TUTTE LE NOVELLE, di Giovanni Verga - pagina 6
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- Che hai? - mi disse.
- Nulla, - risposi, - c'è troppa luce qui -.
Ella, povera ragazza, moderò la fiamma della lucerna.
Non si avvedeva del turbamento che c'era in me, e non avea paura della funesta avidità con la quale i miei occhi la divoravano.
Parlava sorridente, giuliva, come un uccelletto innamorato canta su di un ramoscello; mi raccontò la sua storia, una di quelle storie che l'angelo custode ascolta sorridendo.
Aveva amato il cugino con cui l'avevo vista al veglione, era venuta colla zia da Lecco per lui, e il cugino, in capo a due o tre giorni di esitazione, le avea fatto capire bellamente che non l'amava più.
Allora, dopo le prime lagrime, ella avea pensato a quello sconosciuto che al veglione della Scala l'avea guardata in quel modo.
- Io ti ho letto negli occhi che ti piacevo, - mi disse, - e ti sorrisi perché ciò mi rendeva tutta lieta; in quel momento avevo un gran dolore in cuore.
Se mio cugino avesse seguitato ad amarmi, io non te lo avrei mai detto, ma ti avrei sempre voluto bene come ad un fratello.
Ora che mio cugino non vuol saperne più di me...
ebbene, anch'io voglio amare chi più mi piace! - Tossiva di quanto in quanto, le guance le si imporporavano, e gli occhi le si facevano umidi.
- Non mi dire che mi sposerai, se vuoi lasciarmi come quell'altro...
Sono stata tanto malata! - Addio! - le dissi.
- Tornerai domani? La zia va dalle mie cugine, non aver paura; tornerai? - Addio -.
Non la vidi più.
Sentii che mi sarei trovato umile e basso dinanzi alla fiducia e all'entusiasmo di quell'amore che non dividevo più.
E sentivo del pari di aver perduto irremissibilmente un tesoro.
In novembre ricevetti una lettera listata di nero; era lo stesso carattere che aveva scritto seguitemi; le mani mi tremavano prima d'aprirla: Se volete ripetere l'addio che deste ad una mascherina all'ultimo veglione della Scala, scrivevami, recatevi al Cimitero fra una settimana, e cercate della croce sulla quale sarà scritto X.
Quella lettera, per un caso che farebbe credere alla fatalità, s'era smarrita alla posta, e mi pervenne con qualche giorno di ritardo.
Io volai a quella casa che non avevo più riveduta; scorgendo le persiane chiuse, il cuore mi si strinse dolorosamente.
Corsi al Cimitero, senza osare di credere al presagio funesto di quella lettera; al primo viale che infilai, quasi il destino si fosse incaricato di guidare i miei passi, alla prima terra smossa di fresco, su di una croce di ferro, lessi quel segno che ella avea desiderato sulla tomba, triste geroglifico del suo amore; e lì, coi ginocchi nella polvere, mi parve di guardare in un immenso buio, tutto riempito dalla figura della mia incognita, dal suo sorriso, dal suono della sua voce, delle parole che mi ha dette, dai luoghi dove l'avevo vista.
Sentii un gran freddo.
CERTI ARGOMENTI
C'era un aneddoto che dopo più di un anno, faceva ancora le spese della conversazione alla tavola rotonda dell'Albergo di Russia, a Napoli, quando i tre o quattro ospiti che tutti gli anni solevano trovarsi al medesimo posto, dal cominciar del novembre alla fine di maggio, rimanevano faccia a faccia, col sigaro in bocca e i gomiti sulla tovaglia.
A quella medesima tavola s'erano incontrati un tale Assanti, uomo elegante ed uomo di spirito, ed una signora Dal Colle, donna elegante e donna di spirito, un po' civetta, capricciosa e bizzarra, sul conto della quale si raccontavano certe storielle singolari, ben inteso senza provarne una sola, e che veniva ad epoche fisse, come una rondine, da Baden, da Vienna o da Parigi.
Tra i due commensali e vicini di tavola si era dichiarata una decisa e poco velata antipatia, non ostante che fossero entrambi persone assai bene educate, e scambiassero alle volte, il meno che potevano, degli atti e delle parole di cortesia.
Una sera, dopo il caffè, Assanti, trovandosi nella sala dei fumatori, insieme a tre o quattro amici che parlavano della sua vicina, avea motivato la sua antipatia con un lusso di buon umore che aveva fatto rider tutti.
Ad un tratto però si fece silenzio come per incanto, la signora Dal Colle passava nella sala contigua per andare a mettersi al pianoforte, come soleva fare qualche volta.
- Ha udito tutto! - Non ha potuto udire! - dicevano sommessamente fra di loro quei signori.
Il solo colpevole non se n'era preoccupato gran fatto.
Si strinse nelle spalle, e disse ridendo: - Or ora vedremo se ha udito -.
La signora scartabellava dei quaderni di musica, e non voltava nemmeno la testa; Assanti le si avvicinò col più bell'inchino, e le domandò tranquillamente:
- Scusi, ha udito quel che dicevamo a proposito di lei? -
Ella gli piantò in faccia i due grand'occhi ben aperti, due occhi innocenti o traditori, e rispose colla massima disinvoltura:
- Scusi, perché mi fa questa domanda?
- Perché abbiamo scommesso d'indovinare quel che avrebbe suonato stassera -.
La donna sorrise, inchinò il capo, e incominciò a suonare la Bella Elena.
- Signori, - disse Assanti voltandosi verso i suoi amici, che rimanevano mogi e ingrulliti, - avete perduto -.
Infatti sembrava impossibile che una donna potesse restare così bene nei gangheri dopo avere udito tutto quel che si era detto nella sala dei fumatori; e, cosa strana, un po' per la novità della cosa, un po' per obbligo di cortesia, Assanti, discorrendo con la Dal Colle di musica e d'altro, avea osservato come più d'una volta cane e gatta si fossero trovati d'accordo, sicché il discorso era andato per le lunghe, e gli amici, ad uno ad uno, se l'erano sgattaiolata.
- Non ha udito nulla! - pensava Assanti.
Ad un tratto, quando furono soli, cambiando improvvisamente accento e maniere, la Dal Colle domandò, puntandogli contro quegli occhi indiavolati:
- È contento che gli abbia fatto vincere la scommessa, mio signor nemico? -
Egli s'inchinò e stette coraggiosamente ad aspettar l'assalto.
- Perché ci facciamo la guerra? - riprese ella con un altro tono di voce.
- Perché ella mi faceva paura.
- Oh! oh! eccoci in piena galanteria! Ebbene, mio bel cavaliere, quando mi salterà in capo di vendicarmi ne incaricherò voi stesso.
Ma francamente, non sarebbe stato meglio che fossimo andati d'accordo fin da principio?
- Facciamo la pace allora.
- Adesso è troppo tardi.
- Perché?
- Perché, perché...
- disse alzandosi, - prima di tutto perché ora vi detesto - e poi perché fra due o tre settimane partirò.
- Vi seguirò.
- Dove?
- Dove andrete!
- Ma non lo so dove andrò; né lo saprete voi.
Nemici dunque -.
Assanti la salutò ridendo, ma dovette convenire che la sua graziosa nemica poteva avere tutti i difetti, all'infuori di uno.
Il domani, mentre si vestiva per andare a pranzo, trovò sul tavolino un biglietto scritto da mano sconosciuta.
"Venite al n.
11, a mezzanotte.
Non bussate."
Egli si mise a ridere, e disse fra di sé:
- Non v'è dubbio, ha udito tutto; ma il tranello è troppo grossolano per una donna di spirito! che peccato! -
La signora Dal Colle non era venuta a tavola.
Assanti sorrise più di una volta sotto i baffi volgendo gli occhi a quel posto vuoto.
Dopo desinare andò a teatro, e non ci pensò più.
Finita l'opera, passò una mezz'ora al caffè di Europa, e quando tornò all'albergo il gas era spento.
Passando pel corridoio, dinanzi all'uscio di quel famoso numero undici, si rammentò un'altra volta del biglietto che avea in tasca e involontariamente rallentò il passo.
Si mise alla finestra, fumò il suo sigaro, lesse il suo giornale, e poi andò a letto.
Il letto era duro ed uggioso insolitamente quella notte; faceva caldo, e Assanti avea un bel voltarsi e rivoltarsi senza poter chiudere occhio.
Quelle due linee sottili che teneva chiuse nel portafogli posto sulla tavola a capo del letto, sgusciavano fuori della busta, s'allungavano serpeggiando in ghirigori per le pareti, gli si attortigliavano alle sbarre del cortinaggio, s'insinuavano sotto l'uscio, e guizzavano pel corridoio oscuro, lasciando sul tappeto una striscia fosforescente.
Spense il lume, lo riaccese, rilesse il bigliettino, stavolta senza ridere, ché l'odore del foglietto profumato gli dava alla testa, spense il lume di nuovo per addormentarsi, e fu peggio di prima; nelle tenebre faceva sogni stravaganti ad occhi aperti; vedeva quell'uscio del numero undici socchiuso, una forma bianca che sporgeva la testa dal vano, e quella donna, per la quale il giorno innanzi non avrebbe mosso un dito, ora che gli era passata pel capo sotto altro aspetto, un solo istante, per ischerzo, assumeva forme e sorrisi affascinanti.
Il sangue gli martellava nelle vene.
Finalmente si vestì a guisa di sonnambulo, quasi non avesse coscienza di quel che facesse; arrivò a mettere la mano sulla maniglia dell'uscio, e tornò a cacciarsi frettolosamente fra le coltri, vergognoso della ridicola tentazione alla quale avea ceduto con facilità inesplicabile, come se la sua nemica avesse potuto vederlo e dargli la baia.
La notte dormì male, e si levò di cattivo umore.
All'ora del pranzo trovò la Dal Colle al suo solito posto, gaia e disinvolta come se nulla fosse stato, e civetta più che mai.
Non gli fece l'onore di accorgersi menomamente di lui, e una volta gli lanciò a bruciapelo uno sguardo schernitore che avrebbe fatto montare la mosca al naso ad un uomo meno padrone di sé dell'Assanti.
Egli si era fatto il suo piano di rappresaglie e di allusioni pungenti, ma aspettò inutilmente tutta la sera nel salotto dove la Dal Colle soleva far della musica.
A poco a poco, a suo dispetto, quel sangue freddo, quella sicurezza, quella disinvoltura, lo dominavano e lo facevano arrabbiare.
Evidentemente costei che l'aveva vinto con la burla più grossolana del mondo era più forte di lui; sapeva che sarebbe bastato un nonnulla, un cattivo scherzo, per insinuarglisi tutta nelle fibre come una spina, impadronirsene, metterlo sossopra, e agitarlo co' suoi menomi capricci.
Dopo che la Dal Colle si era data la soddisfazione di quella piccola vendetta da donna, sembrava non pensasse più ad Assanti, e si lasciava fare la corte da un certo barone Ciriani, il quale passava per un don Giovanni, inclusa la bravura e la fortuna di duellista; ora ad Assanti sembrava che la Dal Colle in quel lasciarsi corteggiare, così sotto i suoi occhi, ci mettesse dell'ostentazione, e questo lo seccava assai.
La furba sapeva al certo che si può fare a fidanza, toccando certi tasti, colla semplicità mascolina, s'avesse a fare coll'uomo più avveduto di questo mondo.
Era bastata la lusinga più lontana, più sciocca, più inverosimile, perché Assanti si montasse la testa a poco a poco, sino a credere che i successi ottenuti dal Ciriani fossero rubati a lui, e che la civetteria di lei fosse un torto che gli si faceva.
Il brillante giovanotto era ridotto alla più grulla figura possibile; cominciava ad accorgersene anche lui, ciò aumentava la sua stizza, e un dispetto ne chiamava un altro, sino a fargli perdere la tramontana; sicché alla sua volta intraprese contro il Ciriani un sistema di ostilità così poco velate, e di provocazione così diretta, che non ci volle meno di tutta l'abilità della donna per scongiurare il pericolo di un serio guaio.
Finalmente ella parve stanca della lotta che dovea sostenere con Assanti quotidianamente, e prendendolo una sera a quattr'occhi nel vano della finestra, dissegli:
- Orsù, mio bel nemico, a che giuoco giuochiamo? Con qual diritto ad ogni momento vi gettate a testa bassa fra me e il Ciriani?
- Con qual diritto mi fate questa domanda? - ribatté Assanti.
- Parliamoci chiaro.
Voi mi eravate debitore di una piccola soddisfazione di amor proprio, ed io ho ottenuto il mio intento col mezzo più semplice.
Non vi ho fatto il torto di pensare che avreste preso sul serio il mio biglietto, ho reso sempre giustizia al vostro spirito, e del resto nemmeno un ragazzo di scuola ci sarebbe cascato; ma eccovi lì, fra vergognoso, bizzoso, e incapricciato, e questo deve bastarmi.
Ora siamo pari; lasciatemi tranquilla, caro mio; Ciriani non c'entra.
- Ce lo tireremo pei capelli!
- Impresa arrischiata! Sapete che come duellista ha una brutta riputazione.
- Ebbene, - esclamò Assanti un po' rosso in viso, - se mi gettassi attraverso cotesta riputazione, mi perdonereste?
- La storia del biglietto? Per chi mi prendete, caro signore, cercando di scambiarmi le carte in mano?
- Non ridete così, in fede mia! Son qui, dinanzi a voi, ridotto ad arrossire di quel che ho fatto e detto contro di voi; mi sento ridicolo, deve bastarvi.
- Ridicolo, perché?
- Perché vi amo.
- Da quando in qua?
- Dacché mi ci avete fatto pensare.
- Dacché siete indispettito contro di me allora?
- Non so se sia amore o dispetto, so che così non può durare, che voi m'avete stregato, e che finirete per farmi impazzire.
- Oibò! -
Assanti rimase zitto un istante, di faccia al sorriso mordente della Dal Colle; poi riprese, cambiando tono e maniere, e facendosi improvvisamente serio.
- Orsù, bisogna fare qualche cosa perché prestiate fede a quel che vi dico.
Bisogna provocare Ciriani e rendermi ridicolo completamente.
- Guardatevene bene! - diss'ella senza ridere più.
- Detesto gli scandali, e non mi vedreste mai più, né voi, né lui! -
La signora Dal Colle faceva i preparativi per la partenza; Assanti venne a saperlo il giorno dopo.
- Partite? - le disse.
- Sì: fuggo.
Siete soddisfatto? Facciamo la pace prima di lasciarci.
- No, facciamo di meglio: ditemi dove andrete.
Noi siamo qualcosa più di due semplici conoscenze, siamo due nemici; siamo liberi entrambi e padroni di noi; entrambi scorrazziamo pel mondo onde fuggire la noia.
C'incontreremo in tutte le stazioni, ci faremo dei dispetti, ci faremo la guerra, ci odieremo, e così non avremo il tempo di annoiarci.
- No, no! E il pericolo d'innamorarsi lo contate per nulla?
- Anche voi?
- Sì, mi par di sì, dopo quello che mi avete detto ieri sera.
- Ebbene! alla peggio!...
- Non la prendete così; parlo sul serio, e sapete che sono franca.
- In tal caso franchezza per franchezza...
Chiudete gli occhi e lasciate fare al pericolo.
- Ci penserò.
- ...Ci ho pensato, - gli disse il giorno dopo, poche ore prima di partire all'insaputa di lui.
- No, sarebbe peggio di una disgrazia, sarebbe una sciocchezza.
È un gran brutto affare, due amanti che un giorno o l'altro possano ridersi sul naso! e questo giorno arriverebbe, a meno di un miracolo...
poiché bisognerebbe proprio un miracolo! qualcosa di grosso! un atto di eroismo, una grande azione o una grande follia, per scongiurare cotesto pericolo...
e come io non farò mai nulla di tutto questo, né voi lo farete, né voglio che lo facciate, così...
nemici!
- Chi vi dice che non lo farò?
- Davvero?...
Mi par di essere in piena cavalleria!...
Ebbene, allora!...
Intanto a rivederci -.
Il giorno dopo non si vide né alla tavola rotonda, né altrove.
Assanti seppe che era partita, e che anche il Ciriani era partito.
Quella notizia gli fece ardere il sangue nelle vene come se l'avessero schiaffeggiato.
Ogni minima parola, ogni sorriso, ogni inflessione di voce di lei, nell'ultimo colloquio che avevano avuto, gli tornava alla mente, con acute punture di dispetto, di gelosia, ed anche d'amore.
Dal momento che era fuggita con un altro, quella donna eragli divenuta diabolicamente necessaria, per tutto quello che non era stato, per tutto quello che s'era detto fra di loro.
Allora cotesto eroe da salone, per puntiglio o per vanità, si sentì capace di quelle virtù eroiche da palcoscenico, delle quali ella si era promessa in premio.
Avrebbe voluto acciuffarsi con dieci Ciriani; avrebbe voluto traversare un villaggio in fiamme sulla punta dei suoi stivalini verniciati, recandosi lei sulle braccia; avrebbe voluto saltare un precipizio di mezza lega per salvarla, senza fare uno strappo ai suoi pantaloni di Lennon.
Si sentiva invaso da una specie di febbre.
Partì sulle tracce di lei; gettò il denaro a due mani; viaggiò notte e giorno, in ferrovia, in carrozza e a cavallo, con un tempaccio da lupi, in mezzo alle selvagge solitudini per le quali correva la linea di Foggia, allora incompleta, col pericolo di cadere di momento in momento nelle mani dei briganti che scorrazzavano per quelle parti.
Finalmente ebbe le prime notizie della Dal Colle ad Ariano; ella viaggiava in carrozza, seguita dai suoi domestici, senza l'ombra di un Ciriani.
Prima di annottare, una o due poste prima di Bovino, l'oste ed il conduttore cercarono di dissuaderlo di andare innanzi, perché la campagna era infestata dai briganti.
Fu come se gli avessero messo il diavolo addosso.
Lei era in pericolo: non pensava ad altro.
La notte istessa, poco dopo Bovino, raggiunse le due carrozze colle quali ella viaggiava, ferme dinanzi ad un povero casolare che era la posta dei cavalli.
Il lanternino appeso all'uscio era stato fracassato da mano invisibile; la porta era spalancata, e la stalla vuota.
I postiglioni avevano chiamato e strepitato senza che comparisse alcuno.
Assanti da lontano gridava di non andare avanti: uno dei postiglioni temendo d'essere inseguito dai briganti gli sparò addosso una pistolettata senza colpirlo.
- Fermatevi, - ripeté Assanti.
- Fermatevi, in nome di Dio! o siete perduti -.
Allo sportello di una delle due carrozze si vide dietro il cristallo, al riflesso incerto dei fanali, il viso un po' pallido della Dal Colle.
Ella riconobbe Assanti in mezzo a quella scena di confusione e di spavento, e gridò al cocchiere con accento febbrile:
- Avanti! avanti! duecento lire di mancia!
- Avanti ci sono i briganti! - gridò il giovane quasi fuori di sé.
- Fermi tutti!...
o per la Madonna! siete morti! -
Il cocchiere applicò una vigorosa frustata ai cavalli che puntarono zampe ed inarcarono le schiene per slanciarsi al galoppo; ma prima che avessero fatto un sol passo si udì un colpo di fucile ed il cavallo di sinistra cadde imbrogliandosi nei finimenti; il cocchiere si buttò da cassetta e sparì nelle tenebre; la seconda carrozza, quella in cui erano i domestici della Dal Colle, voltò indietro, e fuggì a rotta di collo.
Tutto ciò era avvenuto in meno che non ci vuole per dirlo.
Assanti si slanciò allo sportello della vettura, afferrò la donna per la vita come una bambina, la spinse nella stalla e ne chiuse la porta alla meglio, ammucchiandovi contro tutto quel che poté trovare.
Al primo trambusto di quella scena era succeduto un silenzio profondo e misterioso; gli assalitori, prima di scendere nella strada, volevano al certo misurare la resistenza che avrebbero incontrata.
La Dal Colle, ritta in un angolo, non diceva una sola parola, e Assanti, rivolto verso l'uscio, colla cabina a due colpi in pugno, aspettava.
Come si furono abituati all'oscurità, scorsero, alla fioca luce dei fanali della carrozza che trapelava dalle commessure mal connesse dell'uscio, una scala a piuoli, la quale dal fondo della stalla metteva per una botola al fienile soprastante.
Sulla strada si cominciava ad udire un tramestio attorno alla carrozza, rimasta dinanzi al casolare.
Assanti fece salire la sua compagna al piano di sopra, e quando fu salito anche lui, tirò su la scala.
Al difuori durava ancora il silenzio, e di quando in quando il cavallo rimasto in piedi, scuoteva la sonagliera.
- Voi mi scaricherete la vostra carabina alla testa se dovessi cader viva nelle mani di coloro! - furono le prime parole che la donna gli rivolse con voce breve e febbrile.
- Sì! - rispose Assanti collo stesso tono.
Egli era corso alla finestra; non si vedeva nessuno; la carrozza era sempre ferma dinanzi all'uscio, descrivendo un breve cerchio di luce coi suoi due fanali; il cavallo fiutava con curiosità il compagno caduto.
Ad un tratto si udì un secondo colpo di fucile, e dall'architrave della finestra, a due dita dal capo di Assanti, caddero dei calcinacci.
La Dal Colle lo tirò indietro bruscamente.
Allora per la prima volta i loro sguardi s'incontrarono.
Ella era pallida come uno spettro, ma i suoi occhi erano sfavillanti.
All'improvviso la porta della stalla fu scossa da un urto che rimbombò come se l'avesse sconquassata.
Assanti corse alla finestra e fece fuoco; si udì un grido, seguito da una scarica generale diretta contro di lui.
Assanti si chinò sulla botola, mirò alla porta della stalla e fece fuoco una seconda volta.
I briganti, a quei colpi di carabina che venivano dall'alto e dal basso, credettero di avere a fare con parecchi, decisi di vender cara la loro vita, e ricorsero ad un altro mezzo di attacco più sicuro e meno pericoloso.
La fucilata cessò come per incanto.
Si udirono al di fuori rumori diversi, che da principio i due assediati non sapevano spiegarsi: un via vai, un risuonare di sonagliuoli dei cavalli, un muovere di ruote; poi rimbombò un secondo e forte urto alla porta della stalla, come se la carrozza vi fosse stata spinta contro a guisa d'ariete.
Assanti trasalì per l'imminenza di un nuovo e sconosciuto pericolo; il cuore gli batteva forte.
- Chi ci avrebbe detto che il miracolo di cui vi parlavo sarebbe stato così vicino! - disse la Dal Colle con uno strano sorriso.
Ei le afferrò la mano ed ella non la ritirò.
In quel momento un riflesso rossastro si disegnò come una apparizione infernale di faccia alla porta, sulla parete nera della stalla.
Il giovane, dimentico del pericolo passato per quello più grande che li minacciava, corse alla finestra, e la spalancò; le fiamme che bruciavano la carrozza e l'uscio della stalla illuminarono vivamente il fienile.
- Cosa fanno adesso? - domandò la donna stringendosi a lui con mano tremante.
- Bruciano la casa! - rispose Assanti con voce sorda.
- Voi mi avete promesso che morremo insieme! - diss'ella dopo un minuto di silenzio.
Presso la finestra le travi del solaio cominciavano a scoppiettare, e le fiamme mostravano attraverso le assi le loro lingue azzurrognole che lambivano le pareti; il fumo annebbiava la stanzuccia e li soffocava.
La donna guardava Assanti con occhi singolari.
- Vi siete perduto per me! - mormorò finalmente, con un accento di cui egli non avrebbe supposto capace quella donna leggiera.
- Vi amo! - egli rispose.
Allora in mezzo al fumo che li accecava, dinanzi alle fiamme che allungavano verso di loro lingue sitibonde, sotto una pioggia di faville infuocate, fra gli urli dei banditi che danzavano e sghignazzavano attorno a quell'orribile rogo, ella gli avvinse le braccia al collo, e posò la guancia sulla guancia di lui.
Tutt'a un tratto si udì sulla strada un gran tumulto, colpi di fuoco, urli di dolore, grida di collera.
I carabinieri di Bovino avevano incontrato la carrozza colla quale erano scappati i domestici della Dal Colle, ed erano accorsi in fretta.
Un brigadiere si precipitò fra le fiamme, e strappò i due amanti da quell'amplesso di morte.
Albeggiava appena.
Assanti e la Dal Colle furono accompagnati a Bovino.
Ella era pallidissima.
Quando furono soli nella miglior stanza dell'albergo, gli stese la mano.
- Ora separiamoci.
- Come, separarci!...
- Abbiamo passato un bel momento, abbiamo realizzato il miracolo che sembrava impossibile alla tavola rotonda dell'Albergo di Russia.
Non lo guastiamo! Siamo stati degli eroi, e siccome non potremmo aver sempre sottomano dei briganti per esaltarci, finiremo per trovarci ridicoli.
Lasciamoci eroi dunque.
- Che donna siete mai?
- Mi dicono che sono una matta: ma mi accorgo che una matta è sempre più ragionevole dell'uomo più savio.
Vediamo, amico mio, discorriamola ora che la stanchezza fa dar giù la febbre.
In due settimane voi passate dall'antipatia all'entusiasmo; vi gettate a corpo perduto su di me, e mi fate il sacrificio della vostra vita, senza sapere se io ne sia degna.
- È ragionevole cotesto? Avete fatto per me una bella azione, qualcosa che può toccare il cuore o la testa di una donna, e far mettere il cappuccio alle sue follie...
non c'è che dire; ma siete certo che non abbiate fatto il sacrificio pel sacrificio? perché vi eravate montata la testa? più per voi che per me insomma? Siete persuaso che l'abbiate fatto schiettamente e semplicemente per amor mio?
- Qual altra prova ne vorreste?
- Una prova semplicissima: voi dite che mi amate?
- Sì.
- Non mi conoscete, non sapete chi sia, né da dove venga; non sapete se sia degna di voi, e se potrei amarvi come vorreste essere amato!...
- So che vi amo!
- Su dieci uomini, e dei più savi, nove risponderebbero come voi.
E se vi amassi, sareste felice?
- Sì.
- E questa felicità vi basterebbe? Quanto vorreste che durasse?
- Sempre.
- Perché non mi sposate allora?
- ...Ci penserò -.
LE STORIE DEL CASTELLO DI TREZZA
I.
La signora Matilde era seduta sul parapetto smantellato, colle spalle appoggiate all'edera della torre, spingendo lo sguardo pensoso nell'abisso nero e impenetrabile; suo marito, col sigaro in bocca, le mani nelle tasche, lo sguardo vagabondo dietro le azzurrine spirali del fumo, ascoltava con aria annoiata; Luciano, in piedi accanto alla signora, sembrava cercasse leggere quali pensieri si riflettessero in quegli occhi impenetrabili come l'abisso che contemplavano.
Gli altri della brigata erano sparsi qua e là per la spianata ingombra di sassi e di rovi, ciarlando, ridendo, motteggiando; il mare andavasi facendo di un azzurro livido, increspato lievemente, e seminato di fiocchi di spuma.
Il sole tramontava dietro un mucchio di nuvole fantastiche, e l'ombra del castello si allungava melanconica e gigantesca sugli scogli.
- Era qui? - domandò ad un tratto la signora Matilde, levando bruscamente il capo.
- Proprio qui -.
Ella volse attorno uno sguardo lungo e pensieroso.
Poscia domandò con uno scoppio di risa vive, motteggiatrici:
- Come lo sa?
- Ricostruisca coll'immaginazione le vòlte di queste arcate, alte, oscure, in cui luccicano gli avanzi delle dorature, quel camino immenso, affumicato, sormontato da quello stemma geloso che non si macchiava senza pagare col sangue; quell'alcova profonda come un antro, tappezzata a foschi colori, colla spada appesa al capezzale di quel signore che non l'ha tirata mai invano dal fodero, il quale dorme sul chi vive, coll'orecchio teso, come un brigante - che ha il suo onore al di sopra del suo Dio, e la sua donna al disotto del suo cavallo di battaglia: - cotesta donna, debole, timida, sola, tremante al fiero cipiglio del suo signore e padrone, ripudiata dalla sua famiglia il giorno che le fu affidato l'onore ombroso e implacabile di un altro nome; - dietro quell'alcova, separato soltanto da una sottile parete, sotto un'asse traditrice, quel trabocchetto che oggi mostra senza ipocrisia la sua gola spalancata - il carnaio di quel mastino bruno, membruto, baffuto, che russa fra la sua donna e la sua spada; - il lume della lampada notturna che guizza sulle immense pareti, e vi disegna fantasmi e paure; il vento che urla come uno spirito maligno nella gola del camino, e scuote rabbiosamente le imposte tarlate; e di tanto in tanto, dietro quella parete, dalla profondità di quel trabocchetto attorno a cui il mare muggisce un gemito soffocato dall'abisso, delirante di spasimo, un gemito che fa drizzare la donna sul guanciale, coi capelli irti di terrore, molli del sudore di un'angoscia più terribile di quella dell'uomo che agonizza nel fondo del trabocchetto, e, fuori di sé, le fa volgere uno sguardo smarrito, quasi pazzo, su quel marito che non ode e russa -.
La signora Matilde ascoltava in silenzio, cogli occhi fissi, intenti, luccicanti.
Non disse - È vero! - ma chinò il capo.
Il marito si strinse nelle spalle e si alzò per andarsene.
Le ombre sorgevano da tutte le profondità delle rovine e del precipizio.
- Se tutto ciò è vero, - ella disse con voce breve; - s'è accaduto così come ella dice, essi debbono essersi appoggiati qui, a questi avanzi di davanzale, a guardare il mare, come noi adesso...
- ed ella vi posò la mano febbrile - qui -.
Ei chinò lo sguardo sulla mano, poi guardò il mare, poi la mano di nuovo.
Ella non si muoveva, non diceva motto, guardava lontano.
- Andiamo, - disse a un tratto, - la leggenda è interessante, ma mio marito a quest'ora deve preferire la campana del desinare.
Andiamo -.
Il giovane le offrì il braccio, ed ella vi si appoggiò, rialzando i lembi del vestito, saltando leggermente fra i sassi e le rovine.
Passando presso uno stipite sbocconcellato, osservò che c'erano ancora attaccati gli avanzi degli stucchi.
- Se potessero raccontare anche questi! - disse ridendo.
- Direbbero che allo stesso posto dove s'è posata la sua mano, ci si è aggrappata la mano convulsa della baronessa, la quale tendeva l'orecchio, ansiosa, verso quell'andito dove non si udiva più il rumore dei passi di lui, né una voce, né un gemito, ma risuonavano invece gli sproni sanguinosi del barone -.
La signora si tirò indietro vivamente, come se avesse toccato del fuoco; poi vi posò di nuovo la mano, risoluta, nervosa, increspata; sembrava avida d'emozione; avea sulle labbra uno strano sorriso, le guance accese e gli occhi brillanti.
- Vede! - disse.
- Non si ode più nulla!
- Alla buon'ora! - esclamò il signor Giordano; - dunque possiamo andare -.
La moglie gli rivolse uno sguardo distratto, e soggiunse:
- Scusami, sai! -
Il raggio di sole prima di tramontare si insinuò per un crepaccio a fior d'acqua, e illuminò improvvisamente il fondo di quella specie di pozzo ch'era stato il trabocchetto, le punte aguzze delle nere pareti, i ciottoli bianchi che spiccavano sul muschio e l'umidità del fondo, e i licheni rachitici che l'autunno imporporava.
Il sorriso era sparito dal viso della signora spensierata, e volgendosi al marito, timida, carezzevole, imbarazzata:
- Vieni? - gli disse.
- Bada, - rispose il signor Giordano col suo ironico sorriso; - ci vedrai le ossa di quel bel cavaliere, e farai brutti sogni stanotte -.
Ella non rispose, non si mosse, stava chinata sulla buca; appoggiandosi ai sassi che la circondavano; infine, con voce sorda:
- In fatti...
c'è qualcosa di bianco, laggiù in fondo...
-
E senza attendere risposta:
- Se quest'uomo è caduto qui, ha dovuto afferrarsi per istinto a quella punta di scoglio...
vedete? si direbbe che c'è ancora del sangue -.
Suo marito vi buttò il sigaro spento, e volse le spalle; ella rabbrividì, come se avesse visto profanare una tomba, si fece rossa, e si rizzò per andarsene.
Era una graziosa bruna, palliduccia, delicata, nervosa, con grandi e begli occhi neri e profondi; il piede le sdrucciolò un istante sul sasso mal fermo, vacillò, e dovette afferrarsi alla mano di Luciano.
- Grazie! - gli disse con un sorriso intraducibile.
- Si direbbe che l'abisso mi chiama -.
II.
Il pranzo era stato eccellente; non per nulla il signor Giordano preferiva la campana del desinare alle leggende del Castello.
Verso le undici alla villa si pestava sul piano, si saltava nel salotto e si giuocava a carte nelle altre stanze.
La signora Matilde era andata a prendere una boccata d'aria in giardino, e s'era dimenticata di una polca che aveva promessa al signor Luciano, il quale la cercava da mezz'ora.
- Alfine! - le disse scorgendola.
- E la nostra polca?
- Ci tiene proprio?
- Molto.
- Se la lasciassimo lì?
- Povera polca!
- Francamente, sa...
Ella racconta così bene certe storie, che non l'avrei creduto un ballerino cotanto arrabbiato...
- Ci crede dunque alle storie?
- Ma...
secondo il quarto d'ora -.
Il silenzio era profondo; il vento cacciava le nuvole rapidamente, e di tanto in tanto faceva stormire gli alberi del giardino; il cielo era inargentato a strappi; le ombre sembravano inseguirsi sulla terra illuminata dalla luna, e il mormorio del mare e quel sussurrio delle foglie, sommesso, ad intervalli, a quell'ora aveano un non so che di misterioso.
La signora Matilde volse gli occhi qua e là, in aria distratta, e li posò sulla mole nera e gigantesca del castello che disegnavasi con profili fantastici su quel fondo cangiante ad ogni momento.
La luce e le ombre si alternavano rapidamente sulle rovine, e un arbusto che avea messo radici sul più alto rivellino, agitavasi di tanto in tanto, come un grottesco fantasma che s'inchinasse verso l'abisso.
- Vede? - diss'ella con quel sorriso incerto e colla voce mal ferma.
- C'è qualche cosa che vive e si agita lassù!
- Gli spettri della leggenda.
- Chissà!
- Cotesto è il quarto d'ora delle storie...
- Oppure...
- Oppure cosa?
- Chissà...
Cosa fa mio marito?
- Giuoca a tresette.
- E la signora Olani?
- Sta a guardare.
- Ah!...
- Mi racconti la sua storia...
- riprese da lì a poco, con singolare vivacità - se non le rincresce per la sua polca -.
La storia che Luciano raccontò era strana davvero!
La seconda moglie del barone d'Arvelo era una Monforte, nobile come il re e povera come Giobbe, forte come un uomo d'arme e tagliata in modo da rispondere per le rime alla galanteria un po' manesca di don Garzia, e da promettergli una nidiata di d'Arvelo, numerosi come le uova che avrebbe potuto covare la chioccia più massaia di Trezza.
Prima delle nozze, le avevano detto degli spiriti che si sentivano nel Castello, e che la notte era un gran tramestìo pei corridoi e per le sale, e si trovavano usci aperti e finestre spalancate, senza sapere come né da chi - usci e finestre ch'erano stati ben chiusi il giorno innanzi - che si udivano gemiti dell'altro mondo, e scrosci di risa da far venire le pelle d'oca al più ardito scampaforche che avesse tenuto alabarda e vestito arnese.
Donna Isabella avea risposto che, fra lei e un marito come, al vedere, prometteva esserlo don Garzia, ella non avrebbe avuto paura di tutte le streghe di Spagna e di Sicilia, né di tutti i diavoli dell'inferno.
Ed era donna da tener parola.
La prima volta che si svegliò nel letto dove avea dormito l'ultima notte la povera donna Violante, mentre Grazia, la cameriera della prima moglie del barone, le recava il cioccolatte e apriva le finestre, ancora mezzo addormentata, domandò svogliatamente:
- E così, come va che gli spiriti non hanno ballato il trescone di benvenuto alla nuova castellana?
- Non s'è sentito stanotte?...
- rispose la povera Grazia, che anche a parlare ne avea una gran paura.
- Sì, ho udito il russare di don Garzia; e ti so dire che russa come dieci guardie vallone.
- Vuol dire che il cappellano ha benedetto la camera meglio delle altre volte.
- Ah! sarà così, oppure che faccio paura al diavolo e agli spiriti.
- O che sarà per domani.
- Eh! hanno dunque il loro cerimoniale, messeri gli spiriti, come nostro signore il re? Racconta dunque!
- Io non so nulla, madonna.
- Chi sa dunque questa storia?
- Mamma Lucia, Brigida, Maso il cuoco, Anselmo ed il Rosso, i due valletti di messere il barone, e messer Bruno, il capocaccia.
- E cosa hanno visto costoro?
- Nulla.
- Nulla! Cosa hanno udito dunque?
- Hanno udito ogni sorta di cose, che Dio ce ne liberi!
- E da quando si sono udite di queste cose che Dio ce ne liberi?
- Dacché è morta la povera donna Violante, la prima moglie di messere.
- Qui?
- Proprio qui, in questo lato del castello; ma dalla cima dei merli sino in fondo alle cucine, di cui le finestre danno sulla corte -.
La baronessa si mise a ridere, e la sera narrò al marito quel che le era stato detto.
Don Garzia, invece di riderne anch'esso, montò in una tal collera che mai la maggiore, e incominciò a bestemmiar Dio e i santi come donna Isabella non avea visto né udito fare dagli staffieri più staffieri che fossero a casa de' suoi fratelli, e a minacciare che se avesse saputo chi si permetteva di spargere cotali fandonie, l'avrebbe fatto saltare dal più alto rivellino del castello.
La baronessa fu estremamente sorpresa che quel pezzo di uomo, il quale non doveva aver paura nemmen del diavolo, avesse dato tanto peso a delle sciocche storielle, e in cuor suo ne fu contenta, ché si sentiva più degna del marito di portare i calzoni, e di far la castellana come andava fatto.
- Dormite in santa pace, madonna, - le disse don Garzia, - ché qui, nel castello e fuori, pel giro di dieci leghe, sin dove arriva il mio buon diritto e la mia buona spada, non c'è a temere altro che la mia collera -.
Però la baronessa, sia che le parole del marito l'avessero colpita, sia che delle sciocchezze udite le fosse rimasta qualcosa in mente, si svegliò di soprassalto verso la mezzanotte, credendo d'avere udito, o d'aver sognato, un rumore indistinto, non molto lontano, proprio dietro la parete dell'alcova.
Stette in ascolto con un po' di batticuore; ma non s'udiva più nulla, la lampada notturna ardeva ancora, e il barone russava della meglio.
Ella non ardì svegliarlo, ma non poté ripigliar sonno.
Il giorno dopo la sua donna la trovò pallida e accigliata, e mentre la pettinava dinanzi allo specchio, la baronessa, coi piedi sugli alari e bene avvolta nella sua veste da camera di broccato, le domandò, dopo avere esitato alquanto:
- Orsù, dimmi tutto quel che sai degli spiriti del castello.
- Io non so altro che quel che ne ho udito raccontare dal Rosso e da Brigida.
Volete che vi chiami Brigida?
- No! - rispose con vivacità donna Isabella.
- Anzi non dire ad anima viva che io te n'abbia parlato...
Raccontami quel che t'hanno detto Brigida e il Rosso.
- Brigida, quando dormiva nella stanzuccia accanto al corridoio qui vicino, udiva tutte le notti, poco prima o poco dopo dei dodici colpi della campana grossa, aprire la finestra che dà sul ballatoio, e la porta del corridoio.
La prima volta che Brigida udì quel rumore fu la seconda domenica dopo Pasqua, la ragazza avea avuto la febbre e non poteva dormire; l'indomani tutti coloro ai quali raccontò il fatto credettero che fosse stato inganno della febbre; ma la poverina a misura che il giorno tramontava aveva una gran paura, e cominciò a parlare in tal modo del gran via vai della notte, che tutti credettero fosse delirante, e mamma Lucia rimase a dormire con lei.
L'indomani anche mamma Lucia disse che in quella camera non avrebbe voluto passarci un'altra notte per tutto l'oro del mondo.
Allora anche coloro i quali s'erano mostrati più increduli cominciarono ad informarsi e del come e del quando, e Maso raccontò quello che non avea voluto dire per timore di farsi dar la baia dai più coraggiosi.
Da più di un mese avea udito rumore anche nel tinello, e s'era accorto che gli spiriti facevano man bassa sulla credenza.
A poco a poco raccontò pure quel che aveva visto.
- Visto?
- Si, madonna; sospettando che alcuno dei guatteri gli giocasse quel tiro, si appostò nell'andito, dietro il tinello, col suo gran coltellaccio alla cintola, e attese la mezzanotte, ora in cui solevasi udire il rumore.
Quando tutt'ad un tratto - non si udiva ronzare nemmeno una mosca - si vede comparir dinanzi un gran fantasma bianco, il quale gli arriva addosso senza dire né ahi né ohi, e gli passa rasente senza fare altro rumore di quel che possa fare un topo che va a caccia del formaggio vecchio.
Il povero cuoco non volle saperne altro, e fu a un pelo di buscarne una bella e buona malattia.
- Ah! - disse la baronessa ridendo.
- E cosa fece in seguito?
- Non fece nulla, fece acqua in bocca, andò a confessarsi, a comunicarsi, ed ogni sera, prima di mettersi in letto, non mancava di recitare le sue orazioni, e di raccomandarsi ben bene a tutte le anime del purgatorio che sogliono gironzare la notte, in busca di requiem e di suffragi.
- Giacché sono degli spiriti i quali rubano in tinello come dei gatti affamati o dei guatteri ladri, se fossi stata messer Maso, invece d'infilar paternostri, mi sarei raccomandata alla mia miglior lama, onde cercare di scoprire chi fosse il gaglioffo che si permetteva di scambiar le parti coi fantasmi.
- Oh madonna, la stessa cosa disse il Rosso il quale è un pezzo di giovanotto che il diavolo istesso, che è il diavolo, non gli farebbe paura; e si mise a rider forte, e gli disse bastargli l'animo di prendere lo spirito, il fantasma, il diavolo stesso per le corna, e fargli vomitare tutto il ben di Dio di cui dicevasi si desse una buona satolla in cucina; mai non l'avesse fatto! La notte seguente s'apposta anche lui nel corridoio, come avea fatto il cuoco, colla sua brava partigiana in mano, ed aspetta un'ora, due, tre.
Infine comincia a credere che Maso si sia burlato di lui, o che il vino gli abbia fatto dire una burletta, e comincia ad addormentarsi, così seduto sulla panca e colle spalle al muro.
Quand'ecco tutt'a un tratto, tra veglia e sonno, si vede dinanzi una figura bianca, la quale toccava il tetto col capo, e stava ritta dinanzi a lui, senza muoversi, senza che avesse fatto il minimo rumore nel venire, senza che si sapesse da dove fosse venuta; un po' di barlume veniva dalla lampada posta nella sala delle guardie, dal vano dell'arco al disopra della parete, e il Rosso giura d'aver visto i due occhi che il fantasma fissava su di lui, lucenti come quelli di un gatto soriano.
Il Rosso, o non fosse ancora ben sveglio, o provasse un po' di paura a quella sùbita apparizione, senza dire né una né due, mise mano alla sua partigiana e menò tal colpo da spaccare in due un toro, fosse stato di bronzo; ma la spada gli si ruppe in mano, così come fosse stata di vetro, o avesse urtato contro il muro; si vide un fuoco d'artifizio di faville, a guisa dei razzi che si sparano per la festa della Madonna dell'Ognina, e il fantasma scomparve, né più né meno di come fa un soffio di vento, lasciando il Rosso atterrito, col suo troncone di spada in mano, e talmente pallido da far paura a chi lo vide per il primo, e d'allora in poi, invece di chiamarlo il Rosso, gli dicono il Bianco -.
La baronessa rideva ancora in aria d'incredulità; ma le sue ciglia si corrugavano di tanto in tanto, e pur tenendo gli occhi fissi nello specchio, non avea badato né al come Grazia la stesse pettinando, né al come le avesse increspato i cannoncini della sua gorgierina ricamata.
O che la convinzione della cameriera fosse talmente sincera da esser comunicativa, o che il sogno della notte avesse fatto una potente impressione su di lei, pensava più che non volesse alla notte che doveva passare un'altra volta in quella medesima alcova.
- E cosa si dice nel castello di coteste apparizioni? - domandò dopo un silenzio di qualche durata.
- Madonna...
- Parla!
- Madonna...
si dicono delle sciocchezze...
- Raccontamele.
- Messere il barone andrebbe su tutte le furie se lo sapesse.
- Tanto meglio! raccontamele.
- Madonna...
io sono una povera fanciulla...
Sono un'ignorante...
Avrò parlato senza sapere quel che mi dicessi...
Messere il barone mi butterebbe dalla finestra più facilmente ch'io non butti via questo pettine che non serve più.
Per carità, madonna, non vogliate espormi alla collera di messere!
- Preferiresti esporti alla mia? - esclamò la baronessa aggrottando le ciglia.
- Ahimè!...
Madonna!
- Orsù, spicciati; voglio saper tutto quel che si dice, ti ripeto, e bada che se la collera del barone è pericolosa, la mia non ischerza.
- Si dice che sia l'anima della povera donna Violante, la prima moglie del barone, - rispose Grazia messa alle strette, e tutta tremante.
- Come è morta donna Violante?
- S'è buttata in mare.
- Lei?
- Proprio lei, dal ballatoio mezzo rovinato che gira dinanzi alle finestre del corridoio grande, sugli scogli che stanno laggiù; in fondo al precipizio fu trovato il suo velo bianco...
Era la notte del secondo giovedì dopo Pasqua.
- E perché s'è uccisa?
- Chi lo sa? Messere dormiva tranquillamente accanto a lei, fu svegliato da un gran grido, non se la trovò più al fianco, e prima che fosse ben sveglio vide una figura bianca la quale fuggiva.
Si udì un gran baccano pel castello, tutti furono in piedi in men che non si dica un'avemaria, si trovarono gli usci e le finestre del gran corridoio spalancati, e il barone che correva sul ballatoio come un gatto inferocito; se non era il capocaccia, il quale l'afferrò a tempo, il barone sarebbe caduto dal parapetto rovinato, nel punto dove comincia la scala per la torretta di guardia, di cui non rimangono altro che le testate degli scalini.
Il fantasma era scomparso giusto in quel luogo -.
La baronessa s'era fatta pensierosa.
- È strano! - mormorò.
- Della povera signora non rimase né si vide altro che quel velo; nella cappella del castello e nella chiesa del villaggio furono dette delle messe per tre giorni, in suffragio della morta, e una gran folla assisté ginocchioni ai funerali, ché tutti le volevano un ben dell'anima per le gran limosine che faceva quand'era in vita; però, sebbene messere avesse dato ordine che le esequie fossero quali si convenivano a così ricca e potente signora, e la bara, colle armi della famiglia ricamate sulle quattro punte della coltre, stesse tre dì e tre notti nella cappella, con più di quaranta ceri accesi continuamente, e lo stendardo grande ai piedi dell'altare, e drappelloni e scudi intorno che mai non si vide pompa più grande, il barone partì immediatamente, né si vide mai più al castello prima d'ora.
- Meno male! - mormorò donna Isabella.
- Don Garzia non mi ha detto nulla di tutto ciò, ma è bene ch'io lo sappia.
- Alcuni pescatori poi ch'erano andati sul mare assai prima degli altri, raccontano d'aver visto l'anima della baronessa, tutta vestita di bianco, come una santa che ella era, sulla porta della guardiola lassù, e passeggiare tranquillamente su e giù per la scala rovinata, ove un gabbiano avrebbe paura ad appollaiarsi, quasi stesse camminando su di un bel tappeto turco, e nella miglior sala del castello.
- Ah! - esclamò la baronessa; e non disse altro, si alzò e andò a mettersi alla finestra.
Il giorno era tiepido e bello, e il sole festante che entrava dall'altra finestra sembrava rallegrasse la tetra camera; ma donna Isabella non se ne avvedeva, sembrava meditabonda, e voltandosi a un tratto verso la Grazia:
- Mostrami dov'è caduta donna Violante - le disse.
- Colà in quel punto dove il muro è rotto e cominciava la scala per la guardiola della sentinella, quando vi si metteva una sentinella.
- E perché non ci si mette più adesso? - domandò la baronessa con un singolare interesse.
- Bisognerebbe aver le ali per arrampicarsi lassù; adesso che la scala è rovinata il più ardito manovale non metterebbe i piedi su quel che rimane degli scalini.
- Ah, è vero!...
-
E rimase contemplando lungamente la torricciuola, la quale isolata com'era sembrava attaccarsi, paurosa dell'abisso che spalancavasi al di sotto, alla cortina massiccia, e gli avanzi della scalinata, cadenti, smantellati, senza parapetto, sospesi in aria a quattrocento piedi dal precipizio sembravano un addentellato per qualche costruzione fantastica.
- Infatti, - mormorò come parlando fra di sé, - sarebbe impossibile; c'è da averne il capogiro soltanto a guardare -.
Si tirò indietro bruscamente, e chiuse la finestra.
Grazia, vedendo la sua beffarda padrona così accigliata, e accorgendosi che la sua storia avea fatto tale inattesa impressione su di lei, sentiva una tale paura come se avesse dovuto passare la notte nella camera di Brigida.
- Ahimè! madonna, io ho detto tutto per obbedirvi e senza pensare che ci va della mia vita se lo risapesse il barone.
Abbiate pietà di me, madonna!
- Non temere, - rispose donna Isabella con un singolare sorriso; - coteste cose, vere o false, non si raccontano al mio signore e marito.
Ma dimmi anche quel che si dice del motivo che abbia spinto donna Violante ad uccidersi; poiché un motivo qualunque ci sarà stato; qualcosa si dirà, a torto o a ragione, di'.
- Giuro per le cinque piaghe di Nostro Signore e per la santa giornata di venerdì che è oggi, che non si dice nulla, o almeno che non so nulla.
Da principio, quando si è incominciato a sentire dei gemiti nelle notti di temporale, ed anche tutte le notti dal sabato alla domenica, e tutte le volte che fa la luna, o che qualche disgrazia deve avvenire nel castello o nei dintorni, si credeva che la baronessa fosse morta in peccato mortale, e perciò la sua anima chiedesse aiuto dall'altro mondo, mentre i demoni l'attanagliavano; ma poi Beppe, il pescatore, raccontò la visione che gli apparve sull'alto della guardiola, e alcuni giorni dopo quel bravo vecchio di suo zio Gaspare la ebbe confermata, e si ebbe la certezza che l'anima benedetta della baronessa era in luogo di salvazione, e si pensò invece a quella di Corrado il paggio, poveretto!
- Come era morto il paggio? s'era ucciso anche lui?
- Non era morto, era scomparso.
- Quando?
- Due giorni prima della morte di donna Violante.
- E chi l'aveva fatto sparire?
- Chi!...
- balbettò la ragazza facendosi pallida.
- Ma chi può far sparire un'anima del Signore e portarsela a casa sua, come un lupo ruba una pecora? - Messer demonio.
- Ah! era dunque un gran peccatore cotesto messer Corrado!
- No, madonna, era il giovane più bello e gentile che sia stato al castello -.
La baronessa si mise a ridere.
- Eh! mia povera Grazia, quelli sono i peccatori che messer demonio suol rapire a cotesta maniera!...
- E poi, rifacendosi pensosa, volse un lungo e profondo sguardo su quel letto dove il gemito pauroso l'avea fatta sussultare la notte.
- Quando si odono questi gemiti dell'altro mondo? - domandò.
- In quelle notti in cui il fantasma non si fa vedere.
- È strano! E dove?
- Qui, madonna, in quest'alcova e nell'andito che c'è accanto, nel corridoio che passa vicino a questa camera, e nello spogliatolo che è dietro l'alcova.
- Insomma qui vicino? -
Per tutta risposta Grazia si fece il segno della croce.
La baronessa strinse le labbra tutt'a un tratto.
- Va bene, - le disse bruscamente.
- Ora vattene.
Non temere.
Non dirò nulla di quel che mi hai detto -.
III.
Donna Isabella passò la giornata ad esaminare minutamente tutte le stanze, anditi, e corridoi vicini alla sua camera, e don Garzia le chiese inutilmente il motivo della sua preoccupazione.
La notte dormì poco e agitata, ma non udì nulla; soltanto il vento che s'era levato verso l'alba faceva sbattere una delle finestre che davano sul ballatoio.
L'indomani la baronessa era ancora in letto, quando da dietro il cortinaggio udì il seguente dialogo fra suo marito e il Rosso che l'aiutava a calzare i grossi stivaloni:
- Dimmi un po', mariuolo, cos'è stato tutto questo baccano che hanno fatto le mie finestre stanotte? -
Il Rosso si grattò il capo e rispose:
- È stato che un'ora prima dell'alba si è messo a soffiare lo scirocco.
- Sarà benissimo, ma se le finestre fossero state ben chiuse, lo scirocco non avrebbe potuto farle ballare come una ragazza che abbia il male di San Vito.
Ora bada bene al tuo dovere, marrano! ché nel castello intendo tutto vada come l'orologio che è sul campanile della chiesa, adesso che son qua io.
- Messere, voi siete il padrone, - rispose il Rosso esitando, - ma quella finestra lì bisogna lasciarla aperta.
- Dimmi il perché.
- Perché quando si chiude la finestra si sente...
- Eh?
- Si sente, messere!
- Malannaggia l'anima tua! - urlò il barone dando di piglio ad uno stivale per buttarglielo in faccia.
- Messere, voi potete ammazzarmi, se volete, ma ho detto la verità.
- Chi te l'ha soffiata cotesta verità, briccone maledetto?
- Ho visto e udito come vedo ed odo voi, che siete in collera per mia disgrazia e senza mia colpa.
- Tu?
- Io stesso.
- Tu mi rubi il vino della mia cantina, scampaforche!
- Io non avevo bevuto né acqua né vino, messere.
- Tu mi diventi poltrone, dunque! un gatto che fa all'amore ti fa paura.
Diventi vecchio, Rosso mio, arnese da ferravecchi, e ti butterò fuori del castello con un calcio più sotto delle reni.
- Messere, io sono buono ancora a qualche cosa, quando mi metterete in faccia a una dozzina di diavoli in carne e ossa, che possano raggiungersi con un buon colpo di partigiana, o che possano ammazzare me come un cane; ma contro un nemico il quale non ha né carne né ossa, e vi rompe il ferro nelle mani come voi fareste di un fil di paglia, per l'anima che darei al primo cane che la volesse! non so cosa potreste fare voi stesso, sebbene siate tenuto il più indiavolato barone di Sicilia -.
Il barone questa volta si grattò il capo, e si accigliò, ma senza collera, o almeno senza averla col Rosso.
- Orbè, - gli disse, - chiudimi bene tutte le finestre stanotte, e vattene a dormire senza pensare ad altro -.
Donna Isabella si levò pallida e silenziosa più del solito.
- Avreste paura? - domandò don Garzia.
- Io non ho paura di nulla! - rispose secco secco la baronessa.
Ma la notte non poté chiudere occhio, e mentre suo marito russava come un contrabasso ella si voltava e rivoltava pel letto, e ad un tratto scuotendolo bruscamente pel braccio, e rizzandosi a sedere cogli occhi sbarrati e pallida in viso: - Ascoltate! - gli disse.
Don Garzia spalancò gli occhi anche lui, e vedendola così, si rizzò a sedere sul letto e mise mano alla spada.
- No! - diss'ella, - la vostra spada non vi servirà a nulla.
- Cosa avete udito?
- Ascoltate!
Entrambi rimasero immobili, zitti, intenti; alfine don Garzia buttò la spada con dispetto in mezzo alla camera e si ricoricò sacramentando.
- Mi diventate matta anche voi! - borbottò.
- Quella canaglia del Rosso vi ha fatto girare il capo! gli taglierò le orecchie a quel mariuolo.
- Zitto! - esclamò la donna nuovamente, e questa volta con tal voce, con tali occhi, che il barone non osò replicare motto.
- Udiste?
- Nulla! per l'anima mia! -
Ad un tratto si rizzò a sedere una seconda volta, se non pallido e turbato come la sua donna, almeno curioso ed attento, e cominciò a vestirsi; mentre infilava gli stivali trasalì vivamente.
- Udite! - ripeté donna Isabella facendosi la croce.
Egli attaccò una grossa bestemmia invece della croce; saltò sulla spada che avea gettato in mezzo alla camera, e così com'era, mezzo svestito, colla spada nuda in pugno, al buio, si slanciò nell'andito che era dietro all'alcova.
Ritornò poco dopo.
- Nulla! - disse, - le finestre son chiuse, ho percorso il corridoio, l'andito, lo spogliatoio; siamo matti voi ed io; lasciatemi dormire in pace adesso, giacché se domani il Rosso venisse a sapere quel che ho fatto stanotte, e sino a qual segno sia stato imbecille, dovrei vergognarmi anche di lui -.
Né si udì più nulla; la baronessa rimase sveglia, e don Garzia, sebbene avesse attaccato di nuovo due o tre russate sonore, non poté dormire di seguito come al solito; all'alba si alzò con tal cera che il Rosso, spicciatosi alla svelta dei soliti servigi, stava per battersela.
- Chiamami Bruno - gli disse il barone, e ricominciò a passeggiar per la camera, mentre la baronessa stava pettinandosi.
Donna Isabella, preoccupata, lo seguiva colla coda dell'occhio, e lo vide andare per l'andito, l'udì camminare nello spogliatoio; poi lo vide ritornare scuotendo il capo, e mormorando fra di sé: - No! è impossibile!...
-
Bruno e il Rosso comparvero.
- Vecchio mio, - gli disse il barone, - ti senti di buscarti un bel ducato d'oro, e passare una notte nel corridoio qui accanto, senza tremare come la rocca di una donnicciuola cui si parli di spiriti?
- Messere, io mi sento di far tutto quel che comandate - rispose Bruno, ma non senza alquanto esitare.
Il barone che conosceva da un pezzo il suo Bruno per un bravaccio indurito a tutte le prove, fu sorpreso da quell'esitazione, e dallo scorgere che il Bruno, contro ogni aspettativa, s'era fatto serio.
- Per l'inferno! - gridò battendo un gran pugno sulla tavola, - mi diventate tutti un branco di poltroni qui!
- Messere, per provarvi come poltroni non lo siamo tutti, farò quel che mi ordinerete.
- E anch'io.
- rispose il Rosso, vergognoso di non esser messo alla prova invece del capocaccia.
- Così, non avrete più a dubitare delle parole nostre.
- Orbene! giacché tutti avete visto, giacché tutti avete udito, giacché tutti avete toccato con mano, fatemi buona guardia stanotte, appostatevi sul cammino che suol tenere cotesto gaglioffo che ha messo la tremarella addosso a tutta la mia gente.
Da qual parte si suol vedere questo fantasma?
- Nel corridoio qui accanto, di solito...
Ma nessuno ha più visto nulla dacché quest'ala del castello non è stata più abitata...
- Tu, Bruno, ti porrai a guardia dietro l'uscio che mette nella sala grande, e il Rosso dietro la finestra, in capo al corridoio.
Allorché cotesto spirito malnato sarà dentro, e voi avrete accanto le vostre brave daghe, e non vi tremerà né la mano né il cuore, il ribaldo non potrà scappare altro che dalla mia camera...
e allora, pel mio Dio o pel suo Diavolo! l'avrà da fare con me.
Andate, e buona guardia!
- Io credo che fareste meglio ad ordinare delle messe per l'anima della vostra donna Violante - gli disse la baronessa seria seria, allorquando furono soli.
Il barone fu sul punto di mettersi in collera, ma seppe padroneggiarsi, e rispose in aria di scherno:
- Da quando in qua mi siete divenuta credula come una femminuccia, moglie mia?
- Dacché vedo ed odo cose che non ho mai udite né viste.
- Cos'avete udito, di grazia?
- Quel che avete udito voi! - ribatté essa senza scomporsi.
Don Garzia s'accigliò.
- Io non ho udito né visto nulla - esclamò dispettosamente.
- Ed io ho visto voi come vi vedo in questo momento, e come sareste sorpreso voi stesso di vedervi se lo poteste!
- Ah! - esclamò il barone con un riso che mostrava i suoi denti bianchi ed aguzzi al pari di quelli di un lupo, - è che mi avete fatto girare il capo anche a me, ed ho paura anch'io!
- Credete che io abbia paura, messere? -
Il messere non rispose e andò a mettersi alla finestra di un umore più nero delle grosse nuvole che s'accavallavano sull'orizzonte.
IV.
Il barone fu insolitamente sobrio a cena quella sera.
Donna Isabella andò a coricarsi senza dire una parola, senza fare un'osservazione, ma pallida e seria.
Don Garzia, quando si fu accertato che il Rosso e il Bruno erano già al loro posto, andò a letto e disse alla moglie motteggiando:
- Stanotte vedremo se il diavolo ci lascerà la coda -.
Donna Isabella non rispose, ma don Garzia non russò e dormì di un occhio solo.
Mezzanotte era suonata da un pezzo, il barone avea levato il capo ascoltando i dodici tocchi, poi s'era voltato e rivoltato pel letto due o tre volte, avea sbadigliato, infine s'era addormentato per davvero.
Tutto era tranquillo, e taceva anche il vento; donna Isabella, che era stata desta sino allora, cominciava ad assopirsi.
Ad un tratto un grido terribile rimbombò per l'immenso corridoio; era un grido supremo di terrore, di delirio, che non poteva riconoscersi a qual voce appartenesse, che non aveva nulla d'umano; nello stesso tempo si udì un gran tramestìo, l'uscio e la finestra della camera furono spalancati con impeto, quasi da un violento colpo di vento, e al lume dubbio della lampada parve che una figura bianca in un baleno attraversasse la camera e fuggisse dalla finestra.
La baronessa, agghiacciata dal terrore fra le coltri, vide il marito slanciarsi dietro il fantasma colla spada in pugno, e saltare dalla finestra sul ballatoio.
Egli correva come un forsennato, seguito da Bruno, inseguendo il fantasma che fuggiva come un uccello, sull'orlo del parapetto rovinato; entrambi, coi capelli irti sul capo, videro al certo, non fu illusione, la bianca figura arrampicarsi leggermente pei sassi che sporgevano ancora dalla cortina, al posto dov'era stata la scala, e sparire nel buio.
- Per la Madonna dell'Ognina! - esclamò il barone dopo alcuni istanti di stupore, - lo toccherò colla mia spada, o che si prenda l'anima mia, s'è il Diavolo in carne ed ossa! -
Don Garzia non credeva né a Dio né al Diavolo, sebbene li rispettasse entrambi; ma senza saper perché si ricordò delle parole dettegli da donna Isabella la mattina, e fremette.
Donna Isabella non gli avea fatto la più semplice domanda, o si spaventasse a farla, o la credesse inutile.
Il barone del resto era di tale umore da non permetterne talune.
L'indomani però dissegli risolutamente che non intendeva dormire più oltre in quella camera.
- Aspettate ancora stanotte, - rispose il marito, - farò buona guardia io stesso, e se domani non riderete delle vostre paure, vi lascerò padrona di far quel che meglio vorrete -.
Ella non osò aggiunger verbo, soltanto qualche momento dopo gli domandò:
- Di che malattia è morta la vostra prima moglie, messere? -
Ei la guardò bieco, e rispose:
- Di mal caduco, madonna.
- Io non avrò cotesto male, vi prometto! - disse ella con strano accento.
Don Garzia, insieme a tutti i vizi del soldato di ventura e del gentiluomo-brigante, ne avea la sola virtù: una bravura a tutta prova.
Egli fece quel che non osava più fare Bruno, il terribile Bruno, e per cui era mezzo morto anche il Rosso, giovanotto ardito se mai ce ne fossero; e passò tre notti di seguito nel corridoio, senza batter ciglio, senza muoversi più che non si muovesse il pilastro al quale stava appoggiato, colla mano sull'elsa della spada e l'orecchio teso: il vento sbatteva le imposte della finestra ch'era stata lasciata aperta per ordine suo, i gufi svolazzavano sul ballatoio, i pipistrelli s'inseguivano stridendo per l'andito; il lume della lampada riverberavasi pel vano dell'arco della sala delle guardie e sembrava vacillante; ma del resto tutto era queto, e don Garzia sarebbesi stancato di passar le notti in sentinella, come un uomo d'armi, se il ricordo di quel che avea visto coi propri occhi non fosse stato ancora profondamente impresso nella sua mente, e se una parola della moglie non gli avesse messo in corpo una di quelle preoccupazioni che non lasciano più dormire né lo spirito né il corpo, uno di quei dubbi che imperiosamente domandano uno schiarimento; la sua coscienza dormiva ancora, ma le sue reminiscenze, talune circostanze lasciate passare inosservate, si svegliavano ad un tratto, gli si rizzavano dinanzi in forma di tal sospetto, che don Garzia, zotico, brutale, dispotico signore, scettico e superstizioso ad un tempo, ma in fondo sinceramente barone, vale a dire ossequioso al re, e alla Chiesa, che lo facevano quello che egli era, se ne sentiva padroneggiato, e provava il bisogno di scioglierlo colla persuasione, o colla spada.
Era la quarta notte che don Garzia attendeva; il mare era in tempesta, il tuono scuoteva il castello dalle fondamenta, la grandine scrosciava impetuosamente sui vetri, e le banderuole dei torrioni gemevano ad intervalli; di tanto in tanto un lampo solcava il buio del corridoio per tutta la sua lunghezza, e sembrava gettarvi un'onda di spettri; tutt'a un tratto il lume ch'era nella sala delle guardie si spense.
Don Garzia rimase al buio.
Le tenebre che lo avvolgevano sembravano stringerlo ed opprimerlo da tutte le parti, soffocargli il respiro nel petto, la voce nella gola, e inchiodargli il ferro nella guaina; improvvisamente quel soldataccio risoluto sentì un brivido che gli penetrava tutte le ossa: fra le tenebre, in mezzo a tutti quei rumori vari, confusi, ma che avevano un non so che di pauroso, parvegli udire un altro rumore più vicino, più spaventoso, tale da far battere di febbre il polso di quell'uomo; le tenebre furono squarciate da un lampo, e videsi di faccia, ritta, immobile, quella figura bianca che aveva visto fuggire un'altra volta dinanzi a lui, e d'allora in poi aveva inseguito lui nella coscienza o nel pensiero, - ora la guardava con occhi lucenti e terribili.
Tutto ciò non fu che un istante, una visione; - coi capelli irti, vibrò una stoccata formidabile, sentì l'elsa urtare contro qualche cosa, udì un grido di morte che gli agghiacciò tutto il sangue nelle vene, e in un delirio di terrore gli fece ritirare la spada e fare un salto indietro, atterrito, chiamando la sua gente con quanta voce aveva in corpo.
Scorsero due o tre minuti terribili, in cui non si udì più nulla; egli rimase in mezzo a quel buio, vicino a quella cosa che la sua spada aveva toccato.
Pel castello si udì un gran tramestìo, si vide correre la gente, e sulle pareti cominciarono a riflettersi le fiaccole dei valletti.
Don Garzia si slanciò sull'uscio gridando:
- Non entri nessuno all'infuori del Bruno, se v'è cara la vita! -
Tutti s'erano fermati attoniti vedendo il barone così pallido, coll'occhio stralunato e la spada in pugno, ancora macchiata di sangue.
Bruno entrò, e vide uno spettacolo orribile.
Vicino alla parete giaceva il cadavere di donna Violante, vestita del suo accappatoio bianco, com'era fuggita dal letto del marito la notte in cui s'era creduto che si fosse buttata in mare.
Il viso avea pallido come cera e dimagrato enormemente, i capelli arruffati ed incolti, gli occhi spalancati, lucidi, fissi, spaventosi.
La ferita era stata mortale e non sanguinava quasi, solo alcune gocce di sangue l'erano uscite dalla bocca e le rigavano il mento.
- Avevi ragione Bruno! - disse il barone con voce sorda.
- Non volevo crederci ai fantasmi; le credevo sciocchezze di femminucce; ma adesso ci credo anch'io.
Bisogna buttare in mare questa forma della mia povera moglie che ha preso lo spirito maligno...
e senza che nessuno al castello e fuori ne sappia nulla, ché sarebbero capaci d'inventarci su non so quale storia assurda...
-
Bruno capiva e non ebbe bisogno d'altre spiegazioni; però il suo signore non dimenticò di aggiungere sottovoce:
- Senti, vecchio mio, sai bene che se la cosa si risapesse così come sembra essere avvenuta, io sarei stato bigamo e peggio, e la tua testa sarebbe assai malferma sulle tue spalle, in fede mia! -
In chiesa, ricorrendo l'anniversario della morte di donna Violante, le furono resi dei pomposi e costosi suffragi; però, non si sa come, cominciavasi a buccinare al castello e fuori che la cosa fosse proprio avvenuta come sembrava, e come don Garzia non voleva che sembrasse; e Bruno, il quale perciò cominciava a dubitare che la sua testa non fosse ben ferma sulle sue spalle, un bel giorno a caccia mise per distrazione una palla d'archibugio fra la prima e la seconda vertebra del suo signore.
Donna Isabella, che avea una gran paura del mal caduco, era andata a villeggiare presso la sua famiglia, e siccome l'aria le faceva bene, non era più ritornata.
V.
Questa era la leggenda del Castello di Trezza, che tutti sapevano nei dintorni, che tutti raccontavano in modo diverso, mescolandovi gli spiriti, le anime del Purgatorio, e la Madonna dell'Ognina.
I terremoti, il tempo, gli uomini, avevano ridotto un mucchio di rovine la splendida e forte dimora di signori i quali, al tempo di Artale d'Alagona, aveano sfidato impunemente la collera del re, e sembravano avervi impresso una stimmate maledetta, che dava una misteriosa attrattiva alla leggenda, e affascinava lo sguardo della signora Matilde, mentre ascoltava silenziosamente.
- E di quell'uomo? - domandò improvvisamente, - di quel giovanotto che per sua disgrazia non era morto cadendo nel trabocchetto, e che vi agonizzava lentamente, cosa ne è avvenuto?
- Chissà? Forse il barone avrà udito ancora dei gemiti soffocati, o delle grida disperate che imploravano la morte, forse dopo alcuni giorni, si sarà sentito il lezzo del cadavere da quella specie di pozzo, forse avrà voluto prevenire che ciò avvenisse, - vi fece gettar della calce viva, e non si sentì più nulla.
- È una storia spaventosa! - mormorò la signora Matilde.
- Togliamone pure i fantasmi, il suono della mezzanotte, il vento che spalanca usci e finestre, e le banderuole che gemono, è una spaventosa storia!
- Una storia la quale non sarebbe più possibile oggi che i mariti ricorrono ai Tribunali, o alla peggio si battono - rispose Luciano ridendo.
Ella gli agghiacciò il riso in bocca con uno sguardo singolare.
- Lo credete? - domandò.
Luciano ammutolì per quello sguardo, per quell'accento, pel sentirsi dar del voi così distrattamente e a quella guisa.
Sopraggiungeva il signor Giordano.
Parlatemi d'altro, - diss'ella sottovoce, con singolare vivacità, - non discorriamo più di cotesto...
-
VI.
Il signor Luciano e la signora Matilde si vedevano quasi tutti i giorni, in quella piccola società d'amici che le veglie o le escursioni pei dintorni riunivano quotidianamente.
La signora fu indisposta due o tre giorni, e non si fece vedere.
Allorché s'incontrarono la prima volta parve così mutata a Luciano che ei le domandò premurosamente della salute; il contegno di lei, le sue risposte, furono così imbarazzate, che il giovane ne fu imbarazzato egli pure, senza saper perché.
Evidentemente ella lo evitava.
Era sempre allegra, spiritosa ed amabile con tutti, ma con lui era cambiata.
- Anche il marito avea cambiato maniere - senza che nulla fosse avvenuto, senza che una parola fosse stata detta, senza che Luciano stesso sapesse ancora perché ei fosse così turbato, perché l'imbarazzo di lei rendesse imbarazzato anche lui, e perché si fosse accorto del cambiamento del signor Giordano.
Una bella sera di luna piena tutta la comitiva era uscita a passeggiare, e Luciano offrì risolutamente il braccio alla signora Matilde; ella esitò alquanto, ma non osò rifiutare; camminavano lentamente, in silenzio, mentre gli altri ciarlavano e ridevano; ad un tratto ella gli strinse il braccio, e gli disse con un soffio di voce: - Vedete! -
Il signor Giordano era lì presso, dando il braccio alla signora Olani.
La mano che stringeva il braccio di Luciano era convulsa e tremante, la voce avea una vibrazione insolita.
Quando il signor Giordano ebbe lasciata al cancello della villa la signora Olani, sembrò lasciare anche una maschera che si fosse imposta sino a quel momento, e mostrossi soprappensieri, taciturno e accigliato.
- Ho paura!...
ho paura di lui!...
- mormorò Matilde sottovoce.
Luciano premette quel braccio delicato che s'appoggiava leggermente al suo, e che gli rispose tremante e gli si abbandonò confidente e innamorato, a lui che non avrebbe potuto proteggerla neppure dando tutto il sangue delle sue vene.
Si volsero uno sguardo, uno sguardo solo, lucente nella penombra - quello della donna smarrito - e chinarono gli occhi.
Sull'uscio della casa si lasciarono.
Ei non osò stringerle la mano.
Ella partì, né seppe giammai quali notti ardenti di visioni egli avesse passato, quali febbri l'avessero roso accanto a lei, mentre sembrava così calmo e indifferente, quante volte fosse stato a divorarla, non visto, cogli occhi, e quel che si fosse passato dentro di lui allorché sorridendo dovette dirle addio dinanzi a tutti, e quando la vide passare, rincantucciata nell'angolo della carrozza, colle guance pallide e gli occhi fissi nel vuoto, e qual nodo d'amarezza gli avesse affogato il cuore allorché rivide chiusa quella finestra dove l'avea vista tante volte.
L'indovinò? indovinò egli stesso quel che avesse sofferto ella pure? Quando s'incontrarono di nuovo, dopo lungo tempo, parvero non conoscersi, non vedersi, impallidirono e non si salutarono.
Finalmente s'incontrarono un'altra volta - al ballo, in chiesa, al teatro, auspice Dio o la fatalità; ei le disse: - Come potrei vedervi? - Ella impallidì, si fece di bracia, chinò gli occhi, glieli fissò ardenti nei suoi, e rispose: - Domani -.
E il domani si videro - un'ora dopo ella avea l'anima ebbra di estasi, i polsi tremanti di febbre, e gli occhi pieni di lagrime.
- Perché m'avete raccontato quella storia? - ripeteva balbettando come in sogno.
Era pentimento, rimprovero, o presentimento?
Alcuni mesi dopo, in autunno, la medesima compagnia d'amici s'era riunita ad Aci Castello.
I due che s'amavano avevano saputo nascondere la loro febbre, o il marito avea saputo dissimulare la sua collera, o la signora Olani era stata più assorbente.
Si vedevano come prima, si riunivano come prima, erano allegri, o sembravano, come prima.
- Qualche fuggitivo rossore di più sulle gote, e qualche lampo negli occhi - null'altro! Si facevano le solite scampagnate, i soliti ballonzoli, si andava in barca o a cavallo sugli asini, e si progettò anche il solito pranzo sulla vecchia torre del castello.
La signora Matilde mise in mezzo tutti gli ostacoli; il marito la guardò in un certo modo, e le domandò la ragione dell'insolita ripugnanza...
Andò anche lei.
Il pranzo fu allegro come quello dell'anno precedente.
Si mangiò sull'erba, si ballò sull'erba, e si buttarono sull'erba le bottiglie dopo che ne furono fatti saltare i turaccioli.
Si ciarlò del castello, di memorie storiche, dei Normanni e dei Saraceni, della pesca delle acciughe e dei secoli cavallereschi, e tornarono in campo le vecchie leggende, e si raccontò di nuovo a pezzi e a bocconi la storia che Luciano avea raccontato la prima volta in quel luogo medesimo, e che alcuni nuovi venuti ascoltavano con avidità, digerendo tranquillamente, ed assaggiando il buon moscato di Siracusa.
Luciano
...
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