere e che ascoltare in tutte le ore del giorno.
Così, verso il tramonto quando il pastore si metteva a suonare collo zufolo di sambuco, la cavalla mora si accostava masticando il trifoglio svogliatamente, e stava anch'essa a guardarlo, con i suoi grandi occhi pensierosi.
Dove soffriva soltanto un po' di malinconia era nelle lande deserte di Passanitello, in cui non sorge macchia né arbusto, e ne' mesi caldi non ci vola un uccello.
I cavalli si radunavano in cerchio colla testa ciondoloni, per farsi ombra l'un l'altro, e nei lunghi giorni della trebbiatura quella gran luce silenziosa pioveva sempre uguale ed afosa per sedici ore.
Però dove il mangime era abbondante, e i cavalli indugiavano volentieri, il ragazzo si occupava con qualche altra cosa: faceva delle gabbie di canna per i grilli, delle pipe intagliate, e dei panierini di giunco, con quattro ramoscelli; sapeva rizzare un po' di tettoia, quando la tramontana spingeva per la valle le lunghe file dei corvi, o quando le cicale battevano le ali nel sole che abbruciava le stoppie; arrostiva le ghiande del querceto nella brace de' sarmenti di sommacco, che pareva di mangiare delle bruciate, o vi abbrustoliva le larghe fette di pane allorché cominciava ad avere la barba dalla muffa - poiché quando si trovava a Passanitello nell'inverno, le strade erano così cattive che alle volte passavano quindici giorni senza che si vedesse passare anima viva.
Don Alfonso, che era tenuto nel cotone dai suoi genitori, invidiava al suo amico Jeli la tasca di tela, dove ci aveva tutta la sua roba, il pane, le cipolle, il fiaschetto del vino, il fazzoletto pel freddo, il batuffoletto dei cenci col refe e gli aghi rossi, la scatoletta di latta coll'esca e la pietra focaja; gli invidiava pure la superba cavalla vajata, quella bestia dal ciuffetto di peli irti sulla fronte, che aveva gli occhi cattivi, e gonfiava le froge al pari di un mastino ringhioso quando qualcuno voleva montarla.
Da Jeli invece si lasciava montare e grattare le orecchie di cui era gelosa e l'andava fiutando per ascoltare quello che ei voleva dirle.
- Lascia stare la vajata, - gli raccomandava Jeli, - non è cattiva, ma non ti conosce -.
Dopo che Scordu il bucchierese si menò via la giumenta calabrese che aveva comprato a San Giovanni, col patto che gliela tenessero nell'armento sino alla vendemmia, il puledro zaino, rimasto orfano, non voleva darsi pace, e scorrazzava su pei greppi del monte, con lunghi nitriti lamentevoli, e colle froge al vento.
Jeli gli correva dietro, chiamandolo con forti grida, e il puledro si fermava ad ascoltare, col collo teso e le orecchie irrequiete, sferzandosi i fianchi colla coda.
- È perché gli hanno portato via la madre, e non sa più cosa si faccia - osservava il pastore.
- Adesso bisogna tenerlo d'occhio, perché sarebbe capace di lasciarsi andar giù nel precipizio.
Anch'io, quando mi è morta la mia mamma, non ci vedevo più dagli occhi -.
Poi, dopo che il puledro ricominciò a fiutare il trifoglio, e a darvi qualche boccata di malavoglia, - Vedi, a poco a poco comincia a dimenticarsene.
- Ma anch'esso sarà venduto.
I cavalli sono fatti per essere venduti; come gli agnelli nascono per andare al macello, e le nuvole portano la pioggia.
Solo gli uccelli non hanno a far altro che cantare e volare tutto il giorno -.
Le idee non gli venivano nette e filate l'una dietro l'altra, ché di rado aveva avuto con chi parlare, e perciò non aveva fretta di scovarle e distrigarle in fondo alla testa, dove era abituato a lasciare che sbucciassero e spuntassero fuori a poco a poco, come fanno le gemme dei ramoscelli sotto il sole.
- Anche gli uccelli, - soggiunse, - devono buscarsi il cibo, e quando la neve copre la terra se ne muoiono -.
Poi ci pensò su un pezzetto.
- Tu sei come gli uccelli; ma quando arriva l'inverno, te ne puoi stare al fuoco, senza far nulla -.
Don Alfonso però rispondeva che anche lui andava a scuola, a imparare.
Jeli allora sgranava gli occhi, e stava tutto orecchi se il signorino si metteva a leggere, e guardava il libro e lui in aria sospettosa, stando ad ascoltare, con quel lieve ammiccar di palpebre che indica l'intensità dell'attenzione nelle bestie che più si accostano all'uomo.
Gli piacevano i versi che gli accarezzavano l'udito con l'armonia di una canzone incomprensibile, e alle volte aggrottava le ciglia, appuntava il mento, e sembrava che un gran lavorìo si stesse facendo nel suo interno; allora accennava di sì e di sì col capo, con un sorriso furbo, e si grattava la testa.
Quando poi il signorino mettevasi a scrivere per far vedere quante cose sapeva fare, Jeli sarebbe rimasto delle giornate intiere a guardarlo, e tutto a un tratto lasciava scappare un'occhiata sospettosa.
Non poteva capacitarsi che si potesse poi ripetere sulla carta quelle parole che egli aveva dette, o che aveva dette don Alfonso, ed anche quelle cose che non gli erano uscite di bocca, talché lui finiva per tirarsi indietro, incredulo, e con un sorriso furbo.
Ogni idea nuova che gli picchiasse nella testa per entrare, lo metteva in sospetto, e pareva la fiutasse colla diffidenza selvaggia della sua vajata.
Però non mostrava meraviglia di nulla al mondo: gli avessero detto che in città i cavalli andavano in carrozza, egli sarebbe rimasto impassibile, con quella maschera d'indifferenza orientale che è la dignità del contadino siciliano.
Pareva che istintivamente si trincerasse nella sua ignoranza, come fosse la forza della povertà.
Tutte le volte che rimaneva a corto di argomenti ripeteva: - Io non ne so nulla.
- Io sono povero - con quel sorriso ostinato che voleva essere malizioso.
Aveva chiesto al suo amico Alfonso di scrivergli il nome di Mara su di un pezzetto di carta che aveva trovato chi sa dove, perché egli raccattava tutto quello che vedeva per terra, e se l'era messo nel batuffoletto dei cenci.
Un giorno, dopo di esser stato un po' zitto, a guardare di qua e di là soprappensiero, gli disse serio serio:
- Io ci ho l'innamorata -.
Alfonso, malgrado che sapesse leggere, sgranava gli occhi.
- Sì, - ripeté Jeli, - Mara, la figlia di massaro Agrippino che era qui; ed ora sta a Marineo, in quel gran casamento della pianura che si vede dal piano del lettighiere, lassù.
- O ti mariti dunque?
- Sì, quando sarò grande e avrò sei onze all'anno di salario.
Mara non ne sa nulla ancora.
- Perché non gliel'hai detto? -
Jeli tentennò il capo, e si mise a riflettere.
Poi svolse il batuffoletto e spiegò la carta che s'era fatta scrivere.
- È proprio vero che dice Mara; l'ha letto pure don Gesualdo, il campiere, e fra Cola, quando venne giù per la cerca delle fave.
- Uno che sappia scrivere, - osservò poi, - è come uno che serbasse le parole nella scatola dell'acciarino, e potesse portarsele in tasca, ed anche mandarle di qua e di là.
- Ora che ne farai di quel pezzetto di carta, tu che non sai leggere? - gli domandò Alfonso.
Jeli si strinse nelle spalle, ma continuò ad avvolgere accuratamente il suo fogliolino scritto nel batuffoletto dei cenci.
La Mara l'aveva conosciuta da bambina, che avevano cominciato dal picchiarsi ben bene, una volta che s'erano incontrati lungo il vallone, a cogliere le more nelle siepi di rovo.
La ragazzina, la quale sapeva di essere "nel fatto suo", aveva agguantato pel collo Jeli, come un ladro.
Per un po' s'erano scambiati dei pugni nella schiena, uno tu ed uno io, come fa il bottaio sui cerchi delle botti, ma quando furono stanchi andarono calmandosi a poco a poco, tenendosi sempre acciuffati.
- Tu chi sei? - gli domandò Mara.
E come Jeli, più selvatico, non diceva chi fosse:
- Io sono Mara, la figlia di massaro Agrippino, che è il campaio di tutti questi campi qui -.
Jeli allora lasciò la presa senza dir nulla, e la ragazzina si mise a raccattare le more che le erano cadute per terra, sbirciando di tanto il tanto il suo avversario con curiosità.
- Di là del ponticello, nella siepe dell'orto, ci son tante more grosse; - aggiunse la piccina, - e se le mangiano le galline -.
Jeli intanto si allontanava quatto quatto, e Mara, dopo che stette ad accompagnarlo cogli occhi finché poté vederlo nel querceto, volse le spalle anche lei, e se la diede a gambe verso casa.
Ma da quel giorno in poi cominciarono ad addomesticarsi.
Mara andava a filare la stoppa sul parapetto del ponticello, e Jeli adagio adagio spingeva l'armento verso le falde del poggio del bandito.
Da prima se ne stava in disparte ronzandole attorno, guardandola da lontano in aria sospettosa, e a poco a poco andava accostandosi coll'andatura guardinga del cane avvezzo alle sassate.
Quando finalmente si trovavano accanto, ci stavano delle lunghe ore senza aprir bocca.
Jeli osservando attentamente l'intricato lavorio della calza che la mamma aveva dato in compito alla Mara, oppure costei gli vedeva intagliare i bei zig zag sui bastoni del mandorlo.
Poi se ne andavano l'uno di qua e l'altro di là, senza dirsi una parola, e la bambina, com'era in vista della casa, si metteva a correre, facendo levar alta la sottanella sulle gambette rosse.
Al tempo dei fichidindia poi si fissarono nel folto delle macchie, sbucciando dei fichi tutto il santo giorno.
Vagabondavano insieme sotto i noci secolari, e Jeli bacchiava tante delle noci, che piovevano fitte come la gragnuola; la ragazzina si affaticava a raccattarne con grida di giubilo più che ne poteva, e poi scappava via, lesta lesta, tenendo tese le due cocche del grembiule, dondolandosi come una vecchietta.
Durante l'inverno Mara non osò mettere fuori il naso, in quel gran freddo.
Alle volte, verso sera, si vedeva il fumo dei fuocherelli di sommacchi che Jeli andava facendo nel piano del lettighiere, o sul poggio di Macca, per non rimanere intirizzito al pari di quelle cinciallegre che la mattina trovava dietro un sasso, o al riparo di una zolla.
Anche i cavalli ci trovavano piacere a ciondolare un po' la coda attorno al fuoco, e si stringevano fra di loro per star più caldi.
Col marzo tornarono le allodole nel piano, i passeri sul tetto, le foglie e i nidi nelle siepi, Mara riprese ad andare a spasso, in compagnia di Jeli, nell'erba soffice, tra le macchie in fiore, sotto gli alberi ancora nudi che cominciavano a punteggiarsi di verde.
Jeli si ficcava negli spineti come un segugio, per andare a scovare delle nidiate di merli che guardavano sbalorditi coi loro occhietti di pepe; i due fanciulli portavano spesso nel petto della camicia dei piccoli conigli allora stanati, quasi nudi, ma dalle lunghe orecchie diggià inquiete; scorazzavano pei campi al seguito del branco dei cavalli, entrando nelle stoppie dietro i mietitori, passo passo coll'armento, fermandosi ogni volta che una giumenta si fermava a strappare una boccata d'erba.
La sera, giunti al ponticello, se ne andavano l'una di qua e l'altro di là, senza dirsi addio.
Così passarono tutta l'estate.
Intanto il sole cominciava a tramontare dietro il poggio alla croce, e i pettirossi gli andavano dietro verso la montagna, come imbruniva, seguendolo fra le macchie dei fichidindia.
I grilli e le cicale non si udivano più, e in quell'ora per l'aria si spandeva come una gran malinconia.
In quel tempo arrivò al casolare di Jeli suo padre, il vaccaro, che aveva preso la malaria a Ragoleti, e non poteva nemmen reggersi sull'asino che lo portava.
Jeli accese il fuoco, lesto lesto, e corse "alle case" per cercargli qualche uovo di gallina.
- Piuttosto stendi un po' di strame vicino al fuoco, - gli disse suo padre, - ché mi sento tornare la febbre -.
Il ribrezzo della febbre era così forte che compare Menu, seppellito sotto il suo gran tabarro, la bisaccia dell'asino, e la sacca di Jeli, tremava come fanno le foglie in novembre, davanti alla gran vampa di sarmenti che gli faceva il viso bianco bianco come un morto.
I contadini della fattoria venivano a domandargli: - Come vi sentite, compare Menu? - Il poveretto non rispondeva altro che con un guaito, come fa un cagnuolo di latte.
- È malaria di quella che ammazza meglio di una schioppettata - dicevano gli amici, scaldandosi le mani al fuoco.
Fu chiamato anche il medico, ma erano tutti denari sprecati, perché la malattia era di quelle chiare e conosciute che anche un ragazzo saprebbe curarla, e se la febbre non era di quelle che ammazzano ad ogni modo, col solfato si sarebbe guarita subito.
Compare Menu ci spese gli occhi della testa in tanto solfato, ma era come buttarlo nel pozzo.
- Prendete un buon decotto di ecalibbiso che non costa nulla, - suggeriva mastro Agrippino, - e se non serve a nulla come il solfato, almeno non vi rovinate a spendere -.
Si prendeva anche il decotto di eucaliptus, eppure la febbre tornava sempre, anche più forte.
Jeli assisteva il genitore come meglio sapeva.
Ogni mattina, prima d'andarsene coi puledri, gli lasciava il decotto preparato nella ciotola, il fascio di sarmenti sotto la mano, le uova nella cenere calda, e tornava presto alla sera, colle altre legne per la notte, e il fiaschetto di vino, e qualche pezzetto di carne di montone che era corso a comperare sino a Licodia.
Il povero ragazzo faceva ogni cosa con garbo, come una brava massaia, e suo padre, accompagnandolo cogli occhi stanchi nelle sue faccenduole qua e là pel casolare, di tanto in tanto sorrideva, pensando che il ragazzo avrebbe saputo aiutarsi, quando fosse rimasto solo.
I giorni in cui la febbre cessava per qualche ora, compare Menu si alzava tutto stravolto e col capo stretto nel fazzoletto, e si metteva sull'uscio ad aspettare Jeli, mentre il sole era ancora caldo.
Come Jeli lasciava cadere accanto all'uscio il fascio della legna, e posava sulla tavola il fiasco e le uova, ei gli diceva: - Metti a bollire l'ecalibbiso per stanotte -; oppure; - Guarda che l'oro di tua madre l'ha in consegna la zia Agata, quando non ci sarò più io -.
E Jeli diceva di sì col capo.
- È inutile - ripeteva massaro Agrippino ogni volta che tornava a vedere compare Menu colla febbre.
- Il sangue oramai è tutto una peste -.
Compare Menu ascoltava senza batter palpebra, col viso più bianco della sua berretta.
Diggià non si alzava più.
Jeli si metteva a piangere quando non gli bastavano le forze per aiutarlo a voltarsi da un lato all'altro; poco per volta compare Menu finì per non parlare nemmen più.
Le ultime parole che disse al suo ragazzo furono:
- Quando sarò morto, andrai dal padrone delle vacche, a Ragoleti, e ti farai dare le tre onze e i dodici tumoli di frumento che avanzo da maggio a questa parte.
- No, - rispose Jeli, - sono soltanto due onze e quindici, perché avete lasciato le vacche che è più di un mese, e bisogna fare il conto giusto col padrone.
- È vero! - affermò compare Menu socchiudendo gli occhi.
- Ora son proprio solo al mondo come un puledro smarrito, che se lo possono mangiare i lupi! - pensò Jeli quando gli ebbero portato il babbo al cimitero di Licodia.
Mara era venuta a vedere anche lei la casa del morto, colla curiosità inquieta che destano le cose spaventose.
- Vedi come son rimasto? - le disse Jeli.
La ragazzetta si tirò indietro sbigottita, per paura che non la facesse entrare nella casa dove era stato il morto.
Jeli andò a riscuotere il danaro del babbo, e se ne partì coll'armento per Passanitello, dove l'erba era già alta sul terreno lasciato pel maggese, e il mangime era abbondante; perciò i puledri vi restarono a pascolarvi per molto tempo.
Frattanto Jeli s'era fatto grande, ed anche Mara doveva esser cresciuta, pensava egli sovente, mentre suonava il suo zufolo; poi quando tornò a Tebidi, dopo tanto tempo, spingendosi innanzi adagio adagio le giumente per i viottoli sdrucciolevoli della fontana dello zio Cosimo, andava cercando cogli occhi il ponticello del vallone, e il casolare nella valle del Jacitano, e il tetto delle case grandi, su cui svolazzavano sempre i colombi.
Ma in quel tempo il padrone aveva licenziato massaro Agrippino e tutta la famiglia di Mara stava soleggiando.
Jeli trovò la ragazza, la quale s'era fatta grandicella e belloccia, alla porta del cortile, che teneva d'occhio la sua roba, mentre la caricavano sulla carretta.
Ora la stanza vuota sembrava più scura e affumicata del solito.
La tavola, e il letto, e il cassettone, e le immagini della Vergine e di San Giovanni, e fino i chiodi per appendervi le zucche delle sementi, ci avevano lasciato il segno sulle pareti dove erano state per tanti anni.
- Andiamo via, - gli disse Mara come lo vide osservare.
- Ce ne andiamo laggiù a Marineo, dove c'è quel gran casamento, nella pianura -.
Jeli si diede ad aiutare massaro Agrippino e la gnà Lia nel caricare la carretta, e allorché non ci fu altro da portare via dalla stanza, andò a sedere con Mara sul parapetto dell'abbeveratojo.
- Anche le case, - le disse, quand'ebbe visto accatastare l'ultima cesta sulla carretta, - anche le case, come se ne toglie via la loro roba, non sembrono più quelle.
- A Marineo, - rispose Mara, - ci avremo una camera più bella, ha detto la mamma, e grande come il magazzino dei formaggi.
- Ora che tu sarai via, non voglio venirci più qui; ché mi parrà di esser tornato l'inverno, a veder quell'uscio chiuso.
- A Marineo invece troveremo dell'altra gente, Pudda la rossa, e la figlia del campiere; si starà allegri, per la messe verranno più di ottanta mietitori, colla cornamusa, e si ballerà sull'aja -.
Massaro Agrippino e sua moglie si erano avviati colla carretta, Mara correva loro dietro tutta allegra, portando il paniere coi piccioni.
Jeli volle accompagnarla sino al ponticello, e quando Mara stava per scomparire nella vallata la chiamò: - Mara! oh, Mara!
- Che vuoi? - disse Mara.
Egli non lo sapeva che voleva.
- O tu, cosa farai qui tutto solo? - gli domandò allora la ragazza.
- Io resto coi puledri -.
Mara se ne andò saltellando, e lui rimase lì fermo, finché poté udire il rumore della carretta che rimbalzava sui sassi.
Il sole toccava le rocce alte del poggio alla croce, le chiome grigie degli ulivi sfumavano nel crepuscolo, e per la campagna vasta, lontan lontano, non si udiva altro che il campanaccio della bianca nel silenzio che si allargava.
Mara, come se ne fu andata a Marineo, in mezzo alla gente nuova, e alle faccende della vendemmia, si scordò di lui; ma Jeli ci pensava sempre a lei, perché non aveva altro da fare, nelle lunghe giornate che passava a guardare la coda delle sue bestie.
Adesso non aveva poi motivo alcuno per calar nella valle, di là del ponticello, e nessuno lo vedeva più alla fattoria.
In tal modo ignorò per un pezzo che Mara si era fatta sposa, giacché dell'acqua intanto ne era passata e passata sotto il ponticello.
Egli rivide soltanto la ragazza il dì della festa di San Giovanni, come andò alla fiera coi puledri da vendere: una festa che gli si mutò tutta in veleno, e gli fece cascar il pan di bocca, per un accidente toccato ad uno dei puledri del padrone, Dio ne scampi.
Il giorno della fiera il fattore aspettava i puledri sin dall'alba, andando su e giù cogli stivali inverniciati dietro le groppe dei cavalli e dei muli, messi in fila di qua e di là dello stradone.
La fiera era già sul finire, né Jeli spuntava ancora colle bestie, di là del gomito che faceva lo stradone.
Sulle pendici riarse del calvario e del mulino a vento, rimaneva tuttora qualche branco di pecore, strette in cerchio col muso a terra e l'occhio spento, e qualche pariglia di buoi dal pelo lungo, di quegli che si vendono per pagare il fitto delle terre, che aspettavano immobili, sotto il sole cocente.
Laggiù, verso la valle, la campana di San Giovanni suonava la messa grande, accompagnata dal lungo crepitìo dei mortaletti.
Allora il campo della fiera sembrava trasalire, e correva un gridìo che si prolungava fra le tende dei trecconi schierate nella salita dei Galli, scendeva per le vie del paese, e sembrava ritornare dalla valle dov'era la chiesa.
- Viva San Giovanni! - Santo diavolone! - strillava il fattore, - quell'assassino di Jeli mi farà perdere la fiera! -
Le pecore levavano il muso attonito, e si mettevano a belare tutte in una volta, e anche i buoi facevano qualche passo lentamente, guardando in giro, con grandi occhi intenti.
Il fattore era così in collera perché quel giorno dovevasi pagare il fitto delle chiuse grandi, "come San Giovanni fosse arrivato sotto l'olmo", diceva il contratto, e a completare la somma si era fatto assegnamento sulla vendita dei puledri.
Intanto di puledri, e cavalli, e muli, ce n'erano quanti il Signore ne aveva fatti, tutti strigliati e lucenti, e ornati di fiocchi, e nappine, e sonagli, che scodinzolavano per scacciare la noia, e voltavano la testa verso ognuno che passava, come aspettassero un'anima caritatevole che volesse comprarli.
- Si sarà messo a dormire, quell'assassino! - seguita a gridare il fattore; - e mi lascia i puledri sulla pancia! -
Invece Jeli aveva camminato tutta la notte, acciocché i puledri arrivassero freschi alla fiera, e prendessero un buon posto nell'arrivare, ed era giunto al piano del corvo che ancora i tre re non erano tramontati, e luccicavano sul monte Arturo, colle braccia in croce.
Per la strada passavano continuamente carri, e gente a cavallo, che andavano alla festa; per questo il giovanetto teneva ben aperti gli occhi, acciò i puledri, spaventati dall'insolito via vai, non si sbandassero, ma andassero uniti lungo il ciglione della strada, dietro la bianca che camminava diritta e tranquilla, col campanaccio al collo.
Di tanto in tanto, allorché la strada correva sulla sommità delle colline, si udiva sin lassù la campana di San Giovanni, che anche nel bujo e nel silenzio della campagna arrivava la festa, e per tutto lo stradone, lontan lontano, sin dove c'era gente a piedi o a cavallo che andava a Vizzini, si udiva gridare: - Viva San Giovanni! - e i razzi salivano diritti e lucenti dietro i monti della Canziria, come le stelle che piovono in agosto.
- È come la notte di Natale! - andava dicendo Jeli al ragazzo che l'aiutava a condurre il branco, - che in ogni fattoria si fa festa e luminaria, e per tutta la campagna si vedono qua e là dei fuochi -.
Il ragazzo sonnecchiava, spingendo adagio adagio una gamba dietro l'altra, e non rispondeva nulla; ma Jeli che si sentiva rimescolare tutto il sangue da quella campana, non poteva star zitto, come se ognuno di quei razzi che strisciavano sul bujo taciti e lucenti dietro il monte gli sbocciassero dall'anima.
- Mara sarà andata anche lei alla festa di San Giovanni, - diceva, - perché ci va tutti gli anni -.
E senza curarsi che Alfio, il ragazzo, non rispondesse nulla:
- Tu non sai? ora Mara è alta così, che è più grande di sua madre che l'ha fatta, e quando l'ho rivista non mi pareva vero che fosse proprio quella stessa con cui si andava a cogliere i fichidindia, e a bacchiare le noci -.
E si mise a cantare ad alta voce tutte le canzoni che sapeva.
- O Alfio, che dormi? - gli gridò quando ebbe finito.
- Bada che la bianca ti vien sempre dietro, bada!
- No, non dormo! - rispose Alfio con voce rauca.
- La vedi la puddara, che sta ad ammiccarci lassù, verso Granvilla, come sparassero dei razzi anche a Santa Domenica? Poco può passare a romper l'alba; pure alla fiera arriveremo in tempo per trovare un buon posto.
Ehi, morellino bello! che ci avrai la cavezza nuova, colle nappine rosse, per la fiera! e anche tu, stellato!
Così andava parlando all'uno e all'altro dei puledri, perché si rinfrancassero sentendo la sua voce al bujo.
Ma gli doleva che lo stellato e il morellino andassero alla fiera per esser venduti.
- Quando saran venduti, se ne andranno col padrone nuovo, e non si vedranno più nella mandria, com'è stato di Mara, dopo che se ne fu andata a Marineo.
- Suo padre sta benone laggiù a Marineo; ché quando andai a trovarli mi misero dinanzi pane, vino, formaggio, e ogni ben di Dio, perché egli è quasi il fattore, ed ha le chiavi di ogni cosa, e avrei potuto mangiarmi tutta la fattoria, se avessi voluto.
Mara non mi conosceva quasi più da tanto che non mi vedeva! e si mise a gridare: "Oh! guarda! è Jeli, il guardiano dei cavalli, quello di Tebidi!".
Gli è come quando uno torna da lontano, che al vedere soltanto il cocuzzolo di un monte, gli basta a riconoscere subito il paese dove è cresciuto.
La gnà Lia non voleva che le dessi più del tu, alla Mara, ora che sua figlia si è fatta grande, perché la gente che non sa nulla, chiacchiera facilmente.
Mara invece rideva, e sembrava che avesse infornato il pane allora allora, tanto era rossa; apparecchiava la tavola, e spiegava la tovaglia che non pareva più quella.
"O che ti rammenti più di Tebidi?" le chiesi appena la gnà Lia fu sortita per spillare del vino fresco dalla botte.
"Sì, sì, me ne rammento", mi disse ella "a Tebidi c'era la campana, col campanile che pareva un manico di saliera, e si suonava dal ballatoio, e c'erano pure due gatti di sasso, che facevano le fusa sul cancello del giardino".
Io me le sentivo qui dentro tutte quelle cose, come ella andava dicendole.
Mara mi guardava da capo a piedi con tanto d'occhi, e tornava a dire: "Come ti sei fatto grande!" e si mise pure a ridere, e mi diede uno scapaccione qui, sulla testa -.
In tal modo Jeli, il guardiano dei cavalli, perdette il pane, perché giusto in quel punto sopravveniva all'improvviso una carrozza che non si era udita prima, mentre saliva l'erta passo passo, e si era messa al trotto com'era giunta al piano, con gran strepito di frusta e di sonagli, quasi la portasse il diavolo.
I puledri, spaventati, si sbandarono in un lampo, che pareva un terremoto, e ce ne vollero delle chiamate, e delle grida e degli ohi! ohi! ohi! di Jeli e del ragazzo prima di raccoglierli attorno alla bianca, la quale anch'essa trotterellava svogliatamente, col campanaccio al collo.
Appena Jeli ebbe contato le sue bestie, si accorse che mancava lo stellato, e si cacciò le mani nei capelli, perché in quel posto la strada correva lungo il burrone, e fu nel burrone che lo stellato si fracassò le reni, un puledro che valeva dodici onze come dodici angeli del paradiso! Piangendo e gridando Jeli andava chiamando il puledro - ahu! ahu! ahu! - che non ci si vedeva ancora.
Lo stellato rispose finalmente dal fondo del burrone, con un nitrito doloroso, come avesse avuto la parola, povera bestia!
- Oh! mamma mia! - andavano gridando Jeli e il ragazzo.
- Oh! che disgrazia, mamma mia! -
I viandanti che andavano alla festa, e sentivano piangere a quel modo in mezzo al buio, domandavano cosa avessero perso, e poi, come sapevano di che si trattava, andavano per la loro strada.
Lo stellato rimaneva immobile dove era caduto, colle zampe in aria, e mentre Jeli l'andava tastando per ogni dove, piangendo e parlandogli quasi avesse potuto farsi intendere, la povera bestia rizzava il collo penosamente, e voltava la testa verso di lui, che si udiva l'anelito rotto dallo spasimo.
- Qualche cosa si sarà rotto! - piagnucolava Jeli, disperato di non poter vedere nulla pel buio; e il puledro inerte come un sasso lasciava ricadere il capo di peso.
Alfio rimasto sulla strada a custodia del branco, s'era rasserenato per il primo, e aveva tirato fuori il pane dalla sacca.
Ora il cielo s'era fatto bianchiccio, e i monti tutto intorno parevano che spuntassero ad uno ad uno, neri ed alti.
Dalla svolta dello stradone si cominciava a scorgere il paese, col monte del calvario e del mulino a vento stampato sull'albore, ancora foschi, seminati dalle chiazze bianche delle pecore, e come i buoi che pascolavano sul cocuzzolo del monte, nell'azzurro, andavano di qua e di là, sembrava che il profilo del monte stesso si animasse e formicolasse di vita.
La campana, dal fondo del burrone, non si udiva più, i viandanti si erano fatti più rari, e quei pochi che passavano avevano fretta di arrivare alla fiera.
Il povero Jeli non sapeva a qual santo votarsi in quella solitudine: lo stesso Alfio, da solo, non poteva giovargli per niente; perciò costui andava sbocconcellando pian piano il suo pezzo di pane.
Finalmente si vede venire a cavallo il fattore, il quale da lontano stripitava e bestemmiava accorrendo, al vedere gli animali fermi sulla strada, sicché lo stesso Alfio se la diede a gambe per la collina.
Ma Jeli non si mosse d'accanto allo stellato.
Il fattore lasciò la mula sulla strada, e scese nel burrone anche lui, cercando di aiutare il puledro ad alzarsi, e tirandolo per la coda.
- Lasciatelo stare! - diceva Jeli, bianco in viso come se si fosse fracassate le reni lui.
- Lasciatelo stare! Non vedete che non si può muovere, povera bestia? -
Lo stellato infatti ad ogni movimento, e ad ogni sforzo che gli facevano fare, metteva un rantolo che pareva un cristiano.
Il fattore si sfogava a calci e scapaccioni su di Jeli, e tirava pei piedi gli angeli e i santi del paradiso.
Allora Alfio più rassicurato era tornato sulla strada, per non lasciare le bestie senza custodia, e badava a scolparsi dicendo:
- Io non ci ho colpa.
Io andavo innanzi colla bianca.
- Qui non c'è più nulla da fare, - disse alfine il fattore, dopo che si persuase che era tutto tempo perso.
- Qui non se ne può prendere altro che la pelle, finch'è buona -.
Jeli si mise a tremare come una foglia, quando vide il fattore andare a staccare lo schioppo dal basto della mula.
- Levati di lì, paneperso! - gli urlò il fattore, - che non so chi mi tenga dallo stenderti per terra accanto a quel puledro che valeva assai più di te, con tutto il battesimo porco che ti diede quel prete ladro! -
Lo stellato, non potendosi muovere, volgeva il capo con grandi occhi sbarrati, quasi avesse inteso ogni cosa, e il pelo gli si arricciava ad onde, lungo le costole; sembrava ci corresse sotto un brivido.
In tal modo il fattore uccise sul luogo lo stellato, per cavarne almeno la pelle, e il rumore fiacco che fece dentro le carni vive il colpo tirato a bruciapelo parve a Jeli di sentirselo dentro di sé.
- Ora, se vuoi sapere il mio consiglio, - gli lasciò detto il fattore, - cerca di non farti vedere più dal padrone per quel salario che avanzi, perché te lo pagherebbe salato assai! -
Il fattore se ne andò insieme ad Alfio, cogli altri puledri che non si voltavano nemmeno a vedere dove rimanesse lo stellato, e andavano strappando l'erba dal ciglione.
E lo stellato rimase solo nel burrone, aspettando che venissero a scuoiarlo, cogli occhi ancora spalancati, e le quattro zampe distese, beato lui, che non penava più infine.
Jeli, ora che aveva visto con qual ceffo il fattore aveva preso di mira il puledro e tirato il colpo, mentre la povera bestia volgeva la testa penosamente, quasi avesse il giudizio, smise di piangere, e se ne stette a guardare lo stellato, duro duro, seduto sul sasso, fin quando arrivarono gli uomini che dovevano prendersi la pelle.
Adesso poteva andarsene a spasso, a godersi la festa, o starsene in piazza tutto il giorno, a vedere i galantuomini nel casino, come meglio gli piaceva, ché non aveva più né pane, né tetto, e bisognava cercarsi un padrone, se pure qualcuno lo voleva, dopo la disgrazia dello stellato.
Le cose del mondo vanno così: mentre Jeli andava cercando un padrone, colla sacca ad armacollo e il bastone in mano, la banda suonava in piazza allegramente, coi pennacchi sul cappello, in mezzo a una folla di berrette bianche fitte come le mosche, e i galantuomini stavano a godersela seduti nel casino.
Tutta la gente era vestita da festa, come gli animali della fiera, e in un canto della piazza c'era una donna colla gonnella corta e le calze color di carne che pareva colle gambe nude, e picchiava sulla gran cassa, davanti a un gran lenzuolo dipinto, dove si vedeva una carneficina di cristiani, col sangue che colava a fiumi, e nella folla che stava a guardare a bocca aperta c'era pure massaro Cola, il quale conosceva Jeli da quando stava a Passanitello, e gli disse che il padrone glielo avrebbe trovato lui, poiché compare Isidoro Macca cercava un guardiano per i porci.
- Però non dir nulla dello stellato, - gli raccomandò massaro Cola.
- Una disgrazia come quella può accadere a tutti, nel mondo, ma è meglio non parlarne -.
Andarono perciò a cercare compare Macca, il quale era al ballo, e nel tempo che massaro Cola entrò a fare l'ambasciata, Jeli aspettò sulla strada, in mezzo alla folla che stava a guardare dalla porta della bottega.
Nella stanzaccia c'era un mondo di gente, che saltava e si divertiva, tutti rossi e scalmanati, e facevano un gran pestare di scarponi sull'ammattonato, che non si udiva nemmeno il ron-ron del contrabasso, e appena finiva una suonata, che costava un grano, levavano il dito per far segno che ne volevano un'altra; e quello del contrabasso faceva una croce col carbone sulla parete, per memoria, e cominciava da capo.
- Questi li spendono senza pensarci, - s'andava dicendo Jeli, - e vuol dire che hanno la tasca piena, e non sono in angustia come me, per difetto di un padrone, se sudano e s'affannano a saltare per loro piacere, quasi fossero presi a giornata! - Massaro Cola tornò dicendo che compare Macca non aveva bisogno di nulla.
Allora Jeli volse le spalle e se ne andò mogio mogio.
Ma stava di casa verso Sant'Antonio, dove le case s'arrampicano sul monte, di fronte al vallone della Canziria, tutto verde di fichidindia, e colle ruote dei mulini che spumeggiavano in fondo, nel torrente; ma Jeli non ebbe il coraggio di andare da quelle parti, ora che non l'avevano voluto nemmeno per guardare i porci e girandolando in mezzo alla folla che lo urtava e lo spingeva senza curarsi di lui, gli pareva di essere più solo di quando era coi puledri nelle lande di Passanitello, e si sentiva voglia di piangere.
Finalmente massaro Agrippino lo incontrò nella piazza, che andava di qua e di là colle braccia ciondoloni, godendosi la festa, e cominciò a gridargli dietro: - Oh Jeli! oh! - e se lo menò a casa.
Mara era in gran gala, con tanto d'orecchini che le sbattevano sulle guance, e stava sull'uscio, colle mani sulla pancia, cariche d'anelli, ad aspettare che imbrunisse per andare a vedere i fuochi.
- Oh! - gli disse Mara, - sei venuto anche tu per la festa di San Giovanni! -
Jeli veramente non osava entrare, perché era vestito male; però massaro Agrippino lo spinse per le spalle, dicendogli che non si vedevano allora per la prima volta, e che si sapeva che era venuto per la fiera coi puledri del padrone.
La gnà Lia gli versò un bel bicchiere di vino, e vollero condurlo con loro a veder la luminaria, insieme alle comari ed ai vicini.
Arrivando in piazza, Jeli rimase a bocca aperta dalla meraviglia: tutta quanta era un mare di fuoco, come quando s'incendiano le stoppie, per il gran numero di razzi che i devoti accendevano in cospetto del santo, il quale stava a goderseli dall'imboccatura del Rosario, tutto nero sotto il baldacchino d'argento.
I devoti andavano e venivano fra le fiamme come tanti diavoli, e c'era persino una donna discinta, spettinata, cogli occhi fuori della testa, che accendeva i razzi anch'essa, e un prete colla sottana in aria, senza cappello, che pareva un ossesso dalla devozione.
- Quello lì è il figliuolo di massaro Neri, il fattore della Salonia, e spende più di dieci lire di razzi! - diceva la gnà Lia, accennando a un giovinotto che andava in giro per la piazza tenendo due razzi alla volta nelle mani, come due candele, sicché tutte le donne se lo mangiavano cogli occhi, e gli gridavano: - Viva San Giovanni.
- Suo padre è ricco e possiede più di venti capi di bestiame, - aggiunse massaro Agrippino.
Mara sapeva pure che aveva portato lo stendardo grande nella processione, e lo reggeva diritto come un fuso, tanto era forte e bel giovane.
Il figlio di massaro Neri pareva che sentisse quei discorsi, e accendesse i razzi per la Mara, facendo la ruota dinanzi a lei; tanto che dopo i fuochi si accompagnò con loro, e li condusse al ballo, e al cosmorama, dove si vedeva il mondo vecchio e il mondo nuovo, pagando lui, beninteso, anche per Jeli, il quale andava dietro la comitiva come un cane senza padrone, a veder ballare il figlio di massaro Neri colla Mara, la quale girava in tondo e si accoccolava come una colombella in amore, e teneva tesa con bel garbo una cocca del grembiale.
Il figlio di massaro Neri, lui, saltava come un puledro, tanto che la gnà Lia piangeva dalla consolazione, e massaro Agrippino faceva cenno di sì col capo, che la cosa andava bene.
Infine, quando furono stanchi, se ne andarono di qua e di là nel passeggio, trascinati dalla folla quasi fossero in mezzo a una fiumana, a vedere i trasparenti illuminati, dove tagliavano il collo a San Giovanni, che avrebbe fatto pietà agli stessi turchi, e il santo sgambettava come un capriuolo sotto la mannaia.
Lì vicino c'era la banda che suonava, sotto un gran paracqua di legno tutto illuminato, e nella piazza una folla tanto stipata che mai s'erano visti tanti cristiani a una fiera.
Mara andava al braccio del figlio di massaro Neri come una signorina, e gli parlava nell'occhio, e rideva che pareva si divertisse assai.
Jeli non ne poteva più dalla stanchezza, e si mise a dormire seduto sul marciapiede, fin quando lo svegliarono i primi petardi del fuoco d'artifizio.
In quel momento Mara era sempre al fianco del figlio di massaro Neri, gli si appoggiava colle due mani intrecciate sulla spalla, e al lume dei fuochi colorati sembrava ora tutta bianca ed ora tutta rossa.
Quando scapparono pel cielo gli ultimi razzi in mucchio, il figlio di massaro Neri, si voltò verso di lei, bianca in viso, e le diede un bacio.
Jeli non disse nulla, ma in quel punto gli si cambiò in veleno tutta la festa che aveva goduto sin allora, e tornò a pensare a tutte le sue disgrazie, che gli erano uscite di mente - e che era rimasto senza padrone, e che non sapeva più che fare né dove andare, e che non aveva più né pane né tetto, - insomma che era meglio andare a buttarsi nel burrone, come lo stellato, che se lo mangiavano i cani a quell'ora.
Intanto attorno a lui la gente era allegra.
Mara colle compagne saltava, e cantava per la stradicciuola sassosa, mentre tornavano a casa.
- Buona notte! Buona notte! - andavano dicendo le compagne, a misura che si lasciavano per la strada.
Mara dava la buona notte, che pareva che cantasse, tanta contentezza ci aveva nella voce, e il figlio di massaro Neri poi sembrava proprio imbestialito e non volesse lasciarla più, mentre massaro Agrippino e la gnà Lia litigavano nell'aprire l'uscio di casa.
Nessuno badava a Jeli, soltanto massaro Agrippino si rammentò di lui, e gli chiese:
- Ed ora dove andrai?
- Non lo so, - disse Jeli.
- Domani vieni a trovarmi, e t'aiuterò a cercar d'allogarti.
Per stanotte torna in piazza dove siamo stati a sentir suonare la banda; un posto su qualche panchetta lo troverai, e a dormire allo scoperto tu devi esserci avvezzo -.
Sì che c'era avvezzo, ma quello che gli dava maggior pena era che Mara non gli dicesse nulla, e lo lasciasse a quel modo sull'uscio come un pezzente; tanto che glielo disse, il giorno dopo, appena poté trovarla in casa un momento sola:
- Oh, gnà Mara! come li scordate gli amici!
- Oh, sei tu Jeli? - disse Mara.
- No, io non ti ho scordato.
Ma ero così stanca dopo i fuochi!
- Gli volete bene almeno, al figlio di massaro Neri? - chiese lui voltando e rivoltando il bastone fra le mani.
- Che discorsi andate facendo! - rispose bruscamente la gnà Mara.
- Mia madre è di là che sente tutto -.
Massaro Agrippino gli trovò da allogarlo come pecoraio alla Salonia, dov'era fattore massaro Neri, ma siccome Jeli era poco pratico del mestiere si dovette contentare di un salario assai magro.
Adesso badava alle sue pecore, e ad imparare come si fa il formaggio, e la ricotta, e il caciocavallo, e ogni altro frutto di mandra; ma fra le chiacchiere che correvano alla sera nel cortile tra gli altri pastori e contadini, mentre le donne sbucciavano le fave della minestra, se si veniva a parlare del figlio di massaro Neri, il quale si prendeva in moglie Mara di massaro Agrippino, Jeli non diceva più nulla, e nemmeno osava di aprir bocca.
Una volta che il campaio lo motteggiò, dicendogli che Mara non aveva voluto saperne più di lui, dopo che tutti avevano detto che sarebbero stati marito e moglie, Jeli che badava alla pentola in cui bolliva il latte, rispose facendo sciogliere il caglio adagio adagio:
- Ora Mara si è fatta più bella col crescere, che sembra una signora -.
Però siccome egli era paziente e laborioso, imparò presto ogni cosa del mestiere meglio di uno che ci fosse nato, e siccome era avvezzo a star colle bestie, amava le sue pecore come se le avesse fatte lui, e quindi il male alla Salonia non faceva tanta strage, e la mandra prosperava ch'era un piacere per massaro Neri, tutte le volte che veniva alla fattoria, tanto che ad anno nuovo si persuase ad indurre il padrone perché aumentasse il salario di Jeli, sicché costui venne ad avere quasi quello che prendeva col fare il guardiano dei cavalli.
Ed erano danari bene spesi, ché Jeli non badava a contar le miglia e le miglia per cercare i migliori pascoli ai suoi animali, e se le pecore figliavano o erano malate se le portava a pascolare dentro le bisacce dell'asinello, e si recava in collo gli agnelli che gli belavano sulla faccia, col muso fuori del sacco, e gli poppavano le orecchie.
Nella nevigata famosa della notte di Santa Lucia la neve cadde alta quattro palmi nel lago morto alla Salonia, e tutto all'intorno per miglia e miglia che non si vedeva altro per tutta la campagna, come venne il giorno.
- Quella volta sarebbe stata la rovina di massaro Neri, come fu per tanti altri del paese, se Jeli non si fosse alzato nella notte tre o quattro volte a cacciare le pecore pel chiuso, così le povere bestie si scuotevano la neve di dosso, e non rimasero seppellite come tante ce ne furono nelle mandre vicine - a quel che disse massaro Agrippino quando venne a dare un'occhiata ad un campicello di fave che ci aveva alla Salonia, e disse pure che di quell'altra storia del figlio di massaro Neri, il quale doveva sposare sua figlia Mara, non era vero niente, ché Mara aveva tutt'altro per il capo.
- Se avevano detto che dovevano sposarsi a Natale! - disse Jeli.
- Non vero niente, non dovevano sposare nessuno! tutte chiacchiere di gente invidiosa che si immischia negli affari altrui! - rispose massaro Agrippino.
Però il campaio, il quale la sapeva più lunga, per averne sentito parlare in piazza, quando andava in paese la domenica, raccontò invece la cosa tale e quale com'era, dopo che massaro Agrippino se ne fu andato: non si sposavano più perché il figlio di massaro Neri aveva risaputo che Mara di massaro Agrippino se la intendeva con don Alfonso, il signorino, il quale aveva conosciuta Mara da piccola; e massaro Neri aveva detto che il suo ragazzo voleva che fosse onorato come suo padre, e delle corna in casa non le voleva altre che quelle dei suoi buoi.
Jeli era lì presente anche lui, seduto in circolo cogli altri a colazione, e in quel momento stava affettando il pane.
Egli non disse nulla, ma l'appetito gli andò via per quel giorno.
Mentre conduceva al pascolo le pecore tornò a pensare a Mara, quando era ragazzina, che stavano insieme tutto il giorno e andavano nella valle del Jacitano e sul poggio alla croce, ed ella stava a guardarlo col mento in aria mentre egli si arrampicava a prendere i nidi sulle cime degli alberi; e pensava anche a don Alfonso, il quale veniva a trovarlo dalla villa vicina, e si sdraiavano bocconi sull'erba a stuzzicare con un fuscellino i nidi di grilli.
Tutte quelle cose andava rimuginando per ore ed ore, seduto sull'orlo del fossato, tenendosi i ginocchi fra le braccia, e i noci alti di Tebidi, e le folte macchie dei valloni, e le pendici delle colline verdi di sommacchi, e gli ulivi grigi che si addossavano nella valle come nebbia, e i tetti rossi del casamento, e il campanile "che sembrava un manico di saliera" fra gli aranci del giardino.
- Qui la campagna gli si stendeva dinanzi brulla, deserta, chiazzata dall'erba riarsa, sfumando silenziosa nell'afa lontana.
In primavera, appena i baccelli delle fave cominciavano a piegare il capo, Mara venne alla Salonia col babbo e la mamma, e il ragazzo e l'asinello, a raccogliere le fave, e tutti insieme vennero a dormire alla fattoria pei due o tre giorni che durò la raccolta.
Jeli in tal modo vedeva la ragazza mattina e sera, e spesso sedevano accanto al muricciolo dell'ovile, a discorrere insieme, mentre il ragazzo contava le pecore.
- Mi pare d'essere a Tebidi, - diceva Mara, - quando eravamo piccoli, e stavamo sul ponticello della viottola -.
Jeli si rammentava di ogni cosa anche lui, sebbene non dicesse nulla, perché era stato sempre un ragazzo giudizioso e di poche parole.
Finita la raccolta, alla vigilia della partenza, Mara venne a salutare il giovanotto, nel tempo che ei stava facendo la ricotta, ed era tutto intento a raccogliere il siero colla cazza.
- Ora ti dico addio, - gli disse ella, - poiché domani torniamo a Vizzini.
- Come sono andate le fave?
- Male sono andate! la lupa le ha mangiate tutte, quest'anno.
- Dipende dalla pioggia che è stata scarsa, - disse Jeli.
- Figurati che si è dovuto uccidere anche le agnelle perché non avevano da mangiare; su tutta la Salonia non venne tre dita di erba.
- Ma a te poco te ne importa.
Il salario l'hai sempre, buona o mal'annata!
- Sì, è vero, - disse lui; - ma mi rincresce dare quelle povere bestie in mano al beccaio.
- Ti ricordi quando sei venuto per la festa di San Giovanni, ed eri rimasto senza padrone?
- Sì, me lo ricordo.
- Fu mio padre che ti allogò qui, da massaro Neri.
- E tu perché non l'hai sposato il figlio di massaro Neri?
- Perché non c'era la volontà di Dio.
- Mio padre è stato sfortunato, - riprese di lì a poco.
- Dacché ce ne siamo andati a Marineo ogni cosa ci è riuscita male.
La fava, il seminato, quel pezzetto di vigna che ci abbiamo lassù.
Poi, mio fratello è partito soldato, e ci è morta pure una mula che valeva quarant'onze.
- Lo so, - rispose Jeli, - la mula baia!
- Ora che abbiamo perso la roba, chi vuoi che mi sposi? -
Mara andava sminuzzando uno sterpolino di pruno, mentre parlava, col mento sul seno, e gli occhi bassi, e col gomito stuzzicava un po' il gomito di Jeli, senza badarci.
Ma Jeli, cogli occhi sulla zangola anche lui, non rispondeva nulla; sicché ella riprese:
- A Tebidi dicevano che saremmo stati marito e moglie, lo rammenti?
- Sì, - disse Jeli, e posò la cazza sull'orlo della zangola.
- Ma io sono un povero pecoraio, e non posso pretendere alla figlia di un massaro come sei tu -.
La Mara rimase un pochino zitta e poi disse:
- Se tu mi vuoi, io per me ti piglio volentieri.
- Davvero?
- Sì, davvero.
- E massaro Agrippino cosa dirà?
- Mio padre dice che ora il mestiere lo sai, e tu non sei di quelli che vanno a spendere il loro salario, ma di un soldo ne fai due, e non mangi per non consumare il pane, così arriverai ad aver delle pecore anche tu, e ti farai ricco.
- Se è così, - conchiuse Jeli, - ti piglio volentieri anch'io.
- To'! - gli disse Mara, come si era fatto buio, e le pecore andavano tacendosi a poco a poco, - se vuoi un bacio adesso te lo do, poiché saremo marito e moglie -.
Jeli se lo prese in santa pace, e non sapendo che dire aggiunse:
- Io t'ho sempre voluto bene, anche quando volevi lasciarmi pel figlio di massaro Neri...
- Ma non ebbe cuore di dirgli di quell'altro.
- Non lo vedi? eravamo destinati! - conchiuse Mara.
Massaro Agrippino infatti disse di sì, e la gnà Lia mise insieme presto un giubbone nuovo, e un paio di brache di velluto per il genero.
Mara era bella e fresca come una rosa, con quella mantellina bianca che sembrava l'agnello pasquale, e quella collana d'ambra che le faceva il collo bianco; sicché Jeli, quando andava per le strade al fianco di lei, camminava impalato, tutto vestito di panno e di velluto nuovo, e non osava soffiarsi il naso col fazzoletto di seta rosso, per non farsi scorgere; ma i vicini e tutti quelli che sapevano la storia di don Alfonso gli ridevano sul naso.
Quando Mara disse sissignore, e il prete gliela diede in moglie con un gran crocione, Jeli se la condusse a casa, e gli parve che gli avessero dato tutto l'oro della Madonna, e tutte le terre che aveva visto cogli occhi.
- Ora che siamo marito e moglie, - le disse giunti a casa, seduto di faccia a lei, e facendosi piccino piccino, - ora che siamo marito e moglie, posso dirtelo che non mi par vero che tu m'abbia voluto...
mentre avresti potuto prenderne tanti meglio di me...
così bella come tu sei!...
-
Il poveraccio non sapeva dirle altro, e non capiva nei panni nuovi dalla contentezza di vedersi Mara per casa, che rassettava e toccava ogni cosa, e faceva la padrona.
Egli non trovava il verso di spiccicarsi dall'uscio per tornarsene alla Salonia; quando fu venuto il lunedì, indugiava nell'assettare sul basto dell'asinello le bisacce, e il tabarro, e il paracqua d'incerata.
- Tu dovresti venirtene alla Salonia anche te! - disse alla moglie che stava a guardarlo dalla soglia.
- Tu dovresti venirtene con me -.
Ma la donna si mise a ridere, e gli rispose che ella non era nata a far la pecoraia, e non aveva nulla da andare a farci alla Salonia.
Infatti Mara non era nata a far la pecoraia, e non ci era avvezza alla tramontana di gennaio, quando le mani si irrigidiscono sul bastone, e sembra che vi caschino le unghie, e ai furiosi acquazzoni, in cui l'acqua vi penetra fino alle ossa, e alla polvere soffocante delle strade, quando le pecore camminano sotto il sole cocente, e al giaciglio duro e al pane muffito, e alle lunghe giornate silenziose e solitarie, in cui per la campagna arsa non si vede altro di lontano, rare volte, che qualche contadino nero dal sole, il quale si spinge innanzi silenzioso l'asinello, per la strada bianca e interminabile.
Almeno Jeli sapeva che Mara stava al caldo sotto le coltri, o filava davanti al fuoco, in crocchio colle vicine, o si godeva il sole sul ballatoio, mentre egli tornava dal pascolo stanco ed assetato, o fradicio di pioggia, o quando il vento spingeva la neve dentro il casolare, e spegneva il fuoco di sommacchi.
Ogni mese Mara andava a riscuotere il salario dal padrone, e non le mancavano né le uova nel pollaio, né l'olio nella lucerna, né il vino nel fiasco.
Due volte al mese poi Jeli andava a trovarla, ed ella lo aspettava sul ballatoio, col fuso in mano; poi quando gli aveva legato l'asino nella stalla e toltogli il basto e messogli la biada nella greppia, e riposta la legna sotto la tettoia nel cortile, o quel che portava in cucina, Mara l'aiutava ad appendere il tabarro al chiodo, e a togliersi le gambiere fradice, davanti al focolare, e gli versava il vino, mentre la minestra bolliva allegramente, ed ella apparecchiava il desco, cheta cheta e previdente come una brava massaia, nel tempo stesso che gli parlava di questo e di quello, della chioccia che aveva messo a covare, della tela che era sul telaio, del vitello che allevavano, senza dimenticare una sola delle faccenduole di casa, ché Jeli si sentiva di starci come un Papa.
Ma la notte di Santa Barbara tornò a casa ad ora insolita, che tutti i lumi erano spenti nella stradicciuola, e l'orologio della città suonava la mezzanotte.
Una notte da lupi, che proprio il lupo gli era entrato in casa, mentre lui andava all'acqua e al vento per amor del salario, e della giumenta del padrone ch'era ammalata, e ci voleva il maniscalco subito subito.
Bussò e tempestò all'uscio, chiamando Mara ad alta voce, mentre l'acqua gli pioveva addosso dalla grondaia, e gli usciva dalle calcagna.
Sua moglie venne ad aprirgli finalmente, e cominciò a strapazzarlo quasi fosse stata lei a scorrazzare pei campi con quel tempaccio, con una faccia che lui chiese: - Che c'è? Cos'hai?
- Ho che m'hai fatto paura a quest'ora! che ti par ora da cristiani questa? Domani sarò ammalata!
- Va a coricarti, il fuoco l'accendo io.
- No, bisogna che vada a prender la legna.
- Andrò io.
- No, ti dico! -
Quando Mara ritornò colla legna nelle braccia Jeli le disse:
- Perché hai aperto l'uscio del cortile? Non ce n'era più di legna in cucina?
- No, sono andata a prenderla sotto la tettoja -.
Ella si lasciò baciare, fredda fredda, e volse il capo dall'altra parte.
- Sua moglie lo lascia a infradiciare dietro l'uscio, - dicevano i vicini, - quando in casa c'è il tordo! -
Ma Jeli non sapeva nulla, ch'era becco, né gli altri si curavano di dirglielo, perché a lui non gliene importava niente, e s'era accollata la donna col danno, dopo che il figlio di massaro Neri l'aveva piantata per aver saputo la storia di don Alfonso.
Jeli invece ci viveva beato e contento nel vituperio, e s'ingrassava come un maiale, "ché le corna sono magre, ma mantengono la casa grassa!".
Una volta infine il ragazzo della mandra glielo disse in faccia, una volta che vennero alle brutte, per certe pezze di formaggio tosate.
- Ora che don Alfonso vi ha preso la moglie, vi pare di essere suo cognato, e avete messo superbia che vi par di esser un re di corona, con quelle corna che avete in testa -.
Il fattore e il campaio si aspettavano di veder scorrere il sangue allora; ma invece Jeli stette zitto quasi non fosse fatto suo, con una faccia di grullo che le corna gli stavano bene davvero.
Ora si avvicinava la Pasqua e il fattore mandava tutti gli uomini della fattoria a confessarsi, colla speranza che pel timor di Dio non rubassero più.
Jeli andò anche lui, e all'uscir di chiesa cercò del ragazzo con cui erano corse le male parole e gli buttò le braccia al collo dicendogli:
- Il confessore mi ha detto di perdonarti; ma io non sono in collera con te per quelle chiacchiere; e se tu non toserai più il formaggio a me non me ne importa nulla di quello che mi hai detto nella collera -.
Fu da quel momento che lo chiamarono per soprannome Corna d'oro, e il soprannome gli rimase, a lui e tutti i suoi, anche dopo che ci si lavò le corna, nel sangue.
La Mara era andata a confessarsi anche lei, e tornava di chiesa tutta raccolta nella mantellina, cogli occhi bassi che sembrava una Santa Maria Maddalena.
Jeli che l'aspettava taciturno sul ballatoio, come la vide venire a quel modo, che si vedeva come ci avesse il Signore in corpo, la stava a guardare pallido pallido dai piedi alla testa, quasi la vedesse per la prima volta, o gliela avessero cambiata, la sua Mara, e neppure osava alzare gli occhi su di lei, mentre ella sciorinava la tovaglia, e metteva in tavola le scodelle, tranquilla e pulita al suo solito.
Egli, dopo averci pensato su un poco, le domandò freddo freddo:
- È vero che te la intendi con don Alfonso? -
Mara gli piantò in faccia i suoi begli occhi limpidi, e si fece il segno della croce.
- Perché volete farmi far peccato in questo giorno! - esclamò.
- No! non voglio crederci ancora!...
perché con don Alfonso eravamo sempre insieme, quando eravamo ragazzi, e non passava giorno ch'ei non venisse a Tebidi, proprio come due fratelli...
Poi egli è ricco che i denari li ha a palate, e se volesse delle donne potrebbe maritarsi, né gli mancherebbe la roba, o il pane da mangiare -.
Mara invece andavasi riscaldando, e cominciò a strapazzarlo in malo modo, tanto che lui non alzava più il naso dal piatto.
Infine perché quella grazia di Dio che stavano mangiando non andasse in tossico, Mara cambiò discorso, e gli domandò se ci avesse pensato a far zappare quel po' di lino che avevano seminato nel campo delle fave.
- Sì, - rispose Jeli, - e il lino verrà bene.
- Se è così, - disse Mara, - in questo inverno ti farò due camicie nuove che ti terranno caldo -.
Insomma Jeli non lo capiva quello che vuol dire becco, e non sapeva cosa fosse la gelosia; ogni cosa nuova stentava ad entrargli in capo, e questa poi gli riusciva così grossa che addirittura faceva una fatica del diavolo ad entrarci, massime allorché si vedeva dinanzi la sua Mara, tanto bella, e bianca, e pulita, che l'aveva voluto lei stessa, e le voleva tanto bene, e aveva pensato a lei tanto tempo, tanti anni, fin da quando era ragazzo, che il giorno in cui gli avevano detto com'ella volesse sposarne un altro, non aveva avuto più cuore di mangiare o di bere tutta la giornata.
- Ed anche se pensava a don Alfonso, non poteva credere a una birbonata simile, lui che gli pareva di vederlo ancora, cogli occhi buoni e la boccuccia ridente con cui veniva a portargli i dolci e il pane bianco a Tebidi, tanto tempo fa - un'azionaccia così nera! e dacché non lo aveva più visto, perché egli era un povero pecoraio, e stava tutto l'anno in campagna, gli era sempre rimasto in cuore a quel modo.
Ma la prima volta che per sua disgrazia rivide don Alfonso già uomo fatto, Jeli sentì come una botta allo stomaco.
Come s'era fatto grande e bello! con quella catena d'oro sul panciotto, e la giacca di velluto, e la barba liscia che pareva d'oro anch'essa.
Niente superbo poi, tanto che gli batté sulla spalla salutandolo per nome.
Era venuto col padrone della fattoria insieme a una brigata d'amici, a fare una scampagnata nel tempo che si tosavano le pecore; ed era venuta pure Mara all'improvviso, col pretesto che era incinta e aveva voglia di ricotta fresca.
Era una bella giornata calda, nei campi biondi, colle siepi in fiore, e i lunghi filari verdi delle vigne.
Le pecore saltellavano e belavano dal piacere, al sentirsi spogliate da tutta quella lana, e nella cucina le donne facevano un bel fuoco per cuocere la gran roba che il padrone aveva portato per il desinare.
I signori intanto che aspettavano si erano messi all'ombra, sotto i carrubi, e facevano suonare i tamburelli e le cornamuse, o ballavano colle donne della fattoria, chi ne aveva voglia.
Jeli mentre andava tosando le pecore, si sentiva rodere dentro di sé, senza sapere perché, come uno spino, un chiodo fitto, una forbice fine che gli lavorasse dentro minuta minuta, peggio di un veleno.
Il padrone aveva ordinato che si sgozzassero due capretti, e il castrato di un anno, e dei polli, e un tacchino.
Insomma voleva fare le cose in grande, senza risparmio, per farsi onore coi suoi amici, e mentre tutte quelle bestie schiamazzavano dal dolore, e i capretti strillavano sotto il coltello, Jeli si sentiva tremare le ginocchia e di tratto in tratto gli pareva che la lana che andava tosando e l'erba in cui le pecore saltellavano avvampassero di sangue.
- Non andare! - disse egli a Mara, come don Alfonso la chiamava perché venisse a ballare cogli altri.
- Non andare, Mara!
- Perché?
- Non voglio che tu vada! Non andare!
- Lo senti che mi chiamano? -
Egli non disse altro, fattosi brutto come la malanuova, mentre stava curvo sulle pecore che tosava.
Mara si strinse nelle spalle, e se ne andò a ballare.
Ella era rossa ed allegra, cogli occhi neri che sembravano due stelle, e rideva che le si vedevano i denti bianchi, e tutto l'oro che aveva indosso le sbatteva e le scintillava sulle guance e sul petto che pareva la Madonna tale e quale.
Jeli un tratto si rizzò sulla vita, colla lunga forbice in pugno, così bianco in viso, così bianco come era una volta suo padre il vaccajo, quando tremava dalla febbre accanto al fuoco, nel casolare.
Guardò don Alfonso, colla bella barba ricciuta, e la giacchetta di velluto e la catenella d'oro sul panciotto, che prendeva Mara per la mano e l'invitava a ballare; lo vide che allungava il braccio, quasi per stringersela al petto, e lei che lo lasciava fare - allora, Signore perdonategli, non ci vide più, e gli tagliò la gola di un sol colpo, proprio come un capretto.
Più tardi, mentre lo conducevano dinanzi al giudice, legato, disfatto, senza che avesse osato opporre la minima resistenza:
- Come, - diceva - non dovevo ucciderlo nemmeno?...
Se mi aveva preso la Mara!...
-
ROSSO MALPELO
Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone.
Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.
Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c'era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico.
Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po' di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel po' di pane bigio, come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata.
Ei c'ingrassava, fra i calci, e si lasciava caricare meglio dell'asino grigio, senza osar di lagnarsi.
Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s'era fatta sposa, e aveva altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica.
Nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato e la Caverna, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano "la cava di Malpelo", e cotesto al padrone gli seccava assai.
Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava.
Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell'ingrottato, e dacché non serviva più, s'era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di rena.
Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì.
Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l'asino da basto di tutta la cava.
Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe.
Malpelo faceva un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com'era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: - Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre -.
Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia.
Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l'avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d'altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l'avvocato.
Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l'avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n'erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la morte del sorcio.
Ei, che c'era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli "ah! ah!" dei suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava:
- Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! - e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto, il cottimante!
Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio.
Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi! anch'esso.
Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino.
Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: - Tirati in là! - oppure: - Sta attento! Bada se cascano dall'alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa! - Tutt'a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.
L'ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo che aveva fatto la morte del sorcio.
Tutte le femminucce di Monserrato, strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch'era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana.
L'ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell'e arrivato in Paradiso, andò proprio per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena.
Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana.
Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea prendere il doppio di calce.
Ce n'era da riempire delle carra per delle settimane.
Il bell'affare di mastro Bestia!
Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero.
- To'! - disse infine uno.
- È Malpelo! Di dove è saltato fuori, adesso?
- Se non fosse stato Malpelo non se la sarebbe passata liscia...
-
Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s'era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue.
Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.
Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là.
Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre.
Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrasse nelle orecchie, dall'altra parte della montagna di rena caduta.
In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse grazia di Dio.
Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano che gli dà il pane, e le botte, magari.
Ma l'asino, povera bestia, sbilenco e macilento, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava:
- Così creperai più presto! -
Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll'anello di ferro al naso.
Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro.
Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s'immaginava gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo.
Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l'avevano lasciato crepare.
E quando era solo borbottava: - Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché egli non faceva così! - E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un'occhiata torva: - È stato lui! per trentacinque tarì! - E un'altra volta, dietro allo Sciancato: - E anche lui! e si metteva a ridere! Io l'ho udito, quella sera! -
Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s'era lussato il femore, e non poteva far più il manovale.
Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così Ranocchio com'era, il suo pane se lo buscava.
Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.
Infatti egli lo tormentava in cento modi.
Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli: - To', bestia! Bestia sei! Se non ti senti l'animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! -
O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici: - Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! - Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll'occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte.
Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze, non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n'era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe.
Malpelo soleva dire a Ranocchio: - L'asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s'ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi -.
Oppure: - Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso -.
Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo' di uno che l'avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre.
- La rena è traditora, - diceva a Ranocchio sottovoce; - somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere.
Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui -.
Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo sgridava: - Taci, pulcino! - e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: - Lasciami fare; io sono più forte di te -.
Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: - Io ci sono avvezzo -.
Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra.
Ei diceva che la razione di busse non gliel'aveva levata mai, il padrone; ma le busse non costavano nulla.
Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole non era stato lui.
Già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile.
E qualche volta, come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità, e di scolparsi, ei ripeteva: - A che giova? Sono malpelo! - e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità.
Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.
Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa, scoprendolo sull'uscio in quell'arnese, ché avrebbe fatto scappare il suo damo se vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato.
Per questo, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia alle lucertole e alle altre povere bestie che non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia.
Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.
La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi.
Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto, cencioso e lercio com'era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole.
Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d'ingresso è a picco, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono.
Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.
Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all'azzurro del cielo, col sole sulla schiena, - o il carrettiere, come compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna; - o meglio ancora, avrebbe voluto fare il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa.
Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui.
E pensando a tutto ciò, narrava a Ranocchio del pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del babbo, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi.
Ranocchio aveva paura, ma egli no.
Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano.
Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l'intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all'infinito, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n'erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.
Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all'aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento.
Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici affermarono che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall'altra.
Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela dessero a lui sul capo, la zappa.
Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria, e non volle più tornare da quelle parti.
Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato.
Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto penar molto a finire, perché il pilastro gli si era piegato proprio addosso, e l'aveva sepolto vivo: si poteva persino vedere tutt'ora che mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte.
- Proprio come suo figlio Malpelo! - ripeteva lo sciancato - ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là -.
Però non dissero nulla al ragazzo, per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.
Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame, trattavasi di un compagno, e di carne battezzata.
La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta.
Solo le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolire le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non le aveva volute le scarpe del morto.
Malpelo se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose.
Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l'una accanto all'altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.
Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l'età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no.
Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni.
In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l'asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara.
- Così si fa, - brontolava Malpelo; - gli arnesi che non servono più, si buttano lontano -.
Egli andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l'avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio.
I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate.
- Vedi quella cagna nera, - gli diceva, - che non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché ha più fame degli altri.
Gliele vedi quelle costole al grigio? Adesso non soffre più -.
L'asino grigio se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non lo avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate, per mettergli in corpo un po' di vigore nel salire la ripida viuzza.
- Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch'esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: "Non più! non più!".
Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti.
Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio -.
La sciara si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che venisse a cantarci.
Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra.
E ogni volta Malpelo ripeteva che la terra lì sotto era tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c'era entrato da giovane, e n'era uscito coi capelli bianchi, e un altro, cui s'era spenta la candela, aveva invano gridato aiuto per anni ed anni.
- Egli solo ode le sue stesse grida! - diceva, e a quell'idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva.
- Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d'andare.
Ma io sono Malpelo, e se non torno più, nessuno mi cercherà -.
Pure, durante le belle notti d'estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch'essa, come la lava, ma Malpelo, stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell'alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente - perché allora la sciara sembra più bella e desolata.
- Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, - pensava Malpelo, - dovrebbe essere buio sempre e da per tutto -.
La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei pensava:
- Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si dispera perché non può andare a trovarli -.
Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava, perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l'asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate.
- Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti, - gli diceva, - e allora era tutt'altra cosa.
Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in compagnia dei morti -.
Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c'era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori.
- Chi te l'ha detto? - domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la mamma.
Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga.
- Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella -.
E dopo averci pensato un po':
- Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo chiamavano Bestia.
Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io -.
Da lì a poco, Ranocchio, il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull'asino, disteso fra le corbe, tremante di febbre come un pulcin bagnato.
Un operaio disse che quel ragazzo non ne avrebbe fatto osso duro a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera, senza lasciarvi la pelle, bisognava nascervi.
Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci nato, e di mantenersi così sano e vigoroso in quell'aria malsana, e con tutti quegli stenti.
Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo.
Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso, Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue; allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran male, così come l'aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena, con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle: un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che l'operaio se ne fu andato, aggiunse:
- Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro! -
Intanto Ranocchio non guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni.
Allora Malpelo prese dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi, che lo coprivano meglio.
Ma Ranocchio tossiva sempre, e alcune volte sembrava soffocasse; la sera poi non c'era modo di vincere il ribrezzo della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata.
Malpelo se ne stava zitto ed immobile, chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati, quasi volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l'occhio spento, preciso come quello dell'asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava:
- È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi! -
E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.
Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che altro.
Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo.
Il povero Ranocchio era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.
Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava.
Ma il povero Ranocchio non gli dava retta; sembrava che badasse a contare quanti travicelli c'erano sul tetto.
Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l'aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai.
Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui, perché non aveva mai avuto timore di perderlo.
Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio.
Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così.
Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s'era asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un'altra volta, ed era andata a stare a Cifali colla figliuola maritata, e avevano chiusa la porta di casa.
D'ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.
Verso quell'epoca venne a lavorare nella cava uno che non s'era mai visto, e si teneva nascosto il più che poteva.
Gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per anni ed anni.
Malpelo seppe in quell'occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a vista.
Da quel momento provò una malsana curiosità per quell'uomo che aveva provata la prigione e ne era scappato.
Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa, e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva tornarci coi suoi piedi.
- Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione? - domandò Malpelo.
- Perché non sono malpelo come te! - rispose lo Sciancato.
- Ma non temere, che tu ci andrai! e ci lascerai le ossa! -
Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo come suo padre, ma in modo diverso.
Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva comunicare col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d'opera nel cavar fuori la rena.
Ma a ogni modo, però, c'era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più.
Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo, per tutto l'oro del mondo.
Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l'oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui.
Allora, nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo.
Ma non disse nulla.
Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui.
Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.
L'AMANTE DI GRAMIGNA
A Salvatore Farina.
Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l'abbozzo di un racconto.
Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come dicono oggi - interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore.
Io te lo ripeterò così come l'ho raccolto pei viottoli dei campi, press'a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore.
Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l'efficacia dell'essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne.
Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l'argomento di un racconto, e che l'analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico.
Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d'arrivo; e per te basterà, - e un giorno forse basterà per tutti.
Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo.
Sacrifichiamo volentieri l'effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale.
Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all'arte dell'avvenire.
Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell'uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell'immaginazione, che nell'avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?
Quando nel romanzo l'affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l'armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l'impronta dell'avvenimento reale, l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d'origine.
Parecchi anni or sono, laggiù lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante, certo Gramigna, se non erro, un nome maledetto come l'erba che lo porta, il quale da un capo all'altro della provincia s'era lasciato dietro il terrore della sua fama.
Carabinieri, soldati, e militi a cavallo, lo inseguivano da due mesi, senza esser riesciti a mettergli le unghie addosso: era solo, ma valeva per dieci, e la mala pianta minacciava di moltiplicarsi.
Per giunta si approssimava il tempo della messe, tutta la raccolta dell'annata in man di Dio, ché i proprietarii non s'arrischiavano a uscir dal paese pel timor di Gramigna; sicché le lagnanze erano generali.
Il prefetto fece chiamare tutti quei signori della questura, dei carabinieri, dei compagni d'armi, e subito in moto pattuglie, squadriglie, vedette per ogni fossato, e dietro ogni muricciolo: se lo cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta una provincia, di giorno, di notte, a piedi, a cavallo, col telegrafo.
Gramigna sgusciava loro di mano, o rispondeva a schioppettate, se gli camminavano un po' troppo sulle calcagna.
Nelle campagne, nei villaggi, per le fattorie, sotto le frasche delle osterie, nei luoghi di ritrovo, non si parlava d'altro che di lui, di Gramigna, di quella caccia accanita, di quella fuga disperata.
I cavalli dei carabinieri cascavano stanchi morti; i compagni d'armi si buttavano rifiniti per terra, in tutte le stalle; le pattuglie dormivano all'impiedi; egli solo, Gramigna, non era stanco mai, non dormiva mai, combatteva sempre, s'arrampicava sui precipizi, strisciava fra le messi, correva carponi nel folto dei fichidindia, sgattajolava come un lupo nel letto asciutto dei torrenti.
Per duecento miglia all'intorno, correva la leggenda delle sue gesta, del suo coraggio, della sua forza, di quella lotta disperata, lui solo contro mille, stanco, affamato, arso dalla sete, nella pianura immensa, arsa, sotto il sole di giugno.
Peppa, una delle più belle ragazze di Licodia, doveva sposare in quel tempo compare Finu "candela di sego" che aveva terre al sole e una mula baia in stalla, ed era un giovanotto grande e bello come il sole, che portava lo stendardo di Santa Margherita come fosse un pilastro, senza piegare le reni.
La madre di Peppa piangeva dalla contentezza per la gran fortuna toccata alla figliuola, e passava il tempo a voltare e rivoltare nel baule il corredo della sposa, "tutto di roba bianca a quattro" come quella di una regina, e orecchini che le arrivavano alle spalle, e anelli d'oro per le dieci dita delle mani: dell'oro ne aveva quanto ne poteva avere Santa Margherita, e dovevano sposarsi giusto per Santa Margherita, che cadeva in giugno, dopo la mietitura del fieno.
"Candela di sego" nel tornare ogni sera dalla campagna, lasciava la mula all'uscio della Peppa, e veniva a dirle che i seminati erano un incanto, se Gramigna non vi appiccava il fuoco, e il graticcio di contro al letto non sarebbe bastato a contenere tutto il grano della raccolta, che gli pareva mill'anni di condursi la sposa in casa, in groppa alla mula baia.
Ma Peppa un bel giorno gli disse:
- La vostra mula lasciatela stare, perché non voglio maritarmi -.
Figurati il putiferio! La vecchia si strappava i capelli, "Candela di sego" era rimasto a bocca aperta.
Che è, che non è, Peppa s'era scaldata la testa per Gramigna, senza conoscerlo neppure.
Quello sì, ch'era un uomo! - Che ne sai? - Dove l'hai visto? - Nulla.
Peppa non rispondeva neppure, colla testa bassa, la faccia dura, senza pietà per la mamma che faceva come una pazza, coi capelli grigi al vento, e pareva una strega.
- Ah! quel demonio è venuto sin qui a stregarmi la mia figliuola! -
Le comari che avevano invidiato a Peppa il seminato prosperoso, la mula baia, e il bel giovanotto che portava lo stendardo di Santa Margherita senza piegar le reni, andavano dicendo ogni sorta di brutte storie, che Gramigna veniva a trovare la ragazza di notte in cucina, e che glielo avevano visto nascosto sotto il letto.
La povera madre teneva accesa una lampada alle anime del purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore colla stola, onde scacciare quel diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso.
Però ella seguitava a dire che non lo conosceva neanche di vista quel cristiano; ma invece pensava sempre a lui; lo vedeva in sogno, la notte, e alla mattina si levava colle labbra arse, assetata anch'essa, come lui.
Allora la vecchia la chiuse in casa, perché non sentisse più parlare di Gramigna, e tappò tutte le fessure dell'uscio con immagini di santi.
Peppa ascoltava quello che dicevano nella strada, dietro le immagini benedette, e si faceva pallida e rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto l'inferno nella faccia.
Finalmente si sentì che avevano scovato Gramigna nei fichidindia di Palagonia.
- Ha fatto due ore di fuoco! - dicevano; - c'è un carabiniere morto, e più di tre compagni d'armi feriti.
Ma gli hanno tirato addosso tal gragnuola di fucilate che stavolta hanno trovato un lago di sangue dove egli era stato -.
Una notte Peppa si fece la croce dinanzi al capezzale della vecchia e fuggì dalla finestra.
Gramigna era proprio nei fichidindia di Palagonia - non avevano potuto scovarlo in quel forteto da conigli - lacero, insanguinato, pallido per due giorni di fame, arso dalla febbre, e colla carabina spianata.
Come la vide venire, risoluta, in mezzo alle macchie fitte, nel fosco chiarore dell'alba, ci pensò un momento, se dovesse lasciar partire il colpo.
- Che vuoi? - le chiese.
- Che vieni a far qui?
Ella non rispose, guardandolo fisso.
- Vattene! - diss'egli, - vattene, finché t'aiuta Cristo!
- Adesso non posso più tornare a casa, - rispose lei; - la strada è tutta piena di soldati.
- Cosa m'importa? Vattene! -
E la prese di mira colla carabina.
Come essa non si moveva, Gramigna, sbalordito, le andò coi pugni addosso:
- Dunque?...
Sei pazza?...
O sei qualche spia?
- No, - diss'ella, - no!
- Bene, va a prendermi un fiasco d'acqua, laggiù nel torrente, quand'è così -.
Peppa andò senza dir nulla, e quando Gramigna udì le fucilate si mise a sghignazzare, e disse fra sé:
- Queste erano per me -.
Ma poco dopo vide ritornare la ragazza col fiasco in mano, lacera e insanguinata.
Egli le si buttò addosso, assetato, e poich'ebbe bevuto da mancargli il fiato, le disse infine:
- Vuoi venire con me?
- Sì, - accennò ella col capo avidamente, - sì -.
E lo seguì per valli e monti, affamata, seminuda, correndo spesso a cercargli un fiasco d'acqua o un tozzo di pane a rischio della vita.
Se tornava colle mani vuote, in mezzo alle fucilate, il suo amante, divorato dalla fame e dalla sete, la batteva.
Una notte c'era la luna, e si udivano latrare i cani, lontano, nella pianura.
Gramigna balzò in piedi a un tratto, e le disse:
- Tu resta qui, o t'ammazzo com'è vero Dio! -
Lei addossata alla rupe, in fondo al burrone, lui invece a correre tra i fichidindia.
Però gli altri, più furbi, gli venivano incontro giusto da quella parte.
- Ferma! ferma! -
E le schioppettate fioccarono.
Peppa, che tremava solo per lui, se lo vide tornare ferito, che si strascinava appena, e si buttava carponi per ricaricare la carabina.
- È finita! - disse lui.
- Ora mi prendono -; e aveva la schiuma alla bocca, gli occhi lucenti come quelli del lupo.
Appena cadde sui rami secchi come un fascio di legna, i compagni d'armi gli furono addosso tutti in una volta.
Il giorno dopo lo strascinarono per le vie del villaggio, su di un carro, tutto lacero e sanguinoso.
La gente gli si accalcava intorno per vederlo; e la sua amante, anche lei, ammanettata, come una ladra, lei che ci aveva dell'oro quanto Santa Margherita!
La povera madre di Peppa dovette vendere "tutta la roba bianca" del corredo, e gli orecchini d'oro, e gli anelli per le dieci dita , onde pagare gli avvocati di sua figlia , e tirarsela di nuovo in casa, povera, malata, svergognata, e col figlio di Gramigna in collo.
In paese nessuno la vide più mai.
Stava rincantucciata nella cucina come una bestia feroce, e ne uscì soltanto allorché la sua vecchia fu morta di stenti, e si dovette vendere la casa.
Allora, di notte, se ne andò via dal paese, lasciando il figliuolo ai trovatelli, senza voltarsi indietro neppure, e se ne venne alla città dove le avevano detto ch'era in carcere Gramigna.
Gironzava intorno a quel gran fabbricato tetro, guardando le inferriate, cercando dove potesse esser lui, cogli sbirri alle calcagna, insultata e scacciata ad ogni passo.
Finalmente seppe che il suo amante non era più lì, l'avevano condotto via, di là del mare, ammanettato e colla sporta al collo.
Che poteva fare? Rimase dov'era, a buscarsi il pane rendendo qualche servizio ai soldati, ai carcerieri, come facesse parte ella stessa di quel gran fabbricato tetro e silenzioso.
Verso i carabinieri poi, che le avevano preso Gramigna nel folto dei fichidindia, sentiva una specie di tenerezza rispettosa, come l'ammirazione bruta della forza, ed era sempre per la caserma, spazzando i cameroni e lustrando gli stivali, tanto che la chiamavano "lo strofinacciolo della caserma".
Soltanto quando partivano per qualche spedizione rischiosa, e li vedeva caricare le armi, diventava pallida e pensava a Gramigna.
GUERRA DI SANTI
Tutt'a un tratto, mentre San Rocco se ne andava tranquillamente per la sua strada, sotto il baldacchino, coi cani al guinzaglio, un gran numero di ceri accesi tutt'intorno, e la banda, la processione, la calca dei devoti, accadde una parapiglia, un fuggi fuggi, un casa del diavolo: preti che scappavano colle sottane per aria, trombe e clarinetti sulla faccia, donne che strillavano, il sangue a rigagnoli, e le legnate che piovevano come pere fradicie fin sotto il naso di San Rocco benedetto.
Accorsero il pretore, il sindaco, i carabinieri; le ossa rotte furono portate all'ospedale, i più riottosi andarono a dormire in prigione, il santo tornò in chiesa di corsa più che a passo di processione, e la festa finì come le commedie di Pulcinella.
Tutto ciò per l'invidia di que' del quartiere di San Pasquale, perché quell'anno i devoti di San Rocco avevano speso gli occhi della testa per far le cose in grande; era venuta la banda dalla città, si erano sparati più di duemila mortaretti, e c'era persino uno stendardo nuovo, tutto ricamato d'oro, che pesava più d'un quintale, dicevano, e in mezzo alla folla sembrava una "spuma d'oro" addirittura.
Tutto ciò urtava maledettamente i nervi ai devoti di San Pasquale, sicché uno di loro alla fine smarrì la pazienza, e si diede a urlare, pallido dalla bile: - Viva San Pasquale! - Allora s'erano messe le legnate.
Certo andare a dire "viva San Pasquale" sul mostaccio di San Rocco in persona è una provocazione bella e buona; è come venirvi a sputare in casa, o come uno che si diverta a dar dei pizzicotti alla donna che avete sotto il braccio.
In tal caso non c'è più né cristi né diavoli, e si mette sotto i piedi quel po' di rispetto che si ha anche per gli altri santi, che infine fra di loro son tutt'una cosa.
Se si è in chiesa, vanno in aria le panche; nelle processioni piovono pezzi di torcetti come pipistrelli, e a tavola volano le scodelle.
- Santo diavolone! - urlava compare Nino, tutto pesto e malconcio.
- Voglio un po' vedere chi gli basta l'anima di gridare ancora "viva San Pasquale!".
- Io! - rispose furibondo Turi il "conciapelli" il quale doveva essergli cognato, ed era fuori di sé per un pugno acchiappato nella mischia, che lo aveva mezzo accecato.
- Viva San Pasquale, sino alla morte!
- Per l'amor di Dio! per l'amor di Dio! - strillava sua sorella Saridda, cacciandosi tra il fratello ed il fidanzato, ché tutti e tre erano andati a spasso d'amore e d'accordo sino a quel momento.
Compare Nino, il fidanzato, vociava per ischerno:
- Viva i miei stivali! viva san stivale!
- Te'! - urlò Turi colla spuma alla bocca, e l'occhio gonfio e livido al pari d'un petronciano.
- Te', per San Rocco, tu dei stivali! Prendi! -
Così si scambiarono dei pugni che avrebbero accoppato un bue, sino a quando gli amici riuscirono a separarli, a furia di busse e di pedate.
Saridda, scaldatasi anche lei, strillava - viva San Pasquale -, che per poco non si presero a ceffoni collo sposo, come fossero già stati marito e moglie.
- In tali occasioni si accapigliano i genitori coi figliuoli, e le mogli si separano dai mariti, se per disgrazia una del quartiere di San Pasquale ha sposato uno di San Rocco.
- Non voglio sentirne parlare più di quel cristiano! - sbraitava Saridda, coi pugni sui fianchi, alle vicine che le domandavano come era andato all'aria il matrimonio.
- Neanche se me lo danno vestito d'oro e d'argento, sentite!
- Per conto mio Saridda può far la muffa! - diceva dal canto suo compare Nino, mentre gli lavavano all'osteria il viso tutto sporco di sangue.
- Una manica di pezzenti e di poltroni, in quel quartiere di conciapelli! Quando m'è saltato in testa d'andare a cercarmi colà l'innamorata dovevo essere ubriaco.
- Giacch'è così! - aveva conchiuso il sindaco - e non si può portare un santo in piazza senza legnate, che è una vera porcheria, non voglio più feste, né quarant'ore! e se mi mettono fuori un moccolo, che è un moccolo! li caccio tutti in prigione.
La faccenda poi s'era fatta grossa, perché il vescovo della diocesi aveva accordato il privilegio di portar la mozzetta ai canonici di San Pasquale, e quelli di San Rocco, che avevano i preti senza mozzetta, erano andati fino a Roma, a fare il diavolo ai piedi del Santo Padre, coi documenti in mano, su carta bollata e ogni cosa; ma tutto era stato inutile, giacché i loro avversari del quartiere basso, che ognuno se li rammentava senza scarpe ai piedi, s'erano arricchiti come porci, colla nuova industria della concia delle pelli, e a questo mondo si sa, che la giustizia si compra e vende come l'anima di Giuda.
A San Pasquale aspettavano il delegato di monsignore, il quale era un uomo di proposito, che ci aveva due fibbie d'argento di mezza libra l'una alle scarpe, chi l'aveva visto, e veniva a portare la mozzetta ai canonici; perciò avevano scritturato anche loro la banda, per andare ad incontrare il delegato di monsignore tre miglia fuori del paese, e si diceva che la sera ci sarebbero stati i fuochi in piazza, con tanto di "Viva San Pasquale" a lettere di scatola.
Gli abitanti del quartiere alto erano quindi in gran fermento, e alcuni, più eccitati, mondavano certi randelli di pero e di ciliegio grossi come stanghe, e borbottavano:
- Se ci dev'essere la musica, si ha da portar la battuta! -
Il delegato del vescovo correva un gran pericolo di uscirne colle ossa rotte, dalla sua entrata trionfale.
Ma il reverendo, furbo, lasciò la banda ad aspettarlo fuor del paese, e a piedi, per le scorciatoie, se ne venne pian piano alla casa del parroco, dove fece riunire i caporioni dei due partiti.
Come quei galantuomini si trovarono faccia a faccia, dopo tanto tempo che litigavano, cominciarono a guardarsi nel bianco degli occhi, quasi sentissero una gran voglia di strapparseli a vicenda, e ci volle tutta l'autorità del reverendo, il quale s'era messo per la circostanza il ferraiuolo di panno nuovo, per far venire i gelati e gli altri rinfreschi senza inconvenienti.
- Così va bene! - approvava il sindaco col naso nel bicchiere, - quando mi volete per la pace, mi ci trovate sempre -.
Il delegato disse infatti ch'egli era venuto per la conciliazione, col ramoscello d'ulivo in bocca, come la colomba di Noè, e facendo il fervorino andava distribuendo sorrisi e strette di mano, dicendo a tutti: - Loro signori favoriranno in sagrestia, a prendere la cioccolata, il dì della festa.
- Lasciamo stare la festa, - disse il vicepretore, - se no, nasceranno degli altri guai.
- I guai nasceranno se si fanno di queste prepotenze, che uno non è più padrone di spassarsela come vuole, spendendo i suoi denari! - esclamò Bruno il carradore.
- Io me ne lavo le mani.
Gli ordini del governo sono precisi.
Se fate la festa mando a chiamare i carabinieri.
Io voglio l'ordine.
- Dell'ordine rispondo io - sentenziò il sindaco, picchiando in terra coll'ombrella, e girando lo sguardo intorno.
- Bravo! come se non si sapesse che chi vi tira i mantici in Consiglio è vostro cognato Bruno! - ripicchiò il vicepretore.
- E voi fate l'opposizione per la picca di quella contravvenzione del bucato che non potete mandar giù!
- Signori miei! signori miei! - andava raccomandando il delegato.
- Così non facciamo nulla.
- Faremo la rivoluzione, faremo! - urlava Bruno colle mani in aria.
Per fortuna, il parroco aveva messo in salvo, lesto lesto, le chicchere e i bicchieri, e il sagrestano era corso a rompicollo a licenziare la banda, che, saputo l'arrivo del delegato, accorreva a dargli il benvenuto, soffiando nei corni e nei tromboni.
- Così non si fa nulla! - borbottava il delegato; e gli seccava pure che le messi fossero già mature, di là delle sue parti, mentre ei se ne stava a perdere il suo tempo con compare Bruno e col vicepretore, che volevano mangiarsi l'anima.
- Cos'è questa storia della contravvenzione pel bucato?
- Le solite prepotenze.
Ora non si può sciorinare un fazzoletto da naso alla finestra, che subito vi chiappano la multa.
La moglie del vicepretore, fidandosi che suo marito era in carica, - sinora un po' di riguardo c'era sempre stato per le autorità, - soleva mettere ad asciugare sul terrazzino tutto il bucato della settimana, si sa...
quel po' di grazia di Dio!...
Ma adesso, colla nuova legge, è peccato mortale, e son proibiti perfino i cani e le galline, e gli altri animali, con rispetto, che fino ad ora facevano la polizia delle strade.
Alle prime pioggie, se Dio vuole, l'avremo sino al mostaccio, il sudiciume.
Il delegato del vescovo, per conciliare gli animi, stava inchiodato nel confessionario come una civetta, dalla mattina alla sera, e tutte le donne volevano essere confessate da lui, che ci aveva l'assoluzione plenaria per ogni sorta di peccati, quasi fosse stata la persona stessa di monsignore.
- Padre! - gli diceva Saridda col naso alla graticola del confessionario.
- Compare Nino ogni domenica mi fa far peccati in chiesa.
- In che modo, figliuola mia?
- Quel cristiano doveva esser mio marito, prima che vi fossero queste chiacchiere in paese; ma ora che il matrimonio è rotto, si pianta vicino all'altar maggiore, per guardarmi, e ridere coi suoi amici, tutto il tempo della messa -.
E come il reverendo cercava di toccare il cuore a compare Nino:
- È lei piuttosto che mi volta le spalle, quando mi vede, quasi fossi uno scomunicato! - rispondeva il contadino.
Egli invece, se la gnà Saridda passava dalla piazza la domenica, affettava di esser tutt'uno col brigadiere, o con qualche altro pezzo grosso, e non si accorgeva nemmeno di lei.
Saridda era occupatissima a preparare lampioncini di carta colorata, e glieli schierava sul naso, lungo il davanzale, col pretesto di metterli ad asciugare.
Una volta che si trovarono insieme in un battesimo, non si salutarono nemmeno, come se non si fossero mai visti, e anzi Saridda fece la civetta col compare che aveva battezzata la bambina.
- Compare da strapazzo! - sogghignava Nino.
- Compare di bambina! Quando nasce una femmina si rompono persino i travicelli del tetto -.
E Saridda, fingendo di parlare colla puerpera:
- Tutto il male non viene per nuocere.
Alle volte, quando vi pare d'aver perso un tesoro, dovete ringraziar Dio e San Pasquale! ché prima di conoscere bene una persona bisogna mangiare sette salme di sale.
- Già, le disgrazie bisogna pigliarle come vengono; il peggio è guastarsi il sangue per cose che non ne valgono la pena.
Morto un papa, se ne fa un altro -.
In piazza suonava il tamburo, quello della meta.
- Il sindaco dice che vi sarà la festa, - sussurravano nella folla.
- Litigherò sino alla consumazione dei secoli! Mi ridurrò povero e in camicia come il Santo Giobbe, ma quelle cinque lire di multa non le pagherò, dovessi lasciarlo nel testamento!
- Sangue d'un cane! che festa vogliono fare se quest'anno morremo tutti di fame? - esclamava Nino.
Sin dal mese di marzo non pioveva una goccia d'acqua, e i seminati, gialli, che scoppiettavano come l'esca "morivano di sete".
Bruno il carradore diceva invece che appena San Pasquale esciva in processione pioveva di certo.
Ma che gliene importava della pioggia a lui, se faceva il carradore, e a tutti gli altri conciapelli del suo partito?...
Infatti portarono San Pasquale in processione a levante e a ponente, e l'affacciarono sul poggio, a benedir la campagna, in una giornata afosa di maggio, tutta nuvoli - una di quelle giornate in cui i contadini si strappano i capelli dinanzi ai campi "bruciati", e le spighe chinano il capo proprio come se morissero.
- San Pasquale maledetto! - gridava Nino sputando in aria, e correndo come un pazzo pel seminato.
- M'avete rovinato, San Pasquale ladro! Non mi avete lasciato altro che la falce per tagliarmi il collo! -
Nel quartiere alto era una desolazione: una di quelle annate lunghe, in cui la fame comincia a giugno, e le donne stanno sugli usci, spettinate e senza far nulla, coll'occhio fisso.
La gnà Saridda, all'udire che si vendeva in piazza la mula di compare Nino, onde pagare il fitto della terra che non aveva dato nulla, si sentì sbollire la collera in un attimo, e mandò in fretta e in furia suo fratello Turi, con quei soldi che avevano da parte, per aiutarlo.
Nino era in un canto della piazza, cogli occhi astratti e le mani in tasca, mentre gli vendevano la mula, tutta in fronzoli e colla cavezza nuova.
- Non voglio nulla - ei rispose torvo.
- Le braccia mi restano ancora, grazie a Dio! Bel santo, quel San Pasquale, eh! -
Turi gli voltò le spalle per non finirla brutta, e se ne andò.
Ma la verità era che gli animi si trovavano esasperati, ora che San Pasquale l'avevano portato in processione a levante e a ponente con quel bel risultato.
Il peggio era che molti del quartiere di San Rocco si erano lasciati indurre ad andare colla processione anche loro, picchiandosi come asini, e colla corona di spine in capo, per amor del seminato.
Ora poi si sfogavano in improperi, tanto che il delegato di monsignore aveva dovuto battersela a piedi e senza banda, com'era venuto.
Il vicepretore, per prendersi una rivincita sul carradore, telegrafava che gli animi erano eccitati, e l'ordine pubblico compromesso; sicché un bel giorno si udì la notizia che nella notte erano arrivati i Compagni d'Arme, e ognuno poteva andare a vederli nello stallatico.
- Son venuti pel colera, - dicevano però degli altri.
- Laggiù nella città la gente muore come le mosche -.
Lo speziale mise il catenaccio alla bottega, il dottore scappò il primo di tutti, perché non l'accoppassero.
- Non sarà nulla, - dicevano quei pochi rimasti in paese, che non erano potuti fuggire qua e là per la campagna.
- San Rocco benedetto lo guarderà il suo paese! e il primo che va in giro di notte gli faremo la pelle! -
E anche quelli del quartiere basso erano corsi a piedi scalzi nella chiesa di San Rocco.
Però di lì a poco i colerosi cominciarono a spesseggiare come i goccioloni grossi che annunziano il temporale - e di questo dicevasi ch'era un maiale, e aveva voluto morire per fare una scorpacciata di fichidindia - e di quell'altro che era tornato da campagna a notte fatta.
Insomma il colera era venuto bello e buono, malgrado la guardia, e alla barba di San Rocco, nonostante che una vecchia in odore di santità avesse sognato che San Rocco in persona le diceva:
- Del colera non abbiate paura, che ci penso io, e non sono come quel disutilaccio di San Pasquale -.
Nino e Turi non si erano più visti dopo l'affare della mula; ma appena il contadino intese dire che fratello e sorella erano malati tutti e due, corse alla loro casa, e trovò Saridda nera e contraffatta, in fondo alla stanzuccia, accanto a suo fratello il quale stava meglio, lui, ma si strappava i capelli e non sapeva più che fare.
- Ah! San Rocco ladro! - si mise a gemere Nino.
- Questa non me l'aspettava! O gnà Saridda, che non mi conoscete più? Nino, quello di una volta? -
La gnà Saridda lo guardava con certi occhi infossati che ci voleva la lanterna a trovarli, e Nino ci aveva due fontane ai suoi occhi.
- Ah, San Rocco! - diceva lui, - questo tiro è più birbone di quello che ci ha fatto San Pasquale!
Però la Saridda guarì, e mentre stava sull'uscio, col capo avvolto nel fazzoletto, gialla come la cera vergine, gli andava dicendo:
- San Rocco mi ha fatto il miracolo, e dovete venirci anche voi a portargli la candela per la sua festa -.
Nino, col cuore gonfio, diceva di sì col capo; ma intanto aveva preso il male anche lui, e stette per morire.
Saridda allora si graffiava il viso, e diceva che voleva morire con lui, e si sarebbe tagliati i capelli e glieli avrebbe messi nel cataletto, ché nessuno l'avrebbe più vista in faccia, finché era viva.
- No! no! - rispondeva Nino, col viso disfatto.
- I capelli torneranno a crescere; ma chi non ti vedrà più sarò io, che sarò morto.
- Bel miracolo che ti ha fatto San Rocco ! - gli diceva Turi, per consolarlo.
E tutti e due, convalescenti, mentre si scaldavano al sole, colle spalle al muro e il viso lungo, si gettavano in viso l'un l'altro San Rocco e San Pasquale.
Una volta passò Bruno il carradore, che tornava di fuori a colera finito, e disse:
- Vogliamo fare una gran festa, per ringraziare San Pasquale di averci salvati tutti quanti siamo.
D'ora innanzi non ci saranno più arruffapopoli, né oppositori, ora che è morto quel vicepretore che ha lasciato la lite nel testamento.
- Sì, faremo la festa per quelli che son morti! - sogghignò Nino.
- E tu che sei vivo per San Rocco forse?
- La volete finire, - saltò su Saridda, - che poi ci vorrà un altro colera, per far la pace! -
PENTOLACCIA
Adesso viene la volta di "Pentolaccia" ch'è un bell'originale anche lui, e ci fa la sua figura fra tante bestie che sono alla fiera, e ognuno passando gli dice la sua.
Lui quel nomaccio se lo meritava proprio, ché aveva la pentola piena tutti i giorni, prima Dio e sua moglie, e mangiava e beveva alla barba di compare don Liborio, meglio di un re di corona.
Uno che non abbia mai avuto il viziaccio della gelosia, e ha chinato sempre il capo in santa pace, che Santo Isidoro ce ne scampi e liberi, se gli salta poi il ghiribizzo di fare il matto, la galera gli sta bene.
Aveva voluto sposare la Venera per forza, sebbene non ci avesse né re né regno, e anche lui dovesse far capitale sulle sue braccia, per buscarsi il pane.
Inutile sua madre, poveretta, gli dicesse: - Lascia star la Venera, che non fa per te; porta la mantellina a mezza testa, e fa vedere il piede quando va per la strada -.
I vecchi ne sanno più di noi, e bisogna ascoltarli, pel nostro meglio.
Ma lui ci aveva sempre pel capo quella scarpetta e quegli occhi ladri che cercano il marito fuori della mantellina: perciò se la prese senza volere udir altro, e la madre uscì di casa, dopo trent'anni che c'era stata, perché suocera e nuora insieme ci stanno proprio come cani e gatti.
La nuora, con quel suo bocchino melato, tanto disse e tanto fece, che la povera vecchia brontolona dovette lasciarle il campo libero, e andarsene a morire in un tugurio; fra marito e moglie erano anche liti e questioni, ogni volta che doveva pagarsi la mesata di quel tugurio.
Quando infine la povera vecchia finì di penare, e lui corse al sentire che le avevano portato il viatico, non poté riceverne la benedizione, né cavare l'ultima parola di bocca alla moribonda, la quale aveva già le labbra incollate dalla morte, e il viso disfatto, nell'angolo della casuccia dove cominciava a farsi scuro, e aveva vivi solamente gli occhi, coi quali pareva che volesse dirgli tante cose.
- Eh?...
Eh?...
-
Chi non rispetta i genitori fa il suo malanno e la brutta fine.
La povera vecchia morì col rammarico della mala riuscita che aveva fatto la moglie di suo figlio; e Dio le aveva accordato la grazia di andarsene da questo mondo, portandosi al mondo di là tutto quello che ci aveva nello stomaco contro la nuora, che sapeva come gli avrebbe fatto piangere il cuore, al figliuolo.
Appena Venera era rimasta padrona della casa, colla briglia sul collo, ne aveva fatte tante e poi tante, che la gente ormai non chiamava altrimenti suo marito che con quel nomaccio, e quando arrivava a sentirlo anche lui, e si avventurava a lagnarsene colla moglie - Tu che ci credi? - gli diceva lei.
E basta.
Lui allora contento come una pasqua.
Era fatto così, poveretto, e sin qui non faceva male a nessuno.
Se gliel'avessero fatta vedere coi suoi occhi, avrebbe detto che non era vero, grazia di Santa Lucia benedetta.
A che giovava guastarsi il sangue? C'era la pace, la provvidenza in casa, la salute per giunta, ché compare don Liborio era anche medico; che si voleva d'altro, santo Iddio?
Con don Liborio facevano ogni cosa in comune: tenevano una chiusa a mezzeria, ci avevano una trentina di pecore, prendevano insieme dei pascoli in affitto, e don Liborio dava la sua parola in garanzia, quando si andava dinanzi al notaio.
"Pentolaccia" gli portava le prime fave e i primi piselli, gli spaccava la legna per la cucina, gli pigiava l'uva nel palmento; a lui in cambio non gli mancava nulla, né il grano nel graticcio, né il vino nella botte, né l'olio nell'orciuolo; sua moglie bianca e rossa come una mela, sfoggiava scarpe nuove e fazzoletti di seta, don Liborio non si faceva pagar le sue visite, e gli aveva battezzato anche un bambino.
Insomma facevano una casa sola, ed ei chiamava don Liborio "signor compare" e lavorava con coscienza.
Su tal riguardo non gli si poteva dir nulla a "Pentolaccia".
Badava a far prosperare la società col "signor compare" il quale perciò ci aveva il suo vantaggio anche lui, ed erano contenti tutti.
Ora avvenne che questa pace degli angeli si mutò in una casa del diavolo tutt'a un tratto, in un giorno solo, in un momento, come gli altri contadini che lavoravano nel maggese, mentre chiacchieravano all'ombra, nell'ora del vespero, vennero per caso a leggergli la vita, a lui e a sua moglie, senza accorgersi che "Pentolaccia" s'era buttato a dormire dietro la siepe, e nessuno l'aveva visto.
- Per questo si suol dire "quando mangi, chiudi l'uscio, e quando parli, guardati d'attorno".
Stavolta parve proprio che il diavolo andasse a stuzzicare "Pentolaccia" il quale dormiva, e gli soffiasse nell'orecchio gl'improperii che dicevano di lui, e glieli ficcasse nell'anima come un chiodo.
- E quel becco di "Pentolaccia"! - dicevano, - che si rosica mezzo don Liborio! - e ci mangia e ci beve nel brago! - e c'ingrassa come un maiale! -
Che avvenne? Che gli passò pel capo a "Pentolaccia"? Si rizzò a un tratto senza dir nulla, e prese a correre verso il paese come se l'avesse morso la tarantola, senza vederci più degli occhi, che fin l'erba e si sassi gli sembravano rossi al pari del sangue.
Sulla porta di casa sua incontrò don Liborio, il quale se ne andava tranquillamente, facendosi vento col cappello di paglia.
- Sentite, "signor compare", - gli disse - se vi vedo un'altra volta in casa mia, com'è vero Dio, vi faccio la festa! -
Don Liborio lo guardò negli occhi, quasi parlasse turco, e gli parve che gli avesse dato volta al cervello, con quel caldo, perché davvero non si poteva immaginare che a "Pentolaccia" saltasse in mente da un momento all'altro di esser geloso, dopo tanto tempo che aveva chiuso gli occhi, ed era la miglior pasta d'uomo e di marito che fosse al mondo.
- Che avete oggi, compare? - gli disse.
- Ho, che se vi vedo un'altra volta in casa mia, com'è vero Dio, vi faccio la festa! -
Don Liborio si strinse nelle spalle e se ne andò ridendo.
Lui entrò in casa tutto stralunato, e ripeté alla moglie:
- Se vedo qui un'altra volta il "signor compare" com'è vero Dio, gli faccio la festa! -
Venera si cacciò i pugni sui fianchi, e cominciò a sgridarlo e a dirgli degli improperi.
Ei si ostinava a dire sempre di sì col capo, addossato alla parete, come un bue che ha la mosca, e non vuol sentir ragione.
I bambini strillavano al veder quella novità.
La moglie infine prese la stanga, e lo cacciò fuori dell'uscio per levarselo dinanzi, dicendogli che in casa sua era padrona di fare quello che le pareva e piaceva.
"Pentolaccia" non poteva più lavorare nel maggese, pensava sempre a una cosa, ed aveva una faccia di basilisco che nessuno gli conosceva.
Prima d'imbrunire, ed era sabato, piantò la zappa nel solco, e se ne andò senza farsi saldare il conto della settimana.
Sua moglie, vedendoselo arrivare senza denari, e per giunta due ore prima del consueto, tornò di nuovo a strapazzarlo, e voleva mandarlo in piazza, a comprarle delle acciughe salate, che si sentiva una spina nella gola.
Ma ei non volle muoversi di lì, tenendosi la bambina fra le gambe, che, poveretta, non osava muoversi, e piagnucolava, per la paura che il babbo le faceva con quella faccia.
Venera quella sera aveva un diavolo per cappello, e la gallina nera, appollaiata sulla scala, non finiva di chiocciare, come quando deve accadere una disgrazia.
Don Liborio soleva venire dopo le sue visite, prima d'andare al caffè, a far la sua partita di tresette; e quella sera Venera diceva che voleva farsi tastare il polso, perché tutto il giorno si era sentita la febbre, per quel male che ci aveva nella gola.
"Pentolaccia" lui, stava zitto, e non si muoveva dal suo posto.
Ma come si udì per la stradicciuola tranquilla il passo lento del dottore che se ne venìa adagio adagio, un po' stanco delle visite, soffiando pel caldo, e facendosi vento col cappello di paglia, "Pentolaccia" andò a prender la stanga colla quale sua moglie lo scacciava fuori di casa, quando egli era di troppo, e si appostò dietro l'uscio.
Per disgrazia Venera non se ne accorse, giacché in quel momento era andata in cucina a mettere una bracciata di legna sotto la caldaia che bolliva.
Appena don Liborio mise il piede nella stanza, suo compare levò la stanga, e gli lasciò cadere fra capo e collo tal colpo, che l'ammazzò come un bue, senza bisogno di medico, né di speziale.
Così fu che "Pentolaccia" andò a finire in galera.
IL COME, IL QUANDO ED IL PERCHÉ
Il signor Polidori e la signora Rinaldi si amavano - o credevano di amarsi - ciò che è precisamente la stessa cosa, alle volte; e in verità, se mai l'amore è di questa terra, essi erano fatti l'uno per l'altro: Polidori si godeva quarantamila lire di entrata, e una pessima riputazione di cattivo soggetto, la signora Rinaldi era una donnina vaporosa e leggiadra, e aveva un marito che lavorava per dieci, onde farla vivere come se possedesse quarantamila lire di rendita.
Però sul conto di lei non era corsa la più innocente maldicenza, sebbene tutti gli amici di Polidori fossero passati in rivista, col fiore all'occhiello, dinanzi alla fiera beltà.
Finalmente la fiera beltà era caduta - il caso, la fatalità, la volontà di Dio, o quella del diavolo, l'avevano tirata pel lembo della veste.
Quando si dice cadere intendesi che aveva lasciato cadere sul Polidori quel primo sguardo languido, molle, smarrito, che fa tremare le ginocchia al serpente messo in agguato sotto l'albero della seduzione.
Le cadute a rotta di collo son rare, e alle volte fanno scappare il serpente.
La signora Rinaldi, prima di scendere da un ramo all'altro, voleva vedere dove metteva i piedi, e faceva mille graziose moine col pretesto di voler fuggire verso le cime alte.
Da circa un mese ella si era appollaiata sul ramoscello della corrispondenza epistolare, ramoscello flessibile e pericoloso, agitato da tutte le aurette profumate.
- Avevano cominciato col pretesto di un libro da chiedere o da restituire, di una data da precisare, o che so io - la bella avrebbe voluto fermarvisi un pezzo, su quel ramo, a cinguettare graziosamente, perché le donne cinguettano sempre a meraviglia, così cullandosi fra il cielo e la terra; Polidori, il quale aveva vuotato il sacco, divenne presto arido, laconico, categorico che era una disperazione.
La poveretta chiuse gli occhi e le ali, e si lasciò scivolare un altro po'.
- Non ho letto la vostra lettera; né voglio leggerla! - gli disse incontrandolo all'ultimo ballo della stagione, mentre seguivano la fila delle coppie.
- Giacché non volete essere quello che vi avevo ideato, lasciatemi rimanere quale voglio essere io -.
Polidori la fissava serio serio, tormentandosi i baffi, ma colla fronte china.
Gli altri ballerini che non avevano nessuna ragione per stare a chiacchierare nel vano dell'uscio, li spingevano verso il salone.
La donna arrossì, quasi fosse stata sorpresa in un abboccamento segreto con lui.
Polidori - il serpente - notò quella vampa fugace.
- Sapete che vi obbedirò ad ogni costo, - rispose semplicemente.
La croce di brillanti scintillò sul petto di lei, sollevandosi in trionfo.
Tutta la sera la signora Rinaldi ballò come una pazza, passando da un ballerino all'altro, tirandosi dietro uno sciame di adoratori, cogli occhi ebbri di festa, luccicanti come le gemme che le formicolavano sul seno anelante.
Però ad un tratto, trovandosi faccia a faccia colla sua immagine in un grande specchio, si fece seria e non volle ballar più.
Rispondeva a tutti di sentirsi stanca, molto stanca; e macchinalmente cercava cogli occhi suo marito.
Non c'era nemmen lui, quell'uomo! In quei dieci minuti che rimase accasciata sul canapè, senza curarsi che la sua veste si affagottava sgarbatamente, le passarono davanti agli occhi delle strane fantasie, insieme alle coppie che ballavano il valzer.
Polidori solo non ballava, né si vedeva più.
- Che uomo era mai costui? Finalmente lo scorse in fondo a una sala deserta, faccia a faccia con una testa pelata, che non doveva aver nulla da dire, sorridendo come un uomo per cui il sorriso sia indifferente anch'esso.
- Ella avrebbe preferito sorprenderlo colla più bella signora della festa, in parola d'onore! - Polidori non se ne avvide.
Si alzò, premuroso sempre, e le offrì il braccio.
In quel momento, proprio in quel momento doveva cacciarlesi fra i piedi anche suo marito, che cercava di lei.
Allora, bruscamente, aggiustandosi sull'omero la scollatura della veste, con un leggiadro movimento della spalla, disse piano a Polidori, così piano che il fruscio della seta coprì quasi il suono della voce:
- Sia pure, domani alle nove, ai Giardini -.
Polidori s'inchinò profondamente e la lasciò passare, raggiante e commossa, al braccio del marito.
Giammai mattino di primavera non era sembrato così misteriosamente bello alla signora Rinaldi nella sua villa deliziosa della Brianza, e giammai ella non l'avea contemplato con occhio più distratto attraverso al cristallo scintillante del suo coupé, come quando il suo legnetto attraversava rapidamente la piazza Cavour.
Il sole inondava i viali del giardino, caldo e dorato, sull'erba che incominciava a rinverdire; l'azzurro del cielo era profondo.
Coteste impressioni, ad insaputa di lei, riverberavansi nei suoi grandi occhi neri, che guardavano lontano, non sapeva ella stessa dove, né che cosa, mentre appoggiava la mano e la fronte pallida alla manopola.
Di tanto in tanto un brivido la faceva stringere nelle spalle, un brivido di stanchezza o di freddo.
Appena la carrozza si fermò al cancello, ella trasalì, e si tirò indietro vivamente, quasi suo marito si fosse affacciato all'improvviso allo sportello.
Esitò alquanto prima di scendere, colla mano sulla maniglia pensando vagamente a quell'aspetto nuovo, sotto cui le si affacciava alla mente suo marito; poi mise il piede a terra e si calò il velo sul viso: un velo fitto, nero, tempestato di puntini, attraverso al quale gli occhi acquistavano alcunché di febbrile, e i lineamenti una rigidità di fantasma.
La carrozza si allontanò di passo, senza far rumore, da carrozza discreta e ben educata.
Il giardino sembrava destato anche'esso prima dell'ora, e tutto sorpreso d'incominciar la sua giornata così presto.
Degli uomini in manica di camicia lo lavavano, lo pettinavano, gli facevano la sua toeletta mattutina.
Le poche persone che si incontravano avevano l'aspetto di trovarsi là a quell'ora per la prima volta, e per ordine del medico anche loro; osavano interrogare il velo della passeggiatrice mattiniera, e indovinare il profumo del fazzoletto nascosto nel manicotto che ella si premeva sul petto con forza.
Un vecchio che si trascinava lentamente, cercando il sole di marzo, si fermò a guardarla, com'ella fu passata, appoggiandosi al bastone malfermo, e tentennò il capo tristamente.
La signora Rinaldi si arrestò dinanzi alla sponda del laghetto, saettando a dritta e a sinistra un'occhiata guardinga, cercando qualche cosa o qualcuno.
Il mormorìo fresco dell'acqua, e lo stormire lieve lieve degli ippocastani la isolavano completamente; allora sollevò alquanto il velo, e cavò dal guanto un bigliettino meno grande di una carta da giuoco.
Per due o tre minuti l'acqua seguitò a scorrere, e le foglie a stormire per conto loro.
La donna aveva gli occhi assorti, avidi, umidi di sogni.
Tutt'a un tratto un passo frettoloso le fece rizzare il capo, e il sangue le avvampò sulle guance, come se gli occhi ardenti del nuovo arrivato le avessero sfiorato il viso con un bacio.
Polidori stava per portare la mano al cappello, quando ella gli arrestò il gesto con uno sguardo impercettibile, e gli passò vicino senza fissarlo.
Camminava a capo chino, ascoltando lo stridere della sabbia sotto i suoi stivalini, senza guardare dinanzi a sé.
Di tanto in tanto si metteva il fazzoletto alla bocca; per riprender fiato, quasi il suo cuore divorasse avidamente tutta l'aria che la circondava.
L'onda lenta del ruscello l'accompagnava chetamente, borbottando sottovoce, addormentando le ultime sue paure; l'ombra dei cedri e il silenzio del viale deserto la penetravano vagamente, con sottile voluttà.
Quando si fermò dinanzi alla gabbia del leopardo il petto le scoppiava e i ginocchi le tremavano forte, ché accanto a lei si era fermato anche Polidori, guardando attentamente il superbo animale, con la curiosità che avrebbe mostrato un contadino sbandato per quelle parti, e le disse piano: - Grazie! -
Ella non rispose, si fece rossa, e strinse con forza i ferri della stia a cui appoggiava la fronte.
Cotesta sensazione le faceva bene sulla epidermide della mano senza guanto.
Chi avrebbe potuto immaginare che quella semplice parola, scambiata di furto, in fondo a quel deserto, dovesse vibrare tanto deliziosamente! No! davvero! C'era da perderci la testa! Ella si sentiva avvampare fin sulla nuca, che ei, ritto dietro le sue spalle, poteva vedere arrossire; un'onda di parole sconnesse e tumultuose le montavano alla testa, la ubbriacavano; parlava del ballo dove si era divertita assai; di suo marito il quale era partito all'alba, quand'ella non aveva ancora chiuso gli occhi.
- Però non sono stanca! quest'aria fresca fa bene, tanto bene! ci si sente rinascere, non é vero?
- Sì! è vero! - rispose Polidori guardandola fisso negli occhi; ma ella non osava levarli di terra.
- Quando sarò in Brianza voglio levarmi col sole tutti i giorni.
In città facciamo una vita impossibile.
Ma però voi altri signori dovete preferirla -.
Parlava in fretta, e con voce un po' troppo alta e squillante, sorridendo spesso, a caso; gli era grata inconsciamente che ei non osasse interromperla, non osasse mischiare la sua voce a quella di lei.
Finalmente Polidori le disse: - Ma perché non avete voluto ricevermi a casa vostra? -
Ella gli piantò gli occhi in viso per la prima volta dacché erano lì, sorpresa, dolorosamente sorpresa.
- Finora in tutto quello che avevano fatto, in tutto quello che avevano detto, il male non c'era stato che vagamente, in nube, nella loro intenzione, con squisita delicatezza che i suoi sensi finissimi assaporavano deliziosamente, come il leopardo sdraiato ai loro piedi si godeva il raggio caldo del sole, ammiccando la larga pupilla dorata, con quel medesimo inconscio e voluttuoso stiramento di membra.
Richiamata così bruscamente alla realtà, stringeva le mani e le labbra con un'espressione dolorosa; gli occhi le si velarono quasi, seguendo nello spazio l'incantesimo che si era rotto, e gli fissò in volto quegli occhi stralunati.
Tutta l'esperienza che possedeva Polidori non seppe fargli leggere quello che vi si scorgeva.
- Ah! - disse poi con voce mutata, - sarebbe stato più prudente!...
- Siete crudele! - mormorò Polidori.
- No! - rispose ella sollevando il capo, un po' rossa, ma con accento fermo.
- Non sono come tutte le altre signore, non sono prudente!...
quando mi romperò il collo, vorrò godermi l'orrore del precipizio sotto di me! Tanto peggio per voi se non capite -.
Allora ei le afferrò la mano per forza, divorando tutta la sua bellezza palpitante con uno sguardo assetato, e balbettò:
- Volete?...
volete?...
Ella non rispose, e fece uno sforzo per ritirare la mano.
Polidori implorava la sua grazia con parole concitate, deliranti.
Le ripeteva una domanda, una preghiera, sempre la stessa, con diverse inflessioni di voce che andavano a ricercare la donna nelle più intime fibre di tutto il suo essere; ella ne sentiva la vampa, le sembrava di esserne avviluppata e divorata, soverchiata da un languore mortale e delizioso; e cercava di svincolarsi, pallida, smarrita, colle labbra convulse, spiando il viale di qua e di là con occhi pazzi di terrore, contorcendosi sotto quella stretta possente, facendo forza con tutte e due le mani febbrili per strapparsi da quell'altra mano che sentiva ardere sotto il guanto.
Infine, vinta, fuori di sé, balbettò:
- Sì! sì! sì! - e fuggì dinanzi a qualcuno di cui si udiva avvicinarsi il calpestìo.
Uscendo dal giardino era così sconvolta che stette per buttarsi sotto i cavalli di una carrozza.
Aveva avuto un appuntamento! Quello era stato un appuntamento! E ripeteva macchinalmente, balbettando: - È questo! è questo! - Si sentiva tutta piena ed ebbra di cotesta parola, e le sue labbra smorte agitavansi senza mandare alcun suono, vagamente assaporando la colpa.
Andò barcollante sino alla prima carrozza che incontrò; e si fece condurre dalla sua Erminia, quasi in cerca di aiuto.
La sua amica, vedendosela comparire dinanzi con quel viso, le corse incontro fin sull'uscio del salotto.
- Che hai?
- Nulla! nulla!
- Come sei bella! Cos'hai?
Ella, invece di rispondere, le saltò al collo e le fece due baci pazzi.
La signora Erminia era abituata alle sfuriate d'amicizia della sua Maria.
Si misero a guardare insieme le fotografie che avevano viste cento volte, e i fiori che erano da un mese sul terrazzino.
In quel momento, per combinazione, passava Polidori nel phaeton del suo amico Guidetti, col sigaro in bocca, e salutò la signora Erminia allo stesso modo come avrebbe potuto salutare Maria, se l'avesse scorta rincantucciata fra gli arbusti, premendosi le mani sul petto che voleva scoppiarle.
Era una cosa da nulla; ma uno di quei nonnulla che penetrano in tutto l'essere di una donna come la punta di un ago.
Allora, tornando a casa, la signora Rinaldi scrisse a Polidori una lunga lettera, calma e dignitosa, onde pregarlo di rinunciare a quell'appuntamento, di cui le aveva strappata la promessa in un momento di aberrazione, un momento che rammentava ancora con confusione e rossore, per sua punizione.
C'era tanta sincerità nella contraddizione dei suoi sentimenti, che quell'istante d'abbandono, dopo un'ora sembrava infinitamente lontano, e se qualche cosa di vivo vibrava tuttora fra le linee della lettera, era solo il rimpianto di sogni che si dileguavano così bruscamente.
Ella faceva appello all'onore e alla delicatezza di lui per farle dimenticare il suo errore, e lasciarle la stima di se stessa.
Polidori si aspettava quasi quella lettera: la signora Rinaldi era troppo inesperta per non pentirsi dieci volte, prima di aver motivo di pentirsi davvero; ei fece una cosa che gli provò come quella donnina inesperta avesse ridestato in lui un sentimento schietto e forte con tutta la freschezza delle prime impressioni: le rimandò la lettera accompagnata da questa breve risposta:
"Vi amo con tutto il rispetto e la tenerezza che deve inspirare la vostra innocenza.
Vi rimando la lettera che mi avete diretta, perché non sarei degno di conservarla, e non oserei distruggerla.
Ma l'imprudenza che avete commesso scrivendo una tal lettera è la prova migliore della stima in cui deve avervi ogni uomo di cuore".
- Mio marito! - esclamava Maria con una strana intonazione di voce.
- Ma mio marito è felicissimo! La rendita sale e scende per fargli piacere, i bachi sono andati bene, le commissioni piovono da ogni parte.
C'è un cinquanta per cento di utili netti! -
Erminia la stava a guardare a bocca aperta.
- Senti, bambina, tu hai la febbre.
Mesciamoci del the -.
Due giorni dopo, per guarire della febbre, che le aveva trovato la sua Erminia, le disse:
- Andrò in Brianza con Rinaldi.
L'aria, l'ossigeno, la quiete, il canto degli usignoli, la famiglia...
Che peccato non ci abbia dei bambini da cullare! -
Là, sotto gli alberi folti, di faccia ai larghi orizzonti, sentiva una strana irritazione contro quella pace che la invadeva lentamente, suo malgrado, dal di fuori.
Andava spesso sulle balze pittoresche verso il tramonto, a sciuparsi gli stivalini, e a montarsi la testa di proposito con dei sentimenti presi a prestito nei romanzi.
Polidori aveva avuto il buon gusto di eclissarsi con garbo, restando a Milano, senza far nulla di teatrale e di convenzionale, come uno che sa mettere della cortesia anche a farsi dimenticare.
- Né ella avrebbe saputo dire se pensasse ancora a lui; ma provava delle aspirazioni indefinite, che nella solitudine le tenevano compagnia, l'avviluppavano mollemente e tenacemente in quell'inerzia pericolosa, e parlavano per lei nel silenzio solenne che la circondava, e l'uggiva.
Ella sfogavasi a scrivere delle lunghe lettere alla sua amica, vantandole le delizie ignorate della campagna, la squilla dell'avemaria fra le valli, il sorger del sole sui monti; facendole il conto delle ova che raccoglieva la castalda, e del vino che si sarebbe imbottigliato quell'anno.
- Parlami un po' più dei tuoi libri e delle tue corse a cavallo, - rispondeva la Erminia.
- Di' a tuo marito che non ti lasci andare al pollaio, o che ci venga anche lui -.
E un bel giorno, dopo un certo silenzio, si mise in viaggio, un po' inquieta, e andò a trovare la sua Maria.
- T'ho fatto paura? - le disse costei.
- M'hai creduto un'anima desolata in via di annientarsi?
- No.
T'ho creduto una che si annoia.
Qui e una vera Tebaide: non c'è che da darsi a Dio o al diavolo.
Vieni con me, a Villa d'Este.
Voi mi permettete che ve la rubi, non è vero, Rinaldi?
- Ma io desidero che ella si diverta e sia allegra -.
A Villa d'Este c'era davvero da stare allegri: musica, balli, regate, corse sui vaporini, escursioni nei dintorni, un mondo di gente, bellissime toelette, e Polidori, il quale era l'anima di tutti i divertimenti.
La signora Rinaldi non sapeva che ci fosse anche lui; e Polidori, se avesse potuto prevedere la sua venuta, le avrebbe reso il servigio di non farsi trovare a Villa d'Este.
Ma oramai aveva accettato certo incarico nell'organizzare le regate, e non poteva muoversi senza dar nell'occhio prima che le regate avessero avuto luogo.
Egli fece capire tutto ciò alla signora Rinaldi, brevemente e delicatamente, la prima volta che si incontrarono nel salone, facendole in certo modo delle scuse velate, e scivolando sul passato con disinvoltura.
Maria, superato quel primo istante di turbamento, si era sentita rinfrancare non solo, ma, per una strana reazione, il contegno riservato di lui le metteva in corpo degli accessi matti d'ironia.
Egli diceva che sarebbe partito subito dopo le regate, perché aveva promesso di trovarsi con alcuni amici in Piemonte, per una gran caccia, e veramente gli rincresceva lasciare tante belle signore a Villa d'Este.
- Davvero? - domandò la signora Rinaldi con un certo risolino.
- Chi le piace dippiù?
- Ma...
tutte, - rispose tranquillamente Polidori, - la sua amica Erminia per esempio -.
Proprio! Ella non ci aveva mai pensato: la sua amica Erminia doveva far girare la testa ai signori uomini a preferenza di ogni altra, col suo visino piccante, e il suo spirito di diavolessa; così noncurante degli omaggi a cui era avvezza naturalmente - e marchesa per sopramercato - di quelle marchese che portano la loro corona sì fieramente, che ogni mortale sarebbe lietissimo di farsi accoppare per coglierle un fiore.
Colla sua Erminia erano sempre insieme, sul lago, sul monte, nel salone, sotto gli alberi.
Adesso ella la osservava come se la vedesse per la prima volta; la studiava, la imitava e qualche volta anche le invidiava dei nonnulla.
Senza volerlo, aveva scoperto che la sua Erminia, con tutte le sue arie da regina, era un tantino civetta, di quella civetteria che non impegna a nulla, ma contro la quale nondimeno tutti gli uomini vanno a rompersi il naso.
Era un affar serio! Non si poteva fare un passo senza trovarsi fra i piedi Polidori, il bel Polidori, corteggiato come un re da tutte quelle signore, il quale senza aver l'aria di avvedersene comprometteva orribilmente l'Erminia - il peggio era che non se ne avvedeva neppur lei, e che tutti non accettavano ad occhi chiusi le risate che ella ne faceva.
La signora Rinaldi pensava che se non fosse stato un tasto tanto delicato, ella l'avrebbe fatto suonare all'orecchio della sua amica, e le avrebbe fatto osservare che suono falso rendeva.
Perciò si sforzava di non farle scorgere nemmeno la pena che tutto quell'armeggìo le arrecava, pel bene che voleva ad Erminia, ben inteso - di Polidori poco le importava - era un uomo e faceva il suo mestiere, oramai!...
eppoi era di quelli che sanno consolarsi.
Ma Erminia aveva tutto da perdere a quel giuoco, con un marito come il suo, che le voleva bene, ed era proprio un marito ideale.
Che talismano possedeva dunque quel Polidori per eclissare un uomo come il marchese Gandolfi nel cuore di una donna bella, intelligente e corteggiata come l'Erminia? Certe cose non si sanno spiegare.
Per nulla al mondo avrebbe voluto che anima viva si fosse accorta di quel che succedeva, e avrebbe voluto chiudere gli occhi a tutti gli altri come li chiudeva lei; ma francamente, c'era da perdere la pazienza.
- Mia cara, io non mi raccapezzo più, - le diceva Erminia ridendo, tranquilla, come se non si trattasse di lei.
- Cos'hai? Alle volte mi sembra che io debba averti fatto qualcosa di grosso a mia insaputa! -
Oibò! quella povera Erminia come s'ingannava!...
non le aveva fatto altro che la pena di vederla impaniarsi spensieratamente in quei pasticcio; anzi di lasciarvisi impaniare, perché quel Polidori sembrava impastarlo e rimpastarlo a suo grado con un'abilità diabolica.
Doveva averne fatte molte di grosse quell'uomo, per aver acquistato quella maestria; era proprio un pessimo soggetto!
- Cara Maria! - le disse Erminia un bel giorno, e con un bel bacione.
- Mi sembra che quel Polidori ti trotti un po' più del dovere per la testa.
Guardati! è un individuo pericoloso, per una bambina come te!
- Io? - rispose ella stupefatta.
- Io?...
- e non sapeva trovare altre parole sotto quegli occhioni acuti di Erminia.
- Tanto meglio! tanto meglio! M'hai fatto una gran paura! tanto meglio!
- Per una bambina, - pensava Maria, - non mi usa molti riguardi, la mia Erminia! Certe cose cavano gli occhi! -
La signora Rinaldi era spietata per i corteggiatori eleganti, per gli innamorati ad ora fissa, nella passeggiata del parco o nelle serate di musica, pei conquistatori in guanti di Svezia.
Una volta che Polidori si permise di fare qualche osservazione rispettosa in propria difesa, ella gli lanciò in faccia uno scoppio di risa squillanti.
- Oh! oh! -
Egli parve impallidire, colui, alfine! Siccome le altre signore gli ronzavano sempre attorno come api a Polidori - la colpa era di quelle signore che lo guastavano - ella soggiunse:
- Non vi fate scorgere, ne sarei desolata.
- Per chi?
- Per voi, per me...
e per gli altri - per tutto il mondo -.
Questa volta ei non si lasciò sconcertare dal sarcasmo, e rispose con calma:
- Non mi preme che di voi -.
Ella avrebbe voluto colpirlo in viso con un altro getto di quella ilarità spietata e mordente, ma il riso le morì sulle labbra, dinanzi all'espressione che quelle due parole davano a tutta la fisonomia di lui.
- Potete insultarmi, - rispose egli, - ma non avete il diritto di dubitare del sentimento che avete messo nel mio cuore -.
Maria chinò il capo, vinta.
- Non ho rispettato ciecamente la vostra volontà, quale sia stata? Vi ho chiesto una spiegazione? Non ho prevenuto il vostro desiderio? e non son riescito a far le viste di aver dimenticato quello che nessun uomo al mondo potrebbe dimenticare...
da voi?...
E se ho sofferto, per questo, c'è alcuno al mondo che mi abbia visto soffrire? -
Egli parlava con voce calma, con l'atteggiamento tranquillo che davano a quelle parole pacate un'eloquenza irresistibile.
- Voi!...
- balbettò Maria.
- Io! - ribatte Polidori, - che vi amo ancora, e che non ve lo avrei detto giammai -.
Ella che si era fermata per strappare le foglie degli arbusti, fece due o tre passi per allontanarsi da lui, povera bambina! Polidori non ne fece uno solo per seguirla.
La signora Rinaldi era divenuta a un tratto malinconica e fantastica.
Stava delle lunghe ore col libro aperto alla medesima pagina, colle dita vaganti sulla tastiera del pianoforte, col ricamo abbandonato sui ginocchi, a contemplare l'acqua, i monti e le stelle.
Lo specchio del lago riverberava tutte le sfumature dei suoi pensieri più indefiniti, e provava una squisita voluttà a sentirseli ripercuotere dentro di sé, intenta, assorta.
Perciò sfuggiva alle allegre brigate e preferiva errare in barchetta sul lago, sola, quando i monti vi stendevano larghe ombre verdi, o quando i remi luccicavano fra le tenebre, come spade d'acciaio, o quando il tramonto vi spirava tristamente con vaghe strisce amaranti; frapponeva la tenda fra sé e i barcaiuoli, e coricata sui cuscini godeva a sentirsi cullata sull'abisso, ad immergervisi quasi, tuffando la mano nell'acqua, sentendosene guadagnare tutta la persona con un brivido misterioso; le piaceva sprofondare il suo sguardo nel buio interminato, al di là delle stelle, e a fantasticare su quel che doveva rischiarare qualche lumicino lontano che tremolava fra il buio, nella china dei monti.
Cercava i viali erbosi, i misteriosi silenzi del boschetto, o lo spettacolo del lago in quelle ore in cui il sole vi splendeva come su di uno specchio, o tutte le finestre dell'albergo stavano ancora chiuse, e la rugiada luccicava sull'erba del prato, e le ombre erano folte sotto gli alberi giganteschi, e lo scricchiolare della sabbia sotto i suoi passi le sussurrava all'orecchio misteriose fantasticherie; spesso andava a leggere o a passeggiare sulla sponda del laghetto, nei viali remoti dei Campi Elisi, quando la luna si posava dolcemente sul lago e le accarezzava le mani bianche, o quando le finestre del salone stampavano nel buio del viale larghi quadrati di luce fredda, e la musica del salone faceva vagare arcane fantasie sotto le grandi ombre silenziose ed addormentate.
Al di là di quelle ombre misteriose, dietro quei vetri scintillanti, il movimento della festa ammorzato, velato, acquistava una fusione di colori, di linee e di suoni, che lo rendeva affascinante, qualcosa fra il baccanale e la danza degli spiriti alati; allora respirando la vertigine, rimaneva lì, colla fronte sui vetri, con un formicolìo leggero alla radice dei capelli.
Una sera, tutt'a un tratto, la si vide comparire in mezzo al ballo come una visione affascinante, più pallida e più bella che mai, e con qualcosa che nessuno le aveva mai visto sulla bocca e negli occhi.
La folla si apriva commossa dinanzi a lei; Erminia andò ad abbracciarla; uno sciame di eleganti giovinotti le fece ressa attorno per strapparle la promessa di un giro di valzer o di una contradanza; ella si fermò un istante con quel medesimo sorriso sulle labbra, e quegli occhi splendenti come le lucciole del viale, cercando intorno, e come scorse Polidori gli buttò il fazzoletto.
- Dio salvi la regina! - esclamò Polidori piegando un ginocchio.
- Ti rubo il tuo ballerino, sai, - disse Maria tutta festante alla sua Erminia.
- Ho una voglia matta di fare un bel giro di valzer anche io -.
Polidori era uno di quei ballerini che le signore si disputano coi sorrisi e a colpi di ventaglio sulle dita - quando il sorriso ha fatto troppo effetto.
Possedeva la forza e la grazia, lo slancio e la mollezza; nessuno sapeva rapirvi come lui verso le sfere spumanti d'ebbrezza color di rosa con un colpo di garetto, adagiandovi sul braccio destro come su di un cuscino di velluto.
Dicevano che egli solo possedesse quell'intelligenza squisita dello Strauss, che vi fa perdere il fiato e la testa, e sapeva mettere nel braccio, nei muscoli, in tutta la persona, la foga, l'abbandono, l'estasi.
- Non voglio che balliate più! - Non voglio che balliate con altre - gli disse Maria fermandosi anelante, colle guance rosse, cogli occhi un po' velati - e fu tutto per quella sera.
Ah! come era trionfante, e come il cuore le ballava dentro il petto, mentre quel cavaliere invidiato l'accompagnava fra la folla ammiratrice! e mentre si ravvolgeva stretta nella sciarpetta nera in mezzo al viale, dove i rumori della festa si dileguavano, e le fantasticherie sorgevano, vaghe, senza forma, ma assetate ancora! Pareva di essere in preda a un sogno delizioso, quando al valzer successe un notturno di Mendelson, un notturno che le passava anch'esso fra i capelli e sulla fronte, e fra le spalle, come una mano di velluto fresca e odorosa.
A un tratto una figura nera si frappose dinanzi alla luce delle finestre che cadeva sul viale; il suo sogno le sorgeva improvviso dinanzi come un'ombra.
Ella si alzò di soprassalto, sbigottita, in tumulto, balbettando qualche parola sconnessa che voleva dir no! no! no! e andò a ricovrarsi nel salone, rifugiandosi in mezzo al rumore e alla luce - la luce che le faceva socchiudere gli occhi abbarbagliati, e il rumore che la stordiva gradevolmente, la lasciava intontita e sorridente, un po' rigida e pensosa.
Erminia l'accarezzava quasi fosse un ninnolo leggiadro; quelle signore dicevano ad una voce che era proprio carina, così accerchiata dai più eleganti cacciatori di avventure, colle spalle al muro, come una cerbiatta addossata alla roccia: si sarebbe detto che le tremolasse negli occhi la lagrima della sconfitta.
Polidori fu degli ultimi ad assalirla, da cacciatore che la sorte aveva destinato pel colpo di grazia; e sembrava mosso a pietà della vittima, giacché parlandole con un viso serissimo della pioggia e del bel tempo, si limitava a farle il suo briciolo di corte, domandandole con grande interesse di cose indifferentissime: se avesse fatto la sua gita in barca, se il giorno dopo sarebbe andata alla sua solita passeggiata mattutina verso i Campi Elisi.
- Ella lo guardò negli occhi senza mai rispondere.
Ei non insistette altro.
Erminia si era messa al piano, e tutti stavano intenti ad ascoltarla; Maria non aveva occhi che per lei, anche quando li fissava vagamente nelle fantasie dell'ignoto, perché era lei che le evocava quelle fantasie e l'affascinava con esse: la sala intera splendida e calda fremeva di armonia.
Erano di quei fatali momenti in cui il cuore si dilata con violenza dentro il petto e soverchia la ragione.
Maria rabbrividiva dalla testa ai piedi, accasciata nella poltrona, colla fronte nella mano, e Polidori le sussurrava sul capo parole ardenti che le facevano fremere come cosa animata i ricci dei capelli sulla nuca bianca.
La poveretta non vedeva più nulla, né la sala splendente, né la folla commossa, né gli occhi lucenti e penetranti di Erminia, e si abbandonò a quel che credeva il suo destino, senza forza, coll'occhio vitreo, come una morente.
- Sì! sì! - mormorò con un soffio.
Polidori si allontanò pian piano, per lasciarla rimettere, e andò a fumare la sua sigaretta nella sala del bigliardo.
La brezza del lago fece vacillare tutta notte le fiammelle dei candelabri posti sul caminetto di lei, che si guardava nello specchio per delle ore intere, senza vedersi, con occhi fissi, arsi dalla febbre.
Il signor Polidori passeggiava da un pezzo pel viale deserto in un'ora mattutina che gli ricordava un convegno di caccia; non si accorgeva del paesaggio incantevole per altra cosa che per sprofondarvi delle lunghe occhiate impazienti.
Di tratto in tratto si fermava in ascolto, e rizzava il capo proprio come un levriere.
Finalmente si udì un passo leggiero e timido di selvaggina elegante.
Maria giungeva, e appena scorse Polidori, sebbene sapesse di trovarlo là, si arrestò all'improvviso, sgomenta, immobile come una statua.
Il suo fine profilo arabo sembrava tagliare il velo fitto.
Polidori, a capo scoperto, si inchinò profondamente, senza osare di toccarle la mano, né di rivolgerle una sola parola.
Ella, anelante, turbata, sentiva per istinto quanto fosse imbarazzante il silenzio: - Sono stanca! - mormorò con voce rotta.
- L'emozione la soffocava.
Così dicendo seguitò ad inoltrarsi pel viale che saliva serpeggiando per la china del monte, ed ei le andava accanto, senza parlare, soggiogati entrambi da una forte commozione.
Così giunsero ad una specie di monumento funerario.
Maria si fermò ad un tratto appoggiando le spalle alla roccia e col viso fra le mani.
Infine scoppiò in lagrime.
Allora ei le prese le mani, e vi appoggiò lievemente le labbra, come uno schiavo.
Allorché sentì finalmente che il tremito di quelle povere manine andava calmandosi, le disse piano, ma con un'intonazione ineffabile di tenerezza:
- Dunque vi faccio paura?
- Voi non mi disprezzate ora? - disse Maria.
- Non è vero? -
Egli giunse le mani, in un'espressione ardente di passione ed esclamò:
- Io? Disprezzarvi io? -
Maria sollevò il viso disfatto e lo fissò con occhi sbarrati, e colle lagrime ancora sul viso mormorava confusamente parole insensate: - È la prima volta!...
ve lo giuro! - Ve lo giuro, signore!...
- Oh! - esclamò Polidori con impeto.
- Perché mi dite questo? a me che vi amo? che vi amo tanto! -
Quelle parole vibravano come cosa viva dentro di lei; un istante ella se le premé forte colle mani dentro il petto, chiudendo gli occhi; ma immediatamente le avvamparono in viso, come avessero compito in un lampo tutta la circolazione del suo sangue, e le avessero arso tutte le vene.
- No! no! - ripeteva; - ho fatto male, ho fatto assai male! sono stata una stordita.
Credetemi, signore! Non sono colpevole; sono stata una stordita; sono davvero una bimba, lo dicono tutti, lo dicono anche le mie amiche -.
La poverina cercava di sorridere, guardando di qua e di là stralunata.
- Ho bisogno che non mi disprezziate!
- Maria! - esclamò Polidori.
Ella trasalì, e si tirò indietro bruscamente, spaventata dall'udire il suo nome.
Polidori chino dinanzi a lei, umile, tenero, innamorato, le diceva:
- Come siete bella! e come è bella la vita che ha di questi momenti! -
Maria si passava le mani sugli occhi e pei capelli, confusa, smarrita, e s'accasciava su di sé stessa, e ripeteva quasi macchinalmente: - Se sapete che affare grosso è stato l'attraversare il viale, quel viale che ho fatto tutti i giorni.
Non avrei mai creduto che potesse essere così! Davvero! non credevo! - E sorrideva per farsi coraggio, senza osare di guardar lui, abbandonata contro il sasso che le faceva da spalliera, tirandosi i guanti sulle braccia, ancora leggermente convulse, e seguitava a chiacchierare a modo del fanciullo che canta di notte per le strade onde farsi coraggio.
- Sono stata disgraziata! sì, confesso che sono un cervellino strano! Ho delle pazze tendenze per quel mondo che forse non è altro se non un sogno, un sogno di gente inferma, sia pure! alle volte mi pare di soffocare fra tanta ragione in cui viviamo; sento il bisogno d'aria, di andarla a respirare in alto, dove è più pura ed azzurra.
Non è mia colpa se non mi persuado di esser matta, se non mi rassegno alla vita com'è, se non capisco gli interessi che preoccupano gli altri.
No! non ci ho colpa.
Ho fatto il possibile.
Sono in ritardo di parecchi secoli.
Avrei dovuto venire al mondo al tempo dei cavalieri erranti -.
Il suo leggiadro sorriso aveva una melanconica dolcezza e s'abbandonava senz'accorgersene all'incanto che contribuiva a crearsi ella stessa.
- Beato voi che potete vivere a modo vostro!
- Io vorrei vivere ai vostri piedi.
- Tutta la vita? - domandò ella ridendo.
- Tutta la vita.
- Badate che vi stanchereste, - gli rispose gaiamente.
- Voi dovrete stancarvi spesso! - ripeté Maria con uno sguardo che cercava di rendere ardito e sicuro.
Polidori la trovava deliziosa nel suo imbarazzo - soltanto quell'imbarazzo si prolungava troppo.
Prima di venire a quell'appuntamento, nell'istante supremo di passar l'uscio, Maria aveva provato tutte le pungenti emozioni che danno la curiosità dell'ignoto, l'attrattiva del male, il fascino dello sgomento che le serpeggiava nelle vene con brividi arcani e irresistibili; con una confusione tale di sentimenti e di idee, di impulsi e di terrore, che l'avevano spinta a precipitarsi nell'ignoto suo malgrado, in una specie di sonnambulismo, senza sapere precisamente cosa andasse a fare.
Se Polidori le avesse steso le braccia al primo vederla, probabilmente ella si sarebbe spaccata la testa contro la rupe alla quale adesso appoggiavasi mollemente, con abbandono.
Ora, incoraggiata dal vedersi ai piedi quell'uomo contrastato e invidiato, sentiva una deliziosa sensazione al contatto di quel muschio vellutato che le accarezzava le spalle; come le parole che egli le diceva tenere e ferventi le accarezzavano dolcemente l'orecchio e se ne sentiva invadere mollemente, come da un delizioso languore.
Egli era così gentile, così rispettoso e così buono! non osava toccarle la punta delle dita, e si contentava di sfiorarla dolcemente col soffio ardente di quella passione che lo teneva prostrato dinanzi a lei quasi dinanzi a un idolo.
Tutto ciò era senza ombra di male, e carino, carino.
A poco a poco Polidori le aveva preso la mano, ed ella senza accorgersene gliela aveva abbandonata.
Anche lui era sinceramente e fortemente commosso in quel momento, e cercava gli occhi di lei con occhi assetati ed ebbri.
Ella senza vederli ne sentiva la fiamma, non osava levare i suoi, e il riso le moriva sulle labbra; non aveva la forza di ritirare le mani ad ogni nuovo tentativo che faceva, quasi il suono di quelle parole le addormentasse vagamente in un sonno dolcissimo l'anima e la coscienza, la facesse entrare in un'estasi angosciosa; Polidori non poteva saziarsi di ammirarla in quell'atteggiamento, abbandonata su di se stessa, colle braccia inerti, la fronte china e il petto anelante, e infine esclamò con uno slancio di passione, stendendo le braccia convulse:
- Come siete bella, Maria, e come vi amo! -
Ella si rizzò di botto, seria e rigida, quasi sentisse dirselo per la prima volta.
- Voi lo sapete che vi amo tanto! da tanto tempo! - ripeteva lui.
Ella non rispondeva; curvando all'indietro tutta la persona, e a testa bassa, in atteggiamento sospettoso, colle sopracciglia aggrottate, agitando macchinalmente le mani, come se cercasse farsene schermo contro qualche cosa, colle labbra pallide e serrate.
Ad un tratto, levando gli occhi sul viso sconvolto di lui, incontrando quegli occhi, mise un strido soffocato, e si arretrò sino all'ingresso di quella specie di monumento sepolcrale, bianca di terrore, difendendosi colle braccia stese da quella passione che l'atterriva ora che vedeva cosa fosse, guardandola in faccia per la prima volta, balbettando:
- Signore!...
signore!...
-
Egli ripeteva fuori di sé, supplichevole, in un'implorazione affascinante di delirio e d'amore:
- Maria! Maria!...
- No! - ripeteva costei smarrita, - no!...
Polidori si arrestò di botto, e si passò due o tre volte la mano sulla fronte e sugli occhi con un gesto disperato.
Indi le disse con voce rauca:
- Voi non mi avete mai amato, Maria!
- No! no! lasciatemi andare! - ripeteva ella, quando Polidori s'era già allontanato.
- Signore!...
signore!...
Polidori subiva suo malgrado la forte commozione di quell'istante, ed era tutto tremante anch'esso come quella povera ingenua.
- Sentite, abbiamo fatto male! - ripeteva ella con voce convulsa.
- Abbiamo fatto male...
- e si sentiva venir meno.
In quel punto, all'improvviso, si udì rumore fra le piante e lo scalpiccìo di chi sopraveniva si arrestò poco lontano, come esitante.
- Maria! - esclamò una voce talmente alterata che nessuno di loro due la riconobbe: - Maria! -
Polidori, ridivenuto l'uomo di prima da un momento all'altro, prese vivamente Maria per un braccio e la spinse pel viale da dove era venuta la voce, e in un lampo scomparve fra gli andirivieni del sepolcreto.
Maria arrivando nel viale, si trovò faccia a faccia con Erminia, pallida anch'essa, che cercava a fatica di dissimulare il suo turbamento, e voleva spiegarle qualche cosa, dandosi un'aria indifferente.
Maria le piantò in viso certi occhi che avevano una strana espressione.
- Che vuoi? - le chiese soltanto, con voce sorda dopo alcuni istanti di un silenzio che sembrò eterno.
- Oh! Maria!...
- rispose Erminia, buttandole le braccia al collo.
E fu tutto.
Ritornarono indietro l'una al fianco dell'altra, senza aprire bocca e a capo chino.
Come furono in vista dell'albergo, sentirono tutte e due a un tempo di dover assumere un contegno.
- Lucia mi aveva detto ch'eri scesa in giardino, - disse Erminia, - e ciò mi ha fatto venire il desiderio di fare una passeggiata mattutina anch'io, col pretesto di venire in traccia di te.
- Grazie - rispose Maria semplicemente.
- Però comincia ad esser troppo tardi per passeggiare.
Il sole è già caldo -.
Maria infatti aveva preso un colpo di sole che l'aveva abbacinata e stordita.
Era rimasta come scossa e turbata in tutto il suo essere.
Alle volte macchinalmente si stringeva le mani, come per riconoscersi, o per cercarvi qualche cosa, un'impronta del passato, e chiudeva gli occhi.
Quando incontrava degli sguardi curiosi, e tutti le sembravano curiosi, oppure quelli della sua amica, avvampava in viso.
Stava rincantucciata nel suo appartamento il più che poteva, e quindi molti credevano che fosse partita.
La sola vista di Erminia le faceva corrugare la fronte, e dava un non so che di fosco a tutta la sua fisionomia.
Però era abbastanza donna di mondo per sapere dissimulare sino a un certo punto i suoi sentimenti, quali essi fossero.
Erminia, che non ne era illusa, provava un vero rammarico.
- Io son sempre la tua Erminia, sai! - le diceva ogni volta che poteva, scuotendole amorevolmente le mani.
- Io son sempre la tua Erminia, quella di prima! quella di sempre! -
Maria sorrideva a fior di labbra, gentile e distratta.
- Hai torto, vedi! - ripeteva Erminia.
- Ti inganni!...
t'inganni, se credi che io non ti voglia più il bene di prima! -
Ella aveva infatti delle sollecitudini materne per la sua Maria, delle sollecitudini che sovente indispettivano costei, come se prendessero l'aspetto di una sorveglianza amorevole e discreta.
Un giorno Erminia la sorprese mentre stava incominciando una lettera; e le domandò semplicemente se suo marito le avesse scritto; la domanda veniva così male a proposito, che Maria fu quasi per arrossire, come se fosse stata nel punto di dover rispondere una bugia.
- No! mio marito non mi guasta tanto.
È troppo occupato.
- Sì, è troppo occupato! - affermò Erminia senza rilevare l'ironia della risposta, - è seriamente occupato.
Affoga negli affari, poveretto!
- Che dici mai? se sono la sua passione, l'unica sua passione!
- Lo credi? - domandò Erminia, fissandole in faccia quei suoi occhioni acuti.
- Ma sì! - rispose Maria con un risolino che le contraeva gli angoli della bocca, e aggiunse ancora, come correttivo: - Non ho alcun motivo di esser gelosa però.
Mio marito non giuoca, non va al caffè, non è cacciatore, non ama i cavalli, non legge che il listino della Borsa - nulla, ti dico!
- È vero; non ama che te! -
Maria inchinò il capo con un sorrisetto contraffatto; ma non aggiunse verbo per un pezzo, e poi, amaramente:
- Avete ragione, sono anche un'ingrata!
- No, non sei ingrata; sei una donnina viziata, una testolina guasta, che vede falso in molte cose e che non ci vede in certe altre.
Il solo torto di tuo marito è di non averti aperto gli occhi sul gran bene che ti vuole.
- Fortunatamente che ha incaricato te di dirmelo.
- Sì, io che ti voglio bene, anch'io! bene davvero!...
Vuoi che partiamo domattina?
- Oooh!
- Ti rincresce?
- No, mi sorprende soltanto la risoluzione improvvisa, così come si fa nelle commedie, per le ragazze che hanno abbozzato un romanzetto...
- Scusami; ti ho proposto di venire con me...
Ma se vuoi restare...
- No, voglio venire anch'io.
Solamente bisogna trovare un pretesto plausibile, per non far pensare al romanzo a tutti i curiosi che ci vedranno ordinare così in furia le nostre valige.
- Il motivo è bello e trovato, tanto più che è il motivo vero.
Io vado ad incontrare mia suocera che arriva domani da Firenze, e tu naturalmente vieni con me, per non rimaner sola a Villa d'Este.
- Benissimo! E dacché dobbiamo partire, più presto sarà meglio sarà.
Desidero andare col primo treno -.
Partirono infatti di buon mattino.
A lei scoppiava il cuore passando dinanzi a quelle finestre chiuse, sulle quali l'ombra dei grandi alberi dormiva tuttora, uscendo da quel viale deserto, ove si era aggirata fantasticando tante volte.
Il lago, nella pace di quell'ora, aveva un incantesimo singolare, e ogni menomo particolare del paesaggio si animava, sembrava che fosse vissuto con lei, le si stampava nell'intimo del cuore profondamente.
Appena fu nel vagone aprì il libro che aveva portato apposta, e vi nascose il viso e gli occhi pieni di lagrime.
Erminia seppe non avvedersi di nulla, ed ebbe l'accortezza di lasciarle assaporare voluttuosamente il dolore del distacco.
Alla stazione trovarono la carrozza di Erminia, la quale volle accompagnare l'amica sino a casa.
- Rinaldi non è a Milano - le disse rispondendo al movimento di sorpresa che aveva fatto Maria non trovando nessuno ad aspettarla.
- È andato a Roma.
- Senza scrivermelo! senza lasciarmi una parola! - mormorò Maria.
- Sì, ha scritto.
La lettera deve averla mio marito -.
Ma subito s'interruppe, perché cominciava a spaventarsi dell'agitazione che si andava manifestando sul viso di Maria.
- Infine, - le disse, - tosto o tardi devi saperlo.
Rinaldi è corso a Roma per regolare degli affari...
Sai..
quando si è lontani non vanno sempre come dovrebbero andare.
Tuo marito era inquieto.
Colla sua gita accomoderà tutto.
- Cos'è stato? - balbettava Maria, turbata maggiormente da quell'annunzio perché la sorprendeva in quel momento.
- Cos'è avvenuto?
- Non ti spaventare; tuo marito sta bene.
È accaduto che uno dei suoi debitori è fallito.
Questione di denaro.
- Ah! - disse Maria respirando; e un'ombra d'ironia le tornò sul viso.
Suo marito sembrava che facesse apposta onde giustificare il sorrisetto amaro di lei.
Era così preoccupato del suo affare che non aveva più testa per nessun'altra cosa al mondo.
Passarono parecchi giorni senza che ei si facesse vivo altrimenti.
Alla fine arrivò un telegramma che mise in grande costernazione il socio di lui, il quale partì subito per Roma.
- Oh! - esclamò allora Maria con quell'intonazione pungente che le era divenuta abituale da otto giorni.
- Ma dev'essere proprio un affar serio! Del resto per mio marito sarà sempre un affar serio.
Vuol dire che il mio posto in questa circostanza, sarebbe vicino a lui.
Non me lo dice; ma si capisce che non me ne ha scritto nulla per delicatezza.
E giacché il socio è andato a raggiungerlo, dovrei partire anch'io -.
Malgrado la leggerezza che ostentava, fu sorpresa, e rimase inquieta osservando che Erminia approvava il suo progetto.
Per un istante un'idea nera le si affacciò alla mente e le scolorò il viso; ma subito dopo tornò a ridere nervosamente come prima.
- Se mio marito non mi avesse ben avvezzata a lasciarlo fare un po' a suo modo, ci sarebbe davvero di che spaventarsi.
- Spaventarsi di che? di fare un viaggio sino a Roma? nella bella stagione, e nel paese più bello?...
- Hai ragione; sarà quasi come andare in villeggiatura.
Tanto, Roma o la Brianza è lo stesso.
E tu non torni a Villa d'Este?
- No.
- Oh!...
- Accompagno mia suocera a Firenze.
- Che peccato!...
parlo di Villa d'Este, perché ci dev'essere una brillante compagnia in questo momento.
Sei proprio una brava figliuola, dovrebbe dirti tua suocera -.
La sera stessa partì per Roma; ma era in uno stato febbrile che non sapeva spiegarsi, e la sua inquietudine aumentava avvicinandosi al termine del suo viaggio che le parve eterno.
Trovò suo marito tanto mutato in così breve tempo, che al primo vederlo ne fu quasi spaventata.
Rinaldi le strinse le mani con effusione; ma sembrò più che sorpreso del suo arrivo improvviso.
Egli era così sconvolto che non faceva altro che ripeterle: - Perché sei venuta? Perché venire?...
-
- Non avevo mai visto mio marito così! - diceva Maria ad Erminia alcuni mesi dopo, la prima volta che la rivedeva dopo che era tornata a Milano.
- Non credevo che la fisonomia di quell'uomo potesse destare tale impressione, né che egli sapesse dire di quelle parole, né che la sua voce avesse di quei suoni che vi sconvolgono l'anima da cima a fondo -.
Non l'aveva mai visto così!
Anch'essa era molto mutata, la povera Maria! aveva una ruga impercettibile fra le sopracciglia, che solcava finamente il candore purissimo della sua fronte, e alle volte stendeva come un'ombra su tutta la sua fisonomia.
- Sì: sono stati giorni terribili, mi par di sentirmeli ancora dentro il petto, come un gruppo nero, come una fitta dolorosa che mi è quasi cara, tanto è profonda e radicata.
Ormai hanno stampato in me un'orma così indelebile che non potrei scancellarla senza farmi male.
Che momento, quando sorpresi mio marito colla pistola in pugno! che momento! E come ebbi la forza di avviticchiarmi a lui per impedirgli di morire - giacché egli voleva morire, me lo ha detto dopo.
Non aveva il coraggio di dirmi che non poteva più comperarmi né cavalli, né palco alla Scala, né gioielli, nulla! e piangeva, come piangono certi uomini che non hanno pianto mai, con quelle lagrime che vi scavano un solco dentro all'anima.
Quante cose mi son passate in un lampo per la testa in quel momento in cui sentivo contro il mio quel cuore che batteva ancora per me, e per me sola! e contro il quale nascondeva il viso che ardeva!...
Tu sei stata assai gentile a venirmi a trovare ora che sono salita a un quarto piano.
Tu sei stata molto gentile!
- Ma tu non lo sei gran fatto, cara Maria, facendomi di questi ringraziamenti.
Vuol dire che non avevi una bella opinione di me!
- No! ma che vuoi? quando si son viste tutte le cose che ho viste!...
e poi la disgrazia ha questo di peggio, che ci rende ingiusti...
Figurati che quando era corsa la voce che io fossi vedova!...
mi ha fatto un certo senso il vedere che a nessuno fosse venuto in mente che ero rimasta senza appoggio, laggiù a Roma...
nessuno di quelli che dicevano di avere per me tanta amicizia! Ma non mi lagno, sai! Avevo torto verso di te poi, ti voglio sempre bene! -
Esitò alquanto e infine le buttò le braccia al collo con impeto.
- Perdonami! perdonami! Sono stata ingiusta contro di te, contro di tutti! Ho avuto ragione tante volte! -
Erminia le ricambiava la stretta, assai commossa anche lei, ma senza risponder verbo.
- Ero folle! - mormorò dopo un'altra esitazione, col viso contro il petto di Erminia.
- Ora non ci penso più.
- Ed io non ci ho mai pensato, - disse alfine Erminia ridendo al suo solito, ma con grande sincerità di viso e di accento.
Maria rizzò il capo vivamente e le piantò in faccia due occhioni fiammeggianti: - Mai pensato? mai?
- Mai.
- Ma allora...
allora non l'ho amato nemmen io! No! davvero? Mai! -
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NOVELLE RUSTICANE (1883)
IL REVERENDO
Di reverendo non aveva più né la barba lunga, né lo scapolare di zoccolante, ora che si faceva radere ogni domenica, e andava a spasso colla sua bella sottana di panno fine, e il tabarro colle rivolte di seta sul braccio.
Allorché guardava i suoi campi, e le sue vigne, e i suoi armenti, e i suoi bifolchi, colle mani in tasca e la pipetta in bocca, se si fosse rammentato del tempo in cui lavava le scodelle ai cappuccini, e che gli avevano messo il saio per carità.
si sarebbe fatta la croce colla mano sinistra.
Ma se non gli avessero insegnato a dir messa, e a leggere e a scrivere per carità, non sarebbe riescito a ficcarsi nelle primarie casate del paese, né ad inchiodare nei suoi bilanci il nome di tutti quei mezzadri che lavoravano e pregavano Dio e la buon'annata per lui, e bestemmiavano poi come turchi al far dei conti.
"Guarda ciò che sono e non da chi son nato" dice il proverbio.
Da chi era nato lui, tutti lo sapevano, ché sua madre gli scopava tuttora la casa.
Il Reverendo non aveva la boria di famiglia, no; e quando andava a fare il tresette dalla baronessa, si faceva aspettare in anticamera dal fratello, col lanternone in mano.
Nel far del bene cominciava dai suoi, come Dio stesso comanda; e s'era tolta in casa una nipote, belloccia, ma senza camicia, che non avrebbe trovato uno straccio di marito; e la manteneva lui, anzi l'aveva messa nella bella stanza coi vetri alla finestra, e il letto a cortinaggio, e non la teneva per lavorare, o per sciuparsi le mani in alcun ufficio grossolano.
Talché parve a tutti un vero castigo di Dio, allorquando la poveraccia fu presa dagli scrupoli, come accade alle donne che non hanno altro da fare, e passano i giorni in chiesa a picchiarsi il petto pel peccato mortale - ma non quando c'era lo zio, ch'ei non era di quei preti i quali amano farsi vedere in pompa magna sull'altare dall'innamorata.
Le donne, fuori di casa, gli bastava accarezzarle con due dita sulla guancia, paternamente, o dallo sportellino del confessionario, dopo che s'erano risciacquata la coscienza, e avevano vuotato il sacco dei peccati propri ed altrui, ché qualche cosa di utile ci si apprendeva sempre, per dar la benedizione, uno che speculasse sugli affari di campagna.
Benedetto Dio! egli non pretendeva di essere un sant'uomo, no! I sant'uomini morivano di fame; come il vicario il quale celebrava anche quando non gli pagavano la messa; e andava attorno per le case de' pezzenti con una sottana lacera che era uno scandalo per la Religione.
Il Reverendo voleva portarsi avanti; e ci si portava, col vento in poppa; dapprincipio un po' a sghembo per quella benedetta tonaca che gli dava noia, tanto che per buttarla nell'orto del convento aveva fatta causa al Tribunale della Monarchia, e i confratelli l'avevano aiutato a vincerla per levarselo di torno, perché sin quando ci fu lui in convento volavano le panche e le scodelle in refettorio ad ogni elezione di provinciale; il padre Battistino, un servo di Dio robusto come un mulattiere, l'avevano mezzo accoppato, e padre Giammaria, il guardiano, ci aveva rimesso tutta la dentatura.
Il Reverendo, lui, stava chiotto in cella, dopo di aver attizzato il fuoco, e in tal modo era arrivato ad esser reverendo con tutti i denti, che gli servivano bene; e al padre Giammaria che era stato lui a ficcarsi quello scorpione nella manica, ognuno diceva: - Ben gli sta! -
Ma il padre Giammaria, buon uomo, rispondeva, masticandosi le labbra colle gengive nude:
- Che volete? Costui non era fatto per cappuccino.
È come papa Sisto, che da porcaio arrivò ad essere quello che fu.
Non avete visto ciò che prometteva da ragazzo? -
Per questo padre Giammaria era rimasto semplice guardiano dei Cappuccini, senza camicia e senza un soldo in tasca, a confessare per l'amor di Dio, e cuocere la minestra per i poveri.
Il Reverendo, da ragazzo, come vedeva suo fratello, quello del lanternone, rompersi la schiena a zappare, e le sorelle che non trovavano marito neanche a regalarle, e la mamma la quale filava al buio per risparmiar l'olio della lucerna, aveva detto: - Io voglio esser prete! - Avevano venduto la mula e il campicello, per mandarlo a scuola, nella speranza che se giungevano ad avere il prete in casa ci avevano meglio della chiusa e della mula.
Ma ci voleva altro per mantenerlo al seminario! Allora il ragazzo si mise a ronzare attorno al convento perché lo pigliassero novizio; e un giorno che si aspettava il provinciale, e c'era da fare in cucina, lo accolsero per dare una mano.
Padre Giammaria, il quale aveva il cuore buono, gli disse: - Ti piace lo stato? e tu stacci -.
E fra Carmelo, il portinaio, nelle lunghe ore d'ozio, che s'annoiava seduto sul muricciuolo del chiostro a sbattere i sandali l'un contro l'altro, gli mise insieme un po' di scapolare coi pezzi di saio buttati sul fico a spauracchio delle passere.
La mamma, il fratello e la sorella protestavano che se entrava frate era finita per loro, e ci rimettevano i denari della scuola, perché non gli avrebbero cavato più un baiocco.
Ma lui che era frate nel sangue, si stringeva le spalle, e rispondeva: - Sta a vedere che uno non può seguire la vocazione a cui Dio l'ha chiamato! -
Il padre Giammaria l'aveva preso a ben volere perché era lesto come un gatto in cucina, e in tutti gli uffici vili, persino nel servir la messa, quasi non avesse fatto mai altro in vita sua, cogli occhi bassi, e le labbra cucite come un serafino.
- Ora che non serviva più la messa aveva sempre quegli occhi bassi e quelle labbra cucite, quando si trattava di un affare scabroso coi signori, che c'era da disputarsi all'asta le terre del comune, o da giurare il vero dinanzi al Pretore.
Di giuramenti, nel 1854, dovette farne uno grosso davvero, sull'altare, davanti alla pisside, mentre diceva la santa messa, ché la gente lo accusava di spargere il colèra, e voleva fargli la festa.
- Per quest'ostia consacrata che ho in mano - disse lui ai fedeli inginocchiati sulle calcagna - sono innocente , figliuoli miei! Del resto vi prometto che il flagello cesserà fra una settimana.
Abbiate pazienza! -
Sì, avevano pazienza! per forza dovevano averla! Poiché egli era tutt'uno col giudice e col capitan d'armi, e il re Bomba gli mandava i capponi a Pasqua e a Natale per disobbligarsi, dicevasi; e gli aveva mandato anche il contravveleno, caso mai succedesse una disgrazia.
Una vecchia zia che aveva dovuto tirarsi in casa, per non fare mormorare il prossimo, e non era più buona che a mangiare il pane a tradimento, aveva sturato una bottiglia per un'altra, e acchiappò il colèra bell'e buono; ma il nipote stesso, per non fare insospettir la gente, non aveva potuto amministrarle il contravveleno.
- Dammi il contravveleno! dammi il contravveleno! - supplicava la vecchia, già nera come il carbone, senza aver riguardo al medico ed al notaio ch'erano lì presenti, e si guardavano in faccia imbarazzati.
Il Reverendo, colla faccia tosta, quasi non fosse fatto suo, borbottava stringendosi nelle spalle: - Non le date retta, che sta delirando -.
Il contravveleno, se pur ce l'aveva, il re glielo aveva mandato sotto suggello di confessione, e non poteva darlo a nessuno.
Il giudice in persona era andato a chiederglielo ginocchioni per sua moglie che moriva, e s'era sentito rispondere dal Reverendo:
- Comandatemi della vita, amico caro; ma per cotesto negozio, proprio, non posso servirvi -.
Questa era storia che tutti la sapevano, e siccome sapevano che a furia di intrighi e d'abilità era arrivato ad essere l'amico intrinseco del re, del giudice e del capitan d'armi, che aveva la polizia come l'Intendente, e i suoi rapporti arrivavano a Napoli senza passar per le mani del Luogotenente, nessuno osava litigare con lui, e allorché gettava gli occhi su di un podere da vendere, o su di un lotto di terre comunali che si affittavano all'asta, gli stessi pezzi grossi del paese, se s'arrischiavano a disputarglielo, lo facevano coi salamelecchi, e offrendogli una presa di tabacco.
Una volta, col barone istesso, durarono una mezza giornata a tira e molla.
Il barone faceva l'amabile, e il Reverendo seduto in faccia a lui, col tabarro raccolto fra le gambe, ad ogni offerta d'aumento gli presentava la tabacchiera d'argento, sospirando: - Che volete farci, signor barone.
Qui è caduto l'asino, e tocca a noi tirarlo su -.
Finché si pappò l'aggiudicazione, e il barone tirò su la presa, verde dalla bile.
Cotesto l'approvavano i villani, perché i cani grossi si fanno sempre la guerra fra di loro, se capita un osso buono, e ai poveretti non resta mai nulla da rosicare.
Ma ciò che li faceva mormorare era che quel servo di Dio li smungesse peggio dell'anticristo, allorché avevano da spartire con lui, e non si faceva scrupolo di chiappare la roba del prossimo, perché gli arnesi della confessione li teneva in mano e se cascava in peccato mortale poteva darsi l'assoluzione da sé.
- Tutto sta ad averci il prete in casa! - sospiravano.
E i più facoltosi si levavano il pan di bocca per mandare il figliuolo al seminario.
- Quando uno si dà alla campagna, bisogna che ci si dia tutto, - diceva il Reverendo, onde scusarsi se non usava riguardi a nessuno.
E la messa stessa lui non la celebrava altro che la domenica, quando non c'era altro da fare, che non era di quei pretucoli che corrono dietro al tre tarì della messa.
Lui non ne aveva bisogno.
Tanto che Monsignor Vescovo, nella visita pastorale, arrivando a casa sua, e trovandogli il breviario coperto di polvere, vi scrisse su col dito "deo gratias"! Ma il Reverendo aveva altro in testa che perdere il tempo a leggere il breviario, e se ne rideva del rimprovero di Monsignore.
Se il breviario era coperto di polvere, i suoi buoi erano lucenti, le pecore lanute, e i seminati alti come un uomo, che i suoi mezzadri almeno se ne godevano la vista, e potevano fabbricarvi su dei bei castelli in aria, prima di fare i conti col padrone.
I poveretti slargavano tanto di cuore.
- Seminati che sono una magìa! Il Signore ci è passato di notte! Si vede che è roba di un servo di Dio e conviene lavorare per lui che ci ha in mano la messa e la benedizione! - In maggio, all'epoca in cui guardavano in cielo per scongiurare ogni nuvola che passava, sapevano che il padrone diceva la messa pella raccolta, e valeva più delle immagini dei santi, e dei pani benedetti per scacciare il malocchio e la malannata.
Anzi il Reverendo non voleva che spargessero i pani benedetti pel seminato, perché non servono che ad attirare i passeri e gli altri uccelli nocivi.
Delle immagini sante poi ne aveva le tasche piene, giacché ne pigliava quante ne voleva in sagrestia, di quelle buone, senza spendere un soldo, e le regalava ai suoi contadini.
Ma alla raccolta, giungeva a cavallo, insieme a suo fratello, il quale gli faceva da campiere, collo schioppo ad armacollo, e non si muoveva più, dormiva lì, nella malaria, per guardare ai suoi interessi, senza badare neanche a Cristo.
Quei poveri diavoli, che nella bella stagione avevano dimenticato i giorni duri dell'inverno, rimanevano a bocca aperta sentendosi sciorinare la litania dei loro debiti.
- Tanti rotoli di fave che tua moglie è venuta a prendere al tempo della neve.
- Tanti fasci di sarmenti consegnati al tuo figliuolo.
- Tanti tumoli di grano anticipati per le sementi - coi frutti - a tanto il mese.
- Fa il conto -.
Un conto imbrogliato.
Nell'anno della carestia, che lo zio Carmenio ci aveva lasciato il sudore e la salute nelle chiuse del Reverendo, gli toccò di lasciarvi anche l'asino, alla messe, per saldare il debito, e se ne andava a mani vuote, bestemmiando delle parolacce da far tremare cielo e terra.
Il Reverendo, che non era lì per confessare, lasciava dire, e si tirava l'asino nella stalla.
Dopo che era divenuto ricco aveva scoperto nella sua famiglia, la quale non aveva mai avuto pane da mangiare, certi diritti ad un beneficio grasso come un canonicato, e all'epoca dell'abolizione delle manimorte aveva chiesto lo svincolo e s'era pappato il podere definitivamente.
Solo gli seccava per quei denari che si dovevano pagare per lo svincolo, e dava del ladro di Governo il quale non rilascia gratis la roba dei beneficii a chi tocca.
Su questa storia del Governo egli aveva dovuto inghiottir della bile assai, fin dal 1860, quando avevano fatto la rivoluzione, e gli era toccato nascondersi in una grotta come un topo, perché i villani, tutti quelli che avevano avuto delle quistioni con lui, volevano fargli la pelle.
In seguito era venuta la litania delle tasse, che non finiva più di pagare, e il solo pensarci gli mutava in tossico il vino a tavola.
Ora davano addosso al Santo Padre, e volevano spogliarlo del temporale.
Ma quando il Papa mandò la scomunica per tutti coloro che acquistassero beni delle manimorte, il Reverendo sentì montarsi la mosca al naso, e borbottò:
- Che c'entra il Papa nella roba mia? Questo non ci ha a far nulla col temporale.
- E seguitò a dir la santa messa meglio di prima.
I villani andavano ad ascoltare la sua messa, ma pensavano senza volere alle ladrerie del celebrante, e avevano delle distrazioni.
Le loro donne, mentre gli confessavano i peccati, non potevano fare a meno di spifferargli sul mostaccio:
- Padre, mi accuso di avere sparlato di voi che siete un servo di Dio, perché quest'inverno siamo rimasti senza fave e senza grano a causa vostra.
- A causa mia! Che li faccio io il bel tempo o la malannata? Oppure devo possedere le terre perché voialtri ci seminiate e facciate i vostri interessi? Non ne avete coscienza, né timore di Dio? Perché ci venite allora a confessarvi? Questo è il diavolo che vi tenta per farvi perdere il sacramento della penitenza.
Quando vi mettete a fare tutti quei figliuoli non ci pensate che son tante bocche che mangiano? Ve li ho fatti far io tutti quei figliuoli? Io mi son fatto prete per non averne -.
Però assolveva, come era obbligo suo; ma nondimeno nella testa di quella gente rozza restava qualche confusione fra il prete che alzava la mano a benedire in nome di Dio, e il padrone che arruffava i conti, e li mandava via dal podere col sacco vuoto e la falce sotto l'ascella.
- Non c'è che fare, non c'è che fare - borbottavano i poveretti rassegnati.
- La brocca non ci vince contro il sasso, e col Reverendo non si può litigare, ché lui sa la legge! -
Se la sapeva! Quand'erano davanti al giudice, coll'avvocato, egli chiudeva la bocca a tutti col dire: - La legge è così e così -.
Ed era sempre come giovava a lui.
Nel buon tempo passato se ne rideva dei nemici, degli invidiosi.
Avevano fatto un casa del diavolo, erano andati dal vescovo, gli avevano gettato in faccia la nipote, massaro Carmenio e la roba malacquistata, gli avevano fatto togliere la messa e la confessione.
Ebbene? E poi? Egli non aveva bisogno del vescovo né di nessuno.
Egli aveva il fatto suo ed era rispettato come quelli che in paese portano la battuta; egli era di casa della baronessa, e più facevano del chiasso intorno a lui, peggio era lo scandalo.
I pezzi grossi non vanno toccati, nemmeno dal vescovo, e ci si fà di berretto, per prudenza, e per amor della pace.
Ma dopo che era trionfata la eresia, colla rivoluzione, a che gli serviva tutto ciò? I villani che imparavano a leggere e a scrivere, e vi facevano il conto meglio di voi; i partiti che si disputavano il municipio, e si spartivano la cuccagna senza un riguardo al mondo; il primo pezzente che poteva ottenere il gratuito patrocinio, se aveva una quistione con voi, e vi faceva sostener da solo le spese del giudizio! Un sacerdote non contava più né presso il giudice , né presso il capitano d'armi; adesso non poteva nemmeno far imprigionare con una parolina, se gli mancavano di rispetto, e non era più buono che a dir messa, e confessare, come un servitore del pubblico.
Il giudice aveva paura dei giornali, dell'opinione pubblica, di quel che avrebbero detto Caio e Sempronio, e trinciava giudizi come Salomone! Perfino la roba che si era acquistata col sudore della fronte gliela invidiavano, gli avevano fatto il malocchio e la iettatura; quel po' di grazia di Dio che mangiava a tavola, gli dava gran travaglio, la notte, mentre suo fratello, il quale faceva una vita dura, e mangiava pane e cipolla, digeriva meglio di uno struzzo, e sapeva che di lì a cent'anni, morto lui, sarebbe stato il suo erede, e si sarebbe trovato ricco senza muovere un dito.
La mamma, poveretta, non era più buona a nulla, e campava per penare e far penare gli altri, inchiodata nel letto dalla paralisi, che bisognava servir lei piuttosto; e la nipote istessa, grassa, ben vestita, provvista di tutto, senza altro da fare che andare in chiesa, lo tormentava, quando le saltava in capo di essere in peccato mortale, quasi ei fosse di quegli scomunicati che avevano spodestato il Santo Padre, e gli aveva fatto levar la messa dal vescovo.
- Non c'è più religione, né giustizia, né nulla! - brontolava il Reverendo come diventava vecchio.
- Adesso ciascuno vuol dir la sua.
Chi non ha nulla vorrebbe chiapparvi il vostro.
- Levati di lì, che mi ci metto io! - Chi non ha altro da fare viene a cercarvi le pulci in casa.
I preti vorrebbero ridurli a sagrestani, dir messa e scopare la chiesa.
La volontà di Dio non vogliono farla più, ecco cos'è! -
COS'È IL RE
Compare Cosimo il lettighiere aveva governato le sue mule, allungate un po' le cavezze per la notte, steso un po' di strame sotto i piedi della baia, la quale era sdrucciolata due volte sui ciottoli umidi delle viottole di Grammichele, dal gran piovere che aveva fatto, e poi era andato a mettersi sulla porta dello stallatico, colle mani in tasca, a sbadigliare in faccia alla gente che era venuta per vedere il Re, e c'era tal via vai quella volta per le strade di Caltagirone che pareva la festa di San Giacomo; però stava coll'orecchio teso, e non perdeva d'occhio le sue bestie, le quali si rosicavano l'orzo adagio adagio, perché non glielo rubassero.
Giusto in quel momento vennero a dirgli che il Re voleva parlargli.
Veramente non era il Re che voleva parlargli, perché il Re non parla con nessuno, ma uno di coloro per bocca dei quali parla il Re, quando ha da dire qualche cosa; e gli disse che Sua Maestà desiderava la sua lettiga, l'indomani all'alba, per andare a Catania, e non voleva restare obbligato né al vescovo, né al sottointendente, ma preferiva pagar di sua tasca, come uno qualunque.
Compare Cosimo avrebbe dovuto esserne contento, perché il suo mestiere era di fare il lettighiere, e proprio allora stava aspettando che venisse qualcuno a noleggiare la sua lettiga, e il Re non è di quelli che stanno a lesinare per un tarì dippiù o di meno, come tanti altri.
Ma avrebbe preferito tornarsene a Grammichele colla lettiga vuota, tanto gli faceva specie di dovervi portare il Re nella lettiga, che la festa gli si cambiò tutta in veleno soltanto a pensarci, e non si godette più la luminaria, né la banda che suonava in piazza, né il carro trionfale che girava per le vie, col ritratto del Re e della Regina, né la chiesa di San Giacomo tutta illuminata, che sputava fiamme, e ove c'era il Santissimo esposto, e si suonavano le campane pel Re.
Anzi più grande era la festa e più gli cresceva in corpo la paura di doverci avere il Re proprio nella sua lettiga, e tutti quei razzi, quella folla, quella luminaria e quello scampanìo se li sentiva sullo stomaco, e non gli fecero chiudere occhio tutta la notte, che la passò a visitare i ferri della baia, a strigliar le mule e a rimpinzarle d'orzo sino alla gola, per metterle in vigore, come se il Re pesasse il doppio di tutti gli altri.
Lo stallatico era pieno di soldati di cavalleria, con tanto di speroni ai piedi, che non se li levavano neppure per buttarsi a dormire sulle panchette, e a tutti i chiodi dei pilastri erano appese sciabole e pistole che il povero zio Cosimo pareva gli dovessero tagliare la testa con quelle, se per disgrazia una mula avesse a scivolare sui ciottoli umidi della viottola mentre portava il Re; e giusto era venuta tanta acqua dal cielo in quei giorni che la gente doveva avere addosso la rabbia di vedere il Re per mettersi in viaggio sino a Caltagirone con quel tempaccio.
Per conto suo, com'è vero Dio, in quel momento avrebbe preferito trovarsi nella sua casuccia, dove le mule ci stavano strette nella stalla, ma si sentivano a rosicar l'orzo dal capezzale del letto, e avrebbe pagato quelle due onze che doveva buscarsi dal Re per trovarsi nel suo letto, coll'uscio chiuso, e stare a vedere col naso sotto le coperte, sua moglie affaccendarsi col lume in mano, a rassettare ogni cosa per la notte.
All'alba lo fece saltar su da quel dormiveglia la tromba dei soldati che suonava come un gallo che sappia le ore, e metteva in rivoluzione tutto lo stallatico.
I carrettieri rizzavano la testa dal basto messo per guanciale, i cani abbaiavano, e l'ostessa si affacciava dal fienile tutta sonnacchiosa, grattandosi la testa.
Ancora era buio come a mezzanotte, ma la gente andava e veniva per le strade quasi fosse la notte di Natale, e i trecconi accanto al fuoco, coi lampioncini di carta dinanzi, battevano coltellacci sulle panchette per vendere il torrone.
Ah, come doveva godersi la festa tutta quella gente che comprava il torrone, e si strascinava stanca e sonnacchiosa per le vie ad aspettare il Re, e come vedeva passare la lettiga colle sonagliere e le nappine di lana, spalancava gli occhi, e invidiava compare Cosimo, il quale avrebbe visto il Re sul mostaccio, mentre sino allora nessuno aveva potuto avere quella sorte, da quarantott`ore che la folla stava nelle strade notte e giorno, coll'acqua che veniva giù come Dio la mandava.
La chiesa di San Giacomo sputava ancora fuoco e fiamme, in cima alla scalinata che non finiva più, aspettando il Re, per dargli il buon viaggio, e suonava con tutte le sue campane per dirgli che era ora di andarsene.
Che non li spegnevano mai quei lumi? e che aveva il braccio di ferro quel sagrestano per suonare a distesa notte e giorno? Intanto nel piano di San Giacomo spuntava appena l`alba cenerognola, e la valle era tutta un mare di nebbia; eppure la folla era fitta come le mosche, col naso nel cappotto, e appena vide arrivare la lettiga voleva soffocare compare Cosimo e le sue mule, che credeva ci fosse dentro il Re.
Ma il Re si fece aspettare un bel pezzo; a quell'ora forse si infilava i calzoni, o beveva il suo bicchierino d'acquavite, per risciacquarsi la gola, che compare Cosimo non ci aveva pensato nemmeno quella mattina, tanto si sentiva la gola stretta.
Un'ora dopo arrivò la cavalleria, colle sciabole sfoderate, e fece far largo.
Dietro la cavalleria si rovesciò un'altra ondata di gente, e poi la banda, e poi ancora dei galantuomini, e delle signore col cappellino, e il naso rosso dal freddo; e accorrevano persino i trecconi, colle panchette in testa, a piantar bottega per cercar di vendere un altro po' di torrone; tanto che nella gran piazza non ci sarebbe entrato più uno spillo, e le mule non avrebbero nemmeno potuto scacciarsi le mosche, se non fosse stata la cavalleria a far fare largo, e per giunta la cavalleria portava un nugolo di mosche cavalline, di quelle che fanno imbizzarrire le mule di una lettiga, talché compare Cosimo si raccomandava a Dio e alle anime del Purgatorio ad ognuna che ne acchiappava sotto la pancia delle sue bestie.
Finalmente si udì raddoppiare lo scampanìo, quasi le campane fossero impazzate, e i mortaletti che sparavano al Re, e arrivò correndo un'altra fiumana di gente, e si vide spuntare la carrozza del Re, la quale in mezzo la folla pareva galleggiasse sulle teste.
Allora suonarono le trombe e i tamburi, e ricominciarono a sparare i mortaletti, che le mule, Dio liberi, volevano romper i finimenti e ogni cosa sparando calci; i soldati tirarono fuori le sciabole, giacché le avevano messe nel fodero un'altra volta, e la folla gridava: - La regina, la regina! È quella piccolina lì, accanto a suo marito che non par vero! -
Il Re invece era un bel pezzo d'uomo, grande e grosso, coi calzoni rossi e la sciabola appesa alla pancia; e si tirava dietro il vescovo, il sindaco, il sottointendente, e un altro sciame di galantuomini coi guanti e il fazzoletto da collo bianco, e vestiti di nero che dovevano averci la tarantola nelle ossa con quel po' di tramontana che spazzava la nebbia dal piano di San Giacomo.
Il Re stavolta, prima di montare a cavallo, mentre sua moglie entrava nella lettiga, parlava con questo e con quello come se non fosse stato fatto suo, e accostandosi a compare Cosimo gli batté anche colla mano sulla spalla, e gli disse tale e quale, col suo parlare napoletano: - Bada che porti la tua regina! - che compare Cosimo si sentì rientrare le gambe nel ventre, tanto più che in quel momento si udì un grido da disperati, la folla ondeggiò come un mare di spighe, e si vide una giovinetta, vestita ancora da monaca, e pallida pallida, buttarsi ai piedi del Re, e gridare: - Grazia! - Chiedeva la grazia per suo padre, il quale si era dato le mani attorno per buttare il Re giù di sella, ed era stato condannato ad aver tagliata la testa.
Il Re disse una parola ad uno che gli era vicino, e bastò perché non tagliassero la testa al padre della ragazza.
Così ella se ne andò tutta contenta, che dovettero portarla via svenuta dalla consolazione.
Vuol dire che il Re con una sua parola poteva far tagliare la testa a chi gli fosse piaciuto, anche a compare Cosimo se una mula della lettiga metteva un piede in fallo, e gli buttava giù la moglie, così piccina com'era.
Il povero compare Cosimo aveva tutto ciò davanti agli occhi, mentre andava accanto alla baia colla mano sulla stanga, e l'abito della Madonna fra le labbra, che si raccomandava a Dio, come fosse in punto di morte, mentre tutta la carovana, col Re, la Regina e i soldati, si era messa in viaggio in mezzo alle grida e allo scampanìo, e allo sparare dei mortaletti che si udivano ancora dalla pianura; talché quando furono arrivati giù nella valle, in cima al monte si vedeva ancora la folla nera brulicare al sole come se ci fosse stata la fiera del bestiame nel piano di San Giacomo.
A che gli giovava il sole e la bella giornata a compare Cosimo? se ci aveva il cuore più nero del nuvolo, e non si arrischiava di levare gli occhi dai ciottoli su cui le mule posavano le zampe come se camminassero sulle uova; né stava a guardare come venissero i seminati, né a rallegrarsi nel veder pendere i grappoli delle ulive, lungo le siepi, né pensava al gran bene che avea fatto tutta quella pioggia della settimana, ché gli batteva il cuore come un martello soltanto al pensare che il torrente poteva essere ingrossato, e dovevano passarlo a guado! Non si arrischiava a mettersi a cavalcioni sulle stanghe, come soleva fare quando non portava la sua regina, e lasciarsi cadere la testa sul petto a schiacciare un sonnellino, sotto quel bel sole e colla strada piana che le mule l'avrebbero fatta ad occhi chiusi; mentre le mule che non avevano giudizio, e non sapevano quel che portassero, si godevano la strada piana ed asciutta, il sole tiepido e la campagna verde, scondizolavano e scuotevano allegramente le sonagliere, che per poco non si mettevano a trottare, e compare Cosimo si sentiva saltare lo stomaco alla gola dalla paura soltanto al vedere mettere in brio le sue bestie, senza un pensiero al mondo né della Regina, né di nulla.
La Regina, lei, badava a chiacchierare con un'altra signora che le avevano messo in lettiga per ingannare il tempo, in un linguaggio che nessuno ci capiva una maledetta; guardava la campagna cogli occhi azzurri come il fiore del lino e appoggiava allo sportello una mano così piccina che pareva fatta apposta per non aver nulla da fare; che non valeva la pena di riempire d'orzo le mule per portare quella miseria, regina tal quale era! Ma ella poteva far tagliare il collo alla gente con una sola parola, così piccola com'era, e le mule che non avevano giudizio con quel carico leggiero, e tutto quell'orzo che avevano nella pancia, provavano una gran tentazione di mettersi a saltare e ballare per la strada, e di far tagliare la testa a compare Cosimo.
Sicché il poveraccio per tutta la strada non fece che recitare fra i denti paternostri e avemarie, e raccomandarsi ai suoi morti, quelli che conosceva e quelli che non conosceva, fin quando arrivarono alla Zia Lisa, che era accorsa una gran folla a vedere il Re, e davanti ad ogni bettola c'era il suo pezzo di maiale appeso e scuoiato per la festa.
Come arrivò a casa sua, dopo aver consegnata la regina sana e salva, non gli pareva vero, e baciò la sponda della mangiatoia legandovi le mule; poi si mise in letto senza mangiare e senza bere, ché non voleva vedere nemmeno i danari della regina, e li avrebbe lasciati nella tasca del giubbone chissà quanto tempo, se non fosse stato per sua moglie che andò a metterli in fondo alla calza sotto il pagliericcio.
Gli amici e i conoscenti, che erano curiosi di sapere come erano fatti il Re e la Regina, venivano a domandargli del viaggio, col pretesto d'informarsi se aveva acchiappato la malaria.
Egli non voleva dir nulla, che gli tornava la febbre soltanto a parlarne, e il medico veniva mattina e sera, e si prese circa la metà di quei danari della regina.
Solamente molti anni dopo, quando vennero a pignorargli le mule in nome del Re, perché non aveva potuto pagare il debito, compare Cosimo non si dava pace pensando che pure quelle erano le mule che gli avevano portato la moglie sana e salva, al Re, povere bestie; e allora non c'erano le strade carrozzabili, ché la Regina si sarebbe rotto il collo, se non fosse stato per la sua lettiga, e la gente diceva che il Re e la Regina erano venuti apposta in Sicilia per fare le strade, che non ce n'erano ancora, ed era una porcheria.
Ma allora campavano i lettighieri, e compare Cosimo avrebbe potuto pagare il debito, e non gli avrebbero pignorato le mule, se non veniva il Re e la Regina a far le strade carrozzabili.
E più tardi, quando gli presero il suo Orazio, che lo chiamavano Turco, tanto era nero e forte, per farlo artigliere, e quella povera vecchia di sua moglie piangeva come una fontana, gli tornò in mente quella ragazza ch'era venuta a buttarsi a' piedi del Re gridando - grazia! - e il Re con una parola l'aveva mandata via contenta.
Né voleva capire che il Re d'adesso era un altro, e quello vecchio l'avevano buttato giù di sella.
Diceva che se fosse stato lì il Re, li avrebbe mandati via contenti, lui e sua moglie, proprio sul mostaccio, coi calzoni rossi, e la sciabola appesa alla pancia, e con una parola poteva far tagliare il collo alla gente, e mandare puranco a pignorare le mule, se uno non pagava il debito, e pigliarsi i figliuoli per soldati, come gli piaceva.
DON LICCIU PAPA
Le comari filavano al sole, e le galline razzolavano nel pattume, davanti agli usci, allorché successe un gridìo, un fuggi fuggi per tutta la stradicciuola, che si vide comparire da lontano lo zio Masi, l'acchiappaporci, col laccio in mano; e il pollame scappava schiamazzando, come se lo conoscesse.
Lo zio Masi si buscava dal municipio 50 centesimi per le galline, e 3 lire per ogni maiale che sorprendeva in contravvenzione.
Egli preferiva i maiali.
E come vide la porcellina di comare Santa, stesa tranquillamente col muso nel brago, di contro all'uscio, gli gittò al collo il nodo scorsoio.
- Ah! Madonna santissima! Cosa fate, zio Masi! - gridava la zia Santa, pallida come una morta.
Per carità, zio Masi, non mi acchiappate la multa, che mi rovinate! -
Lo zio Masi, il traditore, per pigliarsi il tempo di caricarsi la maialina sulle spalle, le sballava di belle parole: - Sorella mia, che posso farvi? Questo è l'ordine del sindaco.
Maiali per le strade non ne vuole più.
Se vi lascio la porcellina perdo il pane -.
La zia Santa gli correva dietro come una pazza, colle mani nei capelli, strillando sempre: - Ah! zio Masi! non lo sapete che mi è costata 14 tarì a San Giovanni, e la tengo come la pupilla degli occhi miei! Lasciatemi la maialina, zio Masi, per l'anima dei vostri morti! Che all'anno nuovo, coll'aiuto di Dio, vale due onze! -
Lo zio Masi, zitto, a capo chino, col cuore più duro di un sasso, badava solo dove metteva i piedi, per non isdrucciolare nella mota, colla maialina di traverso sulle spalle, che grugniva rivolta al cielo.
Allora la zia Santa, disperata, per salvare la porcellina, gli assestò un solenne calcio nella schiena, e lo fece andare ruzzoloni.
Le comari, appena videro l'acchiappaporci in mezzo al fango, gli furono addosso colle rocche e colle ciabatte, e volevano fargli la festa per tutti i porci e le galline che aveva sulla coscienza.
Ma in questa accorse don Licciu Papa, colla tracolla dello sciabolotto attraverso la pancia, gridando da lontano come un ossesso, fuori tiro delle rocche: - largo alla Giustizia! largo alla Giustizia! -
La Giustizia condannò comare Santa alla multa ed alle spese, e per ischivare la prigione dovettero anche ricorrere alla protezione del barone, il quale aveva la finestra di cucina lì di faccia nella stradicciuola, e la salvò per miracolo, facendo vedere alla Giustizia che non era il caso di ribellione, perché l'acchiappaporci quel giorno non aveva il berretto col gallone del municipio.
Vedete! - esclamarono in coro le donne.
- Ci vogliono i santi per entrare in Paradiso! Questa del berretto nessuno la sapeva! -
Però il barone aggiunse il predicozzo: - Quei porci e quelle galline bisognava spazzarli via dal vicinato; il sindaco aveva ragione, ché sembrava un porcile -.
D'allora in poi, ogni volta che il servo del barone buttava la spazzatura sul capo alle vicine, nessuna mormorava.
Soltanto si dolevano che le galline chiuse in casa, per scansare la multa, non fossero più buone chiocce, e i maiali, legati per un piede accanto al letto, parevano tante anime del purgatorio.
- Almeno prima la spazzavano loro la stradicciuola.
- Tutto quel concime sarebbe tant'oro per la chiusa dei Grilli! - sospirava massaro Vito.
- Se avessi ancora la mula baia, spazzerei la strada colle mie mani -.
Anche qui c'entrava don Licciu Papa.
Egli era venuto a pignorare la mula coll'usciere, che dall'usciere solo massaro Vito non se la sarebbe lasciata portar via dalla stalla, nemmen se l'ammazzavano, e gli avrebbe piuttosto mangiato il naso come il pane.
Lì, davanti al giudice, seduto al tavolino, che pareva Ponzio Pilato, quando massaro Venerando l'aveva citato per riscuotere il credito della mezzeria, non seppe che rispondere.
La chiusa dei Grilli era buona soltanto per far grilli; il minchione era lui, se era tornato dalla mèsse a mani vuote, e massaro Venerando aveva ragione di voler esser pagato, senza tante chiacchiere e tante dilazioni, perciò aveva portato l'avvocato, che parlava per lui.
Ma com'ebbe finito, e massaro Venerando se ne andava lieto, dondolandosi dentro gli stivaloni come un'anitra ingrassata, non poté stare di domandare al cancelliere se era vero che gli vendevano la mula.
- Silenzio! - interruppe il giudice che si soffiava il naso, prima di passare a un altro affare.
Don Licciu Papa si svegliò di soprassalto sulla panchetta, e gridò: - Silenzio!
- Se foste venuto coll'avvocato, vi lasciavano parlare ancora, - gli disse compare Orazio per confortarlo.
Sulla piazza, dinanzi agli scalini del municipio, il banditore gli vendeva la mula.
- Quindici onze la mula di compare Vito Gnirri! Quindici onze una bella mula baia! Quindici onze! -
Compare Vito, seduto sugli scalini, col mento fra le mani, non voleva dir nulla che la mula era vecchia, ed era più di 16 anni che gli lavorava.
Essa stava lì contenta come una sposa, colla cavezza nuova.
Ma appena gliela portaron via davvero, ei perse la testa, pensando che quell'usuraio di massaro Venerando gli acchiappava 15 onze per una sola annata di mezzeria, che tanto non ci valeva la chiusa dei Grilli, e senza la mula ormai non poteva più lavorare la chiusa, e all'anno nuovo si sarebbe trovato di nuovo col debito sulle spalle.
Ei si mise a gridare come un disperato sul naso a massaro Venerando.
- Cosa mi farete pignorare, quando non avrò più nulla? anticristo che siete! - E voleva levargli il battesimo dalla testa, se non fosse stato per don Licciu Papa lì presente, collo sciabolotto e il berretto gallonato, il quale si mise a gridare tirandosi indietro: - Fermo alla Giustizia! - Fermo alla Giustizia!
- Che Giustizia! - strillava compare Vito tornando a casa colla cavezza in mano.
- La Giustizia è fatta per quelli che hanno da spendere -.
Questo lo sapeva anche curatolo Arcangelo, che quando era stato in causa col Reverendo per via della casuccia, perché il Reverendo voleva comprargliela per forza, tutti gli dicevano: - Che siete matto a pigliarvela col Reverendo? È la storia della brocca contro il sasso! Il Reverendo coi suoi denari si affitta la meglio lingua d'avvocato, e vi riduce povero e pazzo -.
Il Reverendo, dacché s'era fatto ricco, aveva ingrandito la casuccia paterna, di qua e di là, come fa il porcospino che si gonfia per scacciare i vicini dalla tana.
Ora aveva slargata la finestra che dava sul tetto di curatolo Arcangelo, e diceva che gli bisognava la casa di lui per fabbricarvi sopra la cucina e mutare la finestra in uscio.
- Vedete, compare Arcangelo mio, senza cucina non ci posso stare! Bisogna che siate ragionevole -.
Compare Arcangelo non lo era punto, e si ostinava a pretendere di voler morire nella casa dove era nato.
Tanto, non ci veniva che una volta al sabato; ma quei sassi lo conoscevano, e se pensava al paese, nei pascoli del Carramone, non lo vedeva altrimenti che sotto forma di quell'usciolo rattoppato, e di quella finestra senza vetri.
- Va bene, va bene, - rispondeva fra di sé il Reverendo.
- Teste di villani! Bisogna farci entrare la ragione per forza -.
E dalla finestra del Reverendo piovevano sul tetto di curatolo Arcangelo cocci di stoviglie, sassi, acqua sporca; e riducevano il cantuccio dov'era il letto peggio di un porcile.
Se curatolo Arcangelo gridava, il Reverendo si metteva a gridare sul tetto, più forte di lui.
- Che non poteva più tenerci un vaso di basilico sul davanzale? Non era padrone d'inaffiare i suoi fiori?
Curatolo Arcangelo aveva la testa dura peggio dei suoi montoni, e ricorse alla Giustizia.
Vennero il giudice, il cancelliere, e don Licciu Papa, a vedere se il Reverendo era padrone d'inaffiare i suoi fiori, che quel giorno non ci erano più alla finestra, e il Reverendo aveva il solo disturbo di levarli ogni volta che doveva venire la Giustizia, e rimetterli al loro posto appena voltava le spalle.
Il giudice stesso non poteva passare il tempo a far la guardia al tetto di curatolo Arcangelo, o ad andare e venire dalla straduccia; ogni sua visita costava cara.
Restava la quistione di sapere se la finestra del Reverendo doveva essere coll'inferriata o senza inferriata, e il giudice, e il cancelliere, e tutti, guardavano cogli occhiali sul naso, e pigliavano misure che pareva un tetto di barone, quel tettuccio piatto e ammuffato.
E il Reverendo tirò pure fuori certi diritti vecchi per la finestra senza inferriata, e per alcune tegole che sporgevano sul tetto, che non ci si capiva più nulla, e il povero curatolo Arcangelo guardava in aria anche lui, per capacitarsi che colpa avesse il suo tetto.
Ei ci perse il sonno della notte e il riso della bocca; si dissanguava a spese, e doveva lasciare la mandra in custodia del ragazzo per correre dietro al giudice e all'usciere.
Per giunta le pecore gli morivano come le mosche, ai primi freddi dell'inverno, ché il Signore lo castigava perché se la pigliava colla Chiesa, dicevano.
- E voi pigliatevi la casa, - disse infine al Reverendo, che dopo tante liti e tante spese non gliene avanzava il danaro da comprarsi la corda per impiccarsi a un travicello.
Voleva mettersi in collo la sua bisaccia e andarsene colla figliola a stare colle pecore, ché quella maledetta casa non voleva vederla più, finché era al mondo.
Ma allora uscì in campo il barone, l'altro vicino, il quale ci aveva anche lui delle finestre e delle tegole sul tetto di curatolo Arcangelo, e giacché il Reverendo voleva fabbricarsi la cucina, egli aveva pure bisogno di allargare la dispensa, sicché il povero capraio non sapeva più di chi fosse la sua casa.
Ma il Reverendo trovò il modo di aggiustare la lite col barone, dividendosi da buoni amici fra di loro la casa di curatolo Arcangelo, e poiché costui ci aveva anche quest'altra servitù, gli ridusse il prezzo di un buon quarto.
Nina, la figlia di curatolo Arcangelo, come dovevano lasciare la casa e andarsene via dal paese, non finiva di piangere, quasi ci avesse avuto il cuore attaccato a quei muri e a quei chiodi delle pareti.
Suo padre, poveraccio, tentava di consolarla come meglio poteva, dicendole che laggiù, nelle grotte del Carramone, ci si stava da principi, senza vicini e senza acchiappaporci.
Ma le comari, che sapevano tutta la storia, si strizzavano l'occhio fra di loro borbottando:
- Al Carramone il signorino non potrà più andarla a trovare, di sera, quando compare Arcangelo è colle sue pecore.
Per questo la Nina piange come una fontana -.
Come lo seppe compare Arcangelo cominciò a bestemmiare e a gridare: - Scellerata! adesso con chi vuoi che ti mariti? -
Ma la Nina non pensava a maritarsi.
Voleva soltanto continuare a stare dov'era il signorino, che lo vedeva tutti i giorni alla finestra, appena si alzava, e gli faceva segno se poteva andare a trovarla la sera.
In tal modo la Nina c'era cascata, col veder tutti i giorni alla finestra il signorino, che dapprincipio le rideva, e le mandava i baci e il fumo della pipa, e le vicine schiattavano d'invidia.
Poscia a poco a poco era venuto l'amore, talché adesso la ragazza non ci vedeva più dagli occhi, e aveva detto chiaro e tondo a suo padre:
- Voi andatevene dove volete, che io me ne sto qui dove sono -.
E il signorino le aveva promesso che la campava lui.
Curatolo Arcangelo di quel pane non ne mangiava, e voleva chiamare don Licciu Papa per condur via a forza la figliuola.
- Almeno quando saremo via di qui, nessuno saprà le nostre disgrazie, - diceva.
Ma il giudice gli rispose che la Nina aveva già gli anni del giudizio, ed era padrona di fare quel che gli pareva e piaceva.
- Ah! È padrona? - borbottava curatolo Arcangelo.
- Anch'io son padrone! - E appena incontrò il signorino, che gli fumava sul naso, gli spaccò la testa come una noce con una legnata.
Dopo che l'ebbero legato ben bene, accorse don Licciu Papa, gridando: - Largo alla Giustizia! largo alla Giustizia! -
Davanti alla Giustizia gli diedero anche un avvocato, per difendersi.
- Almeno stavolta la Giustizia non mi costa nulla; - diceva compare Arcangelo.
E fu meglio per lui.
L'avvocato riuscì a provare come quattro e quattro fanno otto, che curatolo Arcangelo non l'aveva fatto apposta, di cercare d'ammazzare il signorino, con un randello di pero selvatico, ch'era del suo mestiere, e se ne serviva per darlo sulle corna ai montoni quando non volevano intender ragione.
Così fu condannato soltanto a 5 anni, la Nina rimase col signorino, il barone allargò la sua dispensa, e il Reverendo fabbricò una bella casa nuova su quella vecchia di curatolo Arcangelo, con un balcone e due finestre verdi.
IL MISTERO
Questa, ogni volta che tornava a contarla, gli venivano i lucciconi allo zio Giovanni, che non pareva vero, su quella faccia di sbirro.
Il teatro l'avevano piantato nella piazzetta della chiesa: mortella, quercioli, ed anche rami interi d'ulivo, colla fronda, tal quale, ché nessuno si era rifiutato a lasciar pigliare la sua roba pel Sacro Mistero.
Lo zio Memmu, al vedere nella sua chiusa il sagrestano a stroncare e scavezzare rami interi, si sentiva quei colpi di scure nello stomaco, e gli gridava da lontano:
- Che non siete cristiano, compare Calogero? o non ve l'ha messo il prete l'olio santo, per dare così senza pietà su quell'ulivastro? - Ma sua moglie, pur colle lagrime agli occhi, andava calmandolo:
- È pel Mistero; lascialo fare.
Il Signore ci manderà la buon'annata.
Non vedi quel seminato che muore di sete? -
Tutto giallo, del verde-giallo che hanno i bambini malati, poveretto! sulla terra bianca e dura come una crosta, che se lo mangiava, e vi faceva venire l'arsura in gola al solo vederlo.
- Questa è tutta opera di don Angelino, brontolava il marito, per farsi la provvista della legna, e chiapparsi i soldi della limosina -.
Don Angelino, il pievano, aveva lavorato otto giorni come un facchino, col sagrestano, a scavar buche, rincalzar pali, appendere lampioncini di carta rossa, e sciorinare in fondo il cortinaggio nuovo di massaro Nunzio, che si era maritato allora allora, e faceva un ben vedere nel bosco e coi lampioni davanti.
Il Mistero rappresentava la Fuga in Egitto, e la parte di Maria Santissima l'avevano data a compare Nanni, che era piccolo di statura, e si era fatta radere la barba apposta.
Appena compariva, portando in collo Gesù Bambino, ch'era il figlio di comare Menica, e diceva ai ladri: "Ecco il mio sangue!" la gente si picchiava il petto coi sassi, e si mettevano a gridare tutti in una volta: - Miseremini mei, Vergine Santa! - Ma Janu e mastro Cola, che erano i ladri, colle barbe finte di pelle d'agnello, non davano retta, e volevano rapirle il Sacro Figlio per portarlo ad Erode.
Quelli aveva saputo sceglierli il pievano, da fare i ladri! Veri cuori di sasso erano! ché il Pinto, nella lite che aveva con compare Janu pel fico dell'orto, gli rinfacciava d'allora in poi: - Voi siete il ladro della Fuga in Egitto! -
Don Angelino, collo scartafaccio in mano, badava a ripetere dietro il tendone di massaro Nunzio:
"Vano, o donna, è il pregar; pietà non sento! - Pietà non sento!" - Tocca a voi, compare Janu -; ché quei due furfanti avevano persino dimenticata la parte, tal razza di gente erano! Maria Vergine aveva un bel pregare e scongiurarli, ché nella folla borbottavano:
- Compare Nanni fa il minchione perché è vestito da Maria Santissima.
Se no li infilerebbe tutti e due col coltello a serramanico che ci ha in tasca -.
Ma come entrò in scena San Giuseppe, con quella barba bianca di bambagia, il quale andava cercando la sua sposa in mezzo al bosco che gli arrivava al petto, la folla non sapeva più star ferma, perché ladri, Madonna, e San Giuseppe avrebbero potuto acchiapparsi colle mani, se il Mistero non fosse stato che dovevano corrersi dietro senza raggiungersi.
Qui stava il miracolo - Se i malandrini arrivavano ad acchiappare la Madonna e San Giuseppe, tutti insieme, ne facevano tonnina, ed anche del bambino Gesù, Dio liberi!
Comare Filippa, la quale ci aveva il marito in galera per avere ammazzato a colpi di zappa il vicino della vigna, quello che gli rubava i fichidindia, piangeva come una fontana, al vedere San Giuseppe inseguìto dai ladri peggio di un coniglio, e pensava a suo marito, quando gli era arrivato alla capannuccia della vigna tutto trafelato, coi gendarmi alle calcagna, e gli aveva detto:
- Dammi un sorso d'acqua.
Non ne posso più! -
Poi l'avevano ammanettato come Gesù all'orto, e l'avevano chiuso nella stia di ferro, per fargli il processo, col berretto fra le mani, e i capelli divenuti per intero una boscaglia grigia in tanti mesi di prigione - l'aveva ancora negli occhi - che ascoltava i giudici e i testimoni con quella faccia gialla di carcerato.
E quando se l'erano portato via per mare, che non ci era mai stato, il poveretto, colla sporta in spalla, e legato coi compagni di galera, a resta come le cipolle, egli si era voltato a guardarla per l'ultima volta con quella faccia, finché non la vide più, ché dal mare non torna nessuno, e non se ne seppe più nulla.
- Voi lo sapete dove egli sia adesso, Madre Addolorata! - biascicava la vedova del vivo inginocchiata sulle calcagna, pregando pel poveretto, che gli pareva di vederlo, là, lontano, nel nero.
Ella sola poteva sapere che razza di angoscia doveva esserci nel cuore della Madonna, in quel momento che i ladri erano lì lì per agguantare San Giuseppe pel mantello.
- Ora state a vedere l'incontro del patriarca San Giuseppe coi malandrini! - diceva don Angelino asciugandosi il sudore col fazzoletto da naso.
E Trippa, il macellaio, picchiava sulla grancassa - zum! zum! zum! - per far capire che i ladri si accapigliavano con San Giuseppe.
Le comari si misero a strillare, e gli altri raccattavano dei sassi, per rompere il grugno a quei due birbanti di Janu e di compare Cola, gridando:
- Lasciate stare il patriarca San Giuseppe! sbirri che siete! - E massaro Nunzio, per amore del cortinaggio, gridava anche lui che non glielo sfondassero.
Don Angelino allora affacciò la testa dalla sua tana, colla barba lunga di otto giorni, affannandosi a calmarli colle mani e colle parole:
- Lasciateli fare! lasciateli fare! Così è scritto nella parte -.
Bella parte che aveva scritto! e diceva pure che era tutta roba di sua invenzione.
Già lui avrebbe messo Cristo in croce colle sue mani per chiappargli i tre tarì della messa.
O compare Rocco, un padre di cinque figli, non l'aveva fatto seppellire senza uno straccio di mortorio, perché non poteva spillargli nulla? - là, sotto la pietra della chiesa, di sera, al buio, che non ci si vedeva a calarlo giù nella sepoltura, per l'eternità.
- E allo zio Menico non aveva espropriata la casuccia, perché era fabbricata sulla sciara della chiesa, e ci pesava addosso un censo di due tarì all'anno che lo zio Menico non era riescito a pagar mai? Allorché aveva fabbricato la casuccia, tutto contento, trasportando i sassi colle sue mani, non gli passava per la testa che un giorno o l'altro il pievano glie la avrebbe fatta vendere per quei due tarì del censo.
Due tarì all'anno infine cosa sono? Il difficile era di metterli insieme tutti e due alla scadenza, e don Angelino gli rispondeva, stringendosi nelle spalle:
- Cosa posso farci, fratel mio? Non è roba mia; è roba della Chiesa -.
Tale e quale come mastro Calogero, il sagrestano, il quale ripeteva:
- Altare servi, altare ti dà pane - diceva lui.
Adesso s'era appeso alla fune del campanile e suonava a tutto andare, mentre Trippa batteva sulla gran cassa, e le donne vociferavano: - Miracolo! Miracolo! -
Qui lo zio Giovanni sentivasi rizzare in capo i vecchi peli, al rammentare.
Giusto un anno dopo, giorno per giorno, la vigilia del venerdì santo, Nanni e mastro Cola s'incontrarono in quello stesso luogo, di notte, che c'era la luna di Pasqua, e ci si vedeva chiaro come di giorno nella piazzetta.
Nanni stava appiattato dietro il campanile, per sorprendere chi andasse da comare Venera, ché due o tre volte l'aveva sorpresa tutta sossopra e discinta, e aveva sentito qualcuno sgattaiolarsela dal cancello dell'orto.
- Chi c'era qui con te? È meglio dirmelo.
Se vuoi bene ad un altro, io me ne vado via, e buona notte ai suonatori.
Ma sai, quelle cose in testa non voglio portarle! -
Ella protestava che non era vero, giurava per l'anima di suo marito, e chiamava a testimoni il Signore e la Madonna appesi a capo del letto, e baciava colle mani in croce quella medesima sottana di cotonina celeste che aveva imprestato a compare Nanni per fare la Maria.
- Pensaci! pensaci bene a quello che mi dici! - Egli non sapeva che la Venera s'era incapricciata di mastro Cola quando l'aveva visto a fare il ladro del Mistero colla barba di pelle d'agnello.
- Or bene, - pensò allora - qui bisogna mettersi alla posta del coniglio come il cacciatore, per accertarsi della cosa cogli occhi propri -.
La donna aveva detto all'altro: - Guardatevi di compare Nanni.
Egli ci ha in testa qualche cosa, al modo che mi guarda, e come fruga per la casa ogni volta che arriva! - Cola aveva la madre sulle spalle, che campava del suo lavoro, e non s'arrischiava più di andare da comare Venera; - un giorno, due, tre, finché il diavolo lo tentò colla luna che trapelava sino al letto dalle fessure delle imposte, e gli metteva dinanzi agli occhi ad ogni momento la stradicciuola deserta, e l'uscio della vedova, allo svoltare della piazzetta di faccia al campanile.
Nanni aspettava, nell'ombra, solo in mezzo alla piazza tutta bianca di luna, e in un silenzio che si udiva suonare ogni quarto d'ora l'orologio di Viagrande, e il trotterellare dei cani che andavano fiutando ad ogni cantuccio e frugavano col muso nella spazzatura.
Infine si udì una pedata, rasente i muri, fermarsi all'uscio della Venera, e bussar piano, una, due volte, e poi più lieve ed in fretta, come uno che gli batte il cuore dal desiderio e dalla paura, e Nanni si sentiva picchiare anche lui dentro il petto quei colpi.
Poi l'uscio si schiuse, adagio adagio, con uno spiraglio più nero dell'ombra, e si udì una schioppettata.
Mastro Cola cadde gridando: - Mamma mia! m'ammazzarono! -
Nessuno udì né vide nulla, per timore della giustizia; la stessa comare Venera disse che dormiva.
Soltanto la madre, all'udir la schioppettata, si sentì colpita nelle viscere, e corse come si trovava, a raccattare Cola dall'uscio della vedova, gridando - Figlio mio! figlio mio! - I vicini si affacciarono coi lumi, e solo rimaneva chiuso quell'uscio contro il quale la madre disperata imprecava così: - Scellerata! scellerata! Mi hai assassinato il figliuolo! -
La madre, ginocchioni accanto al letto del ferito, pregava Dio, giungendo le mani forte forte, cogli occhi asciutti che sembrava una pazza: - Signore! Signore! Mio figlio, Signore! - Ah! che mala Pasqua le aveva dato il Signore! Giusto il venerdì santo, mentre passava la processione, col tamburo e don Angelino incoronato di spine! Ah! che nero faceva in quella casa! e dall'uscio aperto si vedeva il sole, e i seminati belli, ché la gente quella volta non aveva avuto bisogno di pregare Dio per la buona annata, e lasciava solo don Angelino a battersi le spalle colla disciplina; anzi quando il sagrestano era andato a far legna col pretesto del Mistero, l'avevano minacciato di rompergli le gambe a sassate, se non andava via lesto.
- Nella sua casa solo si piangeva! ora che tutti erano contenti! Nella sua casa sola! Buttata lì davanti a quel lettuccio come un sacco di cenci, disfatta, diventata decrepita tutta in una volta, coi capelli grigi, pendenti di qua e di là della faccia.
E non udiva nessuno della gente che riempiva la stanza per curiosità.
Non vedeva altro che quegli occhi appannati del figliuolo e quel naso affilato.
Gli avevano chiamato il medico; ci avevano condotta comare Barbara, quella della buona ventura, e la povera madre s'era levati di bocca tre tarì per fargli dire una messa da don Angelino.
Il medico scrollava il capo.
- Qui ci vuol altro che la messa di don Angelino; - dicevano le comari - qui ci vorrebbe il cotone benedetto di fra' Sanzio l'eremita, oppure la candela della Madonna di Valverde, che fa miracoli dappertutto -.
Il ferito, col cotone benedetto sullo stomaco, e la candela davanti alla faccia gialla, spalancava gli occhi appannati, guardando i vicini ad uno ad uno, e cercava di sorridere alla mamma, colle labbra pallide, per farle intendere che si sentiva meglio davvero, con quel cotone miracoloso sullo stomaco.
Egli accennava di sì col capo, con quel sorriso tanto triste dei moribondi che dicono di star meglio.
Il medico invece diceva di no; che non avrebbe passato la notte.
E don Angelino, per non screditare la mercanzia, ripeteva:
- Ci vuole la fede per fare i miracoli.
Se non c'è la fede è come lavare la testa all'asino.
I santi, le reliquie, il cotone benedetto, tutte belle cose quando si ha la fede -.
La povera madre ne aveva tanta della fede, che parlava a tu per tu coi Santi e la Madonna, e diceva alla candela benedetta, presto presto e coi denti stretti: - Signore! Signore! Voi me la farete la grazia! Voi mi lascerete il mio figliuolo.
Signore! - E il figliuolo ascoltava, intento, cogli occhi fissi sulla candela, e cercava di sorridere, e dire di sì col capo anche lui.
Tutto il villaggio impazzì a strologare i numeri di quel fatto: ma chi ci vinse l'ambo fu solo la gnà Venera.
Anzi ci avrebbe preso il terno se ci metteva anche il sangue che si era trovato nella piazzetta, poiché mastro Cola annaspando e barcollando era andato a cascare giusto nel punto dove l'anno prima aveva fatto il ladro del Mistero.
Però la gnà Venera dovette spatriare dal paese, perché nessuno gli comperava più il pane del panchetto, e la chiamavano "la scomunicata".
Compare Nanni, anche lui durò un pezzo a scappare di qua e di là, per le sciare e le chiuse, ma alla prima fame dell'inverno lo avevano acchiappato di notte vicino alle prime case del paese, dove aspettava il ragazzo che soleva portargli il pane di nascosto.
Gli fecero il processo e se lo portarono di là del mare, col marito di comare Filippa.
Anche lui, se non avesse pensato di mettersi la gonnella della "scomunicata" per fare la Beata Vergine!
MALARIA
E' vi par di toccarla colle mani - come dalla terra grassa che fumi, là, dappertutto, torno torno alle montagne che la chiudono, da Agnone al Mongibello incappucciato di neve - stagnante nella pianura, a guisa dell'afa pesante di luglio.
Vi nasce e vi muore il sole di brace, e la luna smorta, e la Puddara, che sembra navigare in un mare che svapori, e gli uccelli e le margherite bianche della primavera, e l'estate arsa, e vi passano in lunghe file nere le anitre nel nuvolo dell'autunno, e il fiume che luccica quasi fosse di metallo, fra le rive larghe e abbandonate, bianche, slabbrate, sparse di ciottoli; e in fondo il lago di Lentini, come uno stagno, colle sponde piatte, senza una barca, senza un albero sulla riva, liscio ed immobile.
Sul greto pascolano svogliatamente i buoi, rari, infangati sino al petto, col pelo irsuto.
Quando risuona il campanaccio della mandra, nel gran silenzio, volan via le cutrettole, silenziose, e il pastore istesso, giallo di febbre, e bianco di polvere anche lui, schiude un istante le palpebre gonfie, levando il capo all'ombra dei giunchi secchi.
È che la malaria v'entra nelle ossa col pane che mangiate, e se aprite bocca per parlare, mentre camminate lungo le strade soffocanti di polvere e di sole, e vi sentite mancar le ginocchia, o vi accasciate sul basto della mula che va all'ambio, colla testa bassa.
Invano Lentini, e Francofonte, e Paternò, cercano di arrampicarsi come pecore sbrancate sulle prime colline che scappano dalla pianura, e si circondano di aranceti, di vigne, di orti sempre verdi; la malaria acchiappa gli abitanti per le vie spopolate, e li inchioda dinanzi agli usci delle case scalcinate dal sole, tremanti di febbre sotto il pastrano, e con tutte le coperte del letto sulle spalle.
Laggiù, nella pianura, le case sono rare e di aspetto malinconico, lungo le strade mangiate dal sole, fra due mucchi di concime fumante, appoggiate alle tettoie crollanti, dove aspettano coll'occhio spento, legati alla mangiatoia vuota, i cavalli di ricambio.
- O sulla sponda del lago, colla frasca decrepita dell'osteria appesa all'uscio, le grandi stanzucce vuote, e l'oste che sonnecchia accoccolato sul limitare, colla testa stretta nel fazzoletto, spiando ad ogni svegliarsi, nella campagna deserta, se arriva un passeggiero assetato.
- Oppure come cassette di legno bianco, impennacchiate da quattro eucalipti magri e grigi, lungo la ferrovia che taglia in due la pianura come un colpo d'accetta, dove vola la macchina fischiando al pari di un vento d'autunno, e la notte corruscano scintille infuocate.
- O infine qua e là, sul limite dei poderi segnato da un pilastrino appena squadrato, coi tetti appuntellati dal di fuori, colle imposte sconquassate, dinanzi all'aia screpolata, all'ombra delle alte biche di paglia dove dormono le galline colla testa sotto l'ala, e l'asino lascia cascare il capo, colla bocca ancora piena di paglia, e il cane si rizza sospettoso, e abbaia roco al sasso che si stacca dall'intonaco, alla lucertola che striscia, alla foglia che si muove nella campagna inerte.
La sera, appena cade il sole, si affacciano sull'uscio uomini arsi dal sole, sotto il cappellaccio di paglia e colle larghe mutande di tela, sbadigliando e stirandosi le braccia; e donne seminude, colle spalle nere, allattando dei bambini già pallidi e disfatti, che non si sa come si faranno grandi e neri, e come ruzzeranno sull'erba quando tornerà l'inverno, e l'aia diverrà verde un'altra volta, e il cielo azzurro e tutt'intorno la campagna riderà al sole.
E non si sa neppure dove stia e perché ci stia tutta quella gente che alla domenica corre per la messa alle chiesuole solitarie, circondate dalle siepi dei fichidindia, a dieci miglia in giro, sin dove si ode squillare la campanella fessa nella pianura che non finisce mai.
Però dov'è la malaria è terra benedetta da Dio.
In giugno le spighe si coricano dal peso, e i solchi fumano quasi avessero sangue nelle vene appena c'entra il vomero in novembre.
Allora bisogna pure che chi semina e chi raccoglie caschi come una spiga matura, perché il Signore ha detto: "Il pane che si mangia bisogna sudarlo".
Come il sudore della febbre lascia qualcheduno stecchito sul pagliericcio di granoturco, e non c'è più bisogno di solfato né di decotto d'eucalipto, lo si carica sulla carretta del fieno, o attraverso il basto dell'asino, o su di una scala, come si può, con un sacco sulla faccia, e si va a deporlo alla chiesuola solitaria, sotto i fichidindia spinosi di cui nessuno perciò mangia i frutti.
Le donne piangono in crocchio, e gli uomini stanno a guardare, fumando.
Così s'erano portato il camparo di Valsavoia, che si chiamava massaro Croce, ed erano trent'anni che inghiottiva solfato e decotto d'eucalipto.
In primavera stava meglio, ma d'autunno, come ripassavano le anitre, egli si metteva il fazzoletto in testa, e non si faceva più vedere sull'uscio che ogni due giorni; tanto che si era ridotto pelle ed ossa, e aveva una pancia grossa come un tamburo, che lo chiamavano il Rospo anche pel suo fare rozzo e selvatico, e perché gli erano diventati gli occhi smorti e a fior di testa.
Egli diceva sempre prima di morire: - Non temete, che pei miei figli il padrone ci penserà! - E con quegli occhiacci attoniti guardava in faccia ad uno ad uno coloro che gli stavano attorno al letto, l'ultima sera, e gli mettevano la candela sotto il naso.
Lo zio Menico, il capraio, che se ne intendeva, disse che doveva avere il fegato duro come un sasso e pesante un rotolo e mezzo.
Qualcuno aggiungeva pure:
- Adesso se ne impipa! ché s'è ingrassato e fatto ricco a spese del padrone, e i suoi figli non hanno bisogno di nessuno! Credete che l'abbia preso soltanto pei begli occhi del padrone tutto quel solfato e tutta quella malaria per trent'anni? -
Compare Carmine, l'oste del lago, aveva persi allo stesso modo i suoi figliuoli tutt'e cinque, l'un dopo l'altro, tre maschi e due femmine.
Pazienza le femmine! Ma i maschi morivano appunto quando erano grandi, nell'età di guadagnarsi il pane.
Oramai egli lo sapeva; e come le febbri vincevano il ragazzo, dopo averlo travagliato due o tre anni, non spendeva più un soldo, né per solfato né per decotti, spillava del buon vino e si metteva ad ammanire tutti gli intingoli di pesce che sapeva, onde stuzzicare l'appetito al malato.
Andava apposta colla barca a pescare la mattina, tornava carico di cefali, di anguille grosse come il braccio, e poi diceva al figliuolo, ritto dinanzi al letto e colle lagrime agli occhi: - Tè! mangia! - Il resto lo pigliava Nanni, il carrettiere per andare a venderlo in città.
- Il lago vi dà e il lago vi piglia! - Gli diceva Nanni, vedendo piangere di nascosto compare Carmine.
- Che volete farci, fratel mio? - Il lago gli aveva dato dei bei guadagni.
E a Natale, quando le anguille si vendono bene, nella casa in riva al lago, cenavano allegramente dinanzi al fuoco, maccheroni, salsiccia e ogni ben di Dio, mentre il vento urlava di fuori come un lupo che abbia fame e freddo.
In tal modo coloro che restavano si consolavano dei morti.
Ma a poco a poco andavano assottigliandosi così che la madre divenne curva come un gancio dai crepacuori, e il padre che era grosso e grasso, stava sempre sull'uscio, onde non vedere quelle stanzacce vuote, dove prima cantavano e lavoravano i suoi ragazzi.
L'ultimo rimasto non voleva morire assolutamente, e piangeva e si disperava allorché lo coglieva la febbre, e persino andò a buttarsi nel lago dalla paura della morte.
Ma il padre che sapeva nuotare lo ripescò, e lo sgridava che quel bagno freddo gli avrebbe fatto tornare la febbre peggio di prima.
- Ah! - singhiozzava il giovanetto colle mani nei capelli, - per me non c'è più speranza! per me non c'è più speranza! - Tutto sua sorella Agata, che non voleva morire perché era sposa! - osservava compare Carmine di faccia a sua moglie, seduta accanto al letto; e lei, che non piangeva più da un pezzo, confermava col capo, curva al pari di un gancio.
Lei, ridotta a quel modo, e suo marito grasso e grosso avevano il cuoio duro, e rimasero soli a guardar la casa.
La malaria non ce l'ha contro di tutti.
Alle volte uno vi campa cent'anni, come Cirino lo scimunito, il quale non aveva né re né regno, né arte né parte, né padre né madre, né casa per dormire, né pane da mangiare, e tutti lo conoscevano a quaranta miglia intorno, siccome andava da una fattoria all'altra, aiutando a governare i buoi, a trasportare il concime, a scorticare le bestie morte, a fare gli uffici vili; e pigliava delle pedate e un tozzo di pane; dormiva nei fossati, sul ciglione dei campi, a ridosso delle siepi, sotto le tettoie degli stallazzi; e viveva di carità, errando come un cane senza padrone, scamiciato e scalzo, con due lembi di mutande tenuti insieme da una funicella sulle gambe magre e nere; e andava cantando a squarciagola
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