STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, di Francesco De Sanctis - pagina 49
...
.
Gittando ora un solo sguardo su questi lavori, si possono raccogliere con chiarezza i caratteri della nuova cultura.
Le teorie in astratto rimangono le stesse, e il Boccaccio pensa come Dante.
Ma nel fatto lo spirito abbandona il cielo e si raccoglie in terra: perde la sua idealità e la sua inquietudine, e diviene tranquillo, calato tutto e soddisfatto nella materia della sua contemplazione.
A un mondo lirico di aspirazioni indefinite, espresso nella visione e nell'estasi, succede un mondo epico, che ha ne' fatti umani e naturali il suo principio e il suo termine.
Il poeta in luogo d'idealizzare realizza, cioè a dire fugge le forme sintetiche e comprensive che gittano lo spirito in un di là da esse, e cerca una forma nella quale l'immaginazione si trovi tutta e si riposi.
Non ci è più il «forse» e il «parere», non una forma appena abbozzata, quasi velo di qualcos'altro, ma una forma terminata e chiusa in sè e corpulenta, nella quale l'oggetto è minutamente analizzato nelle singole parti: alla terzina succede l'analitica ottava.
Rimangono ancora le terzine, e le visioni e le allegorie, i sonetti e le canzoni, ma come forme prettamente convenzionali e d'imitazione, sciolte dallo spirito che le ha generate: il passato per lungo tempo si continua come morta forma in un mondo mutato.
Succedono forme giovani e nuove, più conformi a un contenuto epico.
Sul mondo inquieto delle allegorie e delle visioni si alza il sereno e tranquillo mondo pagano, con le sue deità umanizzate, con la sua natura animata, col suo vivo sentimento della bellezza, con la sua disinteressata contemplazione artistica.
Queste tendenze non trovano soddisfazione in un contenuto eroico e cavalleresco, perchè la serietà di una vita eroica e cavalleresca è ita via insieme col medio evo, e non è più nella coscienza, e non può essere altro che imitazione letteraria e artificio rettorico.
Più conveniente a quelle forme è la vita idillica, ne' cui tranquilli ozi, nella cui semplicità e chiarezza l'anima, agitata dalle lotte politiche e turbata dalle ombre di un mondo trascendente, si raccoglie come in un porto e si riposa.
L'idillio è la prima forma nella quale si manifesta questa nuova generazione, fiacca e stanca, pur colta ed erudita, che chiama barbara la generazione passata, e celebra i nuovi tempi della coltura e dell'umanità, invocando Venere e Amore.
Specchio di questa società nelle sue fluttuazioni, nelle sue imitazioni, nelle sue tendenze, è il Boccaccio.
I suoi tentennamenti e le sue dissonanze provengono dalla coesistenza nel suo spirito d'elementi vecchi e nuovi, vivi e morti, mescolati.
Un doppio involucro, mistico e mitologico, circonda come una nebbia questo mondo della natura.
Fra questi tentennamenti si andò formando il Decamerone.
Il Boccaccio lascia qui cavalleria, mitologia, allegoria, e tutto il suo mondo classico, tutte le sue reminiscenze dantesche, e si chiude nella sua società, e ci vive e ci gode, perchè ivi trova se stesso, perchè vive anche lui di quella vita comune.
Par così facile attingere la società in questa forma diretta e immediata: pur si vede quanto laboriosa gestazione è necessaria, perchè esca alla luce il mondo del tuo spirito.
Quel mondo esisteva prima del Decamerone.
In Italia abbondavano romanzi e novelle e «canzoni latine», canti licenziosi.
Le donne, come abbiam visto, leggevano secretamente tra loro questi libri profani, e i novellatori intrattenevano le liete brigate con racconti piacevoli e licenziosi.
Il fondo comune de' romanzi erano le avventure de' cavalieri della Tavola rotonda e di Carlomagno Nell'Amorosa visione il Boccaccio cita un gran numero di questi eroi ed eroine, Artù, Lancillotto, Galeotto, Isotta la bionda, Chedino, Palamides, Lionello, Tristano, Orlando, Uliviero, Rinaldo, Guttifré, Roberto Guiscardo, Federico Barbarossa, Federico secondo.
Egli medesimo scrisse romanzi per far piacere alle donne, e rifatto il romanzo di Florio e Biancofiore, cercò un teatro più conforme a' suoi studi classici ne' tempi eroici e primitivi delle greche tradizioni.
Pure, le novelle doveano riuscire più popolari e più gradite, perchè più conformi a' tempi e a' costumi.
E se ne raffazzonavano o inventavano di ogni sorta, serie e comiche, morali e oscene, variate e abbellite da' novellatori secondo i gusti dell'uditorio.
La novella era dunque un genere vivente di letteratura, lasciato in balia dell'immaginazione, e come materia profana e frivola, trascurata dagli uomini colti.
Rivale della novella era la leggenda co' suoi miracoli e le sue visioni.
Gli uomini colti si tenevano alto in una regione loro propria, e lasciavano a' frati i Fioretti di san Francesco e la Vita del beato Colombino, e a' buontemponi la semplicità di Calandrino e le avventure galanti di Alatiel.
In questo mondo profano e frivolo entrò il Boccaccio, con non altro fine che di scrivere cose piacevoli e far cosa grata alla donna che gliene avea data commissione.
E raccolse tutta quella materia informe e rozza, trattata da illetterati, e ne fece il mondo armonico dell'arte.
Dotte ricerche sonosi fatte sulle fonti dalle quali il Boccaccio ha attinte le sue novelle.
E molti credono si tolga qualche cosa alla sua gloria, quando sia dimostrato che la più parte de' suoi racconti non sono sua invenzione, quasi che il merito dell'artista fosse nell'inventare, e non piuttosto nel formare la materia.
Fatto è che la materia, così nella Commedia e nel Canzoniere come nel Decamerone, non uscì dal cervello di un uomo, anzi fu il prodotto di una elaborazione collettiva, passata per diverse forme, insino a che il genio non l'ebbe fissata e fatta eterna.
Ci erano in tutti i popoli latini novelle sotto diversi nomi, ma non c'era la novella, e tanto meno il novelliere, in cui i singoli racconti fossero composti ad unità e divenissero un mondo organico.
Questo organismo vi spirò dentro il Boccaccio, e di racconti diversi di tempi, di costumi e di tendenze fece il mondo vivente del suo tempo, la società contemporanea, della quale egli aveva tutte le tendenze nel bene e nel male.
Non è il Boccaccio uno spirito superiore che vede la società da un punto elevato e ne scopre le buone e cattive parti con perfetta e severa coscienza.
È un artista che si sente uno con la società in mezzo a cui vive, e la dipinge con quella mezza coscienza che hanno gli uomini fluttuanti fra le mobili impressioni della vita, senza darsi la cura di raccogliersi e analizzarle.
Qualità che lo distingue sostanzialmente da Dante e dal Petrarca, spiriti raccolti ed estatici.
Il Boccaccio è tutto nel mondo di fuori tra' diletti e gli ozi e le vicissitudini della vita, e vi è occupato e soddisfatto, e non gli avviene mai di piegarsi in sè, di chinare il capo pensoso.
Le rughe del pensiero non hanno mai traversata quella fronte, e nessun'ombra è calata sulla sua coscienza.
Non a caso fu detto «Giovanni della tranquillità».
Sparisce con lui dalla nostra letteratura l'intimità, il raccoglimento, l'estasi, la inquieta profondità del pensiero, quel vivere dello spirito in sè, nutrito di fantasmi e di misteri.
La vita sale sulle superficie e vi si liscia e vi si abbellisce.
Il mondo dello spirito se ne va: viene il mondo della natura.
Questo mondo superficiale, appunto perchè vuoto di forze interne e spirituali, non ha serietà di mezzi e di scopo.
Ciò che lo move non è Dio, nè la scienza, non l'amore unitivo dell'intelletto e dell'atto, la grande base del medio evo; ma è l'istinto o l'inclinazione naturale: vera e violenta reazione contro il misticismo.
Ti vedi innanzi una lieta brigata, che cerca dimenticare i mali e le noie della vita, passando le calde ore della giornata in piacevoli racconti.
Era il tempo della peste, e gli uomini con la morte innanzi si sentivano sciolti da ogni freno e si abbandonavano al carnevale della loro immaginazione.
Di questo carnevale il Boccaccio aveva l'immagine nella corte ove avea passati i suoi più bei giorni, attingendo le sue ispirazioni in quel letame, sul quale le Muse e le Grazie sparsero tanti fiori.
Un congegno simile trovi già nell'Ameto, un decamerone pastorale: se non che ivi i racconti sono allegorici e preordinati ad un fine astratto: non c'è lo spirito della Divina Commedia, ma ce n'è l'ossatura.
Qui al contrario i racconti non hanno altro fine che di far passare il tempo piacevolmente, e sono veri mezzani di piacere e d'amore, il vero Principe Galeotto, titolo italiano del novelliere, velato pudicamente da un titolo greco.
I personaggi evocati nell'immaginazione da diversi popoli e tempi appartengono allo stesso mondo, vuoto al di dentro, corpulento al di fuori.
Personaggi, attori, spettatori e scrittore sono un mondo solo, il cui carattere è la vita tutta al di fuori, in una tranquilla spensieratezza.
Questo mondo è il teatro de' fatti umani abbandonati al libero arbitrio e guidati ne' loro effetti dal caso.
Dio o la provvidenza ci sta di nome, quasi per un tacito accordo, nelle parole di gente caduta nella più profonda indifferenza religiosa, politica e morale.
E non c'è neppure quella intima forza delle cose, che crea la logica degli avvenimenti e la necessità del loro cammino; anzi l'attrattivo del racconto è proprio nell'opposto, mostrando le azioni umane per il capriccio del caso riuscire a un fine affatto contrario a quello che ragionevolmente si potea presupporre.
Nasce una nuova specie di maraviglioso, generato non dall'intrusione nella vita di forze oltrenaturali sotto forma di visioni o miracoli, ma da uno straordinario concorso di accidenti non possibili ad essere preveduti e regolati.
L'ultima impressione è che signore del mondo è il caso.
Ed è appunto nel vario giuoco delle inclinazioni e delle passioni degli uomini sottoposte a' mutabili accidenti della vita che è qui il deus ex machina, il dio di questo mondo.
E poichè la macchina è il maraviglioso, l'imprevisto, il fortuito, lo straordinario, l'interesse del racconto non è nella moralità degli atti, ma nella loro straordinarietà di cause e di effetti.
Non già che il Boccaccio sconosca il mondo morale e religioso, ed alteri le nozioni comuni intorno al bene od al male, ma non è questo di che si preoccupa e che lo appassiona.
Poco a lui rileva che il fatto sia virtuoso o vizioso: ciò che importa è che possa stuzzicare la curiosità con la straordinarietà degli accidenti e dei caratteri.
La virtù, posta qui a fare effetto sull'immaginazione, manca di semplicità e di misura, e diviene anch'essa un istrumento del maraviglioso, condotta ad una esagerazione, che scopre nell'autore il vuoto della coscienza ed il difetto di senso morale.
Esempio notabile è la Griselda, il personaggio più virtuoso di quel mondo.
La quale per mostrarsi buona moglie soffoca tutti i sentimenti della natura e la sua personalità e il suo libero arbitrio.
L'autore, volendo foggiare una virtù straordinaria, che colpisca di ammirazione gli uditori, cade in quel misticismo contro di cui si ribella e che mette in gioco, collocando l'ideale della virtù femminile nell'abdicazione della personalità, a quel modo che secondo l'ideale teologico la carne è assorbita dallo spirito e lo spirito è assorbito da Dio.
Si rinnova il sacrificio di Abramo, e il Dio che mette la natura a così crudel prova è qui il marito.
Similmente la virtù in Tito e Gisippo è collocata così fuori del corso naturale delle cose, che non ti alletta come un esempio, ma ti stupisce come un miracolo.
Ma virtù eccezionali e spettacolose sono rare apparizioni, e ciò che spesso ti occorre è la virtù tradizionale di tempi cavallereschi e feudali, una certa generosità e gentilezza di re, di principi, di marchesi, reminiscenze di storie cavalleresche ed eroiche in tempi borghesi.
La qual virtù è in questo, che il principe usa la sua potenza a protezione de' minori, e soprattutto degli uomini valenti d'ingegno e di studi e poco favoriti dalla fortuna, come furono Primasso e Bergamino, verso i quali si mostrarono magnifici l'abate di Cligny e Can Grande della Scala.
Così è molto commendato il primo Carlo d'Angiò, il quale, potendo rapire e sforzare due bellissime fanciulle, figliuole di un ghibellino, amò meglio dotarle magnificamente e maritarle.
La virtù in questi potenti signori è di non fare malvagio uso della loro forza, anzi di mostrarsi liberali e cortesi.
Già cominciava in quel mondo a parer fuori una classe di letterati, che viveva alle spese di questa virtù, celebrando con giusto cambio una magnificenza, della quale assaporavano gli avanzi.
L'anima altera di Dante mal vi si piegava, nè gli fu ultima cagione d'amarezza quel mendicare la vita a frusto a frusto e scendere e salire per le altrui scale.
Ma i tempi non erano più all'eroica, e il Petrarca si lasciava dotare e mantenere da' suoi mecenati, e il Boccaccio vivea de' rilievi della corte di Napoli, comicamente imbestiato, quando il mantenimento non era dicevole a un par suo, disposto da' buoni o da' cattivi cibi al panegirico o alla satira.
Tale è il tipo di ciò che in questo mondo boccaccevole è chiamato la virtù, una liberalità e gentilezza d'animo, che dalle castella penetra nelle città e fino ne' boschi, asilo de' masnadieri, della quale sono esempio Natan, e il Saladino, e Alfonso, e Ghino di Tacco, e il negromante di Ansaldo.
Questo, se non è propriamente senso morale, è pur senso di gentilezza, che raddolcisce i costumi e spoglia la virtù del suo carattere teologico e mistico, posto nell'astinenza e nella sofferenza, le dà aspetto piacevole, più conforme ad una società colta e allegra.
Vero è che siccome il caso, regolatore di questo mondo, ne fa di ogni maniera, talora l'allegria che vi domina è funestata da tristi accidenti, che turbano il bel sereno.
Ma è una nuvola improvvisa, la quale presto si scioglie e rende più cara la vista del sole, o come dice la Fiammetta, è una «fiera materia, data a temperare alquanto la letizia».
Volendo guardare più profondamente in questo fenomeno, osserviamo che la gioia ha poche corde, e sarebbe cosa monotona, noiosa, e perciò poco gioiosa, come avviene spesso ne' poemi idillici, se il dolore non vi si gittasse entro con le sue corde più varie e più ricche d'armonia, traendosi appresso un corteggio di vivaci passioni, l'amore, la gelosia, l'odio, lo sdegno, l'indignazione.
Il dolore ci sta qui non per sè, ma come istrumento della gioia, stuzzicando l'anima, tenendola in sospensione e in agitazione, insino a che per benignità della fortuna o del caso comparisce d'improvviso il sereno.
E quando pure il fatto sorta trista fine, com'è in tutt'i racconti della giornata quarta, l'emozione è superficiale ed esterna, esaltata e raddolcita in descrizioni, discorsi e riflessioni, e non condotta mai sino allo strazio, com'è nel fiero dolore di Dante.
Sono fugaci apparizioni tragiche in questo mondo della natura e dell'amore, provocate appunto dalla collisione della natura e dell'amore non con un principio elevato di moralità, ma con la virtù cavalleresca, «il punto d'onore».
Di che bellissimo esempio, oltre il Gerbino, è il Tancredi, che testimone della sua onta uccide l'amante della figliuola, e mandale il cuore in una coppa d'oro: la quale, messa sopra esso acqua avvelenata, quella si bee e così muore.
Il motivo della tragedia è il punto d'onore, perchè ciò che move Tancredi è l'onta ricevuta, non solo per l'amore della figliuola, ma ancora più per l'amore collocato in uomo di umile nazione.
Ma la figliuola dimostra vittoriosamente al padre la legittimità del suo amore e della sua scelta, invocando le leggi della natura e il concetto della vera nobiltà, posta non nel sangue, ma nella virtù; e l'ultima impressione è la condanna del padre indarno pentito e piangente sul morto corpo della figliuola, il quale apparisce non come giusto vendicatore del suo onore offeso, ma come ribelle verso la natura e l'amore.
L'effetto estetico è la compassione verso il padre e la figliuola, l'una di alto animo, l'altro umano e di benigno ingegno, vittime tutti e due non per difetto proprio, ma per le condizioni del mondo in mezzo a cui vivono.
La conclusione ultima è la rivendicazione delle leggi della natura e dell'amore verso gli ostacoli in cui s'intoppano.
Sicchè la tragedia è qui il suggello e la riprova del mondo boccaccevole, e il dolore fugace che vi fa la sua comparsa, presentato nella sua forma più mite e tenera, vicina alla compassione, è come il condimento della gioia, a lungo andare insipida, quando sia abbandonata a se stessa.
La base della tragedia è mutata.
Non è più il terrore che invade gli spettatori incontro a un fato incomprensibile che si manifesta nella catastrofe, come ne' greci, e neppure l'espiazione per le leggi di una giustizia superiore, come nell'inferno dantesco; ma è il mondo abbandonato alle sue forze naturali e cieche, nel cui conflitto rimane l'amore come una specie di diritto superiore, incontro a cui tutti hanno torto.
La natura, che nel mondo dantesco è il peccato, qui è la legge, ed ha contro di sè non un mondo religioso e morale, di cui non è vestigio, ancorchè ammesso in astratto e in parola, ma la società come si trova ordinata in quel complesso di leggi, di consuetudini che si chiamano l'«onore».
Il conflitto è tutto però al di fuori nell'ordine de' fatti prodotti dal diverso urto di queste forze e terminati dalla benignità o malvagità del caso o della fortuna; e non sale a vera opposizione interna che sviluppi le passioni e i caratteri.
Il poeta non è un ribelle alle leggi sociali e tantomeno un riformatore; prende il mondo com'è, e se le sue simpatie sono per le vittime dell'amore, non biasima per ciò coloro che dall'onore sono mossi ad atti crudeli, anch'essi degni di stima, vittime anch'essi.
Così esalta Gerbino, che volle romper la fede data dal re, suo zio, anzi che mancare alle leggi dell'amore ed esser tenuto vile; ma non biasima il re che lo fece uccidere, «volendo anzi senza nipote rimanere, ch'essere tenuto re senza fede».
Ne nasce in mezzo all'agitazione de' fatti esteriori una calma interna, una specie di equilibrio, dove l'emozione non penetra se non quanto è necessario a ravvivare e variare l'esistenza.
Perciò in questo mondo borghese e indifferente e naturale la tragedia rimane esteriore e superficiale, naufragata qui come un frammento galleggiante nella vastità delle onde.
Il movimento non ha radice nella coscienza, nelle forti convinzioni e passioni stimolate dal contrasto, ma si scioglie in un giuoco di immaginazione, in una contemplazione artistica de' vari casi della vita, che sorprendano e attirino la tua attenzione.
Per dirla con un solo vocabolo comprensivo, virtù e vizi qui non hanno altro significato che di «avventure», ovvero casi straordinari tirati in iscena dal capriccio del caso.
Gli uditori non vi prendono altro interesse che di trovarvi materia a passare il tempo con piacere; e del loro piacere è mezzana la stessa virtù e lo stesso dolore.
Un mondo, il cui dio è il caso e il cui principio direttivo è la natura, non è solo spensierato e allegro, ma è anche comico.
Già quel non prendere in nessuna serietà gli avvenimenti e farne un giuoco di pura immaginazione, quell'intreccio capriccioso de' casi, quell'equilibrio interno che si mantiene sereno tra le più crudeli vicissitudini, sono il terreno naturale su cui germina il comico.
Un'allegrezza vuota d'intenzione e di significato è cosa insipida, è appunto quel riso che abbonda nella bocca degli stolti.
Perchè il riso abbia malizia o intelligenza, dee avere una intenzione e un significato, dee esser comico.
E il comico dà a questo mondo la sua fisonomia e la sua serietà.
Questa società è essa medesima una materia comica, perchè niente è più comico che una società spensierata e sensuale, da cui escono i tipi di don Giovanni e di Sancio Panza.
Ma è una società che rappresentava a quel tempo quanto di più intelligente e colto era nel mondo, e ne aveva coscienza.
Una società siffatta aveva il privilegio di esser presa sul serio da tutto il mondo e di poter ridere essa di tutto il mondo.
In effetti due cose serie sono in queste novelle, l'apoteosi dell'ingegno e della dottrina che si fa riconoscere e rispettare da' più potenti signori, e una certa alterezza borghese che prende il suo posto nel mondo e si proclama nobile al pari de' baroni e de' conti.
Questi sono i caratteri di quella classe a cui apparteneva il Boccaccio, istruita, intelligente, che teneva sè civile e tutto l'altro barbarie.
E il comico qui nasce appunto da questo: è la caricatura che l'uomo intelligente fa delle cose e degli uomini posti in uno strato inferiore della vita intellettuale.
La società colta aveva innanzi a sè i frati ed i preti, o come dice il Boccaccio, le cose cattoliche, orazioni, confessioni prediche, digiuni, mortificazioni della carne, visioni e miracoli; e dietro stava la plebe con la sua sciocchezza e la sua credulità.
Sopra questi due ordini di cose e di persone il Boccaccio fa sonare la sferza.
Materia del comico è dunque l'efficacia delle orazioni, come il «paternostro» di san Giuliano, il modo di servire Dio nel deserto, la vita pratica de' frati, de' preti e delle monache in contraddizione con le loro prediche, l'arte della santificazione insegnata a fra Puccio, i miracoli e le apparizioni de' santi, come l'apparizione dell'angelo Gabriello, e la semplicità della plebe, trastullo dei furbi.
Visibile soprattutto è la reazione della carne contro gli eccessivi rigori di un clero che proscriveva il teatro e la lettura de' romanzi, e predicava i digiuni e i cilizi come la via al paradiso.
È una reazione che si annunzia naturalmente con la licenza e il cinismo.
La carne scomunicata si vendica, e chiama «meccanici» i suoi maldicenti, cioè gente che giudica grossamente secondo l'opinione volgare.
Così il mondo dello spirito in quelle sue forme eccessive è divenuto per questa gente il mondo volgare.
È immaginabile con che voluttà la carne dopo la lunga compressione si sfoghi, con che delizia ti ponga innanzi ad uno ad uno i suoi godimenti, scegliendo i modi e le frasi più scomunicate, e talora volgendo a senso osceno frasi e immagini sacre.
È il mondo profano in aperta ribellione, che ha rotto il freno e fa la caricatura al padrone, cadutogli di sella.
Su questo fondo comico s'intreccia una grande varietà di accidenti, di cui sono gli eroi i due protagonisti immortali di tutte le commedie, chi burla e chi si fa burlare, i furbi e i gonzi, e di questi i più martoriati e i più innocenti, i mariti.
E fra tanti accidenti si sviluppa una grande ricchezza di caratteri comici, de' quali alcuni sono rimasti veri tipi, come il cattivello di Calandrino e lo scolare vendicativo che sa dove il diavolo tien la coda.
I caratteri seri sono piuttosto singolarità che tipi, individui perduti nella minutezza ed eccezionalità della loro natura, come Griselda, Tito, il conte di Anguersa, madama Beritola, Ginevra e la Salvestra e l'Isabetta e la figlia di Tancredi.
Ma i caratteri comici sono la parte viva e intima e sentita di questo mondo, e riflettono in sè fisonomie universali che incontrate nell'uso comune della vita, come compar Pietro e maestro Simone e fra Puccio e il frate montone e il giudice squasimodeo e monna Belcolore e Tofano e Gianni Lotteringhi, e tutte le varietà, perchè «infinita è la turba degli stolti».
Così questo mondo spensierato e gioviale si disegna, prende contorni, acquista una fisonomia, diviene la «commedia umana».
Ecco, a così breve distanza, la commedia e l'anticommedia, la «Divina Commedia» e la sua parodia, la «commedia umana»! E sullo stesso suolo e nello stesso tempo Passavanti, Cavalca, Caterina da Siena, voci dell'altro mondo, soverchiate dall'alto e profano riso di Giovanni Boccaccio.
La gaia scienza esce dal suo sepolcro col suo riso incontaminato; i trovatori e i novellatori, spenti da' ferri sacerdotali, tornano a vita e ripigliano le danze e le gioiose canzoni nella guelfa Firenze; la novella e il romanzo, proscritti, proscrivono alla lor volta e rimangono padroni assoluti della letteratura.
Certo, questo mutamento non viene improvviso, come appare un moto di terra: lo spirito laicale è visibile in tutta la letteratura e si continua con tradizione non interrotta, come s'è visto, insino a che nella Divina Commedia prende arditamente il suo posto e si proclama anch'esso sacro e di diritto divino, e Dante, laico, assume tono di sacerdote e di apostolo.
Ma Dante il fa con tanta industria che tutto l'edificio stia in piedi e la base rimanga salda.
La sua «commedia» è una riforma; la «commedia» del Boccaccio è una rivoluzione, dove tutto l'edificio crolla e sulle sue rovine escono le fondamenta di un altro.
La Divina Commedia uscì dal numero de' libri viventi, e fu interpretata come un libro classico, poco letta, poco capita, pochissimo gustata, ammirata sempre.
Fu divina, ma non fu più viva.
E trasse seco nella tomba tutti quei generi di letteratura, i cui germi appaiono così vivaci e vigorosi ne' suoi schizzi immortali, la tragedia, il dramma, l'inno, la laude, la leggenda, il mistero.
Insieme perirono il sentimento della famiglia e della natura e della patria, la fede in un mondo superiore, il raccoglimento e l'estasi e l'intimità, le caste gioie dell'amicizia e dell'amore, l'ideale e la serietà della vita.
In questo immenso mondo, crollato prima di venire a maturità e produrre tutti i suoi frutti, ciò che rimase fecondo fu Malebolge, il regno della malizia, la sede della umana commedia.
Quel Malebolge, che Dante gitta nel loto, e dove il riso è soverchiato dal disgusto e dalla indignazione, eccolo qui che mena sulla terra la sua ridda infernale, abbigliato dalle Grazie, e si proclama esso il vero paradiso, come capì don Felice e non capì il povero frate Puccio.
In effetti qui il mondo è preso a rovescio.
«Commedia» per Dante è la beatitudine celeste.
«Commedia» pel Boccaccio è la beatitudine terrena, la quale tra gli altri piaceri dà anche questo, di passare la malinconia spassandosi alle spalle del cielo.
La carne si trastulla, e chi ne fa le spese è lo spirito.
Se la reazione contro uno spiritualismo esagerato e lontanissimo dalla vita pratica fosse venuta da lotte vivaci nelle alte regioni dello spirito, il movimento sarebbe stato più lento o più contrastato, come negli altri popoli, ma insieme più fecondo.
Il contrasto avrebbe fortificata la fede negli uni e le convinzioni negli altri, e generata una letteratura piena di vigore e di sostanza, alla quale non sarebbe mancata nè la passione di Lutero, nè l'eloquenza di Bossuet, nè il dubbio di Pascal, nè le forme letterarie possibili solo dove la vita interiore è forte e sana.
Così il movimento sarebbe stato insieme negativo e positivo, il distruggere sarebbe stato insieme l'edificare.
Ma le audacie del pensiero punite inesorabilmente, troncata col sangue l'opposizione ghibellina, rimaso il papato arbitro e vicino e sospettoso e vigile, quel mondo religioso così corrotto ne' costumi, come assoluto nelle dottrine e grottesco nelle forme, al contatto con una coltura così rapida e con lo spirito fatto adulto e maturo dallo studio degli antichi scrittori, non potè esser preso sul serio dalla gente colta, che pure è quella che ha in mano l'indirizzo della vita nazionale.
Nacque a questo modo la scissura tra la gente colta e tutto il rimanente della società, che pure era la gran maggioranza, rimasa passiva e inerte in mano al prete di Varlungo, a donno Gianni, a frate Rinaldo e a frate Cipolla.
Sicchè per la gente istruita quel mondo divenne il mondo del volgo, o de' meccanici, e saperne ridere era segno di coltura: ne ridevano anche i chierici che volevano esser tenuti uomini colti.
Così coesistevano l'una accanto all'altra due società distinte, senza troppo molestarsi.
La libertà del pensiero era negata; vietato mettere in dubbio la dottrina astratta; ma quanto alla pratica, era un altro affare, si viveva e si lasciava vivere, trastullandosi tutti e sollazzandosi nel nome di Dio e di Maria.
Gli stessi predicatori ne davano esempio, cercando di divertire il pubblico con motti e ciance ed iscede; cosa che al buon Dante muoveva lo stomaco, e che faceva ridere il Boccaccio, scrivendo nella conclusione del suo Novelliere: «se le prediche de' frati per rimorder delle lor colpe gli uomini il più oggi piene di motti e di ciance e di scede si veggono, estimai che quegli medesimi non stesser male nelle mie novelle, scritte per cacciar la malinconia delle femmine.»
L'indignazione di Dante era caduta: sopravvenne il riso, come di cose oramai comuni.
Non si move la bile se non in quelli che credono e veggono profanata la loro credenza ne' fatti: è la bile de' santi e di tutti gli uomini di coscienza.
Ma quella colta società, vuota di senso religioso e morale, non era disposta a guastarsi la bile per i difetti degli uomini.
Le «sfacciate donne fiorentine» qui allettano e lasciviano e fanno «quadri viventi», come si dice e si fa oggidì.
Il traffico delle cose sacre, occasione allo scisma della credente Germania, e che Dante nella nobile ira sua chiama «adulterio», qui è materia di amabili frizzi, senza fiele e senza malizia.
La confessione suggerisce l'idea di equivoci molto ridicoli, ne' quali sono i laici e le laiche, che la fanno a' preti, uomini «tondi» e «grossi», come si mostra nel confessore di ser Ciappelletto, e nel frate Bestia, carattere comico de' meglio disegnati.
Il foggiar miracoli, come quel di Masetto l'ortolan Alberto o di frate Cipolla, il fabbricar santi e renderli miracolosi, come è di ser Ciappelletto, è rappresentato con l'allegria comica di gente colta e incredula.
Profanazioni simili fanno ridere, perchè le cose profanate non ispirano più riverenza.
Questa società tal quale, sorpresa calda calda nell'atto della vita, è trasportata nel Decamerone: quadro immenso della vita in tutte le sue varietà di caratteri e di accidenti i più atti a destare la maraviglia, sul quale spicca Malebolge tirato dall'inferno e messo sul proscenio, il mondo sensuale e licenzioso della furberia e della ignoranza, entro cui si move senza mescolarvisi un mondo colto e civile, il mondo della cortesia, riflesso di tempi cavallereschi, vestito un po' alla borghese, spiritoso, elegante, ingegnoso, gentile, di cui il più bel tipo è Federigo degli Alberighi.
Gli abitanti naturali di questo mondo sono preti e frati e contadini e artigiani e umili borghesi e mercatanti, con un corteggio femminile corrispondente, e le alte risa plebee di questo perpetuo carnevale coprono le donne e i cavalieri, le armi e gli amori, le cortesie e le imprese di quel mondo dello spirito, della coltura, dell'ingegno e della eleganza, allegro anch'esso, ma di un'allegrezza costumata e misurata, magnifico negli atti, avvenente nelle forme, e nel parlare e ne' modi decoroso.
Questi due mondi, le cui varietà si perdono nello sfondo del quadro, vivono insieme, producendo un'impressione unica e armonica di un mondo spensierato e superficiale, tutto al di fuori nel godimento della vita, menato in qua e in là da' capricci della fortuna.
Questo doppio mondo così armonizzato nelle sue varietà riceve la sua intonazione dall'autore e dalla lieta brigata che lo introduce in iscena.
L'autore e i suoi novellatori appartengono alla classe colta e intelligente.
Essi invocano spesso Dio, parlano della Chiesa con rispetto, osservano tutte le forme religiose, fanno vacanza il venerdì, perchè in quel giorno il nostro Signore per la «nostra vita morì», cantano canzoni platoniche e allegoriche, e menano vita allegra, ma costumata e quale a gentili persone si richiede.
Lo spirito, l'eleganza, la coltura, le muse rendono questa società amabile, come oggi si riscontra ne' circoli più eleganti.
Specchio suo è quel mondo della cortesia, reminiscenza feudale abbellita dalla coltura e dallo spirito, alla cui immagine si dipinge la colta e ricca borghesia.
E come quel mondo feudale avea i suoi buffoni e giullari, questa società ha anch'essa chi la rallegri.
E i suoi buffoni e giullari sono quell'infinito mondo che le si schiera innanzi preti, frati, contadini, artigiani, di cui prende spasso, traendo piacere così dai babbei come dai furbi.
In questo comico non ci è punto una intenzione seria e alta, come correggere i pregiudizi, assalire le istituzioni, combattere l'ignoranza, moralizzare, riformare: nel che sta la superiorità del comico di Rabelais e di Montaigne, che è la reazione del buon senso contro un mondo artificiale e convenzionale.
Lì il riso è serio, perchè lascia qualche cosa nella coscienza; qui il riso è per il riso, per passare malinconia, per cacciare la noia.
Quel mondo plebeo è guardato come fa un pittore il modello, senz'altra intenzione che di pigliarne i contorni e i lineamenti e mettere in vista ciò che può meglio trastullare la nobile brigata.
Nell'immenso naufragio sopravviveva la coscienza letteraria e il sentimento artistico fortificato dallo spirito e dalla coltura; ed è da quella coscienza che sono usciti questi capolavori, modelli idealizzati a uso e piacere di una società intelligente e sensuale dal geniale artista, idolo delle giovani donne a cui sono intitolati.
L'ideale comico rimasto come il suggello dell'immortalità su questi modelli è nella rappresentazione diretta di questa società così com'è, nella sua ignoranza e nella sua malizia messa al cospetto di una società intelligente, che sta lì a bella posta per applaudire e batter le mani.
Il motivo comico non esce dal mondo morale, ma dal mondo intellettuale.
Sono uomini colti che ridono alle spalle degli uomini incolti, che sono i più.
Perciò il carattere dominante che rallegra la scena è una certa semplicità di spirito di nature inculte, messa in risalto quando si trova a contatto con la furberia: ciò che costituisce il fondo del carattere sciocco.
Con la sciocchezza è congiunta spesso la credulità, la vanità, la millanteria, la volgarità de' desidèri.
La furberia dà il rilievo a questo carattere, sì che lo metta in vista nel suo aspetto ridicolo.
Ma la furberia è anch'essa comica, non certo allo sciocco, ma agl'intelligenti uditori che la comprendono.
Così i due attori concorrono ciascuno per la parte sua a produrre il riso.
Qui è il fondamento della commedia boccaccevole.
Si vede la coltura in quel suo primo fiorire mostrar coscienza di sè, volgendo in gioco l'ignoranza e la malizia delle classi inferiori.
Il comico ha più sapore quando i beffati sono quelli che ordinariamente beffano, quando cioè i furbi, che burlano i semplici, sono alla lor volta burlati dagl'intelligenti, com'è il confessore burlato dalla sua penitente.
Il comico talora vien fuori per un improvviso motto o facezia, che illumina tutta una situazione e provoca il riso di un tratto e irresistibilmente: ciò che oggi si direbbe un «tratto di spirito».
Sono brevi novelle, il cui sapore, come nel sonetto, è tutto nella chiusa.
Di questo genere è la novella del giudeo, che guardando a Roma la corruzione cristiana, si converte al cristianesimo.
La chiusa sopraggiunge così improvvisa e così disforme alle premesse, che l'effetto è grande.
E ce n'è parecchie altre di questo stampo, e non molto felici, perchè l'autore lavora sopra un motto già trovato e noto.
Tali sono le novelle della marchesana di Monferrato, di Guglielmo Borsiere e di maestro Alberto.
Questi fuochi incrociati di motti e di frizzi, che brillano con tanto splendore ne' circoli eleganti e bastano ad acquistarti riputazione di uomo di spirito, sono la parte più appariscente, ma più elementare dello spirito.
La fucina dove si fabbricavano motti, facezie, proverbi, epigrammi, frizzi, era la scuola de' trovatori e della «gaia scienza».
Moltissimi di questi motti si erano già accasati nel dialetto fiorentino, e con molti altri usciti dall'immaginazione di un popolo così svegliato e arguto.
Il Decamerone ne è seminato.
Ma questi motti, appunto perchè entrati già nel corpo della lingua, non sono altro che parole e frasi, un dizionario morto, e raccoglierli e infilarli, come fa il Burchiello, non è da uomo di spirito.
Sono i colori del comico, non sono il comico esso medesimo.
Sono il patrimonio già acquistato dello spirito nazionale, e perciò mancanti di quella freschezza e di quell'imprevisto che è la qualità essenziale dello spirito; nè possono conseguire un effetto estetico se non associandosi a qualche cosa di nuovo e d'inaspettato, trovato allora allora che ti vengono sotto la penna.
Ciò fa che il Burchiello è insipido, e il Boccaccio è spiritoso; perchè per il Boccaccio i motti e i frizzi non sono scopo a sè stessi, ma un semplice mezzo di stile, il colorito.
Lo spirito nel suo senso elevato è nel comico quello che il sentimento è nel serio, una facoltà artistica.
E come il sentimento, così lo spirito è un grande condensatore, dando una velocità di percezione che ti faccia cogliere di un tratto sotto contrarie apparenze il simile o il dissimile.
Dove la sagacia giunge per via di riflessione, lo spirito giunge di un salto e intuitivamente.
I figli di Ugolino nell'esaltazione del sentimento dicono: «Tu ne vestisti queste misere carni e tu le spoglia».
Qui il sentimento opera nel serio quello che nel comico lo spirito; congiunge improvvisamente e in una sola frase idee e immagini diverse.
Ma per giungere a questa produzione geniale è necessario che lo spirito sia anch'esso un sentimento, il sentimento del ridicolo, cioè a dire che stando in mezzo al suo mondo ne provi tutte le emozioni, e ci viva entro e ci si spassi, pigliandovi lo stesso interesse che altri piglia nelle cose più serie della vita.
Pure l'emozione dee esser quella di uno spettatore intelligente, anzi che di un attore mescolato in mezzo a' fatti, sì che tu guardi quella calma e prontezza e presenza di animo, che ti tenga superiore allo spettacolo: ond'è che il vero uomo di spirito fa ridere e non ride, lui.
È questa calma superiore che rende lo spirito padrone del suo mondo e glielo fa foggiare a sua guisa, annodando le fila, sviluppando i caratteri, disegnando le figure, distribuendo i colori.
Lo spirito del Boccaccio è meno nell'intelletto che nell'immaginazione, meno nel cercar rapporti lontani che nel produrre forme comiche.
Lo studio che i suoi antecessori pongono a spiritualizzare, lui lo pone a incorporare.
E cerca l'effetto non in questo o quel tratto, ma nell'insieme, nella massa degli accessorii tutti stretti come una falange.
Gli antecessori fanno schizzi: egli fa descrizioni.
Quelli cercano l'impressione più che l'oggetto: egli si chiude e si trincera nell'oggetto e lo percorre e rivolta tutto.
Perciò spesso hai più il corpo e meno l'impressione; più sensazione che sentimento; più immaginazione che fantasia; più sensualità che voluttà.
Mancano i profumi a' suoi fiori, mancano i raggi alla sua luce.
È una luce opaca, per troppa densità e ripetizione di se stessa.
Questa maniera nelle cose serie è insopportabile, come nel Filocolo e nell'Ameto, con quelle interminabili descrizioni e orazioni, dove ti senti come arenato e che non vai innanzi, E ti offende anche talora nel Decamerone, quando per esempio si fa parlare Tito o la figliuola di Tancredi con tutte le regole della rettorica e della logica.
Ma nel comico questa maniera è una delle sue forme più naturali, e la prima a comparire nell'arte dopo quella esplosione rudimentale di motti e di proverbi.
Perchè il comico è il regno del finito e del senso, e le prime sue impressioni sono singolarizzate nelle minute pieghe degli oggetti; dove nel serio le prime impressioni ti danno allegorie e personificazioni, forme generalizzate nell'intelletto.
Questa prima forma del comico è la caricatura.
La quale è la rappresentazione diretta dell'oggetto, fatta in modo che sia messo in vista il suo lato difettoso e ridicolo.
Certo, basterebbe metterti sott'occhio il difetto e lasciarti indovinare tutto il resto.
Un solo tratto di spirito illumina tutto il corpo e te lo presenta all'immaginazione.
Ma il Boccaccio non se ne contenta, e come fa il pittore, ti disegna tutto il corpo, scegliendo e distribuendo in modo gli accessorii e i colori, che ne venga maggior luce sul lato difettoso.
Di che nasce che il ridicolo non rimane isolato su quel punto, ma si spande su tutta l'immagine, di cui ciascuna parte concorre all'effetto, apparecchiando, graduando e producendo una specie di «crescendo» nella scala del comico.
Il riso, perchè vi sei ben preparato e disposto, di rado ti viene improvviso e irresistibile, come in quei brevi tratti che ti presentano rapporti inaspettati, anzi spesso più che riso è una gioia uguale che ti tiene in uno stato di pacata soddisfazione.
Non ridi, ma hai la faccia spianata e contenta, e ti si vede il riso sotto le guance, non tale però che debba per forza scattar fuori in quella forma contratta e convulsa.
Il quale effetto nasce da questo, che l'autore non ti presenta una serie di rapporti usciti dall'intelletto, ma una serie di forme uscite dall'immaginazione.
E sono forme piene, carnose, togate, minutamente disegnate.
L'autore, come obbliato in questo mondo dell'immaginazione, ha aria di non aggiungervi niente del suo, egli che ne è il mago.
E tu ci stai dentro come incantato.
L'autore non si distrae mai, non mette il capo fuori per fare una smorfia che provochi il riso, non tratta il suo argomento come cosa frivola, e piglia e lascia e torna.
Quella è la sua idea fissa, e lo incalza e lo tiene e tiraselo appresso, e non gli dà fiato, se non sia uscita tutta fuori.
E tu non ti distrai, ti senti come dondolato deliziosamente nella tua contemplazione, nè il riso, che talora ti coglie, t'interrompe, chè subito ti ci rituffi entro, e corri e corri, e il corso è finito, e tu corri ancora dolcemente naufragato.
Ma non è il mondo orientale, dove l'immaginazione, quasi fatta ebbra dall'oppio, salta fremente dalle braccia dell'amore pe' vasti campi dell'infinito e ti fa provare quel sentimento che dicesi voluttà, e che è l'infinito nel senso, quel vago e indefinito e musicale che tra gli abbracciamenti ti rivela Dio.
Questo è un mondo prettamente sensuale, chiuso e appagato in forme precise e rotonde, da cui niente è che ti stacchi e ti rapisca in alte regioni.
Appunto perchè questi fiori non mandano profumi e queste luci non gittano raggi, tu hai sensazioni e non sentimenti, immaginazione e non fantasia, sensualità e non voluttà.
Il rêve scompare.
L'estasi non tiene più assorti i tuoi sguardi.
Hai trovato già il tuo paradiso in quella realtà piena e attraente.
Diresti che la carne in questo suo primo riapparire nel mondo ti si sveli nel suo tripudio tutta nuda, ed empia di lusinghe e di vezzi il tuo paradiso.
Perciò la forma di questo paradiso è cinica, anche più dove un senso ironico di modestia è una civetteria che riaccende il senso.
Poichè la forma di questo mondo è la caricatura, uscita da una immaginazione abbondante, minuta disegnatrice, hai innanzi non punte e rialzi, ma l'oggetto intero nelle sue più fine gradazioni.
Breve ne' preliminari e nella dipintura astratta di personaggi, l'autore alza subito il sipario, e ti trovi in piena azione che si movono e parlano.
E già fin da' primi lineamenti ti balza innanzi il motivo comico, che ti si sviluppa a poco a poco per via di gradazioni, l'una entrata nelle altre con effetto crescente.
Il Boccaccio vi spiega quella qualità che i francesi, mirando alla forza nel suo calore e nella sua facilità, chiamano «verve», e noi chiamiamo «brio», mirando alla forza nella sua allegra genialità.
Di che maraviglioso esempio è la novella di Alibech, e l'altra di ser Ciappelletto.
A render più piccante la caricatura serve l'ironia, che qui è forma non sostanziale, ma accessoria.
Ed è un'apparente bonomia, un'aria d'ingenuità, con la quale il narratore fa il pudico e lo scrupoloso, e non vuol dire e pur dice, e non vuol credere e pur crede, e si fa la croce con un sogghigno.
Questa ironia è come una specie di sale comico, che rende più saporito il riso a spese del «paternostro» di san Giuliano e de' miracoli di ser Ciappelletto.
Essendo base di questo mondo la descrizione, cioè l'oggetto non ne' suoi raggi e ne' suoi profumi, cioè a dire nelle sue impressioni, ma nel suo corpo singolarizzato ed individuato, ha bisogno di forme piene e ricche, e così nascono le due forme della nuova letteratura, l'ottava rima nella poesia e il periodo nella prosa.
Abbiamo già vista la nona rima svilupparsi con magnificenza orientale nel poema l'Intelligenzia.
L'ottava rima non è inventata dal Boccaccio, come non è sua invenzione il periodo.
Ma è lui che le dà un corpo e l'intonazione.
Prima di lui l'ottava rima è un accozzamento slegato e fortuito, dove diversi oggetti sono ficcati insieme a caso, che potrebbero assai bene star da sè.
Stanno lì dentro oggetti nudi, non ci e un solo oggetto sviluppato e addobbato.
L'ottava rima è un meccanismo, non è ancora un organismo.
Il Boccaccio ha fatto dell'ottava una totalità organica, ed è l'oggetto che si sviluppa a poco a poco nelle sue gradazioni.
Ben trovi ne' suoi poemi ottave felici; ma in generale elle sono impigliate, mal costruite, e in sul più bello ti cascano.
Nel genere eroico ti riesce sforzato e teso; nel genere idillico ti riesce volgare e abbandonato.
Gli è che l'ottava, nell'ampiezza e magnificenza delle sue costruzioni, è la maggiore idealità della forma poetica e richiede un'attività geniale che manca al Boccaccio, errante in un mondo artificiale e convenzionale.
Il difetto è tutto al di dentro, nell'anima; ciò che freddamente è concepito, nasce debole e mal congegnato, e non ci vale artificio.
Qui al contrario l'autore è a casa sua: pinge un mondo, in cui vive, a cui partecipa con la più grande simpatia, e tutto in esso, gitta via ogni involucro artificiale.
Ci è in lui qualche cosa più che il letterato, ci è l'uomo che vi guazza entro e vi si dimena e vi si strofina e vi lascivia.
E n'esce una forma, che è quel mondo esso medesimo, di cui sente gli stimoli nella carne e nell'immaginazione.
Così è venuta fuori quella forma di prosa, che si chiama il «periodo boccaccevole».
A quel tempo il grande movimento letterario che aveva il suo centro a Firenze si era di poco allargato fuori di Toscana.
La restaurazione dell'antichità che presentava all'immaginazione nuovi orizzonti, il mondo greco che allora spuntava appena, involto in quel vago chiaroscuro che accresce le illusioni, tirava a sè l'attenzione La lingua di Dante non era ancora lingua italiana: la chiamavano «idioma fiorentino».
La lingua era sempre il latino, nè era mutata l'opinione che di sole cose frivole e amorose si potesse scrivere in «latino volgare», come si chiamavano i dialetti.
Il Boccaccio dice di sè che scrive in «idioma fiorentino», e quelli che usavano il volgare dice che scrivevano in «latino volgare».
Il tipo di perfezione era sempre il latino, e l'ideale vagheggiato dalla classe erudita era un volgare nobile o illustre, secondo quel modello configurato, un volgare alzato a quella stessa perfezione di forma.
Questo tentò Dante nel Convito, con piena fede che il volgare fosse acconcio ad esprimere le più gravi speculazioni della scienza non altrimenti che il latino, e quello scolastico latino volgare o «volgare latino», nudo e tutto ossa e nervi, parve per la prima volta magnificamente addobbato nelle larghe pieghe della toga romana.
Ma la pece scolastica s'era appiccata anche a Dante, e quella barbarie delle scuole sta così in quelle ampie forme a disagio, come un contadino vestito a festa in abito cittadinesco.
Non ci è fusione, ci è punte e contrasti.
Il Boccaccio non era uscito dalle scuole, e quando più tardi studiò filosofia e un po' anche teologia, il suo spirito era già formato nell'esperienza della vita comune, nell'uso del suo volgare e nello studio de' classici.
Come il Petrarca, ha in abbominio gli scolastici, ne' quali vede proprio il contrario di quella elegante coltura greca e romana, vede la barbarie e la rozzezza.
Regnano nel suo spirito, divinità, Virgilio e Ovidio e Livio e Cicerone, e non ci è Bibbia che tenga, e non ci è san Tommaso.
Quando vuol dipingere alcun lato serio, morale o scientifico, del suo mondo, la sua imitazione è un artificio esterno e meccanico, perchè ha più immaginazione che sentimento e più intelletto che ragione.
La sua forma è decorosa, nobile, spesso disimpacciata, ma troppo uguale e placida, e talora ti fa sonnecchiare.
Il periodo è un rumor d'onde uniforme, mosse faticosamente da mare stanco e sonnolento.
Manca l'ispirazione, supplisce la rettorica e la logica.
Il che avviene, perchè il Boccaccio separato dalle immagini e gittato nel vago del sentimento o nell'astratto del discorso, perde il piede e va giù.
Tratta le idee come fossero corpi, e analizza e minuteggia che è uno sfinimento.
Le idee sono luoghi comuni annacquati in un viavai di piccoli e oziosi accessorii, distinzioni, riserve, condizioni, «se», «ma», «avvegnachè» e «conciossiacosachè».
Uno studio soverchio di esattezza, una notomia minuta di ogni pensieruzzo mette più in vista la volgarità e insipidezza dell'idea.
La forma si stacca visibilmente dalla cosa, e appare un meccanismo ingegnoso, lavorato accuratamente e sempre quello.
Cosa c'è sotto? Il luogo comune.
Questo fu chiamato più tardi forma letteraria.
E non c'è cosa più contraria alla scienza, che è parola e non frase, e mal si riconosce nelle circonlocuzioni, nelle perifrasi e ne' pleonasmi.
In questo artificio ci è un progresso: ci è quell'arte de' nessi e delle gradazioni, che mancava alla prosa, e rivela uno spirito adulto, educato dai classici.
Ma ci è il difetto opposto, un volere di ogni idea fare una catena cominciata e terminata in sè, ciò che è un pantano, e non acqua corrente.
Il Boccaccio odia gli scolastici; ma il suo periodo non è che sillogismo mascherato, una frase generica, come «umana cosa è aver compassione degli affiitti», che per molti andirivieni riesce in qualche volgare moralità.
Il formulario è divenuto un meccanismo ben congegnato; ma il fondo è lo stesso.
Vedi lo scolastico vestito a nuovo e più alla moda.
Se l'ampio giro del periodo boccaccevole è una catena artificiale dove la scienza perde la sua semplicità ed elasticità e la sua libertà di movimento, non è meno assurdo nell'espressione del sentimento, la forza più libera e indisciplinabile dello spirito, che spezza tutti i legami della logica e sbalza fuori con rapidità.
I bruschi e tragici movimenti dell'animo qui sono come cristallizzati tra congiunzioni, parentesi e ragionamenti.
Manca ogni subbiettività: ti è difficile guardare al di dentro nella coscienza; i casi sono straordinari, i fatti interessanti, le situazioni drammatiche, e non ti viene la lacrima, e non ti senti commosso, perchè l'anima non si manifesta che in frasi comuni e rigirate.
Veggasi la novella di madama Beritola, e l'altra del conte d'Anguersa, ove tra' più pietosi accidenti e mutazioni della fortuna non si muta la forma, sempre attillata e guantata.
Pure, qua e là si sente una certa non dirò commozione, ma emozione di una immaginazione calda, e n'escono movimenti sentimentali, come nelle ultime parole della figliuola di Tancredi e in alcuni tratti della Griselda.
Questa forma di periodo, che si affà così poco alla scienza e al sentimento, dove appare un mero meccanismo foggiato alla latina, acquista senso e moto, quando il teatro della vita è nell'immaginazione, cioè a dire quando l'autore si trova nel vivo dell'azione, non con idee e sentimenti, ma con oggetti innanzi ben determinati.
Tale è la descrizione della peste, o del combattimento di Gerbino.
Perchè il fatto non è come l'idea, uno e semplice, ma come il corpo, è un multiplo, un insieme di circostanze e di accessorii.
Questo insieme è il periodo, il quale nella sua evoluzione è ciò che in pittura si chiama «un quadro».
Aggruppare le circostanze, subordinarle, coordinarle intorno ad un centro, ombreggiare, lumeggiare, è arte somma nel Boccaccio.
La descrizione, quando sta per sè, in astratto e separata dall'azione, non riscalda abbastanza l'immaginazione e riesce fronzuta, com'è spesso nelle introduzioni.
Ma quando ci è qualche cosa che si move e cammina, e rassomiglia ad un'azione, l'immaginazione si mette in moto anche lei, e assiste pacata allo spettacolo, disegnando e facendo quadri in quelle larghe forme che si chiamano periodi.
Questa maniera di narrare a quadri non è certo l'andamento naturale dell'azione, che perde l'impeto e l'attrito, arrestata ne' suoi movimenti più rapidi dall'occhio tranquillo di una immaginazione disegnatrice.
E perciò non è maniera conveniente alla storia, e non è prosa, ma è arte in forma prosaica, e narrazione poetica.
Que' quadri e periodi ti danno non pur l'ordine e il legame e il significato de' fatti, ma le movenze, le attitudini, le gradazioni: onde nasce quell'effetto d'insieme che dicesi «fisonomia» o «espressione».
Ma dove il periodo boccaccevole diviene una creazione sui generis, un organismo vivente, è nel lato comico e sensuale del suo mondo.
E non è già che vi adoperi maggiore artificio o finezza; ma è che qui ci è la musa, vale a dire tutto un mondo interiore, la malizia, la sensualità, la mordacità, un vero sentimento comico e sensuale.
Ed è questa sentimentalità, la sola che la natura abbia concessa al Boccaccio, che penetra in quei flessuosi giri della forma e ne fa le sue corde.
Il suo periodo è una linea curva che serpeggia e guizza ne' più libidinosi avvolgimenti, con rientrature e spezzamenti e spostamenti e riempiture, e sono vezzi e grazie, o civetterie di stile, che ti pongono innanzi non pur lo spettacolo nella sua chiarezza prosaica, ma il suo motivo sentimentale e musicale.
Quelle onde sonore, quelle pieghe ampie della forma latina, piena di gravità e di decoro, dove si sente la maestà e la pompa della vita pubblica, trasportata dal foro nelle pareti di una vita privata oziosa e sensuale, diventano i lubrici volteggiamenti del piacere stuzzicato dalla malizia.
In bocca a Tito, a Gisippo senti la rettorica imitazione di un mondo fuori della coscienza: l'aria è pur quella, ma cantata da un borghese che non ne ha il sentimento e sbaglia spesso il motivo.
Qui al contrario, in questo mondo erotico e malizioso, hai la stess'aria, penetrata da un altro motivo che la soggioga e se l'assimila; e quelle forme magniloquenti che arrotondivano la bocca degli oratori, arrotondiscono il vizio e gli danno gli ultimi finimenti e allettamenti.
I latini nell'espressione del comico gittavano via le armi pesanti e vestivano alla leggiera: il Boccaccio concepisce come Plauto, e scrive come Cicerone.
Pure il suo concepire è così vivo e vero, che Cicerone si trasforma nella sua immaginazione in una sirena vezzosa che tutta in sè si spezza e si dimena.
Ma spesso, tutto dentro nel soggetto, gitta via i viluppi e i contorcimenti, e salta fuori snello, rapido, diritto, incisivo.
Maestro di scorciatoie e di volteggiamenti, la sua immaginazione covata da un sentimento vero spazia come padrona tra forme antiche e moderne, e le fonde e ne fa il suo mondo, e vi lascia sopra il suo stampo.
Sarebbe insopportabile questo mondo e profondamente disgustoso, se l'arte non vi avesse profuse tutte le sue veneri, inviluppando la sua nudità in quelle ampie forme latine, come in un velo agitato da venti lascivi.
L'arte è la sola serietà del Boccaccio, sola che lo renda meditativo fra le orgie dell'immaginazione e gli corrughi la fronte nella più sfrenata licenza, come avveniva a Dante e al Petrarca nelle loro più alte e pure ispirazioni.
Di che è uscito uno stile dove si trovano fusi i vari uomini che vivevano in lui, il letterato, l'erudito, l'artista, il cortigiano, l'uomo di studio e di mondo, uno stile così personale, così intimo alla sua natura e al suo secolo, che l'imitazione non è possibile, e rimane monumento solitario e colossale fra tante contraffazioni.
Che cosa manca a questo mondo?
Mondo della natura e del senso, gli manca quel sentimento della natura e quel profumo voluttuoso che gli darà il Poliziano.
Mondo della commedia, gli manca quell'alto sentimento comico nelle sue forme umoristiche e capricciose che gli darà l'Ariosto.
E che cosa è questo mondo?
È il mondo cinico e malizioso della carne, rimasto nelle basse sfere della sensualità e della caricatura spesso buffonesca, inviluppato leggiadramente nelle grazie e ne' vezzi di una forma piena di civetteria, un mondo plebeo che fa le fiche allo spirito, grossolano ne' sentimenti, raggentilito e imbellettato dall'immaginazione, entro del quale si move elegantemente il mondo borghese dello spirito e della coltura con reminiscenze cavalleresche.
È la nuova «Commedia», non la «divina», ma la «terrestre Commedia».
Dante si avvolge nel suo lucco e sparisce dalla vista.
Il medio evo con le sue visioni, le sue leggende, i suoi misteri, i suoi terrori e le sue ombre e le sue estasi, è cacciato dal tempio dell'arte.
E vi entra rumorosamente il Boccaccio e si tira appresso per lungo tempo tutta l'Italia.
X
L'ULTIMO TRECENTISTA
L' ultima voce di questo secolo è Franco Sacchetti, l'uomo «discolo e grosso».
Di mezzana coltura, d'ingegno poco al di là del comune, ma di un raro buon senso, di poca iniziativa e originalità, ma di molta se.nplicità e naturalezza, era nella sua mediocrità la vera eco del tempo.
Gli facea cerchio la turba de' rimatori, ripetizione stanca del passato, il lucchese Guinigi e Matteo da San Miniato, e Antonio da Ferrara, e Filippo Albizi, e Giovanni d'Amerigo, e Francesco degli Organi, e Benuccio da Orvieto, e Antonio da Faenza, e Astorre pur da Faenza, e Antonio Cocco, e Angelo da San Geminiano, e Andrea Malavolti, e Antonio Piovano, e Giovanni da Prato, e Francesco Peruzzi, e Alberto degli Albizi, e Benzo de' Benedetti, che lo chiama «eroe gentile», e parecchi altri.
E il nostro eroe gentile riceveva e mandava sonetti, cambiando lodi con lodi.
Ultime voci de' trovatori italiani.
Luoghi comuni e forma barbara annunziano un mondo tradizionale ed esaurito.
Ci trovi anche sentimenti morali e religiosi, ma insipidi e freddi come un'avemaria ripetuta meccanicamente tutt'i giorni.
Per questo lato il Sacchetti continua il passato, fa perchè gli altri fanno, pensa così, perchè gli altri così pensano, piglia il mondo come lo trova, senza darsi la pena di esaminarlo.
Questa è la sua parte morta.
Ma ci è una parte viva, quella a cui partecipa, e che suona nel suo spirito, quella in cui apparisce la sua personalità.
Ed è appunto quel mondo di cui il Boccaccio è così vivace espressione.
Franco è il «vero uomo della tranquillità».
Il Boccaccio sdegnava l'epiteto, e talora voleva sonare la tromba e rappresentare azioni e passioni eroiche.
Franco non ha pretensioni, e si mostra com'è, ed è contento di esser così.
È uomo stampato all'antica, in tempi corrotti, buon cristiano e insieme nemico degl'ipocriti e mal disposto verso i preti e i frati, diritto ed intero nella vita, alieno dalle fazioni, benevolo a tutti, talora mordace, ma senza fiele, modesto estimatore di sè e lontanissimo di mettersi allato a' grandi poeti di quel tempo, che erano, secondo lui e i contemporanei, Zanobi da Strada, il Petrarca e il Boccaccio.
Quali erano i desidèri del nostro brav'uomo? Menare una vita tranquilla e riposata; ed era il più contento uomo del mondo, quando in villa o in città potea darsi buon tempo fra le allegre brigate, motteggiando, novellando, sonetteggiando.
Ci è in lui dell'idillico e del comico.
Ama la villa, perchè in città
mal vi si dice, e di ben far vi è caro;
e nelle sue cacce, nelle sue ballate senti non di rado la freschezza dell'aura campestre, come è quella così briosa delle «donne che givano cogliendo fiori per un boschetto», e l'altra delle «montanine», di una grazia così ingenua.
In città è un burlone, pieno il capo di motti, di facezie, di fatterelli, e te li snocciola come gli escono, con tutto il sapore del dialetto e con un'aria di bonomia che ne accresce l'effetto.
I suoi sonetti e le canzoni sono molto al di sotto de' madrigali e ballate o canzoni a ballo, di un andare svelto e allegro, dove non mancano pensieri galanti e gentili: dietro il poeta senti l'uomo che ci piglia gusto e vi si sollazza, e sta già con l'immaginazione nella lieta brigata dove i versi saranno cantati, tra musica e ballo.
Veggasi la ballata del «pruno» e il madrigale del «falcone».
Le novelle del Sacchetti hanno per materia lo stesso mondo boccaccevole in un aspetto più borghese e domestico: frizzi, burle, amorazzi, ipocrisie fratesche, aneddoti, pettegolezzi vengon fuori, bassa vita popolana in forma popolana.
Alcuni le pregiano più che il Decamerone, per lo stile semplice e naturale e rapido, non privo di malizia e di arguzia fiorentina.
Ma la naturalezza del Sacchetti è quella dell'uomo a cui le muse sono avare de' loro doni.
Non è artista, e neppure d'intenzione.
Gli manca ogni sorta d'ispirazione Quel mondo con tanta magnificenza organizzato nel Decamerone è qui un materiale grezzo, appena digrossato.
Perciò delle sue trecento novelle si ricorda appena qualche aneddoto: nessun personaggio è rimasto vivo.
Il Sacchetti sopravvisse al secolo.
Nel suo buon umore ci è una nota malinconica, che all'ultimo manda più lugubre suono.
Non piace al brav'uomo un mondo, in cui chi ha più danari vale più, e grida che «vertù con pecunia non si acquista», e che «gentilezza e virtù son nella mota».
Dipinge al vivo gli avvocati de' suoi tempi:
Legge civile e ragion canonica
apparan ben, ma nel mal spesso l'usano:
difendono i ladroni, e gli altri accusano.
Chi ha danari e chi più puote scusano:
tristo a colui che con costor s'incronica,
se non empie lor man sotto la tonica!
Ora se la piglia con le vecchie.
Ora è tutto stizzoso per le nuove fogge di vestire portate a Firenze da altri paesi.
Grida contro la turba de' rimatori e de' cantori:
Pieno è il mondo di chi vuol far rime:
tal compitar non sa che fa ballate,
tosto volendo che sieno intonate.
Così del canto avvien: senz'alcun'arte
mille Marchetti veggio in ogni parte.
E quando muore il Boccaccio, «copioso fonte di eleganza», esclama:
Ora è mancata ogni poesia,
e vòte son le case di Parnaso...
S'io piango o grido, che miracol fia,
pensando che un sol c'era rimaso
Giovan Boccacci, ora è di vita fore? ...
...
Quel duol che mi pugne
è che niun riman, nè alcun viene,
che dia segno di spene
a confortar che io salute aspetti,
perchè in virtù non è chi si diletti...
Sarà virtù già mai più in altrui
O starà quanto medicina ascosta,
quando anni cinquecento perdè il corso? ...
Chi fia in quella etate,
forse vedrà rinascer tal semenza;
ma io ho pur temenza,
che prima non risuoni l'alta tromba, ...
che si farà sentir per ogni tomba.
Ne' numeri ciascuno ha mente pronta,
dove moltiplicando s'apparecchia
sempre tirare a sè con la man destra...
E le meccaniche arti
abbraccia chi vuol esser degno ed alto...
Ben veggio giovinetti assai salire
non con virtù, perchè la curan poco,
ma tutto adopran in corporea vesta: ...
...
già mai non cercan loco
dove si faccia delle muse festa.
Come deggio sperar che surga Dante,
che già chi il sappia legger non si trova?
E Giovanni che è morto ne fe' scola.
Tutte le profezie che disson sempre
tra il Sessanta e l'Ottanta esser il mondo
pieno di svari e fortunosi giorni,
vidon che si dovean perder le tempre
di ciascun valoroso e gire al fondo.
E questo è quel che par che non soggiorni...
E s'egli è alcun che guardi,
gli studi in forni vede già conversi...
Questa canzone di cui abbiamo citati alcuni brani è l'elogio funebre del Trecento, pronunziato dal più candido e simpatico de' suoi scrittori, l'ultimo trecentista.
Sulla fine del secolo il vecchio burlone gitta uno sguardo malinconico indietro, e gli si affaccia la grande figura di Dante, e l'Africa col suo «alto poeta», e Giovan Boccacci non col suo festevole Decamerone, ma co' dotti e magni volumi latini, De' viri illustri, Delle donne chiare, e «il terzo»:
Buccolica; il quarto: Monti e fiumi;
il quinto: Degl'iddii e lor costumi.
Oimè! Dante è morto.
Morto è Boccacci.
Petrarca muore.
Chi rimane? E l'ultimo trecentista guarda intorno e risponde: - Nessuno.
- Ricorda le infauste profezie, nunzie di sciagure fra il sessanta e l'ottanta, e gli pare venuto il finimondo.
La forte semenza da cui uscirono i tre grandi e tanti altri dottissimi, teologi, filosofi, legisti, astrologi, è perita per sempre? O risurgerà dopo cinquecento anni, come fu della medicina? O non verrà prima il giudizio finale? Il mondo è dato all'abaco e alle arti meccaniche: «nuda è l'adorna scuola» da tutte sue parti:
non si trova fenestra
che valor dentro chiuda.
La nuova generazione è tutta dietro alle mode e a' sollazzi e al guadagno, e non cura virtù, e spregia le muse, e non ci è chi sappia leggere Dante, e gli studi sono mutati in forni.
Il poeta accomiata la canzone in questo modo:
Orfana, trista, sconsolata e cieca,
senza conforto e fuor d'ogni speranza,
se alcun giorno t'avanza,
come tu puoi, ne va' peregrinando,
e di' al cielo: - Io mi ti raccomando.
-
Con questi tristi presentimenti si chiude il secolo.
Il Dugento finisce con Cino e Cavalcanti e Dante già adulti e chiari, finisce come un'aurora entro cui si vede già brillare la vita nuova, una nuova èra.
Il Trecento finisce come un tristo tramonto, così tristo e oscuro che il buon Franco pensa: - Chi sa se tornerà il sole? -
Antonio da Ferrara, sparsasi voce della morte del Petrarca, intuona anche lui un poetico Lamento.
Piangono intorno al grand'uomo Gramatica, Rettorica, Storia, Filosofia, e lo accompagnano al sepolcro di Parnaso,
Virgilio, Ovidio, Giovenale e Stazio,
Lucrezio, Persio, Lucano e Orazio
e Gallo.
E Pallas Minerva, venuta dall'angelico regno, conserva la sua corona.
In ultimo della mesta processione spunta l'autore col suo nome, cognome e soprannome:
È Anton de' Beccar, quel da Ferrara,
che poco sa, ma volentieri impara.
È anche un brav'uomo costui, vede anche lui tutto nero:
Del mondo bandita è concordia e pace,
per l'universo la discordia trona,
sommerso è ogni bene,
l'amor di Dio ha bando,
e parmi che la fe' vada mancando.
Sono lamenti senili di uomini superficiali e mediocri, dove non trovi alcuna profondità di vista e non forza di mente o di sentimento.
Pur vi trovi, ancorchè in forma pedantesca, la fisonomia del secolo negli ultimi giorni della sua esistenza.
Quella nota malinconica è la stessa forza che tirò alla Certosa il vecchio Boccaccio, e volse a Maria gli ardori del Petrarca, e rattristò le ultime ore di Franco Sacchetti, e piegò le ginocchia di Giovanna innanzi a Caterina da Siena.
Perchè quella forza, contraddetta e negata nella vita, occupava ancora l'intelletto, e tra le orgie di una borghesia arricchita e gaudente comparirà talora come un rimorso, e chiamerà gli uomini alla penitenza.
«La fede va mancando», grida il ferrarese.
e gli studi «si convertono in forni», nota il fiorentino.
Non si potea meglio dipingere la fisonomia che andava prendendo il secolo e che comunicava alla nuova generazione.
Possiamo disegnarla in brevi tratti.
Come il popolo grasso piglia il sopravvento in Firenze, così nelle altre parti d'Italia la borghesia si costituisce, si ordina, diviene una classe importante per industrie, per commerci, per intelligenza e per coltura.
E lo stacco si fa profondo tra la plebe e la classe colta.
La coltura non è privilegio di pochi, ma si allarga e si diffonde, e fa del popolo italiano il più civile di Europa.
La vita pubblica e la vita religiosa rimane stazionaria fra l'universale indifferenza.
Continuano le stesse forme, ma sciolte dallo spirito che le rendea venerabili, quelle persone, quei riti e quel linguaggio appariscono cosa ridicola e diventano il motivo comico delle liete brigate.
La vita privata viene su.
Ed è vita socievole, spensierata, condita dallo spirito.
Gli uomini si uniscono in compagnie o brigate non per discutere, ma per sollazzarsi, in città e in villa.
E si sollazzano a spese delle classi inculte.
Trovatori, cantori e novellatori non sono più il privilegio delle castella e delle corti.
L'allegria feudale si spande anche nelle case de' ricchi borghesi, e i racconti e i piacevoli ragionamenti condiscono i loro piaceri, e in una forma spesso licenziosa e cinica.
La licenza del linguaggio era il solletico dell'allegria.
Così venne una letteratura sensuale e motteggiatrice, profana e pagana.
Le novelle e i romanzi tennero il campo.
L'allegra vita della città si specchiava in forme liriche svelte e graziose, rispetti, strambotti, frottole, ballate e madrigali.
L'allegra vita de' campi avea pur le sue forme, le «cacce» e gl'idilli.
L'anima di questa letteratura è lo spirito comico e il sentimento idillico.
La forma dello spirito comico è la caricatura penetrata di un'ironia maliziosa, ma non maligna.
La forma idillica è la descrizione della bella natura, penetrata di una molle sensualità.
Traspare da tutta questa letteratura una certa quiete e tranquillità interiore, come di gente spensierata e soddisfatta.
Giovanni Boccaccio è il grande artista che apre questo mondo allegro della natura.
Il misticismo perisce, ma ben vendicato, traendosi appresso religione, moralità, patria, famiglia, ogni semplicità e dignità di vita.
Vengono nuovi ideali: la voluttà idillica e l'allegria comica.
Sono le due divinità della nuova letteratura.
Ma come l'antica letteratura vede i suoi ideali attraverso un involucro allegorico-scolastico, così la nuova non può trovare se stessa se non attraverso l'involucro del mondo greco-latino.
La vita del Boccaccio è in compendio la vita letteraria italiana, come si andrà sviluppando.
Comincia scopritore instancabile di manoscritti, e tutto mitologia e storia greca e romana.
Non è ancora un artista, è un erudito.
La sua immaginazione erra in Atene e in Troia.
Tenta questo e quel genere, e non trova mai se stesso.
Quel mondo è come un denso velo che muta il colore degli oggetti e gliene toglie la vista immediata.
Imita Dante, imita Virgilio, petrarcheggia e platoneggia come il buon Sacchetti.
Scrive magni volumi latini, ammirazione de' contemporanei.
E si scopre artista, quando, gittato via tutto questo bagaglio, scrive per sollazzo, abbandonato alla genialità dell'umore.
Dove cerca il piacere, trova la gloria.
Questa vita ne' suoi tentennamenti, nelle sue imitazioni, nelle sue pedanterie, ne' suoi ideali, è la storia della nuova letteratura.
XI
«LE STANZE»
Siamo al secolo decimoquinto.
Il mondo greco-latino si presenta alle immaginazioni come una specie di Pompei, che tutti vogliono visitare e studiare.
L'Italia ritrova i suoi antenati, e i Boccacci si moltiplicano, l'impulso dato da lui e dal Petrarca diviene una febbre, o per dir meglio, quella tale corrente elettrica che incerti momenti investe tutta una società e la riempie dello stesso spirito.
Quella stessa attività che gittava l'Europa crociata in Palestina, e più tardi spingendola verso le Indie le farà trovare l'America, tira ora gl'italiani a disseppellire il mondo civile rimasto per così lungo tempo sotto le ceneri della barbarie.
Quella lingua era la lingua loro, e quel sapere era il loro sapere: agl'italiani pareva avere racquistato la conoscenza e il possesso di sè stessi, essere rinati alla civiltà.
E la nuova èra fu chiamata il «Rinascimento».Nè questo era un sentimento che sorgeva improvviso.
Per lunga tradizione Roma era capitale del mondo, gli stranieri erano barbari, gl'italiani erano sempre gli antichi romani, erano sangue latino, e la loro lingua era il latino, e la lingua parlata era chiamata il «latino volgare», un latino usato dal volgo.
Questo sentimento, legato in Dante con le sue opinioni ghibelline, ispirava più tardi l'Africa e latinizzava anche le facezie del Boccaccio.
Ora diviene il sentimento di tutti e dà la sua impronta al secolo.
La storia ricorda con gratitudine gli Aurispi, i Guarini, i Filelfi, i Bracciolini, che furono i Colombi di questo mondo nuovo.
Gli scopritori sono insieme professori e scrittori.
Dopo le lunghe peregrinazioni in oriente e in occidente, vengono le letture, i comenti, le traduzioni.
Il latino è già così diffuso, che i classici greci si volgono in latino, perchè se ne abbia notizia, come i dugentisti volgevano in volgare i latini.
Pullulano latinisti e grecisti: la passione invade anche le donne.
Grande stimolo è non solo la fama, ma il guadagno.
Diffusa la coltura, i letterati moltiplicano e si stringono intorno alle corti e si disputano i rilievi ringhiando.
Sorgono centri letterari nelle grandi città: a Roma, a Napoli, a Firenze, più tardi a Ferrara intorno agli Estensi.
E quei centri si organizzano e diventano accademie Sorge la pontaniana a Napoli, l'Accademia platonica a Firenze, quella di Pomponio Leto e di Platina a Roma.
Illustri greci, caduta Costantinopoli, traggono a Firenze.
Gemistio spiega Platone a' mercatanti fiorentini.
Marsilio Ficino, il traduttore di Platone, lo predica dal pulpito, come la Bibbia.
Pico della Mirandola, morto a trentun anno, stupisce l'Italia con la sua dottrina, ed oltrepassando il mondo greco, cerca in Oriente la culla della civiltà.
I caratteri di questa coltura sono palpabili.
Innanzi tutto ti colpisce la sua universalità.
Il centro del movimento non è più solo Bologna e Firenze.
Padova gareggia con Bologna.
Il mezzodì dopo lungo sonno prende il suo posto nella storia letteraria, e il Panormita fa già presentire il Pontano e il Sannazzaro.
Roma è il convegno di tutti gli eruditi, attirati dalla liberalità di Nicolò quinto.
La coltura acquista una fisonomia nazionale, diviene italiana.
Anche il volgare, trattato dalle classi colte ed atteggiato alla latina, si scosta dagli elementi locali e municipali, e prende aria italiana.
Ma è l'Italia de' letterati, col suo centro di gravità nelle corti.
Il movimento è tutto sulla superficie, e non viene dal popolo e non cala nel popolo.
O, per dir meglio, popolo non ci è.
Cadute sono le repubbliche, mancata è ogni lotta intellettuale, ogni passione politica.
Hai plebe infinita, cenciosa e superstiziosa, la cui voce è coperta dalla rumorosa gioia delle corti e de' letterati, esalata in versi latini.
A' letterati fama, onori e quattrini; a' principi incensi, tra il fumo de' quali sono giunti a noi papa Nicolò, Alfonso il magnanimo, Cosimo padre della patria, e più tardi Lorenzo il magnifico, e Leone decimo e i duchi di Este.
I letterati facevano come i capitani di ventura: servivano chi pagava meglio: il nemico dell'oggi diventa il protettore del dimani.
Erranti per le corti, si vendevano all'incanto.
Questa fiacchezza e servilità di carattere, accompagnata con una profonda indifferenza religiosa, morale e politica, di cui vediamo gli albori fin da' tempi del Boccaccio, è giunta ora a tal punto che è costume e abito sociale, e si manifesta con una franchezza che oggi appare cinismo.
Una certa ipocrisia c'è, quando si ha ad esprimere dottrine non ricevute universalmente; ma quanto alla rappresentazione della vita, ti è innanzi nella sua nudità.
È una letteratura senza veli, e più sfacciata in latino che in volgare.
Ne nasce l'indifferenza del contenuto.
Ciò che importa non è cosa s'ha a dire, ma come s'ha a dire.
I più sono secretari di principi, pronti a vestire del loro latino concetti altrui.
La bella unità della vita, come Dante l'aveva immaginata, la concordia amorosa dell'intelletto e dell'atto, è rotta.
Il letterato non ha obbligo di avere delle opinioni, e tanto meno di conformarvi la vita.
Il pensiero è per lui un dato, venutogli dal di fuori, quale esso sia: a lui spetta dargli la veste.
Il suo cervello è un ricco emporio di frasi, di sentenze, di eleganze; il suo orecchio è pieno di cadenze e di armonie: forme vuote e staccate da ogni contenuto.
Così nacque il letterato e la forma letteraria.
Il movimento iniziato a Bologna era intellettuale: si cercava negli antichi la scienza.
Il movimento ora è puramente letterario: si cerca negli antichi la forma.
Sorge la critica, circondata di grammatiche e di rettoriche; il gusto si raffina; gli scrittori antichi non sono più confusi in una eguale adorazione: si giudicano, si classificano, pigliano posto.
Questi lavori filologici ed eruditi sono la parte più seria e più durevole di questa coltura.
Spiccano fra tutti le Eleganze di Lorenzo Valla.
Il titolo ti dà già la fisonomia del secolo.
Effetti di questa coltura cortigiana e letteraria, co' suoi vari centri in tutta Italia, sono una certa stanchezza di produzione, l'inerzia del pensiero, l'imitazione delle forme antiche come modelli assoluti, l'uomo e la natura guardati a traverso di quelle forme.
È una nuova trascendenza, il nuovo involucro.
Lo scrittore non dice quello che pensa o immagina o sente, perchè non è l'immagine che gli sta innanzi, ma la frase di Orazio o di Virgilio vede il mondo non nella sua vista immediata, ma come si trova rappresentato da' classici, a quel modo che Dante vedea Beatrice a traverso di Aristotile e di san Tommaso.
Ma non ci è guscio che tenga incontro all'arte.
Dante potè spesso rompere quel guscio, perchè era artista.
E se in questa cultura fossero elementi seri di vita intellettuale e di elevate ispirazioni, non è dubbio che vedremmo venire il grande artista, destinato a farne sentire il suono pur tra queste forme latine.
Ciò che ferve nell'intimo seno di una società, tosto o tardi vien su e spezza ogni involucro.
Si dà colpa al latino, che questo non sia avvenuto.
E se il medio evo non ha potuto sviluppare tra noi tutte le sue forme, se il mondo interiore della coscienza s'è infiacchito, la colpa è de' classici che paganizzarono la vita e le lettere! La verità è che i classici di questo fatto sono innocentissimi.
Certo, il mondo di Omero e di Virgilio, di Tucidide e di Livio, non è un mondo fiacco e frivolo.
E se i latinisti non poterono riprodurne che l'esterno meccanismo, e se sotto a quel meccanismo ci è il vuoto, gli è che il vuoto era nell'anima loro, e nessuno dà ciò che non ha.
Un cuore pieno trova il modo di spandersi anche nelle forme più artificiali e più ripugnanti.
Leggete questi latinisti.
Cosa c'è lì dentro che viva e si mova? Lo spirito del Boccaccio che aleggia in quei versi e in quelle prose: la quiete idillica e il sale comico, in una forma elegante e vezzosa.
Questo studio dell'eleganza nelle forme, accompagnato co' tranquilli ozi della villa e i sollazzevoli convegni della città, era in iscorcio tutta la vita del letterato.
Così, quando il secolo era travagliato da mistiche astrazioni e da disputazioni sottili, il latino fu scolastico.
E ora che il naturalismo idillico e comico del Boccaccio è il vero e solo mondo poetico, il latino è idillico, dico il latino artistico e vivo.
La grande orchestra di Dante è divenuta già nel Petrarca la flebile elegia.
In questo latino elegante il dolore è elegiaco, e il piacere è idillico.
La vita è tutta al di fuori, è un riso della natura e dell'anima: la stessa elegia è un rapimento voluttuoso de' sensi.
Sulle rive di Mergellina il Pontano canta gli Amori e i Bagni di Baia, ora tutto vezzeggiativi e languori, ora motteggevole e faceto.
Mergellina, Posilipo, Capri, Amalfi, le isole, le fonti, le colline escono dalla sua immaginazione pagana ninfe vezzose, e allegrano le nozze della sua Lepidina.
La crassa sensualità è vaporizzata fra le grazie dell'immaginazione e i deliziosi profumi dell'eleganza.
La sua musa, come la sua colomba, «fugit insulsos et parum venustos» «odit sorditiem», nega i suoi doni a quelli che sono «illepidi atque inelegantes», e «gaudet nitore», e rassomiglia alla sua «puella», di cui nessuna «vivit mundior elegant'orve».
Spirito ed eleganza, questo è il mondo poetico di una borghesia colta e contenta, che cantava i suoi ozi e passava il tempo tra Quintiliano, Cicerone, Virgilio, e i bagni e le cacce e gli amori.
Ne senti l'eco tra le delizie di Baia e tra le villette di Fiesole.
Il Pontano scrivea la Lepidina tra' susurri della cheta marina; il Poliziano scrivea il Rusticus tra le aure della sua villetta fiesolana.
In tutte e due ispiratrice è la bella natura campestre, con più immaginazione nel Pontano, con più sentimento nel Poliziano.
Piace la «cerula» ninfa Posilipo e la «candida» Mergellina, e quel voler essere uccello per cascarle in grembo è un bel tratto galante, una sensualità dell'immaginazione.
Il Pontano è figurativo, tutto vezzi e tutto spirito; il Poliziano è più semplice, più vicino alla natura, e te ne dà l'impressione:
Hic resonat blando tibi pinus amata susurro;
hic vaga coniferis insibilat aura cupressis:
hic scatebris salit et bullantibus incita venis
pura coloratos interstrepit unda lapillos.
Questo latino, maneggiato con tanta sveltezza, modulato con tanta grazia, non cade nel vuoto, come lingua morta, e questi canti non sono stimati lavori di pura erudizione e imitazione.
Lorenzo Valla chiama il latino la «lingua nostra»; nessuna cosa di qualche importanza non si scrivea se non in latino, e metteasi a fuggire il volgare quello studio che oggi si mette a fuggire il dialetto.
Dante stesso era detto «poeta da calzolai e da fornai».
Non pareva impossibile continuare il latino, come i greci continuavano il greco, parlare la lingua universale, la lingua della scienza e della coltura, essere intesi da tutti gli uomini istrutti.
Ma queste tendenze trovavano naturale resistenza a Firenze, dove il volgare avea messo salde radici, illustrato da tanta gloria, nè potea parer vergogna scrivere nella lingua di Dante e del Petrarca.
Ivi una classe colta nettamente distinta non era, e popolo grasso e popolo minuto erano ancora il popolo, con una comune fisonomia.
Grandissima l'ammirazione de' classici; frequentissimi gli Studi del Landino, del Crisoloro, del Poliziano; si udiva a bocca aperta Gemistio e il Ficino e il Pico; si disputava di Platone e di Aristotile (discussioni erudite, senza conclusione e serietà pratica); si applaudiva al Poliziano quando cantava la bellezza o la morte dell'Albiera o gli occhi di Lorenzo, «purus apollinei sideris nitor», come fossero gli occhi di Laura.
Ma insieme si difendeva il volgare come gloria nazionale; e il Filelfo spiegava Dante, e il Landino sponeva il Petrarca, e Leonardo Bruni sosteneva essere il volgare lo stesso latino antico com'era parlato a Roma, e Lorenzo de' Medici preferiva il Petrarca a' poeti latini, chiamava «unico» Dante, celebrava la facondia e la vena del Boccaccio, e di Cino e di Cavalcanti e di altri minori scrivea le lodi con acume e maturità di giudizio.
Ci erano gli oppositori, i grammatici, i pedanti, che dicevano Dante uno spropositato, un ignorante, «rerum ommum ignarum» e che scrivea così male in latino.
Ma in Firenze non attecchivano.
Cristoforo Landino nel suo studio, dove spiegava a un tempo Dante e Virgilio, pigliando a esporre il Petrarca, insegnava non esser la lingua toscana al di sotto della latina, e non altrimenti che quella doversi sottoporre a regole di grammatica e di rettorica.
Certo, il vezzo del latino introduceva nel volgare caduto in mano a' pedanti vocaboli e frasi e giri, di cui si sentono gli effetti fino nella prosa del Machiavelli; ma quella barbara mescolanza per la sua esagerazione divenne ridicola, e non potè alterare le forme del volgare, così come erano state fissate negli scrittori e si mantenevano vive nel popolo.
Nè l'uso fu mai intermesso; e Lionardo scrivea in volgare la vita di Dante e del Boccaccio, e in volgare Feo Belcari scrivea le vite de' santi e le rappresentazioni, e si continuavano i rispetti, gli strambotti, le frottole, le cacce, le ballate, tutt'i generi di lirica popolare legati con le feste e gl'intrattenimenti pubblici e privati, le mascherate, le giostre, le serenate, le rappresentazioni, i giuochi, le sfide.
Non era cosa facile guastare o sopraffare una lingua legata così intimamente con la vita.
La forza della lingua volgare era appunto in questo: che rifletteva la vita pubblica e privata, divenuta parte inseparabile della società nelle sue usanze e ne' suoi sentimenti.
Onde se gli uomini colti, trasportati dalla corrente comune, scrivevano in latino per procacciarsi fama, nell'uso vario della vita adoperavano il volgare, condotto ormai al suo maggior grado di grazia e di finezza, parlato e scritto bene generalmente.
Un gran mutamento era però avvenuto nella letteratura volgare.
Il mondo ascetico-mistico-scolastico del secolo passato non era potuto più risorgere di sotto a' colpi del Petrarca e più del Boccaccio, ed era tenuto rozzo e barbaro, e continuava la sua vita come un mondo fatto abituale e convenzionale a cui è straniera l'anima.
Al contrario era in uno stato di produzione e di sviluppo il mondo profano, la «gaia scienza», e dava i suoi colori anche alle cose sacre.
Le laude erano intonate come i rispetti, e i misteri acquistavano la tinta romanzesca delle novelle e romanzi allora in voga.
La Stella ricorda in molte parti le avventure della bella sventurata Zinevra, «sei anni andata tapinando per lo mondo».
Spesso c'entra il comico e il buffonesco, e ti par d'essere in piazza a sentir le ciane che si accapigliano.
La lauda tende al rispetto; la leggenda tende alla novella.
La leggenda è un racconto maraviglioso animato da uno spirito mistico e ascetico, con le sue estasi, le sue visioni, i suoi miracoli.
Ci è al di sotto la fede che fa muovere i monti e ti tiene al di sopra de' sensi, anzi sforza i sensi e dà loro le ali dell'immaginazione.
Questo mondo miracoloso dello spirito, fatto così palpabile come fosse corpo, è rappresentato senza alcuno artificio che lo renda verisimile, anzi con la più grande ingenuità, essendo quelle verità incontrastate pel narratore e pe' lettori.
Questa impressione ti fanno le leggende del Passavanti e le Vite del Cavalca.
Questo è il mondo stesso che comparisce nelle rappresentazioni o misteri di questo secolo.
Sono antiche rappresentazioni, messe a nuovo, intonacate, imbiancate, a uso di un pubblico più colto.
Santo Abraam, Alessio, Abramo, Eugenia e Maddalena, i santi e i padri e i romiti del Cavalca ti sfilano innanzi.
Con la natia rozzezza è ita via anche la semplicità e l'unzione e ogni sentimento liturgico e ascetico.
Il miracolo ci sta come miracolo, cioè a dire come una macchina del maraviglioso, a quel modo che è la fortuna nelle novelle del Boccaccio.
Il motivo drammatico è l'effetto che fanno sugli spettatori certe grandi mutazioni e improvvise nello stato de' personaggi, morale o materiale: perciò non gradazioni, non ombre, non sfumature; i contorni sono chiari e decisi; l'azione è tutta esteriore e superficiale, e si ferma solo quando una mutazione improvvisa provoca esplosioni liriche di gioia, di dolore, di maraviglia.
Ci è quella lirica superficiale e quella chiarezza epica che è propria del Boccaccio.
La lirica è sacra di nome, e non ha quell'elevazione dell'anima verso un mondo superiore, che senti in Dante o in Caterina: ci è la preghiera, non ce n'è il sentimento.
L'azione è pedestre e borghese, di una prosaica chiarezza, non animata dal sentimento, non trasformata dall'immaginazione.
E il mondo dantesco vestito alla borghese, i cui accenti di dolore sono elegia, le cui mistiche gioie sono idilli mancato è il senso del terribile e del sublime, mancata è l'indignazione e l'invettiva: se alcuna serietà rimane ancora in queste spettacolose rappresentazioni, apparecchiate con tanta pompa di scene e di decorazioni, è reminiscenza ed eco di un mondo indebolito nella coscienza.
Ci erano ancora le confraternite, che a grandi spese davano di queste rappresentazioni; ma i fratelli non erano più i contemporanei di Dante, e non gli autori e non gli spettatori.
Si andava alle rappresentazioni, come alle feste carnascialesche, per sollazzarsi.
E si sollazzavano, come si conviene a gente colta e artistica, co' piaceri dello spirito e dell'immaginazione.
Il mistero era per essi un piacevole esercizio dell'immaginazione, una ricreazione dello spirito.
Con la coscienza vuota e con la vita tutta esterna e superficiale, il dramma era così poco possibile come la tragedia o l'eloquenza sacra, o come rifare la visione o la leggenda.
Se quelle rappresentazioni fra tanto liscio e intonaco rimasero stazionarie, e non poterono mai acquistare la serietà e profondità di un vero mondo drammatico, fu perchè mancò all'Italia un ingegno drammatico, come affermano alcuni, quasi l'ingegno fosse un frutto miracoloso, generato senza radici, e venuto espressamente dal cielo? O fu, come affermano altri, perchè il latino attirò a sè gli uomini colti, e il mistero fu trascurato come cosa del popolo, quasi che autori de' misteri non fossero gli uomini più colti di quel tempo, o il latino, che non potè uccidere il volgare, potesse uccidere l'anima di una nazione, quando un'anima ci fosse stata? La verità è che il povero latino non potè uccider nulla, perchè nulla ci era, niuna serietà di sentimento religioso, politico, morale, pubblico e privato, da cui potesse uscire il dramma.
Quel mondo spensierato e sensuale non ti potea dare che l'idillico e il comico; e in tanto fiorire della coltura, con tanta disposizione ed educazione artistica, non potea produrre che un mondo simile a sè, un mondo di pura immaginazione.
Il mistero è un aborto, è una materia sacra che non dice più nulla alla mente ed al cuore, senza alcuna serietà di motivi, e trasformata da uomini colti in un puro giuoco d'immaginazione dove angioli e demoni, paradiso e inferno hanno così poca serietà come Apollo e Diana e Plutone.
La serietà e solennità della materia era in flagrante contraddizione con quella forma tutta senso e tutta superficie, e con quel mondo spensierato e allegro della pura immaginazione, idillico-comico-elegiaco.
Il mistero ci fu, quale poteva realizzarlo l'Italia in questa disposizione dello spirito, e ci fu l'ingegno, quale poteva essere allora l'ingegno italiano.
Quel mistero fu l'Orfeo, e quell'ingegno fu Angiolo Poliziano.
Il Poliziano è la più spiccata espressione della letteratura in questo secolo.
Ci è già l'immagine schietta del letterato, fuori di ogni partecipazione alla vita pubblica, vuoto di ogni coscienza religiosa o politica o morale, cortigiano, amante del quieto vivere, e che alterna le ore tra gli studi e i lieti ozi.
Ebbe in Lorenzo un protettore, un amico, e divenne la sua ombra, il suo compagno ne' sollazzi pubblici e secreti.
Cominciò la vita, voltando l'Iliade in latino, grecista e latinista sommo.
Dettava epigrammi latini con la facilità di un improvvisatore.
Si traeva da tutta Europa a sentirlo spiegare Omero e Virgilio.
E non si ammirava solo l'erudito, ma l'uomo di gusto e il poeta, che ispirato vi aggiungeva le sue emozioni e le sue impressioni e i suoi carmi.
Il suo studio e la sua villetta di Fiesole sono il compendio di questa vita tranquilla e placida, spenta a quarant'anni.
Il Poliziano aveva uno squisito sentimento della forma nella piena indifferenza di ogni contenuto.
Il tempio era vuoto: vi entrò Apollo e lo empì d'immagini e di armonie.
Il mondo antico s'impossessò subito di un'anima dove ogni vestigio del medio evo era scomparso.
Il Boccaccio senti che è ancora medio evo, e lo vedi alle prese co' canoni e le scienze sacre e le forme dantesche: il vecchio e il nuovo Adamo combattono in lui, come nel Petrarca: erano tempi di transizione.
Nel Poliziano tutto è concorde e deciso: non ci è più lotta.
Teologia, scolasticismo, simbolismo, il medio evo nelle sue forme e nel suo contenuto, di cui vedevi ancora la memoria prosaica nelle laude e ne' misteri, è un mondo in tutto estraneo alla sua coltura e al suo sentire.
Quello è per lui la barbarie.
E non ha bisogno di cacciarlo dalla sua anima: non ve lo trova.
Il sentimento della bella forma, già così grande nel Petrarca e nel Boccaccio, in lui è tutto; e quel mondo della bella forma, appresso al quale correvano faticosamente il Boccaccio e il Petrarca fin da' primi anni, è il mondo suo, e ci vive come fosse nato là dentro, e ne ha non solo la conoscenza, ma il gusto.
Questo era la coltura, l'umanità, il risorgimento, orgoglio di una società erudita, artistica, idillica, sensuale, quale il Boccaccio l'avea abbozzata, e che ora si specchia nel Poliziano come nel suo modello ideale.
Perchè questa generazione, caduta così basso, fiacca di tempra e vuota di coscienza, aveva pure la sua idealità, il suo divino, ed era l'orgoglio della coltura, il sentimento della forma.
Le sue mascherate, le cacce, le serenate, le giostre, le feste, tanta parte di quella vita oziosa e allegra, erano nobilitate dalle arti dello spirito e da' piaceri dell'immaginazione.
E se il cardinale Gonzaga, rientrando nella patria, bandisce pubbliche feste e cerca nella poesia il loro ornamento e decoro, il giovane Poliziano gli scrive in due giorni l'Orfeo. E che cosa è l'Orfeo? Come gli venne in mente Orfeo? Giovanni Boccaccio nel Ninfale e nell'Ameto canta la fine della barbarie e il regno della coltura o dell'umanità.
Il rozzo Ameto, educato dalle arti e dalle muse, apre l'animo alla bellezza e all'amore, e di bruto si sente fatto uomo.
Atalante trasforma il bosco di Diana in città, e vi marita le ninfe, e v'introduce costumi civili.
Orfeo è il grande protagonista di questo regno della coltura, venuto dall'antichità giovine e glorioso ne' carmi di Ovidio e di Virgilio.
Questo fondatore dell'umanità col suono della lira e con la dolcezza del canto mansuefà le fiere e gli uomini e impietosisce la morte e incanta l'inferno.
È il trionfo dell'arte e della coltura su' rozzi istinti della natura, consacrato dal martirio, quando, sforzando le leggi naturali, è dato in balìa all'ebbro furore delle baccanti.
Dopo lungo obblio nella notte della seconda barbarie, Orfeo rinasce tra le feste della nuova civiltà, inaugurando il regno dell'umanità, o per dir meglio, dell'umanismo.
Questo è il mistero del secolo, è l'ideale del Risorgimento.
Le sacre rappresentazioni cacciate dalle città menano vita oscura nei contadi, e cadono in così profondo obblio che giacciono ancora polverose nelle biblioteche.
L'Orfeo è un mondo di pura immaginazione.
I misteri avevano la loro radice in un mondo ascetico, fatto tradizionale e convenzionale, pur sempre reale per una gran parte degli spettatori.
Qui tutti sanno che Orfeo, le driadi, le baccanti, le furie, Plutone e il suo inferno sono creature dell'immaginazione.
A quel modo che nelle giostre i borghesi camuffati da cavalieri riproducevano il mondo cavalleresco, i nuovi ateniesi dovevano provare una grande soddisfazione a vedersi sfilare innanzi co' loro costumi e abiti le ombre del mondo antico.
Che entusiasmo fu quello, quando Baccio Ugolini, vestito da Orfeo e con la cetra in mano, scendeva il monte, cantando in magnifici versi latini le lodi del cardinale! «Redeunt saturnia regna.» Sembravano ritornati i tempi di Atene e Roma; salutavano con immenso grido di applauso Orfeo, nunzio alle genti della nuova èra, della nuova civiltà.
Nel medio evo si dicea «vivere in ispirito», ed era il ratto dell'anima alienata da' sensi in un mondo superiore.
Ciò che una volta ispirava il sentimento religioso, oggi ispira il sentimento dell'arte, la sola religione sopravvissuta, e si vive in immaginazione.
I ricchi, a quel modo che decorano i palagi degli avi, decorano con l'arte i loro piaceri.
E che decorazione è quest'Orfeo! Dove sotto forme antiche vive e si move quella società, idealizzata nell'anima armoniosa del poeta.
È un mondo mobile e superficiale, a celeri apparizioni, e mentre fissi lo sguardo il fantasma ti fugge: la parola è come ebbra e si esala nel suono e nel canto; il pensiero è appena iniziale, incalzato dalle onde musicali; la tragedia è un'elegia; l'inno è un idillio; e n'esce un mondo idillico-elegiaco, penetrato di un dolce lamento, che non ti turba, anzi ti lusinga e ti accarezza, insino a che questo bel mondo dell'arte ti si disfà come nebbia, e ti svegli violentemente tra il furore e l'ebbrezza dei sensi.
Il canto di Aristeo, il coro delle driadi, il ditirambo delle baccanti sono le tre tappe di questo mondo incantato, la cui quiete idillica penetrata di flebile e molle elegia si scioglie nel disordine bacchico.
La lettura non basta a darne un'adeguata idea.
Bisogna aggiungervi gli attori e le decorazioni e il canto e la musica e l'entusiasmo e l'ebbrezza di una società che ci vedea una così viva immagine di se stessa.
Il suo ideale, il suo Orfeo è una lieve apparizione, ondeggiante tra' più delicati profumi, a cui se troppo ti accosti, ti fuggirà come Euridice.
È un mondo che non ha altra serietà, se non quella che gli dà l'immaginazione; le passioni sono emozioni, gli avvenimenti sono apparizioni, i personaggi sono ombre; la vita danza e canta, e non si ferma e non puoi fissarla.
La stessa leggerezza penetra nelle forme, flessibili, variamente modulate, e come tutta un'orchestra di metri, entranti gli uni negli altri in una sola armonia.
Il settenario rammorbidisce l'endecasillabo; la ballata dà le ali all'ottava; le rime si annodano ne' più voluttuosi intrecci.
Ora è il dialetto nella sua grazia, ora è la lingua nella sua maestà; qui lo sdrucciolo ti tira nella rapida corsa, là il tronco ti arresta e ti culla; con una facilità e un brio che pare il poeta giuochi con i suoi strumenti.
Così Orfeo, il figlio di Apollo e di Calliope, rinacque; così divenne il nunzio del Risorgimento.
Le edizioni moltiplicarono; penetrò dalle corti nel contado; se ne fecero imitazioni; comparve la Istoria e favola d'Orfeo; e anche oggi nelle valli toscane ti giunge la melodia di Orfeo dalla dolce lira, una storia in ottava rima.
Personaggio indovinato, comparso proprio alla sua ora nel mondo moderno, segnacolo e vessillo del secolo.
L'Orfeo nacque tra le feste di Mantova; e tra le feste di Firenze nacquero le Stanze.
Quel mondo borghese della cortesia, così ben dipinto nel Decamerone, riproducea nelle sue giostre il mondo profano de' romanzi e delle novelle, la cavalleria.
I poeti celebrano a suon di tromba «le gloriose pompe e i fieri ludi» di questi mercanti improvvisati cavalieri e vestiti all'eroica: non ci era più la realtà; ce n'era l'immaginazione.
Le giostre erano in fondo una rappresentazione teatrale, e i giostranti erano attori che rappresentavano i personaggi de' romanzi, spettacolo continuato oggi nelle corse, con questo progresso, che gli attori sono i cavalli.
Ridicoli sono i poeti che narrano le alte geste de' giostranti come fossero Orlando e Carlomagno, con le frasi ampollose de' romanzi, e descrivono minutamente gli abiti, le fogge, le divise, gli stemmi, gli scontri con una serietà frivola.
Anche Giuliano de' Medici fece la sua giostra, e divenne l'eroe di quel poemetto che i posteri hanno chiamato le Stanze.
Comincia a suon di tromba.
Il poeta vuol celebrare le gloriose imprese:
sì che i gran nomi e ' fatti egregi e soli
fortuna o morte o tempo non involi.
Ma i fatti egregi e i gran nomi sono dimenticati.
E che cosa è rimasto? Le Stanze: forme vaganti, di cui nessuno cerca il legame, ciascuna compiuta in sè.
Nella giovine mente del poeta non ci è il romanzo: ci è Stazio e Claudiano con le loro Selve, ci è Teocrito ed Euripide, ci è Ovidio con le sue Metamorfosi, ci è Virgilio con la sua Georgica, ci è il Petrarca con la sua Laura; ci è tutto un mondo d'immagini fluttuanti, sciolte, disseminate come le stelle nel cielo all'occhio semplice del pastore.
Questo è il mondo che vien fuori in un legame artificiale e meccanico, delle cui fila interrotte nessuno si cura: perchè la giostra non è il motivo di questo mondo, è la semplice occasione.
La sua unità non è in un'azione frivola e incompiuta, debole trama.
La sua unità è in se stesso, nello spirito che lo move, ed è quel vivo sentimento della natura e della bellezza che dal Boccaccio in qua è il mondo della coltura.
La primavera, la notte, la vita rustica, la caccia, la casa di Venere, il giardino d'Amore, gl'intagli, non sono già episodi, sono questo mondo esso medesimo nella sua sostanza, animato da un solo soffio.
Sono l'apoteosi di Venere e d'Amore, della bella natura, la nuova divinità.
E la natura non ha già quel vago, che ti fa pensoso e ti tiene in una dolce malinconia; non sei nel regno de' misteri e delle ombre, nel regno musicale del sentimento: sei nel regno dell'immaginazione.
Venere è nuda, Iside ha alzato il velo.
Non hai più gli schizzi di Dante, hai i quadri del Boccaccio; non hai più la faccia di Giotto, hai la figura del Perugino; non hai più il terzetto nel suo raccoglimento, hai l'ottava rima nella sua espansione.
Ci è quel sentimento idillico e sensuale che ispirò il Boccaccio, e di cui senti la fragranza nella Lepidila e nel Rusticus: l'anima sta come rilassata in dolce riposo, non fantasticando ma figurando parte a parte e disegnando, quasi voglia assaporare goccia a goccia i suoi piaceri.
E non è la descrizione minuta, anatomica, spesso ottusa, del Boccaccio; chè mentre la natura ti si offre distinta come un bel paesaggio, non sai onde o come ti giungono mormorii, concenti, note, come la voce di una divinità nascosta nel suo grembo.
La sensualità filtrata fra tanta dolcezza di note lascia in fondo la sua parte grossolana ed esce fuori purificata; e non è la musa civettuola del Boccaccio, è la casta musa del Parnaso, che copre la sua nudità e vi gitta sopra il suo manto verginale.
Nel Boccaccio è la carne che accende l'immaginazione: nel Poliziano l'immaginazione è come un crogiuolo, dove l'oro si affina.
La sensuale e volgare Griseida si spoglia in quel crogiuolo la sua parte terrea, e diviene la gentile Simonetta, bellezza nuda, sviluppata da ogni velo allegorico dantesco e petrarchesco, a contorni precisi e finiti, pur divina nella sua realtà:
nell'atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.
Tra il poeta e il suo mondo non ci è comunione diretta: ci stanno di mezzo Virgilio, Teocrito, Orazio, Stazio, Ovidio, che gli prestano le loro immagini e i loro colori.
Ma egli ha un gusto così fine e un sentimento della forma così squisito, che ciò che riceve esce con la sua stampa come una nuova creazione.
Ci è nel suo spirito una grazia che ingentilisce il volgare naturalismo del suo tempo, e una delicatezza che gli fa cogliere del suo mondo il più bel fiore.
L'insignificante, il rozzo, il plebeo non entra nella sua immaginazione: ciò che sta lì dentro è tutto elegante e profumato, e non cessa che non l'abbia reso con l'ultima finitezza e perfezione.
Le sue reminiscenze mitologiche e classiche sono semplici mezzi di colorito e di rilievo: gli sta innanzi Venere, Diana, e la tale e tale frase di Ovidio o di Virgilio; ma il suo spirito va al di là della frase, attinge le cose nella loro vita, e le rende con evidenza e naturalezza.
Perciò, raro connubio, l'eleganza in lui non è mai rettorica e si accompagna con la naturalezza, perchè ha delle cose una impressione propria e schietta.
La mammola, la rosa, l'ellera, la vite, il montone, la capra, gli uccelli, le aurette, l'erba e il fiore, tutto si anima e si configura e prende le più vaghe e gentili attitudini innanzi a questa immaginazione idillica.
Ciò che prova non è sensualità, è voluttà, sensazione alzata a sentimento, che fonde il plastico e te ne fa sentire la musica interiore.
Ottiene potentissimi effetti con la massima semplicità de' mezzi, spesso col solo allogare gli oggetti, ora aggruppando, ora distinguendo, e tutto animando, come persone vive.
Tale è la mammoletta verginella con gli occhi bassi e vergognosa, e l'ellera che va carpone co' piedi storti, o l'erba che si maraviglia della sua bellezza, bianca, cilestre, pallida e vermiglia.
Il sentimento che n'esce non ha virtù di tirarti dalle cose e lanciarti in infiniti spazi; anzi ti chiude nella tua contemplazione e vi ti tiene appagato, come fosse quella tutto il mondo, e non pensi di uscirne, e la guardi parte a parte nella grazia della sua varietà.
Perchè il motivo dell'ispirazione non è lo spirito nella sua natura trascendente e musicale, quale si mostra in Dante, ma il corpo, e non come un bel velo, una bella apparenza, ma terminato e tranquillo in se stesso, quale si mostra nel periodo e nell'ottava, le due forme analitiche e descrittive del Boccaccio, divenute la base della nuova letteratura.
L'ottava del Boccaccio, diffusa, pedestre, insignificante, qui si fissa, prende una fisonomia.
Ciascuna stanza è un piccolo mondo, dove la cosa non lampeggia a guisa di rapida apparizione, ma ti sta riposata innanzi come un modello e ti mostra le sue bellezze.
Non è un periodo congegnato a modo di un quadro, dove il protagonista emerga tra minori figure; ma è come una serie, dove ti vedi sfilare avanti le parti ad una ad una di quel piccolo mondo.
Diresti che in questa bella natura tutto è interessante, e non ci è principale ed accessorio: maniera di ottava accomodata al genio di un uomo che non ammette l'insignificante e l'indifferente, e tutto vuole sia oro e porpora.
Perciò non hai fusione, ma successione, che è la cosa come ti si spiega innanzi, prima che il tuo spirito la scruti e la trasformi.
La stanza non ti dà l'insieme, ma le parti; non ti dà la profondità, ma la superficie, quello che si vede.
Pure le parti sono così bene scelte e la serie è ordita con una gradazione così intelligente, che all'ultimo te ne viene l'insieme, prodotto non dalla descrizione, ma dal sentimento.
Vuol descrivere la primavera e ti dà una serie di fenomeni:
Zefiro già di be' fioretti adorno
avea ai monti tolta ogni pruina;
avea fatto al suo nido già ritorno
la stanca rondinella peregrina;
risonava la selva intorno intorno
soavemente all'òra mattutina;
e la ingegnosa pecchia al primo albore
giva predando or uno or altro fiore.
Questi fenomeni sono così bene scelti, legati con tanto accordo di pause e di tono, armonizzati con suoni così freschi e soavi, che sembrano le voci di un solo motivo, e te ne viene non all'occhio ma all'anima l'insieme, ed è quel senso d'intima soddisfazione, che ti dà la primavera, la voluttà della natura.
In Dante non ci è voluttà, ma ebbrezza: così è trascendente.
Nel Boccaccio non ci è voluttà, ma sensualità.
La voluttà è la musa della nuova letteratura, è l'ideale della carne o del senso, è il senso trasportato nell'immaginazione e raffinato, divenuto sentimento.
Qui è una voluttà tutta idillica, un godimento della natura senz'altro fine che il godimento, con perfetta obblivione di tutto l'altro; senti le prime e fresche aure di questo mondo della natura assaporato da un'anima, il cui universo era la villetta di Fiesole illuminata e abbellita da Teocrito e da Virgilio.
Da questa doppia ispirazione, un intimo godimento della natura accompagnato con un sentimento puro e delicato della forma e della bellezza, sviluppato ed educato da' classici, è uscito il nuovo ideale della letteratura, l'ideale delle Stanze, una tranquillità e soddisfazione interiore piena di grazia e di delicatezza nella maggior pulitezza ed eleganza della forma; ciò che possiamo chiamare in due parole: «voluttà idillica».
Il contenuto di questo ideale è l'età dell'oro e la vita campestre, con tutto il corteggio della mitologia, ninfe, pastori, fauni, satiri, driadi, divinità celesti e campestri, in una scala che dal più puro e più delicato va sino al lascivo e al licenzioso.
La forma è il descrittivo ammollito e liquefatto in dolci note musicali, quale apparisce nell'Orfeo e nelle Stanze, i due modelli di questa letteratura, che iniziata nel Boccaccio, andrà fino al Metastasio.
La quale non è lavoro solitario di letterato nel silenzio del gabinetto, ma è lo spirito stesso della società, come si andava atteggiando, còlto nelle costumanze e feste pubbliche.
Centro di questo movimento è Lorenzo de' Medici, col suo coro di dotti e di letterati, il Ficino, il Pico, i fratelli Pulci, il Poliziano, il Rucellai, il Benivieni, e tutti gli accademici.
La letteratura vien fuori tra danze e feste e conviti.
Lorenzo non avea la coltura e l'idealità del Poliziano.
Avea molto spirito e molta immaginazione, le due qualità della colta borghesia italiana.
Era il più fiorentino tra' fiorentini, non della vecchia stampa, s'intende.
Cristiano e platonico in astratto e a scuola, in realtà epicureo e indifferente, sotto abito signorile popolano e mercante da' motti arguti e dalle salse facezie, allegro, compagnevole, mezzo tra' piaceri dello spirito e del corpo, usando a chiesa e nelle bettole, scrivendo laude e strambotti, alternando orgie notturne e disputazioni accademiche, corrotto e corruttore.
Era classico di coltura, toscano di genio, invescato in tutte le vivezze e le grazie del dialetto.
Maneggiava il dialetto con quella facilità che governava il popolo, lasciatosi menare da chi sapeva comprenderlo e secondarlo nel suo carattere e nelle sue tendenze.
Chi comprende l'uomo è padrone dell'uomo.
Portò a grande perfezione la nuova arte dello Stato, quale si richiedeva a quella società, divenute le feste e la stessa letteratura mezzi di governo.
Alla violenza succedeva la malizia, più efficace: il pugnale del Bandini uccise un principe, non il principato; la corruzione medicea uccise il popolo; o per dire più giusto, Lorenzo non era che lo stesso popolo studiato, compreso e realizzato, l'uno degno dell'altro.
Tal popolo, tal principe.
Quella corruzione era ancora più pericolosa, perchè si chiamava «civiltà», ed era vestita con tutte le grazie e le veneri della coltura.
Il giovine Lorenzo, odorando ancora di scuola, tra il Landino e il Ficino, dantesco, petrarchesco, platonico, con reminiscenze e immagini classiche, entra nella folla de' rimatori, i quali continuavano il mondo tradizionale de' sonetti e delle canzoni.
Ce n'erano a dozzina, e in tutte le parti d'Italia: l'uomo colto esordiva col sonetto, uso giunto fino a' tempi nostri.
Molti canzonieri uscirono in questo secolo; appena è se oggi si ricordi Giusto de' Conti e il Benivieni.
Continuare il Petrarca dovea significare realizzarlo, sviluppare quell'elemento sensuale, idillico, elegiaco, che giace sotto il suo strato platonico e che è l'elemento nuovo.
Ma il povero Petrarca era malato, e i sonettisti esalano sospiri poetici dall'anima vuota e indifferente.
Del Petrarca rimane il cadavere: immagini e concetti scastrati dal mondo in cui nacquero e campati in aria, senza base.
Non c'è più un mondo organico, ma un accozzamento fortuito e monotono di forme divenute convenzionali.
Manca l'immaginazione e la malinconia e l'estasi, i veri fattori del mondo petrarchesco: restano le astrattezze platoniche e le acutezze dello spirito, congiunta l'insipidezza con le vuote sottigliezze, come nelle rime tanto celebrate del Ceo, del Notturno, del Serafino, del Sasso, del Cornazzano, del Tebaldeo.
Lorenzo comincia lui pure con qualche cosa come la Vita nuova, e narra il suo innamoramento, con le occasioni e le spiegazioni de' suoi sonetti, in una prosa grave e ampia alla maniera latina, pur disinvolta e franca.
Anche nel suo Canzoniere appariscono forme e idee convenzionali; anche vi domina lo spirito, di cui avea sì gran dovizia.
Ma c'è lì una sua impronta; ci è un sentimento idillico e una vivacità d'immaginazione che alcuna volta ti rinfresca e ti fa andare avanti con pazienza.
Non ci è sonetto o canzone che si possa dire una perfezione; ma c'è versi assai belli e qua e là paragoni, immagini, concetti che ti fermano.
Il sonetto e la canzone sono quasi forme consacrate e inalterabili, dove nessuno osa mettere una mano profana.
Rimangono perciò immobili, senza sviluppo.
Il nuovo spirito si fa via nella nuova forma, l'ottava rima o la stanza.
Vi apparisce l'amore idillico-elegiaco, proprio del tempo; la forma condensata del Petrarca si scioglie e si effonde ne' magnifici giri dell'ottava; non più concetti e sottili rapporti; hai narrazioni vivaci e fiorite descrizioni.
Anche dove il concetto è dantesco, come nelle stanze del Benivieni, che, lasciato il primo casto amore e corso appresso alla sirena, si sente trasformato in lonza, la forma è lussureggiante e vezzosa, e più simile a sirena che a casta donna.
Modello di questo genere è la Selva d'Amore di Lorenzo, composizione a stanze, d'un fare largo e abbondante, alquanto sazievole, il cui difetto è appunto il soverchio naturalismo, una realtà minuta, osservata e riprodotta esattamente ne' suoi caratteri esterni, non fatta dall'arte mobile e leggiera, non idealizzata.
Tra le sue più ammirate descrizioni è quella dell'età dell'oro, dove è patente questo difetto.
Vedi l'uomo in villa, che tutto osserva, e anima con l'immaginazione la natura senza averne il sentimento.
Ci è l'osservatore, manca l'artista.
Bella e parimente sazievole è la descrizione degli effetti che gli occhi della sua donna producono sulla natura.
La soverchia esattezza nuoce all'illusione e addormenta l'immaginazione.
Veggasi questa ottava:
Siccome il cacciator ch'i cari figli
astutamente al fero tigre fura;
e benchè innanzi assai campo gli pigli,
la fera, più veloce di natura
quasi già il giunge e insanguina gli artigli;
ma veggendo la sua propria figura
nello specchio che trova in su la rena,
crede sia 'l figlio e 'l corso suo raffrena.
Ci si vede un uomo che in un fatto così pieno di concitazione rimane tranquillo in uno stato prosaico, e osserva e spiega il fenomeno e lo rende con evidenza, ma non ne riproduce il sentimento: c'è l'esattezza, manca il calore e l'armonia.
Veggasi ora l'artista, il Poliziano:
Qual tigre a cui dalla pietrosa tana
ha tolto il cacciator gli suoi car figli;
rabbiosa il segue per la selva ircana,
che tosto crede insanguinar gli artigli;
poi resta di uno specchio all'ombra vana,
all'ombra ch'e suo' nati par somigli;
e mentre di tal vista s'innamora
la sciocca, el predator la via divora.
Anche Lorenzo descrive le rose, come fa il Poliziano; ma si paragoni.
Ciò che in Lorenzo è naturalismo, è idealità nel Poliziano.
Nell'uno è il di fuori abbellito dall'immaginazione, l'altro nel di fuori ti fa sentire il di dentro.
Lorenzo dice:
Eranvi rose candide e vermiglie:
alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,
stretta prima, poi par s'apra e scompiglie:
altra più giovinetta si dislega
appena dalla boccia; eravi ancora
chi le sue chiuse foglie all'aer niega;
altra cadendo a piè il terreno infiora.
Minuta analisi, con perfetta esattezza di osservazione e con proprietà rara di vocaboli.
Vedete ora nel Poliziano queste rose animarsi come persone vive: ne senti la fragranza, la grazia, la freschezza:
questa di verdi gemme s'incappella;
quella si mostra allo sportel vezzosa;
l'altra che 'n dolce foco ardea pur ora,
languida cade e il bel pratello infiora.
In questo genere narrativo e descrittivo, di cui il Boccaccio nel Ninfale dava l'esempio, il poeta non è obbligato a platonizzare e sottilizzare intorno alle sue poetiche fiamme per tutta una vita.
Finge amori altrui, e in luogo di chiudersi nella natura e ne' fenomeni dell'amore fino alle più raffinate acutezze, trae colori nuovi e freschi dalla qualità degli avvenimenti e dalla natura e condizioni dei personaggi che introduce sulla scena.
La donna cala dalle nubi e acquista una storia umana.
Come son care queste ricordanze di donna amata, che torna a casa e non vi trova il suo amore!
Qui l'aspettai, e quinci pria lo scòrsi,
quinci sentii l'andar de' leggier piedi,
e quivi la man timida li porsi;
qui con tremante voce dissi: - Or siedi, -
qui volle allato a me soletto porsi,
e quivi interamente me li diedi...
O sospirar che d'ambo i petti uscia!
O mobil tempo, o brevi ore e fugaci,
che tanto ben ve ne portaste via!
Quivi lasciommi piena di disio,
quando già presso al giorno disse: - Addio.
L'Ambra, il Corinto, Venere e Marte, la Nencia sono poemetti di questo genere.
Soprastà per calore ed evidenza di rappresentazione l'Ambra, graziosa invenzione ispirata da Ovidio e dal Boccaccio.
Ma il capolavoro è la Nencia, che pare una pagina del Decamerone.
Qui Lorenzo lascia la mitologia e gli amori sentimentali e idillici, ed entra nel vivo della società, rappresentando gli amori di Vallera e Nencia, due contadini, con un tono equivoco che non sai se dica da senno o da burla, e scopre il borghese disposto a pigliarsi beffe della plebe.
Tutta Firenze fu piena della Nencia; era la città che metteva in caricatura il contado.
L'idillio vi si accompagna con quel sale comico, che si sente nel prete di Varlungo e monna Belcolore, e che è la vera genialità di Lorenzo: basta ricordare i Beoni.
Chi ama i paragoni ragguagli la Beca, la Nencia e la Brunettina, tre ritratti di contadine.
Nella Beca del Pulci senti il puzzo del contado: la caricatura è sfacciatamente volgare e licenziosa.
Nella Nencia hai l'idealità comica: una caricatura fatta con brio e con grazia, con un'aria perfetta di bonomia e di sincerità.
Nella Brunettina del Poliziano hai il ritratto ideale della contadina, rimossa ogni intenzione comica.
È la Venere del contado con morbidezza di tinte assai ben fuse, vezzosa e leggiadra nella maggior correzione ed eleganza del disegno.
Notabile è soprattutto la verità del colorito e la perfetta realtà.
Tra le feste si ravviva la poesia popolare.
Vedevi Lorenzo andar per le vie, come re Manfredi, sonando e cantando tra' suoi letterati.
Il poeta della Nencia qui è nel suo vero terreno, divenuto la voce di quella società licenziosa e burlevole.
La trasformazione è compiuta: giungiamo sino alla parodia fatta con intenzione.
I Beoni o il Simposio è una parodia della Divina Commedia e dei Trionfi non pur nel disegno, ma nelle frasi: le sacre immagini dell'Alighieri sono torte a significare le sconcezze e turpitudini dell'ebbrezza.
Tra questi passatempi poetici è da porre la Caccia col falcone, fatti frivoli e insignificanti, ma raccontati con lepore e con grazia in stanze sveltissime, con tutt'i sali e le vivezze del dialetto.
Così si passava allegramente il tempo:
E così passo, compar, lieto il tempo,
con mille rime in zucchero ed a tempo.
Che è la fine e insieme il significato di questa pittura di costumi.
Lo stesso spirito è nelle ballate e ne' canti carnascialeschi: una sensualità illuminata dall'allegria e dall'umor comico.
Il mondo convenzionale de' trovatori è ito via, e insieme il suo vocabolario.
Ti senti in mezzo a un popolo festevole e motteggiatore, che ha rotto il freno e si dà balìa.
Un'allegria spensierata e licenziosa è il motivo di questi canti: l'amore non è un affetto, ma un divertimento, un modo di stare allegri.
Il motto comune è la brevità della vita, l'orrore della vecchiezza, il dovere di coglier la rosa mentre è fiorita, quel tale: «Edamus et bibamus: post mortem nulla voluptas».
Aggiungi la caricatura de' predicatori di morale e delle cose sacre, com'è la confessione di Lorenzo e la sua preghiera a Dio contro i mal parlanti.
In questo mondo, rappresentato dal vero e nell'atto della vita, così di fuga e tra le impressioni, non hai concetti raffinati, ma pittura vivace di costumi e di sentimenti, come l'ansia dell'aspettare nella canzone:
Io non so qual maggior dispetto sia
che aspettar quel che il cor brama e desia;
o il dispetto contro i gelosi:
Non mi dolgo di te, nè di me stessi,
chè so mi aiuteresti stu potessi;
o quel volere e disvolere della donna nella canzonetta sulla pazzia, e nell'altra, tirata giù tutta di un fiato, così rapida e piena di cose:
Ei convien ti dica il vero
una volta, dama mia.
Questo carnevale perpetuo si manifesta ne' Canti e Trionfi carnascialeschi in tutta la sua licenza.
Uscivano di carnovale, come si costuma anche oggi, carri magnificamente addobbati, ora rappresentazioni mitologiche, com'è il Trionfo di Bàcco e Arianna co' suoi satiri e Sileno e Mida, ora corporazioni di arti e mestieri, com'è il canto de' «cialdonai», o de' «calzolai», o delle «filatrici», o de' «bericuocolai», ora pitture sociali, come il canto delle «fanciulle», o delle «giovani donne», o de' «romiti», o de' «poveri».
Il motivo generale è l'amor licenzioso, stuzzicato spesso da equivoci e allusioni che mettono in moto l'immaginazione.
È il cinismo del Boccaccio giunto in piazza e portato in trionfo.
La rappresentazione della vita e de' costumi e delle condizioni sociali e l'allegra caricatura, che sono l'anima di questo genere di letteratura, com'è nel «carnevale» di Goethe, si perdono ne' bassi fondi della oscenità plebea.
Cosa ora possono essere le sue Laude, se non parodie? Concetti, antitesi, sdolcinature e freddure.
In questa pozzanghera finirono le serenate, le mattinate, le dipartite, le ritornate, le lettere, gli strambotti, le cacce, le mascherate, le frottole, le ballate, venute a mano de' letterati.
Il mondo del Boccaccio e del Sacchetti perde i suoi vezzi e le sue leggiadrie ne' sonetti plebei del canonico Franco e suoi pari, che non avevano neppure l'arguzia e la festività di Lorenzo.
Il popolo era meno corrotto de' suoi letterati.
Ne' suoi canti non trovavi certo l'amore platonico e ascetico e i concetti raffinati, ma neppure gli equivoci osceni di Lorenzo e le brutture del Franco.
La più schietta voce di questa letteratura popolare è Angelo Poliziano.
Rado capita negli equivoci.
Scherza, motteggia, ma con urbanità e decenza, come ne' suoi consigli alle donne:
Io vi vo', donne, insegnare
come voi dobbiate fare;
e nel «ritratto della vecchia», e in quella ballata graziosissima:
Donne mie, voi non sapete
che io ho il mal che avea quel prete.
Nelle sue ballate senti la gentilezza e la grazia delle «montanine» di Franco Sacchetti, massime quando il fondo è idillico, come nella ballata dell'«augelletto», e nell'altra:
Io mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio, in un verde giardino.
Nelle sue canzoni e canzonette, nelle sue Lettere e ne' suoi rispetti non trovi novità d'idee o d'immagini o di situazioni, e neppure un'impronta personale e subbiettiva, come nel Petrarca.
Ci trovi il segretario del popolo, che traduce in forme eleganti il repertorio comune de' canti popolari dall'un capo all'altro d'Italia.
Perciò non hai qui la freschezza e originalità delle stanze idilliche: spesso ci senti la fretta e la distrazione, come di chi scriva di fuga e per occasione.
Vedi ritornare le stesse idee con lievi mutamenti, com'è il fuggire del tempo e il coglier la rosa fiorita.
Il dizionario delle idee popolari è piccolo volume, e non s'ingrandisce in mano al Poliziano.
Quelle poche idee si aggirano intorno a situazioni generiche e semplici, come sono la bellezza del damo o della dama, la gelosia, la dipartita, l'attendere, lo sperare, l'incitare, la disperazione e i pensieri di morte, le dichiarazioni e le disdette.
Sono l'espressione di un essere collettivo, non del tale e tale individuo.
E così sono nel Poliziano.
I nomi mutano, secondo l'argomento, come la dipartita e la ritornata, e anche secondo il tempo, come la serenata o il notturno o la mattinata; ma le forme sono le stesse.
Sono per lo più stanze in rime variamente alternate, come nelle ballate e ne' rispetti, fatte svelte e leggiere nelle canzonette, ove domina il settenario o l'ottonario.
Spesso non hai che un solo motivo variamente modulato e con graziose ripigliate, come fosse un trillo o un gorgheggio:
E crederrei, s'io fossi entro la fossa,
risuscitare al suon di vostra gola;
crederrei, quando io fussi nell'inferno,
sentendo voi, volar nel regno eterno.
La ripigliata è il vezzo del rispetto toscano.
Ci si vede il cervello in riposo, fra onde musicali, e come viene l'idea, non corre a un'altra, ma ci si ferma e la trattiene deliziosamente nell'orecchio, finchè non le abbia data tutta la sua armonia.
Questo palpare e accarezzare l'idea, compiuta già come idea, ma non ancora compiuta come suono, è proprio della poesia popolare, povera d'idee, ricca d'immagini e di suoni.
La parola è nel popolo più musica che idea.
Ciò che si diceva allora: «cantare a aria», qual si fosse il contenuto, o come dice un poeta, «siccome ti frulla».
Così cantavasi «Crocifisso a capo chino», una lauda, con la stess'aria di una canzone oscena.
Tra queste impressioni nacque la «canzone di maggio», il saluto della primavera:
Ben venga Maggio,
e il gonfalon selvaggio,
cantata dalle villanelle, che venivano a Firenze, anche due secoli dopo, come afferma il Guadagnoli.
Vi si nota la fina eleganza di un uomo che fa oro ciò che tocca, congiunta con una perspicuità che la rende accessibile anche alle classi inculte.
Se Lorenzo esprime della vita popolare il lato faceto e sensuale, con l'aria di chi partecipa a quella vita ed è pur disposto a pigliarne spasso; il Poliziano anche nelle sue più frivole apparenze le gitta addosso un manto di porpora, elegante spesso, gentile e grazioso sempre.
Alla idealità del Poliziano si accosta alquanto solo il Trionfo di Bacco e Arianna.
Lorenzo e il Poliziano sono il centro letterario de' canti popolari, sparsi in tutta Italia non solo in dialetto, ma anche in volgare, e di alcuni ci sono rimasti i primi versi, come: «O crudel donna, che lasciato m'hai»; «Giù per la villa lunga / la bella se ne va»; «Chi vuol l'anima salvare / faccia bene a' pellegrini», ecc.
Vi si mescolavano laude, racconti e poemetti spirituali con le stesse intonazioni.
Li portavano ne' più piccoli paesi i rapsodi o poeti ambulanti e i ciechi con la loro chitarra o mandòla in collo, che vivevano di quel mestiere.
E si chiamavano «cantastorie», quando i loro canti erano romanzette o romanze, racconti di strane avventure intercalati di buffonerie e motti licenziosi.
Questa letteratura profana e proibita a' tempi del Boccaccio, come s'è visto, era il passatempo furtivo anche delle donne colte ed eleganti.
Erano alla moda «romanzi franceschi» con le loro traduzioni, imitazioni e raffazzonamenti in volgare.
In questo secolo moltiplicarono co' rispetti e le ballate anche i romanzi.
Della cavalleria si vedeva l'immagine sfarzosa nelle corti, e alcuna lontana reminiscenza ne davano le compagnie di ventura.
Cavaliere e cavallo era ancora il tipo della storia, l'ideale eroico celebrato nelle giostre e riflesso ne' romanzi.
Se ne scrivevano in dialetto e in volgare.
Tra gli altri che venner fuori, sono degni di nota l'Aspromonte, l'Innamoramento di Carlo, l'Innamoramento di Orlando, Rinaldo, la Trebisonda, i Fioretti de' paladini, il Persiano, la Tavola rotonda, il Troiano, la Vita di Enea, la Vita di Alessandro di Macedonia, il Teseo, il Pompeo romano, il Ciriffo Calvaneo.
Il maggiore attrattivo era la libertà delle invenzioni: si empivano le carte di fole e di sogni, come dice il Petrarca; e chi le dicea più grosse, era stimato più.
Questo elemento fantastico penetrò anche ne' misteri, come nelle laude era penetrato il canto popolare.
Le rappresentazioni presero una tinta romanzesca: l'effetto, non potendosi più trarre da un sentimento religioso che faceva difetto, si cercava nella varietà e nel maraviglioso degli accidenti, com'è il San Giovanni e Paolo di Lorenzo.
Il romanzo adunque era penetrato in tutti gli strati della società, e dalle corti scendeva fino ne' più umili villaggi e di là risaliva alle corti.
La plebe aveva i suoi cantastorie, la corte aveva i suoi novellatori.
E non si contentavano di riferire i fatti come erano trasmessi dalle cronache e dalle tradizioni, ma vi aggiungevano del loro non solo nel colorito e negli accessorii, ma nella invenzione.
Il Boccaccio recitava i suoi romanzi a corte e tra liete brigate, come immagino fossero recitate le sue novelle.
Il suo Florio, il Teseo, il Troilo lasciarono poco durevole vestigio, perchè argomenti poco popolari e guasti dall'erudizione e dalla mitologia.
Ma l'impulso da lui dato fu grande; e la ballata, la novella, il romanzo, ciò che chiamasi letteratura profana, divennero l'impronta del secolo, da Franco Sacchetti a Lorenzo de' Medici.
La cavalleria propriamente detta avea per suo centro gli eroi della Tavola rotonda e i paladini di Carlomagno.
In antico la Tavola rotonda avea molta popolarità, e Tristano e Isotta tennero per qualche tempo il primato.
Il Boccaccio nell'Amorosa visione cita gli eroi principali di queste tradizioni normanne, come nomi già noti e volgari.
Ma la Francia era più nota, e i «romanzi franceschi più diffusi», e Carlomagno avea un certo legame con l'Italia, come un eroe religioso, protettore del papa e vincitore de' saracini e precursore delle crociate.
Era già comparso l'Innamoramento di Orlando.
E Matteo Boiardo ci die' l'Orlando innamorato, una vasta tela in sessantanove canti, interrotta dalla morte.
Il Boiardo, conte di Scandiano, crebbe nella corte estense, divenuta un centro letterario importante accanto a Napoli, Roma e Firenze.
Ivi la letteratura nasceva pure fra le giostre, gli spettacoli e le danze.
Il Boiardo, uomo coltissimo, dotto di greco e di latino, studiosissimo di Dante e del Petrarca, era rimasto estraneo al movimento impresso dal Boccaccio alla letteratura toscana.
Ne' suoi sonetti, canzoni e ballate è facile a vedere non so che astratto e rigido, come di uomo ben composto negli atti e nella persona, pure impacciato.
È in lui una serietà di motivi che in quel secolo della parodia si può chiamare un anacronismo.
Gli piace recitare i suoi canti tra liete brigate, e averne le lodi; ma i passatempi e gli scherzi non sono il suo elemento, e crederebbe profanare i suoi eroi a pigliarsene gioco.
Racconta con la serietà d'Omero, e fu salutato allora l'«Omero italiano».
Certo, non crede alle sue favole, e non ci credono i suoi colti uditori, e la comune incredulità scappa fuori alcuna volta in qualche tratto ironico; ma questo riso della coltura a spese della cavalleria non è il motivo, e un accessorio fuggevole del racconto.
Cosa dunque aveva più di serio la cavalleria nella coscienza italiana? Di vivo non era rimasto altro che le pompe e le cerimonie e le feste delle corti.
Quelle forme erano così vuote, come le cerimonie chiesastiche, scomparso ogni sentimento eroico e religioso, anzi negato e parodiato.
Invano si studia il Boiardo di togliere alla plebe il romanzo e dargli le serie proporzioni di un'epopea.
Il mondo omerico è un organismo vivente, dove sentimenti, pensieri, costumi e avvenimenti sono perfettamente realizzati e armonizzati: il mondo cavalleresco, mancati tutt'i suoi motivi interiori, è qui sotto forme epiche il mondo plebeo dell'immaginazione, un maraviglioso sciolto dalle leggi dello spazio e del tempo, senza serietà di scopo e di mezzi, tra castelli incantati e colpi di spada.
Come Elena nell'Iliade, qui è Angelica che move intorno a sè Europa e Asia; salvo che Elena è un semplice antecedente, rimasto ozioso nel racconto, e Angelica è la vera motrice dell'immensa macchina, è il maraviglioso in permanenza, la maga.
Il miracolo continua: non lo fanno i santi; lo fanno i maghi e le maghe.
E il miracolo non è la macchina o l'istrumento, ma è fine a se stesso.
Voglio dire che il miracolo non è un mezzo per conseguire uno scopo serio e sviluppare un'azione interessante, come nelle leggende e ne' primitivi poemi cavallereschi animati dalla fede; non essendo nel mondo del Boiardo altra serietà che il miracolo stesso, il fine di sorprendere gli uditori con la straordinarietà degli avvenimenti.
I motivi delle azioni non sono a cercare nella serietà di un mondo religioso, morale, eroico, divenuto convenzionale e tradizionale, come il mondo cristiano, ma nel libero gioco delle passioni e de' caratteri sotto l'influsso di potenze occulte.
Onde nasce un mondo pieno di vivacità e di mobilità, dove tutte le forze dell'individuo, non frenate da leggi e da autorità superiori, si sviluppano nel pieno rigoglio della natura e producono effetti così maravigliosi come le stregonerie e gl'incanti.
Orlando e Rinaldo ti fanno maravigliare non meno che Malagigi e Angelica.
Un mondo così essenzialmente fantastico e insieme così poco serio per il poeta e per gli uditori è in fondo quel mondo della cortesia calato dal Boccaccio in mezzo alla borghesia e fatto moderno, e ritirato dal Boiardo alle sue aure natie.
Il ferrarese ha creduto renderlo cosa seria, dandogli forma nobile e decorosa, purgata dalle licenze e da' disordini de' romanzi plebei; ma è appunto quest'apparenza di serietà che toglie attrattivo al suo racconto.
Ne' romanzi plebei il maraviglioso fa un effetto serio sugl'ignoranti e ingenui uditori; ma i colti «signori e cavalieri», alla cui presenza recitava il Boiardo i suoi canti, non potevano vedere in quei fantastici racconti che un puro giuoco d'immaginazione, disposti a spassarsi della plebe, che faceva gli occhioni e apriva la bocca.
Quel mondo dunque non poteva divenire borghese se non trasportato nell'immaginazione e accompagnato da un sogghigno.
E tutte e due queste condizioni mancano nell'Orlando innamorato.
Il Boiardo ha molta vena inventiva: avvenimenti e personaggi pullulano sotto la sua penna.
Certo, non è tutto cosa sua; raccoglie di qua e di là; trova innanzi a sè un immenso materiale agglomerato da' secoli: ma quella materia la fa sua, scegliendo, combinando, padroneggiandola.
Il suo intento, direi quasi la sua vanità, è di sorprendere gli uditori con la ricchezza e varietà de' suoi intrecci, menandoseli appresso tra le più strane avventure.
Ma al Boiardo mancano tutte le grandi qualità dell'artista, e soprattutto quelle due che sono essenziali alla rappresentazione di questo mondo, l'immaginazione e lo spirito.
Ben tenta talora lo scherzo; ma rimane un tentativo abortito: non ha brio, non facilità, non grazia.
Gli manca lo spirito e gli manca ancora quell'alta immaginazione artistica che si chiama fantasia.
Vede chiaro, disegna preciso, come fosse un mondo storico; e appunto perciò in un mondo così fantastico rimane pedestre e minuto, e non ti sottrae al reale, non ti ruba i contorni, non ti tira per forza in una regione incantata.
A questo grande inventore di magie la natura negò la magia più desiderabile, la magia dello stile.
Le più originali concezioni, le più interessanti situazioni ti cascano sul più bello: sei nel fantastico e ti trovi nel volgare, e Angelica ti si trasforma in una donnicciuola e Orlando in un babbeo.
Il che avviene senza intenzione comica, unicamente per la soverchia crudezza de' colori, a cui mancano le gradazioni e le mezze tinte.
Così quel mondo, che nella sua intima natura dovea essere fantastico e comico, ti riesce spesso nella rappresentazione prosaico e volgare.
Non una sola situazione, non una figura è rimasta viva.
Dicesi che il nobil conte facesse suonare a festa le campane del villaggio, quando gli venne trovato il nome di Rodamonte, quasi l'importanza fosse ne' nomi o ne' fatti.
E non è Rodamonte che è rimasto vivo, è Rodomonte.
Se il Boiardo recitava i suoi canti a' signori ferraresi, Luigi Pulci rallegrava le feste e i conviti di Lorenzo recitando le stanze del suo Morgante.
Qui ritroviamo la fisonomia letteraria del tempo nelle sue gradazioni, dal Burchiello «sgangherato e senza remi», come lo chiama Battista Alberti, sino a Lorenzo de' Medici.
Il Pulci discende in diritta linea dal Boccaccio e dal Sacchetti, e ne sviluppa le tendenze con più energia che non il Poliziano e non Lorenzo.
Piglia il romanzo come lo trova per le vie, un miscuglio di santo e di profano, di buffonesco e di serio.
E non pensa a dargli un carattere eroico, anzi niente più gli ripugna che la tromba.
Ti dà un mondo rimpiccinito, fatto borghese: gli eroi sono scesi dal piedistallo, hanno perduta la loro aureola, e ti camminano innanzi semplici mortali.
Niente è più volgare che Carlo o Gano.
Carlo è un rimbambito, Gano è un birbante destituito di ogni grandezza: volgare lui, volgari i suoi intrighi.
Rinaldo è un ladrone di strada, Ulivieri è un cacciatore di donne e la sua Meridiana non è in fondo che una femminella.
Di caratteri e passioni non è a far parola: è un mondo superficiale e mobilissimo, e vai di palo in frasca, e non ti raccapezzi.
Gano trama la rovina de' paladini, Forisena si gitta dalla finestra, Babilonia rovina, Carlo è scoronato da Rinaldo; tutti questi grandi avvenimenti scappan fuori appena abbozzati, come non fossero opera di uomini, ma di qualche bacchetta magica, rappresentati con la stessa indifferenza e leggerezza di colorito, con la quale Morgante si mangia un elefante e sfracella il capo a una balena.
È la cavalleria com'era concepita e trasformata dalla plebe.
Il cantastorie è in fondo un giullare, o piuttosto un buffone plebeo, che abbassa quel mondo al suo livello e de' suoi uditori, e invocati gravemente Dio e i santi e la Madonna, si abbandona a' suoi lazzi, e ti fa sbellicar dalle risa.
Il buffone, personaggio accessorio ne' racconti e nelle commedie, è qui il personaggio principale, è lo spirito stesso del racconto.
La parte più seria del romanzo è certo la morte di Orlando; e anche lì quanti lazzi! Ecco il principio della grande battaglia:
Chi vuol lesso Macon, chi l'altro arrosto;
ognun volea del nimico far torte:
dunque vegnamo alla battaglia tosto,
sì ch'io non tenga in disagio la morte,
che colla falce minaccia ed accenna
ch'io muova presto le lance e la penna.
Nell'inferno si fa gran festa, che attendono i pagani; Lucifero «trangugiava a ciocche le anime che piovean de' seracini»; e san Pietro attende le anime de' cristiani:
E perchè Pietro a la porta è pur vecchio,
credo che molto quel giorno s'affanna;
e converrà ch'egli abbi buon orecchio,
tanto gridavan quelle anime: - Osanna! -
ch'eran portate dagli angeli in cielo:
sicchè la barba gli sudava e 'l pelo.
I campi di battaglia svegliano immagini tolte ad imprestito da' macellai e da' cucinieri; i colpi di spada sono in modo così grossolano esagerati che la morte stessa diviene ridicola; i miracoli sono così strani e così caricati che perdono ogni serietà, come è Orlando morto, trasformato in colomba, che si posa sulla spalla di Turpino e gli entra in bocca con tutte le penne.
Se il buffone fosse di buona fede, seriamente credulo e sciocco, avremmo il grottesco, com'è ne' romanzi primitivi.
Ma qui il buffone è un uomo colto, che parla a un colto uditorio, e non è il buffone, ma fa il buffone, contraffacendo il cantastorie e la plebe che gli crede.
Sicchè ci troviamo in quella stessa disposizione di animo che ispirò la Belcolore e la Nencia: è il borghese che si spassa alle spalle della plebe.
E te ne accorgi alla finta serietà con che il poeta, quando le dice assai grosse, chiama in testimonio Turpino, o dove nelle cose più gravi fa boccacce e t'esce fuori con una smorfia e si burla del suo argomento e de' suoi personaggi.
La parodia è ancora più comica, perchè dissimulata con molta cura, di rado rilevata, e posta il più sovente nella natura stessa del fatto senza alcuno artificio di forma, come è Morgante che uccide una balena ed è ucciso da un granchiolino, o Margutte che scoppia dalle risa e muore.
E riderà in eterno, nota l'angiolo Gabriello, trasformato l'individuo in tipo.
La rappresentazione è anch'essa conforme a questa parodia plebea.
La plebe non analizza e non descrive; ma ha l'intuito sicuro e la percezione viva, e coglie ciò che vede alla naturale e così in grosso, e non ci si ferma e passa oltre.
La forma qui è tutta esteriore e rapida; si movono insieme «le lance e la penna»; l'autore, mentre move la penna, vede le lance moversi, vede quello che scrive; le figure si staccano dal fondo, e ti balzano innanzi vivide, e tu le cogli in una sola girata d'occhio.
L'ottava non ha periodo e le rime non hanno gioco: è un incalzare di versi senza posa, frettolosi, poco curati, gli uni addossati agli altri, e spesso tutto il quadro è un verso solo.
Al che aiuta il dialetto, maneggiato maestrevolmente, soprattutto per la proprietà de' vocaboli.
Tutto è plebeo: azioni, passioni e linguaggio.
Un capolavoro di questa vita plebea è il sacco di Sarragozza, col supplizio di Gano e di Marsilio.
- «E io voglio fare il boia» -, dice l'arcivescovo Turpino.
Uno di quei tratti che illuminano tutta una situazione.
La risposta di Rinaldo a Marsilio, che vuol farsi cristiano all'ultima ora, è quale potrebbe suonare in bocca di un becero.
Il romanzo è una commedia, che contro l'intenzione dell'autore si volge in tragedia.
Ma la tragedia è da burla, e non ce n'è il sentimento.
Lo spirito del racconto è il basso comico, un comico vuoto e spensierato, che imputridisce nelle acque morte di un'immaginazione volgare e non si alza a fantasia.
Maggiore spirito è in Lorenzo e nel Boccaccio, che si mescolano fra la plebe, e non sono plebe e la guardano alcun poco dall'alto.
Ma il Pulci, ancorchè uomo colto, per i sentimenti e le inclinazioni è plebe, e a forza di rappresentare la parte del buffone plebeo, diviene egli medesimo quel cotale.
Perciò gli mancano tutte le alte qualità di un artista comico: la grazia, la finezza, la profondità dell'ironia, e ti riesce spesso grossolano, superficiale, inculto e negletto anche nella forma.
Ha non solo la grossolanità, ma anche l'angustia di un'immaginazione plebea, non essendoci ne' suoi personaggi molta ricchezza di carattere, quella varietà di movenze, di sentimenti e d'istinti che fa dell'uomo un piccolo mondo.
Rinaldo, Orlando, Ulivieri, Astolfo, Sansonetto, Ricciardetto, i paladini sono tutti a uno stampo, e non ci è differenza in loro che della forza.
Malagigi è insignificante.
Gano, Falserone, Bianciardino, Marsilio, Caradoro, Manfredonio, Falcone, Salincorno, tutt'i pagani sono esseri superficiali, e spesso puri nomi.
I più accarezzati dall'autore sono i due personaggi del suo cuore, Morgante e Margutte.
Morgante è lo scudiere di Orlando, ed è il vero protagonista, lo spirito del racconto.
Non è il cavaliere, è lo scudiere l'eroe di questa storia plebea, il cui spirito penetra dappertutto e si continua anche dopo la sua morte.
Morgante rappresenta il lato eroico e cavalleresco della plebe, ghiotto, millantatore, ignorante, di poca malizia, ma buono, fedele e coraggioso.
Il suo battaglio è l'emulo di Durindana.
Margutte è la plebe nella sua degenerazione e corruzione, ignobile, beffardo, ladro, fraudolento, assai vicino all'animale.
Questi due esseri accoppiati insieme si compiono e si spiegano.
Se ci fosse maggiore stacco tra queste figure volgari e i cavalieri, nel loro antagonismo o dualismo sarebbe la vera parodia, come è di Sancio Panza e don Chisciotte.
Ma lo spirito plebeo penetra ancora fra' cavalieri, e Margutte e Morgante sono non una parte, ma il tutto, l'alto modello a cui più o meno è informata la storia, intitolata a buona ragione Il Morgante.
Una concezione originale è Astarotte.
Il diavolo cornuto di Dante, che già riceve una prima trasformazione nel suo nero cherubino, il bravo loico che ha tutta l'aria di un dottore di Bologna, qui prende aria paesana, ed è un buon compagnone.
Come il nero cherubino arieggia agli scolastici, Astarotte è il nuovo spirito del secolo, motteggiatore, ironico e libero pensatore, che fa il teologo e l'astrologo, e spiega la Bibbia a modo suo, e battezza asini Dionisio e Gregorio; chè
ognuno erra
a voler giudicare il ciel di terra
Astarotte, che è stato un serafino e de' principali, sa molte cose, che non sanno «i poeti, i filosofi e i morali», e dice la verità, e non fa come gli spiriti folletti che si aggirano per l'aria e ingannano gli uomini, «facendo parere quel che non è»:
chi si diletta ir gli uomini gabbando,
chi si diletta di filosofia,
chi venire i tesori rivelando,
chi del futuro dir qualche bugia.
Vedesi la filosofia messa a fascio con l'astrologia e le altre arti di gabbare gli uomini.
Ma Astarotte promette di dire la verità, e tiene la promessa, come un diavolo d'onore:
Chè gentilezza è bene anche in inferno.
E sa la verità non per ragione, ma per esperienza, come di cose che vede e tocca, confermandole anche con l'autorità della Scrittura.
Dove ci vuol ragione, come nella quistione della prescienza, la quale «l'umana gente avvolge di tanti errori», dice: - «Nol so: però non ti rispondo» -.
Ma quanto a' fatti, afferma ardito e sicuro.
E afferma che, salvo i giudei e i saracini, piacciono a Dio quelli che osservano la loro religione, come fecero gli antichi romani, su' quali piovve tanta grazia celeste; che al di là delle colonne d'Ercole è l'altro emisperio, abitato come questo, e ben vi si può ire; che quella gente è parte della famiglia di Adamo, anch'essa redenta, altrimenti Dio sarebbe stato partigiano; che gli animali pinti nel padiglione di Luciana non sono tutti, e compie la lista descrivendo un gran numero di animali poco noti.
Rinaldo, avido d'imparare, si propone di lanciarsi pe' mari ignoti e scoprire il nuovo mondo rivelato da Astarotte: la poesia indovina Cristoforo Colombo, o piuttosto la scienza, perchè il dotto Astarotte era in fondo il celebre Toscanelli, amico e suggeritore del Pulci.
Questa concezione è una delle più serie della nostra letteratura e delle meglio disegnate e sviluppate del Morgante.
Ci è lì il secolo nelle sue intime tendenze non ancora ben chiare, che volge le spalle alle forme scolastiche e alle contemplazioni ascetiche, e diffida de' ragionamenti astratti, e si gitta avido nella esplorazione della natura e dell'uomo.
Il mondo gli si allarga innanzi, e mentre gli uni ricalcano le vie della storia e rifanno Atene e Roma, gli altri lasciando teologia, filosofia e astrologia e fatture e altre «opinioni sciocche», mostre ingannevoli degli spiriti folletti, percorrono la terra in tutt'i versi e già sono con l'immaginazione al di là dell'oceano.
Il secolo comincia a prender possesso della terra; la storia naturale, la fisica, la nautica, la geografia prendono il posto delle quistioni sugli enti e sull'esistenza degli universali - i fatti e l'esperienza occupano le menti più che i ragionamenti sottili.
Aggiungi l'ironia, quel prender le cose così alla leggiera e sdrucciolandovi appena, quell'aria già scettica e miscredente, ancorachè non ci sia ancora negazione e scetticismo, e avrai l'immagine del secolo, il ritratto di Astarotte.
Ma l'autore sembra quasi non accorgersi della stupenda concezione, e abborraccia dappertutto, anche qui.
Gli manca la coscienza seria e intelligente delle nuove vie, nelle quali entra il secolo; gli manca quell'elevatezza d'animo che rende eloquente l'uomo quando gli lampeggiano innanzi nuovi orizzonti.
L'Ulisse di Dante è sublime; il suo Rinaldo è insignificante.
E l'Astarotte riesce l'eco volgare e confusa di un secolo ancora inconsapevole di sè.
Il Pulci, il Boiardo, il Poliziano, Lorenzo, il Pontano e tutti gli eruditi e i rimatori di quell'età non sono che frammenti di questo mondo letterario, ancora nello stato di preparazione, senza sintesi.
Ci è un uomo che per la sua universalità parrebbe volesse abbracciarlo tutto, dico Leon Battista Alberti, pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e letterato; fiorentino di origine, nato a Venezia, educato a Bologna, cresciuto a Roma e a Ferrara, vivuto lungamente a Firenze accanto al Ficino, al Landino, al Filelfo; caro a' papi, a Giovan Francesco signore di Mantova, a Lionello d'Este, a Federigo di Montefeltro; celebrato da' contemporanei come «uomo dottissimo e di miracoloso ingegno», «vir ingenii elegantis, acerrimi iudicii, exquisitissimaeque doctrinae», dice il Poliziano.
Destrissimo nelle arti cavalleresche, compì i suoi studi a Bologna dalle lettere sino alle leggi, datosi poi con ardore alle matematiche e alla fisica.
Deesi a lui la facciata di Santa Maria Novella, la cappella di San Pancrazio, il palazzo Rucellai, la chiesa di Sant'Andrea in Mantova e di San Francesco primon Rimini.
Sono suoi trovati la camera ottica, il reticolo de' pittori e l'istrumento per misurare la profondità del mare, detto «bolide albertiana».
Nelle sue Piacevolezze matematiche trovi non pochi problemi di molto interesse, e nei suoi libri Dell'architettura, che gli procacciarono il nome di «Vitruvio moderno», hai cenni di parecchie invenzioni o fatte o intravedute.
I suoi Rudimenti e i suoi Elementi di pittura e la sua Statua contengono preziosi insegnamenti tecnici di queste arti.
Fu così pratico del latino, che un suo scherzo comico scritto a venti anni e intitolato Philodoxeos, venne da tutti gli eruditi attribuito a un antico scrittore latino, e da Alberto d'Eyb a Carlo Marsuppini, professore di rettorica a Firenze e segretario della repubblica.
E non minor pratica ebbe del volgare, in prosa e in verso, addestratosi anche nel maneggio del dialetto, quando con Cosimo de' Medici e gli altri sbanditi fu richiamato in Firenze.
Ne' suoi Intercenali o «intrattenimenti della cena», ne' suoi Apologhi, nel suo Momo scritto a Roma il 1451, dove rappresenta se stesso, piacevoleggia con urbanità.
Scrisse i soliti sonetti e canzoni: e chi non ne scrivea allora? O chi non ne scrisse poi? Meglio riuscirono le sue Egloghe e le sue Elegie, amorosi idilli, come era la voga dal Boccaccio in qua.
Era in voga anche Platone, e platonizzò.
Ma al suo ingegno così pratico, così lontano dalle astrazioni, non potea piacere il misticismo platonico, che facea andare in visibilio il suo amico Ficino, e lo seguì come artista ne' suoi dialoghi della Tranquillità dell'animo e della Famiglia, il cui terzo libro fu lungo tempo attribuito al Pandolfini, e del Teogenio o della vita civile e rusticana.
Tali sono pure l'Ecatomfilea, la Deifira, la Cena di famiglia, la Sofrona, la Deiciarchia.
Il dialogo è la sua maniera prediletta, un certo discorrere alla familiare e alla buona, così alieno dalle pedanterie scolastiche, e che trovi anche dove parla uno solo come nelle sue Efebie, nella sua epistola sull'Amore, nella sua Amiria.
Chi misura l'ingegno dalla quantità delle opere e dalla varietà delle cognizioni, dee tenerlo ingegno così miracoloso come fu tenuto a quel tempo.
Certo, egli fu l'uomo più colto del suo tempo e l'immagine più compiuta del secolo nelle sue tendenze.
Battista ha già tutta la fisonomia dell'uomo nuovo, come si andava elaborando in Italia.
La scienza, svestite le sue forme convenzionali, è in lui amabile e familiare.
Lascia le discussioni teologiche e ontologiche.
Materia delle sue investigazioni è la morale e la fisica con tutte le sue attinenze, cioè l'uomo e la natura così com'è, secondo l'esperienza, il nuovo regno della scienza.
È un artista, perchè non solo studia e comprende, ma contempla, vagheggia, ama l'uomo e la natura.
Anima idillica e tranquilla, alieno dalle agitazioni politiche, ritirato nella pace e nell'affetto della famiglia, abitante in ispirito più in villa che in città, non curante di ricchezze e di onori, vuoto di ogni cupidigia e ambizione, si formò una filosofia conforme, di cui è base l'«aurea mediocritas», una moderazione ed eguaglianza d'animo, che ti tenga fuori di ogni turbazione.
Il suo amore della natura campestre non ha nulla di sentimentale e d'indefinito, che t'induca a fantasticare; anzi tutto è disegnato partitamente con la sagacia di un osservatore intelligente e con l'impressione fresca di uomo che se ne senta ricreare l'occhio e riposare l'anima.
E non è la natura in se stessa che lo alletta, com'è ne' «quadretti di genere» del Poliziano, ma è l'uomo nella natura: il paesaggio è un fondo appena abbozzato, sul quale vedi muoversi la vita campestre in quella sua temperanza e tranquillità, dov'è posto l'ideale della felicità.
Il vero protagonista è perciò l'uomo, com'era concepito allora, sottratto alle tempeste della vita pubblica, che cerca pace e riposo nel seno della famiglia e tra' campi, tutto alle sue faccende e a' suoi onesti diletti.
Ma è insieme l'uomo colto e civile e umano, che disputa e ragiona nel cerchio degli amici e con la famiglia attorno, porgendo utili ammaestramenti intorno all'arte della vita.
La quale arte si può ridurre in questa sentenza: che l'uomo dee tener lontane da sè le passioni e le turbazioni dello spirito e serbar regola e modo in tutte le cose.
Questo equilibrio interno, metà epicureo, è quella pace che Dante cercava nell'altro mondo, e che Battista ti offre in questo mondo, il nuovo principio etico generato dagli antichi moralisti e che Lorenzo Valla chiama argutamente la «voluttà».
Il concetto ascetico che l'uomo non può conseguire vera felicità in terra, è alieno dal Quattrocento, che non nega e non afferma il cielo e si occupa della terra.
Battista non ti dà una filosofia con deduzioni rigorose, non cessa di essere un buon cristiano e riverente alla religione; e non sospetta egli, e non sospettavano i contemporanei, a quali pericolose conseguenze traeva quello indirizzo.
Non è il filosofo: è l'artista e il pittore della vita, come gli si porgeva.
I suoi ragionamenti non movono da princìpi filosofici, ma dalle sentenze de' moralisti antichi, dagli esempli della storia, e soprattutto dalla sua esperienza della vita.
Il suo uomo non è un'astrazione, un'idea formata da concezioni anticipate, ma è preso dal vero nella vita pratica, co' suoi costumi e le sue inclinazioni.
Pinge e descrive più che non ragiona; e non è un descrivere letterario o rettorico, ma rapido, evidente, concentrato, come chi ha innanzi agli occhi il modello e n'è vivamente impressionato.
Onde riesce pittore di costumi e di scene di famiglia, o campestri o civili, impareggiabile.
E non hai già la vuota esteriorità, come spesso è in Lorenzo; ma dentro è il nuovo ideale dell'uomo savio e felice, che par fuori nella calma decorosa e composta de' lineamenti, a cui fa spesso da contrapposto la faccia disordinata dell'uomo sregolato e turbato.
È l'onesto borghese idealizzato, che succede al tipo ascetico o cavalleresco del medio evo, un borghese purgato ed emendato, toltagli l'aria beffarda e licenziosa.
Di questo ideale immagine parlante è lo stesso Battista, di cui suprema virtù era la pazienza delle ingiurie anche più gravi e de' mali più stringenti della vita: «protervorum impetum patientia frangebat», dice di sè: ottimo rimedio a non guastarsi il sangue.
Questa pazienza o uguaglianza dell'animo è la genialità della nuova letteratura, impressa sulla fronte tranquilla del Boccaccio, del Sacchetti, del Poliziano e del nostro Battista e che gl'innamora delle forme terse e riposate, il cui interno equilibrio si manifesta nella bellezza e nella grazia.
Questo amore della bella forma, non solo in sè tecnicamente, ma come espressione dell'interna tranquillità, è la musa di Battista.
Scrivendo di sè, dice:
«Praecipuam et singularem voluptatem capiebat spectandis rebus, in quibus aliquod esset specimen formae ac decus.
Senes praeditos dignitate aspectus et integros atque valentes iterum atque iterum demirabatur, delitiasque naturae sese venerari praedicabat...
Quicquid ingenio esset hominum cum quadam effectum elegantia, id «prope divinum» dicebat...
Gemmis floribus, ac locis praesertim amoenis visendis, nonnumquam ab aegritudine in bonam valetudinem rediit.»
Quest'uomo, che alla vista della bella natura si sente tornar sano, che sta lì a contemplare l'aspetto decoroso di una vecchiezza sana e intera, che chiama divina l'opera elegante dell'ingegno, e sente voluttà a contemplare le belle forme, aggiunge a questa squisita idealità un senso così profondo del reale, che gli rende familiari gli arcani della natura e anche della storia, come mostrò nelle lettere a Paolo Toscanelli, dove predice con molta sagacia parecchi avvenimenti, le future sorti di principi e di pontefici, e i moti delle città.
Indi è che nelle sue pitture trovi precisione tecnica, verità di colorito e grande espressione: è una realtà finita ed evidente, che mostra nelle sue forme impressioni e sentimenti.
Veggasi nel Governo della famiglia la pittura della vita villica, e la descrizione del convito, e quella maravigliosa scena di famiglia, dove Agnolo, veggendo la sua donna tutta pinta e impomiciata, dice: «Tristo a me! E ove t'imbrattasti così il viso? Forse t'abbattesti a qualche padella in cucina? Laveraiti, chè quest'altri non ti dileggino.
- Ella m'intese e lagrimò.
Io le die' luogo ch'ella si lavasse le lagrime e il liscio».
Dello stesso genere è la pittura de' giocatori nella Cena di famiglia e nella Deiciarchia, e il ritratto nel Teogenio della vita quieta e felice di Genipatro, nel quale intravvedi Battista:
«Truovomi ancora per la età riverito, pregiato, riputato; consigliansi meco; odonmi come padre; ricordanmi; lodanmi in suoi ragionamenti; approvano, seguono i miei ammonimenti; e se cosa mi manca, vedomi presso al porto ove io riposi ogni stracchezza della vita, se ella forse a me fusse, qual certo ella non è, grave.
Nulla truovo per ancora in vita che mi dispiaccia, e questo mi conosco oggidì più felice che mai, poi che in cosa niuna a me stesso dispiaccio...
Godo testè qui ragionando con voi; godo solo leggendo questi libri; godo pensando e commentando queste e simili cose, quali io vi ragiono, e ricordandomi la mia ben trascorsa vita e investigando fra me cose sottili e rare, sono felice.
E parmi abitare fra gl'iddii, quando io investigo e ritruovo il sito e forze in noi de' cieli e suoi pianeti.
Somma certo felicità viversi senza cura alcuna di queste cose caduche e fragili della fortuna, con l'animo libero da tanta contagione del corpo; e fuggito lo strepito e fastidio della plebe in solitudine, parlarsi con la natura maestra di tante maraviglie, seco disputando della cagione, ragione, modo e ordine di sue perfettissime e ottime opere, riconoscendo e lodando il padre e procreatore di tanti beni.»
Parti udire Cicerone a discorrere della vecchiezza e dell'amicizia, e delle lettere e dell'uomo felice: senti in questo Teogenio quella superiorità dell'intelligenza sulla forza e sulla fortuna, e della coltura sulla barbarie e la rozzezza plebea; quella beatitudine dell'uomo ritirato nello studio, nella famiglia, ne' campi; quell'ardore delle scoperte, quel culto dell'arte, che è la fisonomia del secolo.
Animate da questo spirito sono pure le ultime pagine della Tranquillità dell'animo, ove Battista pinge maravigliosamente se stesso.
Nell'Ecatomfilea ti arrestano ritratti di ancora maggior freschezza ed evidenza, com'è la pittura degli amanti troppo giovani o troppo vecchi e dell'amore degli uomini «che fioriscono in età ferma e matura»: pittura che ha ispirato le belle ottave dell'Ariosto.
De' vagheggini perditempo dice:
«Parmi poca prudenzia amare questi oziosi e inerti, i quali per disagio di faccende fanno l'amore suo quasi esercizio e arte, e con sue parrucchine, frastagli, ricamuzzi e livree, segni della loro leggerezza, vagosi e frascheggiosi per tutto discorrono.
Fuggiteli, figliuole mie, fuggiteli; però che questi non amano, ma così logorano passeggiando il dì, non seguendo voi, ma fuggendo tedio.»
La storia dell'amore e della gelosia di Ecatomfila sembra un bel frammento di un romanzo fisiologico perduto, e per finezza e verità di osservazione è molto innanzi alla Fiammetta del Boccaccio, la cui imitazione è visibile nella Ecatomfilea, e più nella Deifira e nella Epistola di un fervente amante: pianti e querele amatorie, dove il buon Battista, uscendo della sua natura, come il Boccaccio, dà nella rettorica.
Per trovare il grande scrittore devi cogliere Battista quando pinge o descrive, come nell'epistola sopra l'amore, reminiscenza del Corbaccio, e la pittura delle donne e l'altra dell'amante, pari alle più belle del Corbaccio.
E, per finirla, vedi nella Tranquillità dell'animo la descrizione del duomo di Firenze, con tanta idealità nella massima precisione degli accessorii:
«...
questo tempio ha in sè grazia e maestà, e ...
mi diletta ch'io veggo in questo tempio giunta una gracilità vezzosa con una sodezza robusta e piena: tale che da una parte ogni suo membro pare posto ad amenità, e dall'altra parte comprendo che ogni cosa qui è fatta ed offirmata a perpetuità...
Qui senti in queste voci il sacrificio e in questi, quali gli antichi chiamavano misteri, una soavità maravigliosa...
Ei possono in me questi canti ed inni della Chiesa quello a che fine ei dicono che furon trovati: troppo m'acquietano da ogni altra perturbazione d'animo, e commovuomi a certa non so quale io la chiami lentezza d'animo piena di riverenza verso di Dio.
E qual cuore sì bravo si trova che non mansueti se stesso, quando ei sente su bello ascendere e poi discendere quelle intere e vere voci con tanta tenerezza e flessitudine? Affermovi questo, che mai sento in quei misteri e cerimonie funerali invocare da Dio aiuto ...
alle nostre miserie umane, che io non lacrimi.»
Come son vere queste impressioni! E con quanta felicità rese! «Gracilità vezzosa», «lentezza d'animo», sono forme nuove, pregne d'idealità.
Il sentimento religioso, cacciato dalla coscienza, si trasforma in sentimento artistico, e move l'animo come architettura e come musica.
Pittore egregio, Battista non è del pari felice, quando ragiona, o quando narra.
I suoi ragionamenti non sono originali e non profondi, e sembrano uscire più dalla memoria che dall'intelletto; e la sua novella di Lionora de' Bardi, vivace, rapida, rimane una pura esteriorità, lontana assai dal suo modello, il Boccaccio.
Volle Battista raggiungere nella prosa quella idealità che il Poliziano poi raggiunse nella poesia.
Amendue maneggiano maestrevolmente il dialetto, ma abborrono dal plebeo rozzo e licenzioso, e mirano a dare alla forma un aspetto signorile ed elegante.
Come il Poliziano vagheggiò una poesia illustre, così Battista continua la prosa illustre di Dante e del Boccaccio.
Patente è su di lui l'influsso che esercita la prosa latina e la maniera del Boccaccio.
Ne' suoi trattati e dialoghi trovi prette voci latine, come «bene est», «etiam», «idest», «praesertim»; e parole e costruzioni e giri latini, come «proibire» e «vietare», e participii presenti e infiniti con costruzione latina, e «affirmare», «asseguire», «conditore di leggi», «duttore», «valitudine», e moltissimi altri vocaboli simili.
Anche nel collocamento delle parole e nell'intreccio del periodo latineggia.
Ma non è un barbaro, che ti faccia strane mescolanze; anzi è uno spirito colto ed elegante, che ha nella mente un tipo e cerca di realizzarlo.
Mira a un parlare di gentiluomo, se non con latina maestà, certo con gravità elegante ed urbana.
E come è un toscano, anzi un fiorentino, la latinità è temperata dalla vivezza e grazia paesana.
Se guardiamo a' trecentisti, il congegno del periodo, l'arte de' nessi e de' passaggi, una più stretta concatenazione d'idee, una più intelligente distribuzione degli accessorii, una più salda ossatura ti mostra qui una prosa più virile e uno spirito più coltivato, fatto maturo dalla educazione classica.
Pure, se per queste qualità Battista avanza i trecentisti, è inferiore al Boccaccio, e rimane molto al di qua dalla perfezione.
La prosa non è nata ancora: ci è una prosa d'arte, dove lo scrittore è più intento alla forma che alle cose, e mira principalmente all'eleganza, alla grazia e alla sonorità.
Come arte, i ritratti di Battista sono ciò che la prosa ti dà di più compìto in questo secolo.
Ma sono frammenti, e tutti quasi vogliono gli ultimi tocchi, e nessuno si può dir cosa così perfetta come è un quadro del Poliziano.
Cosa dunque rimane vivo di Battista? Niuna cosa intera come il Decamerone, fra le trentacinque sue opere.
Rimangono di bei frammenti, quadri staccati.
Il secolo finisce, e non hai ancora il libro del secolo, quello che lo riassume e lo comprende ne' suoi tratti sostanziali Se hassi a dir «secolo» un'età sviluppata e compiuta in sè in tutte le sue gradazioni, come un individuo, il primo secolo comprende il Dugento e il Trecento, il cui libro fondamentale è la Commedia, e il secondo secolo comincia col Boccaccio ed ha il suo compimento, la sua sintesi, nel Cinquecento.
Il Petrarca è la transizione dall'uno all'altro.
Il Quattrocento è un secolo di gestazione ed elaborazione.
È il passaggio dall'età eroica all'età borghese, dalla società cavalleresca alla società civile, dalla fede e dall'autorità al libero esame, dall'ascetismo e simbolismo allo studio diretto della natura e dell'uomo, dalla barbarie scolastica alla coltura classica.
Hai un mutamento profondo nelle idee e nelle forme, di cui il secolo non si rende ben conto.
Hai perciò un immenso repertorio di forme e di concetti: hai frammenti, manca il libro; hai l'analisi, manca la sintesi.
Il secolo ha tendenze varie e spiccate; ma non ne ha la coscienza.
Nella sua coscienza ci è questo solo chiaro e distinto, che la perfezione è ne' classici, e che a quel modello bisogna conformarsi: onde lo studio dell'eleganza, della bella forma in qualsivoglia contenuto.
Perciò il grande uomo del secolo per confessione de' contemporanei fu Angiolo Poliziano, che nelle Stanze si accostò più a quell'ideale classico.
Ma questo grande movimento, che più tardi si manifestò in Europa come lotta religiosa, fu in Italia generalmente indifferenza religiosa, morale e politica, con l'apoteosi della coltura e dell'arte.
Il suo dio è Orfeo, e il suo ideale è l'idillio, sono le Stanze.
L'eleganza e il decoro delle forme è accompagnato con la licenza de' costumi ed uno spirito beffardo, di cui i frati, i preti e la plebe fanno le spese.
Non era una borghesia che si andava formando: era una borghesia che già aveva avuta la sua storia, e fra tanto fiore di coltura e d'arte si dissolveva sotto le apparenze di una vita prospera e allegra.
A turbare i baccanali sorse sullo scorcio del secolo frate Geronimo Savonarola, e parve l'ombra scura e vindice del medio evo che riapparisse improvviso nel mondo tra frati e plebe, e gitta nel rogo Petrarca, Boccaccio, Pulci, Poliziano, Lorenzo e gli altri peccatori, e rovescia il carro di Bacco e Arianna, e ritta sul carro della Morte tende la mano minacciosa e con voce nunzia di sciagure grida agli uomini: - Penitenza! Penitenza! - Tra questo canto de' morti:
Dolor, pianto e penitenza
ci tormentan tutta via:
questa morta compagnia
va gridando: - Penitenza.
-
Fummo già come voi siete:
voi sarete come noi:
morti siam, come vedete;
così morti vedrem voi.
E di là non giova poi
dopo il mal far penitenza.
La borghesia gaudente e scettica chiamò quella gente i «piagnoni», e quella gente pretese dal suo frate qualche miracolo; e poichè il miracolo non fu potuto fare, si volse contro al frate.
Nessuna cosa dipinge meglio quale stacco era fra una borghesia colta e incredula, e una plebe ignorante e superstiziosa.
Su questi elementi non poteva edificar nulla il frate.
Voleva egli restaurare la fede e i buoni costumi facendo guerra a' libri, a' dipinti e alle feste, come se questo fosse la causa e non l'effetto del male.
Il male era nella coscienza, e nella coscienza non ci si può metter niente per forza.
Ci vogliono secoli, prima che si formi una coscienza collettiva; e formata che sia, non si disfà in un giorno.
Chi mi ha seguito e ha visto per quali vie lente e fatali si era formata questa coscienza italiana, può giudicare qual criterio e quanto buon senso fosse nell'impresa del frate.
Nella storia c'è l'impossibile, come nella natura.
E il frate, che voleva rimbarbarire l'Italia per guarirla, era alle prese con l'impossibile.
Savonarola fu una breve apparizione.
L'Italia ripigliò il suo cammino, piena di confidenza nelle sue forze, orgogliosa della sua civiltà.
Quaranta anni di pace, la lega medicea tra Napoli, Firenze e Milano, l'invenzione della stampa, la digestione già fatta del mondo latino, l'apparizione e lo studio del mondo greco, la vista in lontananza del mondo orientale, l'audacia delle navigazioni e l'ardore delle scoperte, e tanto splendore e gentilezza di corti a Napoli, a Firenze, a Urbino, a Mantova, a Ferrara, tanta prosperità e agiatezza e allegria della vita, tanta diffusione ed eleganza della coltura e amore dell'arte avevano ravvivate le forze produttive, indebolite nella prima metà del secolo, e creato un movimento così efficace di civiltà, che non potè essere impedito o trattenuto dalle più grandi catastrofi.
Spuntava già la nuova generazione intorno al Boiardo, al Pulci, a Lorenzo, al Poliziano.
E i giovani si chiamavano Nicolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, Ludovico Ariosto, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, Bembo, Berni, tutta una falange predestinata a compiere l'opera de' padri.
L'un secolo s'intreccia talmente nell'altro, che non si può dire dove finisca l'uno, dove l'altro cominci.
Sono una continuazione, un correre non interrotto intorno allo stesso ideale.
XII
IL CINQUECENTO
Di questo ideale, di cui adombra i lineamenti Giovanni Boccaccio, non hai finora che segni, indizi, frammenti.
Il suo lato positivo è una sensualità nobilitata dalla coltura e trasformata nel culto della forma come forma, il regno solitario dell'arte nell'anima tranquilla e idillica: di che trovi l'espressione filosofica nell'Accademia platonica, massime nel Ficino e nel Pico, e l'espressione letteraria nell'Alberti e nel Poliziano, a cui con pari tendenza, ma con minore abilità tecnica e artistica, si avvicina il Boiardo.
Il protagonista di questo mondo nuovo è Orfeo, e il suo modello più puro e perfetto sono le Stanze.
Accanto al Poliziano, pittore della natura, sta Battista Alberti, pittore dell'uomo.
Attorno a questi due spuntano egloghe, elegie, poemetti bucolici, rappresentazioni pastorali e mitologiche: la beata Italia in quegli anni di pace e di prosperità s'interessava alle sorti di Cefalo e agli amori di Ergasto e di Corimbo.
Le accademie, le feste, le colte brigate erano un'Arcadia letteraria, alla quale in quel vuoto ozio degli spiriti il pubblico prendeva una viva partecipazione.
A Napoli, a Firenze, a Ferrara si vivea tra novelle, romanzi ed egloghe.
Gli uomini, già cospiratori, oratori, partigiani, patrioti, ora vittime, ora carnefici, sospiravano tra ninfe e pastori.
E mi spiego l'infinito successo che ebbe l'Arcadia del Sannazzaro, la quale parve a' contemporanei l'immagine più pura e compiuta di quell'ideale idillico.
Ma di questo Virgilio napolitano non è rimasta viva che qualche sentenza felicemente espressa, come:
L'invidia, figliuol mio, se stessa macera...
Peggiora il mondo e peggiorando invetera.
Nè della sua Arcadia è oggi la lettura cosa tollerabile, e per la rigidità e artificio della prosa monotona nella sua eleganza, e per un cotal vuoto e rilassatezza di azione e di sentimento, che esprime a maraviglia quell'ozio interno, che oggi chiameremmo noia, e allora era quella placidità e tranquillità della vita, dove ponevano l'ideale della felicità.
Il lato negativo di questo ideale era il comico, una sensualità licenziosa e allegra e beffarda, che in nome della terra metteva in caricatura il cielo, e rappresentava col piglio ironico di una coltura superiore le superstizioni, le malizie, le dabbenaggini, i costumi e il linguaggio delle classi meno colte.
Da questa coltura sensuale, cinica e spiritosa uscì quell'epiteto, i «piagnoni», che fu a Savonarola più mortale della scomunica papale.
I canti carnascialeschi sono il tipo del genere: il suo poeta è il Boccaccio, il suo storico è il Sacchetti, il suo istrione è il Pulci, il suo centro è Firenze.
A questo lato negativo si congiunge il Pomponazzi, che spezza ogni legame tra cielo e terra, negando l'immortalità dell'anima.
Era il vero motto, il segreto del secolo, la coscienza filosofica di una società indifferente e materialista, che si battezzava platonica, predicava contro i turchi e gli ebrei, voleva il suo papa, il suo Alessandro sesto, che così bene la rappresentava, e non poteva perdonare al Pomponazzi di dire ad alta voce i suoi segreti, quando ella medesima non si aveva fatta ancora la domanda: - Cosa sono? E dove vado?
Questa società tra balli e feste e canti e idilli e romanzi fu un bel giorno sorpresa dallo straniero e costretta a svegliarsi.
Era verso la fine del secolo.
Il Pontano bamboleggiava in versi latini e il Sannazzaro sonava la sampogna, e la monarchia disparve, come per intrinseca rovina, al primo urto dello straniero.
Carlo ottavo correva e conquistava Italia col gesso.
Trovava un popolo che chiamava lui un barbaro, nel pieno vigore delle sue forze intellettive e nel fiore della coltura, ma vuota l'anima e fiacca la tempra.
Francesi, spagnuoli, svizzeri, lanzichenecchi insanguinarono l'Italia, insino a che, caduta con fine eroica Firenze, cesse tutta in mano dello straniero.
La lotta durò un mezzo secolo, e fu in questi cinquant'anni di lotta che l'Italia sviluppò tutte le sue forze e attinse quell'ideale che il Quattrocento le aveva lasciato in eredità.
All'ingresso del secolo incontriamo Machiavelli e l'Ariosto, come all'ingresso del Trecento trovammo Dante.
Machiavelli aveva già trentun anno, e ventisei ne aveva l'Ariosto.
E sono i due grandi ne' quali quel movimento letterario si concentra e si riassume, attingendo l'ultima perfezione.
Gittando un'occhiata sull'insieme, è patente il progresso della coltura in tutta Italia.
Il latino e il greco è generalmente noto, e non ci è uomo colto che non iscriva corretto ed anche elegante in lingua volgare, che oramai si comincia a dire senz'altro lingua italiana.
Ma fuori di Toscana il tipo della lingua si discosta dagli elementi locali e nativi, e si avvicina al latino, producendo così quella forma comune di linguaggio che Dante chiamava aulica e illustre.
I letterati, sdegnando i dialetti e vagheggiando un tipo comune, e riconoscendo nel latino la perfezione e il modello, secondo l'esempio già dato dal Boccaccio e da Battista Alberti, atteggiarono la lingua alla latina.
E non pur la lingua, ma lo stile, mirando alla gravità, al decoro, all'eleganza, con grave scapito della vivacità e della naturalezza.
Questo concetto della lingua e dello stile, creazione artificiosa e puramente letteraria, ebbe seguito anche in Toscana, come si vede ne' mediocri, quale il Varchi o il Nardi, e anche ne' sommi, come nel Guicciardini e fino talora nel Machiavelli.
La quale forma latina di scrivere, sposata nel Boccaccio e nell'Alberti alla grazia e al brio del dialetto, così nuda e astratta ha la sua espressione pedantesca negli Asolani del Bembo, e giunge a tutto quel grado di perfezione di cui è capace nel Galateo del Casa e nel Cortigiano del Castiglione.
Ma in Toscana quella forma artificiale di lingua e di stile incontrò dapprima viva resistenza, e senti negli scrittori il sapore del dialetto, quella non so quale atticità, che nasce dall'uso vivo, e che ti fa non solo parlare ma sentire e concepire a quella maniera, come si vede nelle Novelle del Lasca, ne' Capricci del bottaio e nella Circe del Gelli, nell'Asino d'oro e ne' Discorsi degli animali di Agnolo Firenzuola.
Ma anche in questi hai qua e là un sentore della nuova maniera ciceroniana e boccaccevole, come non mancano fra gli altri italiani uomini d'ingegno vivace, che si avvicinano alla spigliatezza e alla grazia toscana, quale si mostra Annibal Caro negli Straccioni, nelle Lettere, nel Dafni e Cloe.
La lotta durò un bel pezzo tra la fiorentinità e quella forma comune e illustre, che battezzavano lingua italiana, cioè a dire tra la forma popolare o viva ed una forma convenzionale e letteraria.
Anche in Toscana gli uomini colti non si contentavano di dire le cose alla semplice e alla buona, come faceva il Lasca e Benvenuto Cellini, ma avevano innanzi un tipo prestabilito e cercavano una forma nobile e decorosa.
La borghesia voleva il suo linguaggio, e lo stacco si fece sempre più profondo tra essa e il popolo.
Fioccavano i rimatori.
Da ogni angolo d'Italia spuntavano sonetti e canzoni.
Le ballate, i rispetti, gli stornelli, le forme spigliate della poesia popolare, andarono a poco a poco in disuso.
Il petrarchismo invase uomini e donne.
La posterità ha dimenticati i petrarchisti, e appena è se fra tanti rimatori sopravviva con qualche epiteto di lode il Casa, il Costanzo, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Galeazzo di Tarsia e pochi altri, capitanati da Pietro Bembo, boccaccevole e petrarchista, tenuto allora principe della prosa e del verso.
Certo, prose e versi erano nel loro meccanismo di una buona fattura, e l'ultimo prosatore o rimatore scrivea più corretto e più regolato che parecchi pregiati scrittori de' secoli scorsi.
E perchè tutti scrivevano bene e tutti sapevano tirar fuori un sonetto o un periodo ben sonante, moltiplicarono gli scrittori, e furono tentati tutt'i generi.
Comparvero commedie, tragedie, poemi, satire, orazioni, storie, epistole, tutto a modo degli antichi.
Il Trissino scrivea l'Italia liberata e la Sofonisba, Luigi Alamanni faceva il Giovenale e monsignor della Casa contraffaceva Cicerone.
A' misteri successero commedie e tragedie, con magnifica rappresentazione.
E non solo le forme del dire latine, ma anche la mitologia s'incorporava nella lingua: e si giurò per gl'«iddii immortali», e Apollo, le muse, Elicona, il Parnaso, Diana, Nettuno, Plutone, Cerbero, le ninfe, i satiri divennero luoghi comuni in prosa ed in verso.
Sapere il latino non era più un merito: tutti lo sapevano, come oggi il francese, e mescolavano il parlare di parole latine, per vezzo o per maggiore efficacia.
Ci erano gl'improvvisatori, che nelle corti lì su due piedi fabbricavano epigrammi e facezie, come oggi si fa i brindisi, e ne avevano in merito qualche scudo o qualche bicchiere di buon vino, che Leone decimo dava annacquato al suo «archipoeta», un improvvisatore di distici, quando il distico mal riusciva.
E c'erano anche non pochi, che conoscevano ottimamente il latino e lo scrivevano con rara perfezione, come il Sannazzaro, il Fracastoro e il Vida, i cui poemi latini sono ciò che di più elegante siesi scritto in quella lingua ne' tempi moderni.
Aggiungi le odi ed elegie del Flaminio.
Latinisti e rimatori erano le due più grosse schiere de' letterati.
Nelle loro opere l'importante è la frase, un certo artificio di espressione, che riveli nell'autore coltura e conoscenza de' classici.
I lettori non meno colti ed eruditi rimanevano ammirati, trovando nel loro libro le orme del Boccaccio o del Petrarca, di Virgilio o di Cicerone.
Pareva questa imitazione il capolavoro dell'ingegno.
E mi spiego come uomini assai mediocri furono potuti tenere in così gran pregio, quali Pietro Bembo, il caposcuola, e monsignor Guidiccioni e Bernardo Tasso e simili, noiosissimi.
Ma la frase, in tanta insipidezza del fondo, non poteva essere sufficiente alimento all'attività di una borghesia così svegliata ed eccitata, che decorava la sua sensualità e il suo ozio co' piaceri dello spirito.
Salse piccanti si richiedevano, fatti maravigliosi e straordinari, intrecciati in modo che stimolassero la curiosità e tenessero viva l'attenzione.
L'intrigo diviene la base delle novelle, de' romanzi, delle commedie e delle tragedie, un intrigo così avviluppato che è assai vicino al garbuglio.
Si cerca ne' fatti il nuovo e lo strano, che stuzzichi l'immaginazione, il buffonesco e l'osceno nella commedia, il mostruoso e l'orribile nella tragedia.
Dall'una parte ci è la frase, vacua sonorità, dall'altra il fatto, il vacuo fatto uscito dal caso; e come la frase oltrepassa l'eleganza ed è pretensiosa, come nel Bembo, o leziosa e civettuola, come nel Firenzuola o nel Caro, così il fatto, per voler troppo stuzzicare, diviene osceno o mostruoso, e sempre assurdo.
Il realismo abbozzato dal Boccaccio, sviluppato nel Quattrocento, corre ora a passo accelerato alle ultime conseguenze: la dissoluzione morale e la depravazione del gusto.
Ci è nella società italiana una forza ancora intatta, che in tanta corruzione la mantiene viva, ed è nel pubblico l'amore e la stima della coltura, e negli artisti e letterati il culto della bella forma, il sentimento dell'arte.
In quella forma letteraria e accademica vedevano gl'italiani una traduzione della lingua viva, il parlare quotidiano idealizzato, secondo quel modello dove ponevano la perfezione, ed eran larghi non pur di lodi, ma di quattrini e di onori a questi artefici della forma.
I centri letterari moltiplicarono; comparvero nuove accademie; e le più piccole corti divennero convegni di letterati, i più oscuri principi volevano il segretario che ponesse in bello stile le loro lettere, e letterati e artisti che li divertissero.
Il centro principale fu a Roma, nella corte di Leone decimo, dove convenivano d'ogni parte novellatori, improvvisatori, buffoni, latinisti, artisti e letterati, come già presso Federico secondo.
Anche i cardinali avevano segretari e parassiti di questa risma; anche i ricchi borghesi, come il conte Gambara di Brescia, il Chigi, i Sauli a Genova, i Sanseverino a Milano.
Intorno a Domenico Veniero in Venezia si aggruppavano Bernardo Tasso, Trifon Gabriele, il Trissino, il Bembo, il Navagero, Speron Speroni; a Vittoria Colonna facevano cerchio in Napoli il vecchio Sannazzaro, e il Costanzo, il Rota, il Tarsia.
Da questi noti s'indovini la caterva de' minori.
Pensioni, donativi impieghi, abbazie, canonicati, era la manna che piovea sul loro capo.
E c'era anche la gloria: onorati, festeggiati, divinizzati, e senza discernimento confusi i sommi e i mediocri.
Furono chiamati «divini», con Michelangelo e l'Ariosto, Pietro Aretino e il Bembo, e Bernardo Accolti, detto anche l'«unico».
Costui, fatto duca, usciva con un corteggio di prelati e guardie svizzere; dove giungeva, s'illuminavano le città, si chiudevano le botteghe, si traeva ad udire i suoi versi dimenticati: tanti onori non furono fatti al Petrarca.
I letterati acquistarono coscienza della loro importanza: pitocchi e adulatori, divennero insolenti, e si posero in vendita, e la loro storia si può riassumere in quel motto di Benvenuto Cellini: «Io servo a chi mi paga».
Come si facevano statue, quadri, tempi per commissioni, così si facevano storie, epigrammi, satire, sonetti a richiesta, e spesso l'ingiuria era via a vendere a più caro prezzo la lode.
In quest'aria viziata gli uomini anche meno corrotti divenivano servili e ciarlatani per far valere la merce.
Non ci è immagine più straziante che vedere l'ingegno appiè della ricchezza, e udir Machiavelli chiedere qualche ducato a Clemente settimo, e l'Ariosto gridare al suo signore che non aveva di che rappezzarsi il manto, e veder Michelangelo, quando,
...
da' rei tempi costretto,
eroi dipinse a cui fu campo il letto:
sdegnose parole di Alfieri.
Soverchiavano i mediocri con l'audacia, la ciarlataneria, l'intrigo e la bassezza, ora addentandosi, ora strofinandosi, temuti e corteggiati.
Vecchia storia; ed è a credere che la cosa fosse pure così a' tempi di Federico o di Roberto.
Se non che allora la dottrina era merce rara, e richiedeva molta fatica ad acquistarla; dove ora la coltura e il sapere era diffuso, e lo scrivere in prosa e in verso era divenuto un vero meccanismo, facile a imparare, che teneva luogo d'ispirazione, e per la somiglianza esteriore confondeva nella stessa lode sommi e mediocri.
Di grandi uomini è pieno quel secolo, se si dee stare a' giudizi de' contemporanei.
Francesco Arsilli nella sua elegia De poëtis urbanis ti dà la lista di cento poeti latini nella sola corte di Leone decimo, e lo stesso Ariosto celebra nomi oggi dimenticati.
Bernardo Tasso, il Rucellai, l'Alamanni, il Giovio, lo Scaligero, il Muzio, il Doni, il Dolce, il Franco e altri infiniti furono tenuti cime d'uomini, che oggi nessuno più legge.
Pure ne' più, anche ne' mediocrissimi, era viva la fede nella loro arte e lo studio di rendervisi perfetti.
Venale era il Giovio, e ossequioso cortigiano era Bernardo Tasso, ma quando prendevano la penna, c'era qualche cosa nel loro animo che li nobilitava, ed era lo studio della perfezione, il prendere sul serio il loro mestiere.
Quest'era la sola forza, la sola virtù rimasta intatta.
La corruzione e la grandezza del secolo non era merito o colpa di principi o letterati, ma stava nella natura stessa del movimento, ond'era uscito, che ora si rivelava con tanta precisione, generato non da lotte intellettuali e novità di credenze, come fu in altri popoli, ma da una profonda indifferenza religiosa, politica, morale, accompagnata con la diffusione della coltura, il progresso delle forze intellettive e lo sviluppo del senso artistico.
Qui è il germe della vita e qui è il germe della morte; qui è la sua grandezza e la sua debolezza.
Questo movimento è già come in miniatura tutto raccolto presso il Boccaccio, il quale, se riproduce con vivacità le apparenze, non ne ha coscienza, e non sa qual mondo nuovo sia in fermentazione sotto le sue ciniche caricature.
Del qual mondo nuovo appariscono i frammenti dal Sacchetti al Pulci, che ne fissano il lato negativo e comico, mentre il suo ideale trasparisce già nell'Alberti, nel Boiardo, nel Poliziano.
La violenta reazione del Savonarola non fa che accrescere forza e celerità al movimento e dargli coscienza di sè.
Il secolo decimosesto nella sua prima metà non è che questo medesimo movimento scrutato profondamente, rappresentato nel suo insieme, e condotto per le varie sue forme sino al suo esaurimento.
È la sintesi che succede all'analisi.
Qual è il lato positivo di questo movimento? È l'ideale della forma, amata e studiata come forma, indifferente il contenuto.
E qual è il suo lato negativo? È appunto l'indifferenza del contenuto, una specie di eccletismo negli uni, come Raffaello, Vinci, Michelangelo, il Ficino, il Pico, che abbracciano ogni contenuto, perchè ogni contenuto appartiene alla coltura, all'arte e al pensiero; eccletismo accompagnato negli altri da una satira allegra e senza fiele di quei princìpi e forme e costumi del passato ancora in credito presso le classi inculte.
Ciò che è divino in questo movimento è l'ideale della forma, o per trovare una frase più comprensiva, è la coltura presa in se stessa e deificata.
Il lato comico e negativo non è esso medesimo che una rivelazione della coltura.
Il «limbo» di Dante e l'Amorosa visione del Boccaccio fanno già presentire quest'orgoglio di un'età nuova, che comprendeva e glorificava tutta la coltura.
Orfeo annunzia al suono della lira la nuova civiltà, che ha la sua apoteosi nella Scuola di Atene, ispirazione dantesca di Raffaello, rimasta così popolare, perch'ivi è l'anima del secolo, la sua sintesi e la sua divinità.
Questa Scuola d'Atene, con i tre quadri compagni che comprendono nel loro sviluppo storico teologia, poesia e giurisprudenza, è il poema della coltura, di così larghe proporzioni come il paradiso di Dante, aggiuntovi il limbo.
Il quadro diviene una vera composizione, come lo vagheggiava Dante ne' suoi dipinti del purgatorio: il suo santo Stefano e il suo Davide hanno un riscontro nel Cenacolo, nella Sacra famiglia, nella Trasfigurazione, nel Giudizio, poemi sparsi qua e là di presentimenti drammatici.
Il pittore vagheggia la bellezza nella forma come l'Alberti o il Poliziano, e studia possibilmente a non alterare con troppo vivaci commozioni la serenità e il riposo de' lineamenti: perciò riescono figure epiche anzi che drammatiche.
Quel non so che tranquillo e soddisfatto, che senti nelle stanze del Poliziano, e ti avvicina più al riposo della natura che all'agitazione della faccia umana, quella «pace tranquilla senz'alcuno affanno» è l'impronta di queste belle forme: salvo che quella pace non è già «simile a quella che nel cielo india», un ideale musicale, come Beatrice e Laura, ma vien fuori da uno studio del reale ne' suoi più minuti particolari.
Senti che il pittore ha innanzi un modello accuratamente studiato e contemplato con amore, che nella sua immaginazione si compie, e prende quella purezza e riposo di forma, che Raffaello chiamava «una certa idea».
In questa certa idea ci entra pure alcun poco il classico, il convenzionale e la scuola; difetti appena visibili ne' lavori geniali, usciti da una sincera ispirazione, dove domina il sentimento della bellezza e lo studio del reale.
Così nacquero le Madonne del secolo, nella cui fisonomia non è l'inquietudine, l'astrazione e l'estasi della santa, ma la ingenua e idillica tranquillità della verginità e dell'innocenza.
Queste facce si vanno sempre più realizzando, insino a che nella immaginazione veneziana di Tiziano pigliano una forma quasi voluttuosa.
La stessa larghezza di concezione nella purezza e semplicità de' lineamenti trovi nell'architettura: il gotico è debellato dal Brunelleschi; si collega insieme l'ardito e il semplice, Michelangiolo e Palladio.
Chi ricordi in che guisa l'Alberti rappresenta il duomo di Firenze, può concepire il San Pietro, la vasta mole, che è il medio evo nella sua materia e il mondo nuovo ne' suoi motivi, la vera e profonda sintesi di tutto quel gran movimento, che ti offriva nell'apparenza lo stesso mondo del passato, quelle forme, quei nomi, quei costumi, que' concetti e quella materia, pure sostanzialmente trasformato ne' suoi motivi, uscito dalla coscienza e divenuto un puro ideale artistico, l'ideale della forma.
Questa materia antica penetrata di uno spirito nuovo nella sua vasta comprensione epica, dove trovi fusi tutti gli elementi della nuova civiltà, ti dà anche la letteratura nell'Orlando furioso.
La Scuola di Atene, il San Pietro, l'Orlando furioso sono le tre grandi sintesi del secolo.
L'Orlando furioso ti dà la nuova letteratura sotto il suo duplice aspetto, positivo e negativo.
È un mondo vuoto di motivi religiosi, patriottici e morali, un mondo puro dell'arte, il cui obbiettivo è realizzare nel campo dell'immaginazione l'ideale della forma.
L'autore vi si travaglia con la più grande serietà, non ad altro inteso che a dare alla sua materia l'ultima perfezione, così nell'insieme come ne' più piccoli particolari.
Il poeta non ci è più, ma ci è l'artista che continua il Petrarca, il Boccaccio, il Poliziano, e chiude il ciclo dell'arte nella poesia.
Ma poichè in fine questo mondo così bello, edificato con tanta industria, non è che un giuoco d'immaginazione, vi penetra un'ironia superiore, che se ne burla e vi si spassa sopra col più allegro umore.
La parte plebea, che nel Decamerone occupa il proscenio, qui giace ne' bassi fondi, con la sua oscenità e la sua buffoneria, e sorge a galla il mondo della cortesia e del valore, ne' suoi più bei colori, ma accompagnato da questo sentimento, che è un bel sogno: la realtà si fa valere e disfà il castello incantato.
È la visione severa di un'anima ricca che si effonde in amabili fantasie, elegiaca nelle sue turbazioni, idillica nelle sue gioie, con non altro fine e non altra serietà che la produzione artistica.
Nelle arti figurative, la produzione è accompagnata con un perfetto obblio dell'anima nella sua creatura: Raffaello è tutto intero nella sua opera, e non guarda mai fuori, e realizza la sua idea con quella serietà con la quale Dante costruisce l'altro mondo.
L'ideale della forma, che si esprime con tanta serietà nelle arti, non ha ancora la coscienza che esso è mera forma, mero giuoco d'immaginazione.
Ma qui l'arte si manifesta e si sente pura arte, e sa che il mondo reale non è quello, e accompagna con un sorriso la sua produzione.
In questo sorriso, in questa presenza e coscienza del reale tra le più geniali creazioni è il lato negativo dell'arte, il germe della dissoluzione e della morte.
Intorno a questo mondo ariostesco pullulano poemi e romanzi e novelle.
Lascio stare il Girone e l'Avarchide dell'Alamanni, prette imitazioni, senza alcuna serietà.
Dirò un motto di due che tentarono vie nuove, il Trissino e Bernardo Tasso.
A tutti e due spiacque il sorriso ariostesco.
Orlando e Rinaldo parvero al Trissino, non altrimenti che al cardinale d'Este, delle «corbellerie», fole e capricci di cervello ozioso.
Cercando nella storia le sue ispirazioni e in Omero il suo modello, scrisse l'Italia liberata dà' Goti.
Nella sua intenzione dovea essere un poema eroico e serio come l'Iliade, che chiamasse l'Italia ad alti e virili propositi.
Ma il Trissino non era che un erudito, non poeta e non patriota, e non potea trasfonder negli altri un eroismo che non era nella sua anima, e nemmeno nella sua arida immaginazione.
Di eroico non c'è nel suo poema che le armi e le divise: manca l'uomo.
La sua punizione fu il silenzio e la dimenticanza, e il poveruomo, non volendo recarne la colpa a difetto d'ingegno, se la piglia con l'argomento, e prorompe:
Sia maledetta l'ora e il giorno, quando
presi la penna e non cantai d'Orlando.
Ma l'argomento cavalleresco non valse a salvare dal naufragio Bernardo Tasso, che nel suo Floridante e nel suo Amadigi, più noto, vagheggiò una rappresentazione epica più conforme a' precetti dell'arte e lontana da ciò ch'egli diceva licenza ariostesca.
Non piacque al pubblico, ma piacque a Speron Speroni, come il Girone era piaciuto al Varchi.
E il pubblico avea ragione; chè non s'intendeva di Aristotile e di Omero, e non poteva pigliare sui serio gli eroi cavallereschi, si chiamassero Orlando o Amadigi.
Bernardo è tutto fiori e tutto mèle, così artificiato e prolisso lui, come il Trissino negletto e arido, tutti e due noiosi.
Piacque invece l'Orlando innamorato rifatto dal Berni, dove la soverchia e uniforme serietà del testo è temperata da forme ed episodi comici appiccativi dal Berni.
Ma il comico non passa la buccia e non penetra nell'intimo stesso di quel mondo e non lo trasforma, e il Berni mi fa l'effetto di quel buffone nelle commedie, posto lì per far ridere il pubblico co' suoi lazzi, mentre gli attori accigliati conservano la lor posa tragica.
Scrivere romanzi diviene un mestiere: l'epopea ariostesca è smembrata, e i suoi episodi diventano romanzi.
Sei ne scrive Lodovico Dolce, tra' quali Le prime imprese di Orlando.
Il Brusantini ferrarese canta Angelica innamorata, il Bernia canta Rodomonte, il Pescatore Ruggiero, e Francesco de' Lodovici Carlo Magno.
Romanzi con la stessa facilità composti, applauditi e dimenticati.
Accanto agl'imitatori del Petrarca e del Boccaccio sorgono gl'imitatori dell'Ariosto.
Il mondo ariostesco nel suo lato positivo si collega con l'idillio, e nel suo lato negativo con la satira e la novella.
Dal Petrarca e dal Boccaccio al Poliziano l'idillio è la vera musa della poesia italiana, la materia nella quale lo spirito realizza l'ideale della pura forma, l'arte come arte.
In quella grande dissoluzione sociale la poesia lascia le città e trova il suo ideale ne' campi, tra ninfe e pastori, fuori della società, o piuttosto in una società primitiva e spontanea.
Là trovi quell'equilibrio interiore, quella calma e riposo della figura, quella perfetta armonia de' sentimenti e delle impressioni, che chiamavano l'«ideale della bellezza» o della «bella forma».
Questo spiega la grande popolarità delle Stanze, dove questo ideale si vede realizzato con grande perfezione.
Sono imitazioni la Ninfa tiberina del Molza e il Tirsi del Castiglione.
Nella Ninfa tiberina hai di belle stanze: Euridice in fuga con alle spalle l'innamorato Aristeo è così dipinta:
La sottil gonna in preda ai venti resta,
e col crine ondeggiando indietro torna.
Ella più ch'aura o più che strale presta
per l'odorata selva non soggiorna,
tanto che il lito prende snella e mesta,
fatta per la paura assai più adorna.
Esce Aristeo la vaga selva anch'egli,
e la man par avergli entro i capegli.
Tre volte innanzi la man destra spinse
per pigliar de le chiome il largo invito;
tre volte il vento solamente strinse,
e restò lasso senza fin schernito.
Maniera corretta, e nulla più.
Manca in queste stanze il movimento, il brio, il sentimento, o piuttosto la voluttà idillica del Poliziano.
La stessa parca lode è a fare de' due poemi idillici, le Api del Rucellai e la Coltivazione dell'Alamanni.
Ci è la naturalezza, manca il sangue.
L'idillio fu la moda dell'Italia ne' suoi anni di pace e di prosperità.
Era il riposo voluttuoso di una borghesia stanca di lotte e ritirata deliziosamente nella vita privata, fra ozi e piaceri eleganti.
Ora tra il rumore delle armi, fra tante avventure e agitazioni della vita sottentra il romanzo cavalleresco.
L'idillio cessa di essere un genere vivo, e va a raggiungere il platonismo e il petrarchismo.
Gli angeli e il paradiso, Giove e Apollo, le piagge apriche e i vaghi colli, i languori di Tirsi e le smanie di Aristeo fanno lega insieme, e n'esce un vasto repertorio di luoghi comuni, dove attingono poeti e poetesse: chè di poetesse fu anche fecondo il secolo.
Il Quattrocento ondeggiava tra l'idillio e il carnevale: ozio di villa e ozio di città.
La quiete idillica era il solo ideale superstite, nella morte di tutti gli altri, presso una società sensuale e cinica, la cui vita era un carnevale perpetuo.
Celebri diventano il carnevale di Venezia e il carnevale di Roma.
I canti carnascialeschi fanno il giro d'Italia.
La buffoneria, l'equivoco osceno, lo scherzo grossolano diventano un elemento importante della letteratura in prosa e in verso, l'impronta dello spirito italiano.
Le accademie sono il semenzaio di lavori simili.
Esse rassomigliano quelle liete brigate di buontemponi e fannulloni, che ispirarono il Decamerone, modello del genere.
Sono letterati ed eruditi, in pieno ozio intellettuale, che fanno per sollazzarsi versi e prose sopra i più frivoli argomenti, tanto più ammirati per la vivacità dello spirito e l'eleganza delle forme, quanto la materia è più volgare.
Strani sono i nomi di queste accademie e di questi accademici, come lo Impastato, il Raggirato, il Propaginato, lo Smarrito, ecc.
E recitano le loro dicerie, o come dicevano, «cicalate» sull'insalata, sulla torta ,sulla ipocondria, inezie laboriose.
Simili cicalate fatte in verso erano dette «capitoli»: il Casa canta la gelosia, il Varchi le ova sode, il Molza i fichi, il Mauro la bugia, il Caro il naso lungo; si cantano le cose più volgari e anco più turpi, e spesso con equivoci e allusioni oscene, al modo di Lorenzo, il maestro del genere.
Il carnevale dalla piazza si ritira nelle accademie, e diviene più attillato, ma anche più insipido.
Tra queste accademie era quella dei Vignaiuoli a Roma, dove recitavano il Mauro, il Casa, il Molza, il Berni tra prelati e monsignori.
Il Berni piacque fra tutti, e si disputavano i suoi capitoli, e se li passavano di mano in mano.
Francesco Berni, «maestro e padre del burlesco stile», detto poi «bernesco», è l'eroe di questa generazione, erede di Giovanni Boccaccio e di Lorenzo, nella sua sensualità ornata dalla coltura e dall'arte.
Nella sua ammirazione per questo «primo e vero trovatore» dello stile burlesco, il Lasca dice:
Non sia chi mi ragioni di Burchiello;
che saria proprio come comparare
Caron dimonio all'agnol Gabriello.
Buontempone, amico del suo comodo e del dolce far niente, la sua divinità è l'ozio più che il piacere:
Cacce, musiche, feste, suoni e balli,
giochi, nessuna sorte di piaceri
troppo il movea...
Onde il suo sommo bene era in iacere
nudo, lungo, disteso; e 'l suo diletto
era il non far mai nulla e starsi in letto.
Ma il poveruomo è costretto a lavorare per guadagnarsi la vita, e fa il segretario, come tutti quasi i letterati di quel tempo, a' servigi di questo e quel cardinale:
aveva sempre in seno e sotto il braccio
dietro e innanzi di lettere un fastello,
e scriveva e stillavasi il cervello.
Dietro a' capricci del suo padrone, una volta non ne può più, chè ha sonno, e dee stare lì a guardarlo giocare la primiera:
Può far la nostra donna ch'ogni sera
io abbia a stare a mio marcio dispetto
infino alle undici ore andarne a letto
a petizion di chi gioca a primiera?
Direbbon poi costoro: - Ei si dispera,
e a' maggiori di sè non ha rispetto.
-
Corpo di...
, io l'ho pur detto:
hassi a vegliar la notte intera intera?
La morte di papa Leone gitta il terrore tra' letterati, che vedono mancare la mangiatoia, e più quando il successore è Adriano sesto spagnuolo, oltramontano, avaro, contadino, e non so quanti altri epiteti gli appicca nella sua indignazione il Berni:
Pur quando io sento dire oltramontano
vi fo sopra una chiosa col verzino,
«idest nemico del sangue italiano».
Era in fondo un brav'uomo, senza fiele, un buon compagnone, col quale si passava piacevolmente un quarto d'ora, anima tranquilla e da canonico, vuota di ambizioni e di cupidigie e di passioni, e anche d'idee.
Sapea di greco, e più di latino, e fece anche lui i suoi bravi versi latini e i suoi sonetti petrarcheschi, come portava il tempo.
Scrivea il più spesso a «sfogamento di cervello, il maggior suo passatempo».
Non cercava l'eleganza, per fuggire fatica, e gli veniva «il sudor della morte», quando si dovea «metter la giornea» e rispondere «per le consonanze o per le rime» a lettere eleganti.
Lo scrivere stesso gli era fatica.
«A vivere avemo sino alla morte, - dice al Bini, - a dispetto di chi non vuole, e il vantaggio è vivere allegramente, come conforto a far voi, attendendo a frequentar quelli banchetti che si fanno per Roma, e scrivendo soprattutto il manco che potete; quia haec est victoria quae vincit mundum».
Si qualifica «asciutto di parole, poco cerimonioso e intrigato in servitù»: ottime scuse alla sua pigrizia.
E quando lo assediano e lo tormentano e si dolgono che non risponda, e non li ami e li dimentichi, gli viene la stizza:
Perchè m'ammazzi con le tue querele,
Priuli mio, perchè ti duoli a torto,
che sai che t'amo più che l'orso il miele?
Sai che nel mezzo del petto ti porto
serrato, stretto, abbarbicato e fitto,
più che non son le radici nell'orto:
se ti lamenti perchè non ti ho scritto...
E qui si calma la stizza, e vince la pigrizia, e la lettera finisce con un eccetera.
Benedetta pigrizia, che lo fa parlare «come gli viene alla bocca» e gli fa scriver lettere che sono «un zucchero di tre cotte», intarsiate di brevi motti latini per vezzo, le più saporite e semplici e disinvolte in quel tempo de' segretari, che se ne scrissero tante e così sudate! E non bastava che dovesse scriver lettere per forza, chè volevano da lui anche i capitoli e i sonetti con la coda.
- Fateci un capitolo sulla primiera!
«Compare, - scrive il poveruomo, - io non ho potuto tanto schermirmi, che pure mi è bisognato dar fuori questo benedetto capitolo e commento della primiera, e siate certo che l'ho fatto, non perchè mi consumassi d'andare in istampa, nè per immortalarmi come il cavalier Casio, ma per fuggire la fatica mia e la malevolenzia di molti che, domandandomelo e non lo avendo, mi volevano mal di morte.
Avendogliel' a dare, mi bisognava o scriverlo o farlo scrivere; e l'uno e l'altro non mi piaceva troppo, per non m'affaticare e non m'obbligare.»
Eccolo dunque costretto a fare il capitolo, e poi a stamparlo; eccolo immortale a suo dispetto.
E scrisse sulle anguille, i cardi, la peste, le pesche, la gelatina, e sopra Aristotile, il quale
ti fa con tanta grazia un argomento,
che te lo senti andar per la persona
fino al cervello e rimanervi drento.
Così venner fuori capitoli, sonetti, epistole, dove vivono eterni i capricci e i ghiribizzi di un cervello ozioso e ameno.
Il successo fu grande.
Dicono, perchè era fiorentino e maneggiava assai bene la lingua.
Ed è un dir poco.
Il vero è che il Berni ha una intuizione immediata e netta delle cose, che rende vive e fresche con facilità e con brio.
Tra lui e la cosa non ci è nessun mezzo, o imitazione, o artificio di stile, o repertorio; egli l'attinge direttamente secondo l'immagine che gli si presenta nel cervello.
E l'immagine è la cosa stessa in caricatura, guardata cioè da un punto che la scopra tutta nel suo aspetto comico.
Il quale aspetto balza improvviso innanzi alla nostra immaginazione, perchè non esce fuori a pezzi e a bocconi da una descrizione, ma ti sta tutto avanti per virtù di somiglianze o di contrasti inaspettati.
Tale è la pittura di maestro Guazzaletto, e la mula di Florimonte, e la bellezza della sua donna, contraffazione della Laura petrarchesca.
In questi ritratti a rapporti non hai niente che stagni o langua; hai una produzione continua, che ti tien desto e ti sforza a ire innanzi insino a che il poeta trionfalmente ti accomiata:
Ora eccovi dipinta
una figura arabica, un'arpia,
un uom fuggito dalla notomia.
Fin qui avevamo visto dal Boccaccio al Pulci messa in caricatura plebe e frati; e anche il Berni ci si prova nella Catrina e nel Mogliazzo, imitazioni caricate di parlari e costumi plebei, inferiori per grazia e spontaneità alla Nencia.
Ma la materia ordinaria del Berni è la caricatura della borghesia, in mezzo a cui viveva.
Non è più la coltura che ride dell'ignoranza e della rozzezza, è la coltura che ride di se stessa: la borghesia fa la sua propria caricatura.
Il protagonista non è più il cattivello di Calandrino, ma è il borghese vano, poltrone, adulatore, stizzoso, sensuale e letterato, la cui immagine è lo stesso Berni, che mena in trionfo la sua poltroneria e sensualità.
L'attrattivo è appunto nella perfetta buona fede del poeta, che ride de' difetti propri e degli altrui, come di fragilità perdonabili e comuni, delle quali è da uomo di poco spirito pigliarsi collera.
Il guasto nella borghesia era già così profondo e tanto era oscurato il senso morale, che non si sentiva il bisogno dell'ipocrisia, e si mostravano servili e sensuali uomini per altre parti commendevoli; com'erano moltissimi letterati e il nostro Berni, «il dabbene e gentile» Berni, dice il Lasca, che si dipinge a quel modo con piena tranquillità di coscienza, e non pensa punto che gliene possa venire dispregio.
Quando certi vizi diventano comuni a tutta una società, non generano più disgusto e sono magnifica materia comica, e possono stare insieme con tutte le qualità di un perfetto galantuomo.
Il Berni è poltrone e sensuale e cortigiano, e non lo dissimula, ciò che farebbe ridere a sue spese, anzi lo mette in evidenza, cogliendone l'aspetto comico, come fa un uomo di spirito, che non crede per questo ne scapiti la sua riputazione.
Questa credenza o perfetta buona fede lo mette in una situazione netta e schiettamente comica, sì ch'egli contempla e vagheggia il suo difetto senz'alcuna preoccupazione di biasimo e con perfetta libertà di artista.
È sottinteso che in questi ritratti berneschi non è alcuna profondità o serietà di motivi; appena la scorza è incisa: ci è la borghesia spensierata e allegra, che non ha avuto ancora tempo di guardarsi in seno, ed è tutto al di fuori, nella superficie delle cose.
Questa superficialità e spensieratezza è anch'essa comica, è parte inevitabile del ritratto.
Perciò la forma comica sale di rado sino all'ironia, e rimane semplice caricatura, un movimento e calore d'immaginazione, com'è generalmente ne' comici italiani, a cominciare dal Boccaccio.
Dove non è immaginazione artistica, il comico non si sviluppa, ed il difetto rimane prosaico, e perciò disgustoso, come è in tutti gli scrittori di proposito osceni.
Ne' ritratti del Berni entra anche l'osceno, ingrediente di obbligo a quel tempo; ma non è lì che attinge la sua ispirazione, non vi si piace e non vi si avvoltola.
Ciò che l'ispira non è il piacere dell'osceno, o la seduzione del vizio, ma è un piacere tutto d'immaginazione e da artista, che senti nel brio e nella facilità dello stile, e che mettendo in moto il cervello gli fa trovare tanta novità di forme, d'immagini e di ravvicinamenti, come è il ritratto della sua cameriera, e l'altro, un vero capolavoro, della sua famiglia.
Ecco perchè il Berni è tanto superiore a' suoi imitatori ed emuli, freddamente osceni e buffoni.
Pure la buffoneria oscena diviene l'ingrediente de' banchetti, delle accademie e delle conversazioni, e invade la letteratura, quasi condimento e salsa dello spirito: la statua di Pasquino diviene l'emblema della coltura.
Ci erano capitoli e sonetti: sorgono poemi interi berneschi, com'è la Vita di Mecenate del Caporali, di una naturalezza spesso insipida e volgare, e il suo Viaggio al Parnaso, e la Gigantea dell'Arrighi, e la Nanea del Grazzini, o i Nani vincitori de' giganti.
Di tanti poeti berneschi si nomina oggi appena il Caporali.
Nondimeno questa lirica bernesca è la sola viva in questo secolo.
Gli stessi poeti petrarcheggiando annoiano, e si fanno leggere piacevoleggiando; perchè i loro sospiri d'amore escono da un repertorio già vecchio di concetti e di frasi, e non corrispondono allo stato reale della società e della loro anima; dove in quel piacevoleggiare ci è il secolo, ci è loro, e non ci è ancora modelli o forme convenzionali, e qualche cosa dee pur venire dal loro cervello.
I canti carnascialeschi, come i rispetti e le ballate e le serenate, erano legati con la vita pubblica; ora il circolo della vita si restringe: la vita letteraria è nelle accademie e tra' convegni privati.
Per le piazze si aggirano ancora i cantastorie e si sentono canzoni plebee.
Ma la coltura se ne allontana, e la trovi in corte o nell'accademia o nelle conversazioni, centri di allegria spensierata e licenziosa; però da gente colta, che sa di greco e di latino, che ammira le belle forme e cerca ne' suoi divertimenti l'eleganza, o come dicevasi, il «bello stile».
Vi si recitavano capitoli, sonetti, poemi burleschi, poemi di cavalleria e novelle.
Come però l'arte è una merce rara e la produzione era infinita, il pubblico diveniva meno severo, e pur d'esser divertito non mirava tanto pel sottile nel modo.
In sostanza questa borghesia spensierata e oziosa era sotto forme così linde vera plebe, mossa dagli stessi istinti grossolani e superficiali, la curiosità, la buffoneria, la sensualità, e quando quest'istinti erano accarezzati, accettava tutto, anche il mediocre, anche il pessimo: il che era segno manifesto di non lontana decadenza.
Questa letteratura comica o negativa si sviluppa in modo prodigioso.
Accanto a' capitoli e a' romanzi moltiplicano le novelle.
Il cantastorie diviene l'eroe della borghesia.
E tutti hanno innanzi lo stesso vangelo, il Decamerone.
Il petrarchismo era una poesia di transizione, che in questo secolo è un così strano anacronismo come l'imitazione di Virgilio o di Cicerone.
Ma il Decamerone portava già ne' suoi fianchi tutta questa letteratura, era il germe che produsse il Sacchetti, il Pulci, Lorenzo, il Berni, l'Ariosto e tutti gli altri.
Quasi ogni centro d'Italia ha il suo Decamerone.
Masuccio recita le sue novelle a Salerno, il Molza scrive a Roma il suo decamerone, e il Lasca le sue Cene a Firenze, e il Giraldi a Ferrara i suoi Ecatommiti o cento favole, e Antonio Mariconda a Napoli le sue Tre giornate, e Sabadino a Bologna le sue Porretane, e quattordici novelle scrive il milanese Ortensio Lando, e Francesco Straparola scrive in Venezia le sue Tredici piacevoli notti, e Matteo Bandello il suo novelliere, e le sue diciassette novelle il Parabosco.
A Roma si stampano le novelle del Cadamosto da Lodi e di monsignor Brevio da Venezia.
A Mantova si pubblicano le novelle di Ascanio de' Mori, mantovano, e a Venezia escono in luce le Sei giornate di Sebastiano Erizzo, gentiluomo veneziano, e le dugento novelle di Celio Malespini, gentiluomo fiorentino, e i Giunti a Firenze pubblicano i Trattenimenti di Scipione Bargagli.
Aggiungi la Giulietta di Luigi da Porto vicentino, e l'Eloquenza, attribuita a Speron Speroni.
Tutti questi scrittori, dal quattrocentista Masuccio sino al Bargagli che tocca il Seicento, si professano discepoli e imitatori del Boccaccio.
Chi se ne appropria lo spirito, e chi le invenzioni anche e la maniera.
I toscani, presso i quali il Boccaccio è di casa, scrivono con più libertà, e ci hanno una grazia e gentilezza di dire loro propria, che copre la grossolanità de' sentimenti e de' concetti: tale è il Lasca, e il Firenzuola nelle novelle inserite ne' suoi Discorsi degli animali e nel suo Asino d'oro. Gli altri procedono più timidi, e riescono pesanti, come il Giraldi e il Brevio e il Bargagli, o scorretti e trascurati, come il Parabosco o lo Straparola o il Cadamosto.
Il linguaggio è quell'italiano comune che già si usava dalla classe colta nello scrivere e talora anche nel parlare, tradotto in una forma artificiosa e alla latina che dicevasi letteraria, e solcato di neologismi, barbarismi, latinismi e parole e frasi locali, salvo ne' più colti, come è il Molza, per speditezza e festività vicino a' toscani.
Quel bel mondo della cortesia che nel Decamerone tiene sì gran parte, rifuggitosi ne' poemi cavallereschi, scompare dalla novella.
E neppure ci è quello stacco tra borghesia e plebe, quella coscienza di una coltura superiore, che si manifesta nella caricatura della plebe, quell'allegrezza comica a spese delle superstizioni e de' pregiudizi frateschi e plebei, che tanto ti alletta nelle novelle fiorentine e fino nella Nencia.
Questo mondo interiore scompare anch'esso.
La novella attinge tutta la società ne' suoi vizi, nelle sue tendenze, ne' suoi accidenti, con nessun altro scopo che d'intrattenere le brigate con racconti interessanti.
L'interesse è posto nella novità e straordinarietà degli accidenti, come sono i mutamenti improvvisi di fortuna, o burle ingegnose per far danari o possedere l'amata, o casi maravigliosi di vizi o di virtù.
Re, principi, cavalieri, dottori, mercanti, malandrini, scrocconi, tutte le classi vi sono rappresentate e tutt'i caratteri, comici e seri, e tutte le situazioni, dalla pura storia sino al più assurdo fantastico.
Sono migliaia di novelle, arsenale ricchissimo, dove hanno attinto Shakespeare, Molière e altri stranieri.
La più parte di queste novelle sono aridi temi, magri scheletri in forma affettata insieme e scorretta.
L'interessante è stimolare la curiosità del pubblico e le sue tendenze licenziose e volgari.
Perciò hai da una parte il comico e dall'altra il fantastico.
Nel comico, salvo i toscani, ne' quali supplisce la grazia del dialetto, i novellieri mostrano pochissimo spirito.
Una delle novelle meglio condotte è la «scimia» del Bandello, la quale si abbiglia co' panni di una vecchia morta, e par dessa, e spaventa quelli di casa.
Il fatto è in sè comico, ma l'esposizione è arida e superficiale, e i sentimenti e le impressioni comiche ci sono appena abbozzate.
C'è una novella di Francesco Straparola assai spiritosa d'invenzione, dove si racconta il modo che tenne un marito per rendere ubbidiente la moglie, e la sciocca imitazione fattane dal fratello, novella che suggerì al Molière la Scuola de' mariti.
Ma di spiritoso non c'è che l'invenzione, forse neppur sua: così triviale e abborracciata è l'esposizione.
Un villano che fa la scuola ad un astrologo è anche un bel concetto del Lando, ma scarso di trovati e situazioni comiche.
Pure il Lando è scrittor vivace e rapido, e nelle descrizioni efficace e pittoresco.
Il villano predice la pioggia; ma l'astrologo vede il cielo sereno.
«Alzato il viso, guatava d'ogni intorno, e diligentemente ogni cosa contemplando, s'avvide essere il cielo tutto bello, il sole temperato, il monte netto da nuvoli, e appresso s'accorse che l'austro nel soffiare era dolcissimo, e cominciò attentamente a considerare in qual segno fosse il sole e in qual grado, che cosa stesse nel mezzo del cielo, e qual segno stessegli in dritta linea opposto.
Nè potendo in verun modo conoscere che pioggia dovesse dal cielo cadere, al villano rivolto, disse con ira e con isdegno: - Dio e la Natura potrebbono far piovere, ma la Natura sola non lo potrebbe fare.»
Sopravvenuta più tardi pioggia dirottissima, descrive le sue rovine e i suoi effetti in questo modo:
«Rovinarono torri, sbarbicaronsi molte querce, caddero bellissimi palagi, tremò tutta la riviera dell'Adige, parve che il cielo cadesse e che tutta la macchina mondana fosse per disciogliersi.»
Tutta la novella è scritta in questa prosa spedita e animata, e si legge volentieri, ma il sentimento comico vi fa difetto, nè vi supplisce una lingua poetica e senza colore locale.
Gran vantaggio ha sopra di lui il Lasca, non di spirito o di coltura o di arte, ma di lingua, essendo il dialetto toscano, ricco di sali e di frizzi e di motti e di modi comici, un istrumento già formato e recato a perfezione dal Boccaccio al Berni.
Materia ordinaria del Lasca è la semplicità degli uomini «tondi e grossi», fatta giuoco de' tristi e degli scrocconi.
È la novella ne' termini che l'aveva lasciata il Boccaccio.
Il suo Calandrino è Gian Simone o Guasparri, rigirati e beffati da scrocconi che si prevalgono della loro credulità.
Il Boccaccio mette in iscena preti e frati, il Lasca astrologi, guardando meno alle superstizioni religiose che alle credenze popolari nell'«orco, tregenda e versiera», negli spiriti e ne' diavoli.
Oggi abbiamo i magnetisti e gli spiritisti; allora c'erano i maghi o gli astrologi, con la stessa pretensione di conoscere l'avvenire e di guarire gl'infermi, e conoscere i fatti altrui, e farti comparire i morti o le persone lontane: materia inesausta di ridicolo, non altrimenti che i miracoli de' frati.
Se il Boccaccio mette in gioco il mondo soprannaturale della religione, il Lasca si beffa del mondo soprannaturale della scienza.
Il fantastico regna ancora qua e colà in Italia; ma a Firenze era morto sotto l'ironia del Boccaccio, del Sacchetti, di Lorenzo e del Pulci, nè i piagnoni poterono risuscitarlo.
Il nostro Lasca non ha lo spirito e la finezza del Boccaccio, non ha ironia ed è grossolano nelle sue caricature; ma è facile, pieno di brio e di vena, evidente, e trova nel dialetto immagini e forme comiche belle e pronte, senza che si dia la pena di cercarle.
Ecco la magnifica pittura dell'astrologo Zoroastro:
«...
era uomo di trentasei in quarant'anni, di grande e di ben fatta persona, di colore ulivigno, nel viso burbero e di fiera guardatura, con barba nera, arruffata e lunga infino al petto, ghiribizzoso molto e fantastico; aveva dato opera all'alchimia, era ito dietro e andava tuttavia alla baia degl'incanti; aveva sigilli, caratteri, filattiere, pentacoli, campane, bocce e fornelli di varie sorte da stillare erba, terra, metalli, pietre e legni; aveva ancora carta non nata, occhi di lupo cerviero, bava di cane arrabbiato, spina di pesce colombo, ossa di morti, capestri d'impiccati, pugnali e spade che avevano ammazzato uomini, la chiavicola e il coltello di Salomone, e erba e semi colti a vari tempi della luna e sotto varie costellazioni, e mille altre favole e chiacchiere da far paura agli sciocchi; attendeva all'astrologia, alla fisonomia, alla chiromanzia e cento altre baiacce; credeva molto nelle streghe, ma soprattutto agli spiriti andava dietro, e con tutto ciò non aveva mai potuto vedere ne fare cosa che trapassasse l'ordine della natura, benchè mille scerpelloni e novellacce intorno a ciò raccontasse e di farle credere s'ingegnasse alle persone; e non avendo nè padre, nè madre, e assai benestante sendo, gli conveniva stare il più del tempo solo in casa, non trovando per la paura nè serva, nè famiglio che volesse star seco, e di questo infra sè maravigliosamente godea; e praticando poco, andando a casa con la barba avviluppata senza mai pettinarsi, sudicio sempre e sporco, era tenuto dalla plebe per un gran filosofo e negromante.»
È un periodo interminabile, tirato giù felicemente, dove, come in un quadro, ti sta dinanzi tutta la persona, in una ricchezza di accessorii, espressi con una proprietà di vocaboli, che si può trovar solo in un fiorentino.
«Struggersi d'amore» è un sentimento serio che il Lasca traduce in comico, aggiungendovi le immagini del dialetto: «la farà in modo innamorar di voi ch'ella non vegga altro dio, e si consumi e strugga de' fatti vostri, come il sale nell'acqua, e ...
vi verrà dietro, più che i pecorini al pane insalato».
Parlando del banchetto che tenne l'astrologo con i suoi compagni di giunteria, lo Scheggia, il Pilucca e il Monaco, alle spese del candido Gian Simone, dice: «E fecero uno scotto da prelati, con quel vino che smagliava».
Se il Lasca dee molto al dialetto, ha pure un pregio proprio che lo mette accanto al Berni, una intuizione chiara e viva delle cose, che te le dà scolpite in rilievo.
Tale è il viaggio per aria del Monaco, come Zoroastro dà a credere al dabben Simone:
«[Zoroastro] si stese in terra boccone, e disse non so che parole, e rittosi in piede e fatto due tomboli, s'arreco da un canto del cerchio inginocchioni, e guardando fisso nel vaso,...
disse: - Il Monaco nostro ha già riavuto il resto, e vassene con l'insalata verso Pellicceria per andarsene a casa; ma in questo istante io l'ho fatto invisibilmente alzare ai diavoli da terra: oh eccolo che egli e già sopra il Vescovado: oh che gli vien bene, egli è già sopra la piazza di Madonna: oh ora egli è sopra la vecchia di Santa Maria Novella: testè entra in Gualfonda: oh eccolo a mezza la strada! Oh egli è già presso a meno di cinquanta braccia: oh eccolo, eccolo già rasente alla finestra! Or ora sarà nel cerchio in pianelle, in mantello, in cappuccio, e con l'insalata e con le radici in mano.» Il nostro speziale, chè colui che chiamavano «il Lasca» nell'accademia degli Umidi era appunto lo speziale Anton Maria Grazzini, dipinge con tanto rilievo gli oggetti, perchè li vede chiarissimi nell'immaginazione, e non si ha a travagliare intorno alla forma, e non v'usa alcuno artificio, scrive parlando.
Nè è meno evidente e parlante nel dialogo.
Simone, passata la paura e uscitogli tutto l'amore di corpo, non vuol più dare all'astrologo i venticinque fiorini promessigli.
E dice allo Scheggia:
«- Io ti giuro sopra la fede mia che mi è uscito ...
tutto l'amor di corpo, e della vedova non mi curo più niente...
Oh che vecchia paura ebb'io per un tratto! e' mi si arricciano i capelli quando vi ci penso, sicchè pertanto licenzia e ringrazia Zoroastro.
- Lo Scheggia, udite le di colui parole, diventò piccino piccino..., e parendogli rimanere scornato, disse: - Oimè, Gian Simone, che è quello che voi mi dite? Guardate che il negromante non si crucci.
Che diavol di pensiero e il vostro? Voi andate cercando Maria per Ravenna: io dubito fortemente, come Zoroastro intenda questo di voi, ch'egli non si adiri tenendosi uccellato e che poi non vi faccia qualche strano gioco.
Bella cosa e da uomini dabbene mancar di parola! ...Tanto è Gian Simone, egli non è da correrla così a furia: se egli vi fa diventare qualche animalaccio, voi avrete fatto poi una bella faccenda.
- Colui era già per la paura diventato nel viso un panno lavato, e rispondendo allo Scheggia, disse: - Per lo sangue di tutt'i diavoli che fo giuro d'assassino, che domattina, la prima cosa, io me ne voglio andare agli Otto, e contare il caso, e poi farmi bello e sodare, non so chi mi tiene che non vada ora.
- Tosto che lo Scheggia senti ricordare gli Otto, diventò nel viso di sei colori, e fra sè disse: - Qui non è tempo da battere in camicia, facciamo che il diavolo non andasse a processione -; e a colui rivolto, dolcemente prese a favellare e disse: - Voi ora, Gian Simone, entrate bene nell'infinito, e non vorrei per mille fiorini d'oro in beneficio vostro, che Zoroastro sapesse quel che voi avete detto.
Ora non sapete che l'ufficio degli Otto ha potere sopra gli uomini, e non sopra i demòni? Egli ha mille modi di farvi, quando voglia gliene venisse, capitar male, che non si saperrebbe mai.»
Cosa manca al Lasca? La mano che trema.
Scioperato, spensierato, balzano, vispo e svelto, ci è in lui la stoffa di un grande scrittor comico; ma gli manca il culto e la serietà dell'arte, e abborraccia e tira giù come viene, e lascia a mezzo le cose, e si arresta alla superficie, naturale e vivace sempre, spesso insipido, grossolano e trascurato, massime nell'ordito e nel disegno.
Questo basso comico, plebeo e buffonesco, ne' confini della semplice caricatura, perciò superficiale ed esteriore, ritratto di una borghesia colta, piena di spirito e d'immaginazione, e insieme spensierata e tranquilla, ha la sua sorgente colà stesso onde uscì il Morgante, e poi i capitoli e i sonetti del Berni: è il bernesco nell'arte, buffoneria ingentilita dalla grazia e alzata a caricatura, maniera sviluppatasi gradatamente dal Boccaccio al Lasca, infiltratasi nel dialetto e rimasta forma toscana.
Nelle altre parti d'Italia la buffoneria è senza grazia, spesso caricata troppo, e lontana da quel brio tutto spontaneità e naturalezza, che senti nel Berni e nel Lasca.
Tra' più sgraziati è il Parabosco.
Col comico va congiunto il fantastico.
Il novelliere, in luogo di guardare nella vita reale e studiarvi i caratteri, i costumi, i sentimenti, cerca combinazioni tali di accidenti che solletichino la curiosità.
Per questa via dal nuovo si va allo strano, e dallo strano al fantastico, al soprannaturale e all'assurdo.
Così una borghesia scettica, che ride de' miracoli, che si beffa del soprannaturale religioso e non vuol sentire a parlare di misteri e di leggende, come forme barbare, sente poi a bocca aperta racconti di fate, di maghi, di animali parlanti, che tengano desta la sua curiosità.
Il Mariconda narra con serietà rettorica i casi di Aracne, di Piramo e Tisbe e altre favole mitologiche.
E con la stessa serietà Francesco Straparola raccoglie nelle sue Notti le più sbardellate invenzioni di quel tempo, saccheggiando tutt'i novellatori, Apuleio, Brevio, soprattutto il napolitano Girolamo Morlino, autore di ottanta novelle in latino.
Ivi trovi il fantastico spinto all'ultimo limite dell'assurdo.
Vedi un anello trasformato in un bel giovane, pesci e cavalli e falconi e bisce e gatte fatate che fanno maraviglie, e satiri e uomini salvatici o in forma porcile, e morti risuscitati, e asini e leoni in conversazione, e fate e negromanti e astrologi.
Queste ch'egli chiama «favole», si accompagnano con altri racconti osceni o faceti, o com'egli dice, «ridicolosi», e sono le solite burle fatte alla gente semplice e grossa, o com'egli dice, «materiale».
Il pretesto è uno scopo di volgare morale o prudenza, un «fabula docet», ma in fondo l'autore mira a render piacevoli le sue Notti, eccitando il riso o movendo la curiosità.
Non mostra alcuna intenzione letteraria, salvo nelle descrizioni, una goffa imitazione del Boccaccio chiama egli medesimo «basso» e «dimesso» il suo stile, e dice che le invenzioni non son sue, ma suo è il modo di raccontarle.
Non hai qui dunque contorcimenti, lenocini, artifici, eleganze: è un narrare alla buona e a corsa, in quella lingua comune italiana, di forma più latina che toscana, mescolata di parole venete, bergamasche e anche francesi, come «follare» (fouler) per calpestare.
Non si ferma sul descrivere o particolareggiare, non bada a' colori salta le gradazioni, va diritto e spedito, cercando l'effetto nelle cose, più che nel modo di dirle.
E le cose, non importa se di lui o di altri, contengono spesso concetti molto originali, come Nerino, lo studente portoghese, che fa le sue confidenze amorose al suo maestro Brunello, ch'egli non sa essere il marito della sua bella onde Molière trasse il pensiero della sua Ecole des femmes; o l'asino che co' suoi vanti la fa al leone; o i bergamaschi che con la loro astuzia la fanno a' dottori fiorentini; o la vendetta dello studente burlato dalle donne; o Flaminio che va in cerca della morte; o le nozze del diavolo.
Il successo fu grande: si fecero in poco tempo del libro più di venti edizioni; e di molte favole è rimasta anche oggi memoria.
L'osceno, il ridicolo, il fantastico era il cibo del tempo: poi quella forma scorretta, imperfetta, ma senza frasche e spedita soprattutto nel vivo del racconto, dovea rendere il libro di più facile lettura alla moltitudine che non gli Ecatommiti del Giraldi e le novelle dell'Erizzo e del Bargagli, di una forma artificiata e noiosa.
Ma il successo durò poco.
Anche la Filenia del Franco fu tenuta pari al Decamerone, e dimenticata subito.
Manca allo Straparola il calore della produzione, e ti riesce prosaico e materiale anche nel più vivo di una situazione comica, o nel maggiore allettamento dell'oscenità, o ne' movimenti più curiosi del fantastico, come di uomini uccisi e rifatti vivi.
Narra il miracolo con quella indifferenza, che i casi quotidiani della vita; e mi rassomiglia un uomo divenuto per la lunga consuetudine frigido e ottuso, che non ha più passioni, ma vizi.
Chi vuol vederlo, paragoni le sue «Nozze del diavolo» col Belfegor del Machiavelli, argomento simile, e il suo studente vendicativo col famoso studente del Boccaccio.
E vedrà che a lui manca non meno il talento comico che la virtù informativa.
Ma che importa? Non mira che a stuzzicare la sensualità e la curiosità, e chi si contenta gode.
E per meglio avere l'uno e l'altro intento, aggiunge al racconto un enigma o indovinello in verso, osceno di apparenza, e spiegato poi altrimenti che suona a prima udita.
Così oggi i cervelli oziosi per fuggir la noia fanno o sciolgono sciarade e rebus.
Il fantastico era il cibo de' cervelli oziosi, non meno che l'enigma, o i tanti poemi cavallereschi.
L'arte era divenuta mestiere; e pur di sentire fatti nuovi e strani, non si cercava altro.
Ristorare il fantastico in mezzo a una borghesia scettica e sensuale era vana impresa.
Nelle antiche leggende senti il miracolo, e senti il maraviglioso ne' romanzi antichi di cavalleria: ora manca l'ingenuità e la semplicità, e l'arte non può riprodurre il fantastico che con un ghigno ironico, volgendolo in gioco.
Perciò la sola novella fantastica che si possa chiamare lavoro d'arte è il Belfegor, il diavolo accompagnato dal sorriso machiavellico.
Cosa ha di vivo il diavolo borghese e volgare dello Straparola o la sua Teodosia, che è la leggenda messa in taverna?
Se una ristorazione del fantastico non era possibile, come poteva aversi una ristorazione del tragico? Ma ci furono anche novelle tragiche con la stessa intonazione del Decamerone, anzi della Fiammetta.
E sono quello che potevano essere, fior di rettorica.
D'immaginazione ce n'era molta, ma di sentimento non ce n'era favilla.
Cosa di eroico o di affettuoso o di nobile poteva essere tra quelle corti e quelle accademie, ciascuno sel pensi.
Chi desideri esempli di questa rettorica, vegga la Giulietta di Luigi da Porto, o nel Bandello i monologhi di Adelasia e Aleramo, o nell'Erizzo i lamenti di re Alfonso sulla tomba di Ginevra.
Come a svegliare i romani ci voleva la vista del sangue, a muovere quella borghesia sonnolenta e annoiata si va sino al più atroce e al più volgare.
La figliuola di re Tancredi nel Boccaccio è una nobile creatura, ma sono mostri volgari la Rosmonda del Bandello o l'Orbecche del Giraldi, che pur non ti empiono di terrore e non ti spoltriscono e non ti agitano, per il freddo artificio della forma.
Tra gli eleganti elegantissimo è il Bargagli, che sceglie forme nobili e solenni anche dove è in fondo cosa da ridere, come è la sua Lavinella, situazione comica in forma seria, anzi oratoria.
Ciò che rimane di vivo in questa letteratura non e il fantastico e non il tragico, ma un comico, spesso osceno e di bassa lega e superficiale, che non va al di là della caricatura e talora è più nella qualità del fatto che ne' colori.
Alcuna volta ci è pur sentore di un mondo più gentile, soprattutto nell'Erizzo e nel Bandello, come è la novella di costui della reina Anna; ma in generale, come nelle corti anche più civili sotto forme decorose e amabili giace un fondo licenzioso e grossolano, la novella è oscena e plebea in contrasto grottesco con uno stile nobile e maestoso, puro artificio meccanico.
È un comico che a forza di ripetizione si esaurisce e diviene sfacciato e prosaico.
Il capitolo muore col Berni e la novella col Lasca.
È il Decamerone in putrefazione.
Il difetto del capitolo è di cercare i suoi mezzi comici più nelle combinazioni astratte dello spirito che nella rappresentazione viva della realtà.
È lo stesso difetto del petrarchismo: il Petrarca del capitolo è Francesco Berni, e i petrarchisti sono i suoi imitatori, che a forza di cercar rapporti e combinazioni escono in freddure e sottigliezze.
Il difetto della novella è la sensualità prosaica e la vana curiosità: senza ideali e senza colori, e in una forma spesso pedantesca e sbiadita.
E capitolo e novella hanno poi un difetto comune, la superficialità, quel lambire appena la esteriorità dell'esistenza e non cercare più addentro, come se il mondo fosse una serie di apparenze fortuite e non ci fosse uomo e non ci fosse natura.
Essendo tutto un giuoco d'immaginazione, a cui rimane estraneo il cuore e la mente, la forma comica nella quale si dissolve è la caricatura degradata sino alla pura buffoneria.
Lo spirito volge in giuoco anche quel giuoco d'immaginazione, intorno a cui si travagliarono con tanta serietà il Boccaccio, il Sacchetti, il Magnifico, il Poliziano, il Pulci, il Berni, il Lasca, divenuto nel Furioso il mondo organico dell'arte italiana, e traduce l'ironia ariostesca in aperta buffoneria, avvolgendo in una clamorosa risata tutti gl'idoli dell'immaginazione, antichi e nuovi.
La nuova arte, uscita dalla dissoluzione religiosa, politica e morale del medio evo e rimasta nel vuoto, innamorata di solo se stessa, come Narciso, va a morire per mano di un frate sfratato, di Teofilo Folengo: muore ridendo di tutto e di se stessa.
La Maccaronea del Folengo chiude questo ciclo negativo e comico dell'arte italiana.
Ma ci era anche un lato positivo.
Mentre ogni specie di contenuto è messa in giuoco, e l'arte cacciata anche dal regno dell'immaginazione si scopre vuota forma, un nuovo contenuto si va elaborando dall'intelletto italiano, e penetra nella coscienza e vi ricostruisce un mondo interiore, ricrea una fede non più religiosa, ma scientifica, cercando la base non in un mondo sopra naturale e sopra umano, ma al di dentro stesso dell'uomo e della natura.
Pomponazzi, negando l'esistenza degli universali, rigettando i miracoli, proclamando mortale l'anima, e spezzando ogni legame tra il cielo e la terra, pose obbiettivo della scienza l'uomo e la natura.
Platonici e aristotelici per diverse vie proclamavano l'autonomia della scienza, la sua indipendenza dalla teologia e dal dogma.
La Chiesa lasciava libero il passo a tutta quella letteratura frivola e oscena e a tutta quella vita licenziosa, della quale era esempio la corte di Leone, ma non potea veder senza inquietudine questo risvegliarsi dell'intelligenza nelle scuole.
Il materialismo pratico, l'indifferenza religiosa era spettacolo vecchio; ma la spaventava quel materialismo alzato a dottrina, e l'indifferenza divenuta aperta negazione, con quella ipocrita distinzione di cose vere secondo la fede e false secondo la scienza.
Il concilio lateranense testimonia la sua inquietudine.
Leone decimo proclama eresia quella distinzione, proibisce l'insegnamento di Aristotile, e sottopone i libri alla censura ecclesiastica.
A che pro? Il materialismo era il motto del secolo.
Leone decimo stesso era un materialista, come fu Lorenzo con tutto il suo platonismo.
Nè altro erano il Pulci, il Berni, il Lasca e gli altri letterati, ancorachè si guardassero di dirlo.
Alcuni manifestavano con franchezza la loro opinione, come Lazzaro Bonamico, Giulio Cesare Scaligero, Simone Porzio, Andrea Cesalpino, Speron Speroni, e quel professore Cremonino da Cento che fe' porre sulla sua tomba: «Hic iacet Cremoninus totus».
Quando gli studenti avevano innanzi un professore nuovo, e lo vedevano nicchiare, gli dicevano subito: - Cosa pensate dell'anima?
Quando il materialismo apparve, la società era già materializzata.
Il materialismo non fu il principio, fu il risultato.
Fino a quel punto il dogma era stato sempre la base della filosofia e il suo passaporto.
Era un sottinteso che la ragione non poteva contraddire alla fede, e quando contraddizione appariva, si cercava il compromesso, la conciliazione.
Così poterono lungamente vivere insieme Cristo e Platone, Dio e Giove: tutta la coltura era unificata nell'arte e nel pensiero, e non si cercava con quanta logica e coesione e con quanta buona fede.
In nome della coltura si paganizzavano le forme cattoliche anche da' più pii, come ne' loro poemi sacri facevano il Sannazzaro e il Vida; si paganizzò anche san Pietro, e paganizzava anche Leone decimo.
Tutto questo era arte, era civiltà, e non solo non era impedito, anzi promosso e incoraggiato; farvi contro non si poteva senza aver taccia di barbaro e incolto.
E si tollerava pure Pasquino, voglio dire quella buffoneria universale, le cui maggiori spese le facevano preti, frati, vescovi e cardinali.
In quella corruzione così vasta, soprattutto nel clero, era il caso di dire: «petimusque damusque vicissim»; e tutti ridevano, e primi i beffati.
Di cose di religione non si parlava, e quando era il caso, le si faceva di berretto, se ne osservavano le forme e il linguaggio per l'antica abitudine, senza darvi alcuna importanza.
Sotto il manto dell'indifferenza ci era la negazione.
In quel vuoto immenso non rimaneva altro in piedi che la coltura come coltura e l'arte come arte.
Ed era appunto la negazione che appariva nell'arte sotto forma comica, e formava il suo contenuto.
Che cosa era quell'arte? Era il ritratto dello spirito italiano.
Era la contemplazione di una forma perfetta nella indifferenza o negazione del contenuto.
La società vagheggiava nell'arte se stessa.
Ma era una società spensierata e accademica, che non si era ancora guardata al di dentro, non si avea fatto il suo esame di coscienza.
E quando per la prima volta gitta l'occhio entro di sè e domanda: - Che sono dunque? Onde vengo? Ove vado? - La risposta non poteva essere altra che questa: - Sono corpo: vengo dalla terra e torno alla terra, l'«alma parens», la gran madre antica.
- Questa risposta dapprima fa rabbrividire: sembra una scoperta, ed è un risultato.
E invade le università e si attira i fulmini del concilio.
Zitto! Grida la borghesia gaudente e spensierata, che non volea esser turbata nel suo alto sonno.
E la cosa rimase lì.
«Intus ut libet, foris ut moris», diceva Cremonino.
Credete come volete, ma parlate come parlano.
E le audacie del Valla e del Pomponazzi si perdettero nel rumore de' baccanali.
Ci era la cosa, ma non si voleva la parola.
Materialismo era in tutto, nella vita, nelle lettere, nelle sue applicazioni alla morale, alla politica, all'uomo e alla natura.
Ma non si chiamava materialismo.
Si chiamava coltura, arte, erudizione, civiltà, bellezza, eleganza: ipocrisia in alcuni, in altri corta intelligenza.
Così si viveva tutti in buon accordo e allegramente, e quando veniva la bile ci era lo sfogatoio: permesso di dir male de' preti e anche del papa, e di abbandonarsi a tutt'i piaceri corporali, andando a messa, facendosi il segno della croce e gridando contro gli eretici, e specialmente contro i signori luterani che con le loro malinconie teologiche minacciavano il mondo di una nuova barbarie.
Pigliare sul serio la teologia! Questo per i nostri letterati era un tornare indietro di due secoli.
Fu appunto in quel tempo che Lutero, spaventato come Savonarola alla vista di così vasta corruttela italiana, proclamò la Riforma e regalò al mondo una teologia purgata ed emendata.
Se innanzi al papato fu un eretico, alla borghesia italiana apparve un barbaro, come Savonarola.
E in verità la sua teologia era in una vera contraddizione con la civiltà italiana, avendo per base la reintegrazione dello spirito e l'indifferenza delle forme, cioè a dire negando quella sola divinità che era rimasta viva nella coscienza italiana, il culto della forma e dell'arte.
Una riforma religiosa non era più possibile in un paese coltissimo, avvezzo da lungo tempo a ridere di quella corruttela, che moveva indignazione in Germania e che avea già cancellato nel suo pensiero il cielo dal libro dell'esistenza.
L'Italia avea già valica l'età teologica e non credeva più che alla scienza, e dovea stimare i Lutero e i Calvino come de' nuovi scolastici.
Perciò la Riforma non potè attecchire fra noi e rimase estranea alla nostra coltura, che si sviluppava con mezzi suoi propri.
Affrancata già dalla teologia, e abbracciando in un solo amplesso tutte le religioni e tutta la coltura, l'Italia del Pico e del Pomponazzi, assisa sulle rovine del medio evo, non potea chiedere la base del nuovo edificio alla teologia, ma alla scienza.
E il suo Lutero fu Nicolò Machiavelli.
Il Machiavelli è la coscienza e il pensiero del secolo, la società che guarda in sè e s'interroga e si conosce; è la negazione più profonda del medio evo, e insieme l'affermazione più chiara de' nuovi tempi; è il materialismo dissimulato come dottrina, e ammesso nel fatto e presente in tutte le sue applicazioni alla vita.
Non bisogna dimenticare che la nuova civiltà italiana è una reazione contro il misticismo e l'esagerato spiritualismo religioso, e, per usare vocaboli propri, contro l'ascetismo, il simbolismo e lo scolasticismo: ciò che dicevasi il medio evo.
La reazione si presentò da una parte come dissoluzione o negazione: di che venne l'elemento comico o negativo, che dal Decamerone va sino alla Maccaronea.
Ma insieme ci era un lato positivo, ed era una tendenza a considerare l'uomo e la natura in sè stessi, risecando dalla vita tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali: un naturalismo aiutato potentemente dal culto de' classici e dal progresso dell'intelligenza e della coltura.
Onde venne quella tranquillità ideale della fisonomia, quello studio del reale e del plastico, quella finitezza dei contorni, quel sentimento idillico della natura e dell'uomo, che diè nuova vita alle arti dello spazio e che senti ne' ritratti dell'Alberti, nelle Stanze, nel Furioso e fino negli scherzi del Berni.
Questo era il lato positivo del materialismo italiano, un andar più dappresso al reale ed alla esperienza, dato bando a tutte le nebbie teologiche e scolastiche, che parvero astrazioni.
Il pensiero o la coscienza di questo mondo nuovo e in quello che negava e in quello che affermava è il Machiavelli.
Il concetto del Machiavelli è questo, che bisogna considerare le cose nella loro verità «effettuale», cioè come son porte dall'esperienza ed osservate dall'intelletto; che era proprio il rovescio del sillogismo e la base dottrinale del medio evo capovolta: concetto ben altrimenti rivoluzionario che non è quel ritorno al puro spirito della Riforma e che sarà la leva da cui uscirà la scienza moderna.
Questo concetto applicato all'uomo ti dà il Principe e i Discorsi, e la Storia di Firenze e i Dialoghi sulla milizia.
E il Machiavelli non ha bisogno di dimostrarlo: te lo dà come evidente.
Era la parola del secolo ch'egli trovava e che tutti riconoscevano.
Così nasce la scienza dell'uomo, non quale può o dee essere, ma quale è; dell'uomo non solo come individuo, ma come essere collettivo, classe, popolo, società, umanità.
L'obbiettivo della scienza diviene la conoscenza dell'uomo, il «nosce te ipsum», questo primo motto della scienza quando si emancipa dal soprannaturale e pone la sua indipendenza.
Tutti gli universali del medio evo scompariscono.
La «divina commedia» diviene la «commedia umana» e si rappresenta in terra: si chiama storia, politica, filosofia della storia, la scienza nuova.
La scienza della natura si sviluppa più tardi.
Non si crede più al miracolo, ma si crede ancora all'astrologia.
Attendete ancora un poco, e il concetto del Machiavelli applicato alla natura vi darà Galileo e l'illustre coorte dei naturalisti.
Non è il caso di disputare sulla verità o falsità delle dottrine.
Non fo una storia e meno un trattato di filosofia.
Scrivo la storia delle lettere.
Ed è mio obbligo notare ciò che si move nel pensiero italiano; perchè quello solo è vivo nella letteratura che è vivo nella coscienza.
Da quel concetto esce non solo la scienza moderna, ma anche la prosa.
Come nella scienza ci aveva ancora molta parte l'immaginazione, la fede, il sentimento; così nella prosa erano penetrati elementi etici, rettorici, poetici, chiusi in quella forma convenzionale boccaccevole, che dicevasi forma letteraria, ed era già divenuta maniera, un vero meccanismo.
Ma il Machiavelli spezza questo involucro, e crea il modello ideale della prosa, tutta cose e intelletto, sottratta possibilmente all'influsso dell'immaginazione o del sentimento, di una struttura solida sotto un'apparente sprezzatura.
E da quel concetto dovea uscire anche un nuovo criterio della vita, e perciò dell'arte.
L'uomo e la natura hanno nel medio evo la loro base fuori di sè, nell'altra vita; le loro forze motrici sono personificate sotto nome di universali ed hanno un'esistenza separata.
Questo concetto della vita genera la Divina Commedia.
La macchina della storia è fuori della storia ed è detta «la provvidenza».
Questa macchina è nel mondo boccaccesco il caso o la fortuna.
Non ci è più la provvidenza, e non ci è ancora la scienza.
Il maraviglioso non è più detto miracolo, anzi del miracolo si fanno beffe; ma è detto intrigo, nodo, accidente straordinario.
Le passioni, i caratteri, le idee non sono forze che regolano il mondo, sopraffatte da questo nuovo fato, la volubile e capricciosa fortuna.
Il Machiavelli insorge e contro la fortuna e contro la provvidenza, e cerca nell'uomo stesso le forze e le leggi che lo conducono.
Il suo concetto è che il mondo è quale lo facciamo noi, e che ciascuno è a se stesso la sua provvidenza e la sua fortuna.
Questo concetto dovea profondamente trasformar l'arte.
La poesia italiana usciva dal medio evo libera da ogni ingombro allegorico e scolastico, ma insieme vuota di ogni contenuto, forma pura.
Il suo vero contenuto è negativo, cioè a dire è il ridere del suo contenuto, considerarlo come un giuoco d'immaginazione, un esercizio dello spirito.
Questo doppio elemento dell'arte è detto dal Cecchi il «ridicolo» e il «grupposo», intendendo per grupposo il nodo, l'intreccio, la varietà e novità de' casi.
Di questo maraviglioso perseguitato dal ridicolo ti dà il Machiavelli splendido esempio nel suo Belfegor.
La novella, il romanzo, la commedia sono il teatro naturale di questa poesia, la Divina Commedia dell'arte nuova.
Ma nel concetto del Machiavelli la vita non è una farsa della provvidenza, e non è il giuoco capriccioso della fortuna, ma è regolata da forze o da leggi umane e naturali.
Perciò la base dell'arte non è l'avventura o l'intrigo, ma il «carattere»; e se volete vedere quello che sarà, guardate quali sono gli attori e quali le forze che mettono in giuoco.
L'arte non può starsi contenta alla semplice esteriorità, e presentare gli avvenimenti come un accozzo fortuito di casi straordinari, ma dee forare la superficie e cercare al di dentro dell'uomo quelle cause che sembrano provvidenziali o casuali.
Così l'arte non è un vano e ozioso gioco d'immaginazione, ma è rappresentazione seria della vita nella sua realtà non solo esteriore, ma interiore.
E quest'arte, che cerca la sua base nella scienza dell'uomo, ti dà la Mandragola e la Storia di Firenze, e più tardi la Storia d'Italia del Guicciardini e i suoi Ricordi.
A questo modo si realizza questa grand'epoca, detta il «Risorgimento», che dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del secolo decimosesto.
Da una parte, mancati tutti gl'ideali, religioso, politico, morale, e non rimasta nella coscienza altra cosa salda che l'amore della coltura e dell'arte, il contenuto non ha alcun valore in se stesso e diviene una materia qualunque trattata a libito dall'immaginazione, che ne fa la sua creatura e spesso anche il suo gioco, un gioco che ha la sua idealità nell'ironia ariostesca, e trova la sua dissoluzione nella caricatura della Maccaronea.
Mentre l'arte produce i suoi miracoli nella piena indifferenza del contenuto, come pura arte, un nuovo contenuto si forma e penetra nella coscienza, uno studio dell'uomo e della natura in sè stessi, che cerca la sua base nell'esperienza, e non nell'immaginazione e non nelle vane cogitazioni.
Questo senso profondo del reale ti crea la scienza e la prosa, e ti segna nella Mandragola un nuovo indirizzo dell'arte.
Se dunque vogliamo studiar bene questo secolo, dobbiamo cercarne i segreti ne' due grandi, che ne sono la sintesi, Ludovico Ariosto e Nicolò Machiavelli.
XIII
L' ORLANDO FURIOSO
Ludovico nacque nello stesso anno che Michelangiolo, il 1474.
Machiavelli, Berni, Bembo, Guicciardini, Folengo, Aretino, i principali personaggi di questa età letteraria, nacquero in questo scorcio del secolo, a poca distanza di anni: il Machiavelli nel sessantanove, il Bembo nel settanta, il Guicciardini nell'ottantadue, e nel novantaquattro il Folengo, e nel novanta Pietro Aretino.
Nel novantotto, proprio l'anno che il Machiavelli era eletto segretario del comune fiorentino, Ludovico scrivea in prosa le sue due prime commedie.
L'uno attendeva alle gravi faccende dello Stato, e ne' suoi viaggi in Italia e in Europa attingeva quella scienza dell'uomo e quella pratica del mondo, che dovea fare di lui la coscienza e il pensiero del secolo; l'altro faceva il letterato in corte, e scrivea sonetti, canzoni, elegie, capitoli, commedie, tutto nel mondo della sua immaginazione.
Aveva allora ventisei anni.
Cinque ne aveva sciupati intorno alle leggi; finchè, avuta dal padre licenza, si mise con ardore allo studio delle lettere, e tutto pieno il capo di Virgilio, Orazio, Petrarca, Plauto, Terenzio, cominciò a far versi latini e italiani, come tutti facevano, elegie, canzoni, odi, epigrammi, madrigali, sonetti, epistole, epitalami, carmi.
Nel '94, quando Carlo ottavo scendeva in Italia, il giovane Ludovico scrive un'ode oraziana a Filiroe, nome ch'egli appicca ad una contadinella.
Carlo minaccia
...
...
asperi
furore militis tremendo,
turribus ausoniis ruinam.
E il giovane sdraiato sull'erba e con gli occhi alla sua Filiroe scrive:
Rursus quid hostis prospiciat sibi,
me nulla tangat cura, sub arbuto
iacentem aquae ad murmur cadentis...
Pensa e sente e scrive come Orazio.
Il mondo precipita: e che importa? sol che possa andar pe' campi, seguire Lida, Licori, Filli, Glaura, e cantare i suoi amori:
Est mea nunc Glycere, mea nunc est cura Lycoris
Lyda modo meus est, est modo Phyllis amor...
Antra mihi placeant potius montesque supini,
vividaque irriguis gramina semper aquis ...
Dum vaga mens aliud poscat, procul este Catones ...
E scrive De puella, De Lydia, nome oraziano di una sua amata di Reggio, De Iulia, una cantante, De Glycere et Lycori, De Megilla, e fino De catella puellae, imitazione felice di Catullo.
Luigi decimo-secondo conquista il ducato di Milano, chiamatovi da Alessandro sesto e che importa,
...
...
si furor, Alpibus
saevo flaminis irmpetu
...
...
iam spretis, quatiat celticus ausones?
Che importa servire a re gallo o latino,
si sit idem hinc atque hinc non leve servitium?
Barbaricone esse est peius sub nomine, quam sub
moribus?
Tutti barbari e tutti tristi.
E il giovane, esclamando: «Improba secli conditio!» e lamentando «clades et Latii interitum»,
nuper ab occiduis illatum gentibus, olim
pressa quibus nostro colla fuere iugo,
svolge l'occhio dallo spettacolo e cerca un asilo in Orazio e Catullo.
L'anno appresso alla calata di Carlo ottavo l'Ariosto recita l'orazione inaugurale degli studi nel duomo di Ferrara, De laudibus philosophiae, e poi la reca in esametri.
Scrivea pure sonetti, canzoni, elegie, dove si sente lo studio del Petrarca.
Nel movantatre a diciannove anni, scrive un'elegia per la morte di Leonora d'Aragona, moglie del duca di Ferrara.
Nell'introduzione si scopre ancora lo studente e il dilettante:
Rime disposte a lamentarvi sempre,
accompagnate il miserabil core
in altro stil che in amorose tempre:
che or giustamente da mostrar dolore
abbiamo causa, ed è sì grave il danno
che appena so s'esser potria maggiore.
I suoi amori in italiano sono platonici, alla petrarchesca; in latino sono sensuali, all'oraziana.
In latino tiene Megilla tra le braccia, e non può credere a' suoi occhi, e dice:
An haec vera Megilla
cuius detineor sinu?
Haec, haec vera mea est; nil modo fallimur,
mi anceps anime: en sume cupita iam
mellita oscula, sume
expectata diu bona.
Ma in italiano Megilla è «l'alta beltade», che «col suo beato lume illustra e imbianca l'occaso», e l'amante e «nel dir lento e restio» e non descrive, perchè «chi descriver puote a pieno il sole?».
Non è valore uman che tanto ascenda.
Se avesse potuto apprendere il greco, Anacreonte o Teocrito gli avrebbe instillata nell'immaginazione un'altra fraseologia: perchè tutto questo è un gioco di frasi.
Ma, tutto dietro al latino, non pensò per allora al greco:
Che 'l saper nella lingua degli Achei
non mi reputo onor, s'io non intendo
prima il parlar de li latini miei.
Mentre l'uno acquistando, e differendo
vo l'altro, l'occasion fuggì sdegnata,
poi che mi porge il crine ed io nol prendo.
Morì il padre, ch'egli aveva soli ventott'anni, e lo lasciò tra sorelle e piccoli fratelli capo della casa: così dovè mutare Omero nel libro de' conti:
Mi more il padre, e da Maria il pensiero
dietro a Marta bisogna ch'io rivolga;
ch'io muti in squarci ed in vacchette Omero.
Nè potè avere più agio e modo d'intendere «nella propria lingua dell'autore ciò che Ulisse sofferse a Troia e poi nel lungo errore, e ciò che scrisse Euripide, Pindaro e gli altri, a cui le Muse argive donar sì dolci lingue e sì faconde»; perchè venuto in corte fu mandato qua e là, oppresso dal giogo del cardinale d'Este:
E di poeta cavallar mi feo:
vedi se per le balze e per le fosse
io potevo imparar greco o caldeo.
Fra questi studi e imitazioni uscì la Cassaria, una commedia in prosa, scritta con tutte le regole della commedia plautina, e che parve un miracolo a Ferrara, appunto perchè vedevano in italiano quello che erano usi ad ammirare in latino.
Ai misteri e alle farse succedea la commedia e la tragedia, con tutte le regole dell'arte poetica e con le forme di Plauto e Terenzio.
E non solo s'imitava quel meccanismo, ma si riproducea lo stesso mondo comico, servi, parasiti, cortigiane, padri avari e figli scapestrati.
Il giovane autore, a quel modo che trasforma le sue contadine in Filli e Licori, vive tutto in quel mondo di Plauto, e nel suo lavoro d'imitazione perde di vista la società in mezzo a cui si trova.
La sua commedia è una ricostruzione, non è una creazione, e intento al meccanismo, si lascia fuggire le più belle situazioni e contrasti comici.
Nel Bibbiena e nel Lasca ci è una certa vita che viene dal Decamerone, non so che licenzioso e buffonesco, conforme allo spirito comico, quale s'era sviluppato a Firenze, e si sentiva nel Lasca e nel Berni, segretario del Bibbiena.
Ma l'Ariosto vive fuori di questo ambiente, e in un mondo tutto di erudizione, e quando vuol essere faceto, ti riesce grossolano.
Oltrechè, essendo quello un mondo di accatto e con caratteri già dati, ci sta a disagio, e non ci si abbandona, e non se lo assimila.
Un effetto comico ci è; ed è ne' viluppi, negl'intrighi, negli equivoci, prodotti dal caso o dalla malizia, in un imbroglio drammatico, che spesso stanca l'attenzione.
Ma l'intrigo non basta a sostenere l'interesse, quando i caratteri non sieno bene sviluppati e l'intrigo non si trasformi in situazione comica.
Trappola, Volpino, Nebbia, Erofilo, Lucrano sono esseri insignificanti, nè dall'intreccio esce alcuna scena fondamentale, dove si raccolga l'interesse.
Più tardi scrisse altre commedie, intestatosi a farle in versi sdruccioli, per rendere l'imitazione latina perfetta, parendogli che quel metro rispondesse a capello al giambo.
Nè in questa forma sgraziata, che vuol essere poesia e non è prosa, gli riesce meglio la commedia, ancorchè il soggetto alcuna volta potesse convenire a quella società, come è il Negromante.
Sbagliata la via, non si raddrizza più.
Un negromante o astrologo che fa mestiere di sua arte, e con sue bugie cava quattrini da' gonzi, è un argomento popolarissimo, e trattato allora da tutt'i novellieri.
Il Boccaccio avea messo in iscena il prete o il frate, come il prete di Varlungo o frate Cipolla: allora la parte di scroccone e giuntatore era rappresentata dall'astrologo.
Il nome era mutato: il motivo comico era lo stesso.
Ricordiamoci con che brio ne ha trattato il Lasca in una sua novella.
Ci si sente la tradizione e la malizia del Boccaccio, e l'ambiente di Firenze, dove lo speziale arguto continua il Sacchetti, il Pulci, il Magnifico.
Ma nel Negromante ariostesco senti la società latina, dove il servo è più astuto del padrone, rappresentata da chi non vi sta in mezzo e non l'intende e la studia su' libri.
Cinzio, Camillo, Massimo sono mummie più che uomini, preda facile de' birboni che ci vivono intorno.
Sono essi non il principale, ma il fondo del quadro, la vile moltitudine sulla quale si esercita la malizia de' servi e degli avventurieri.
Concetto profondo, se l'Ariosto l'avesse trovato lui e ne avesse cavato un mondo comico.
Ma ci sta a pigione e senza alcun senso, come se fosse cosa naturalissima questo mondo colto al rovescio, sì che i servitori ne sappiano più dei padroni e diventino i loro tutori e salvatori, come Fazio e Temolo, che scoprono e sventano le malizie del negromante.
Costui, che è il protagonista, non è proprio un astrologo, com'è nel Lasca, e come il prete è prete nel Boccaccio; ma è un birbone matricolato, che fa l'astrologo senza crederci punto.
Nel Lasca la materia comica è cavata dall'astrologia messa in burla: qui l'astrologia ci sta per comparsa, nè da essa escono i mezzi d'azione.
Se mastro Iachelino, che è il negromante, fosse un vero astrologo, che mentre vuol farla a' padroni è burlato da' servitori, il concetto sarebbe così spiritoso, com'è nell'astrologo del Lando, di cui si mostra più sapiente un contadino, anzi l'asina del contadino.
Ma qui l'astrologo è un ignorantaccio, che, come dice il Nibbio suo servo e confidente, mal sapendo leggere e male scrivere, fa professione di filosofo, di medico, di alchimista, di astrologo, di mago:
e sa di queste e dell'altre scienzie
che sa l'asino e il bue di sonar gli organi.
Sicchè il tutto si riduce a una gara di malizia tra maestro Iachelino e Nibbio da una parte, e Fazio e Temolo, che sono i servi, dall'altra.
Non mancano bei tratti, che rivelano nell'autore un ingegno e uno spirito comico non comune.
Cinzio racconta al servo le maraviglie del negromante, e il servo si beffa del negromante e del padrone, ed è in ultimo colui che l'accocca a tutti.
Cinzio l'assicura gravemente che sa trasformare uomini e donne in animali.
Risponde Temolo:
Si vede far tutto il dì, nè miracolo
è cotesto .
.
Non vedete voi che subito
un divien potestade, commissario,
provveditore, gabelliere, giudice,
notaio, pagator degli stipendii,
che li costumi umani lascia, e prendeli
o di lupo o di volpe o di alcun nibbio?
- Capisco - dice Cinzio.
La poca esperienza che hai del mondo ti fa parlare così.
Ma non credi tu dunque che e' possa scongiurare gli spiriti? - E Temolo risponde:
Di questi spirti, a dirvi il ver, pochissimo
nè meno crederei; ma li grandi uomini,
e principi e prelati, che vi credono,
fanno col loro esempio ch'io, vilissimo
fante, vi credo ancora.
Questo tratto è stupendo d'ironia; è il popolano ignorante che col suo naturale buon senso si prende spasso de' grandi uomini.
Bella situazione drammatica è dove Nibbio, viste le reti tese a Cinzio, a Massimo e a Camillo, il più ricco, domanda al negromante:
Delle tre starne che in piè avete, ditemi,
qual mangerete?
ASTROLOGO
Vedraimi ir beccandole
ad una ad una, ed attaccarmi in ultimo
alla più grassa, e tutta divorarmela.
NIBBIO
Eccoven'una, e la miglior: mettetevi,
se avete fame, a piacer vostro a tavola.
ASTROLOGO
Chi è? Camillo?
NIBBIO
Si.
ASTROLOGO
Si ben; mangiarmelo
voglio, che l'ossa non credo ci restino.
E questo Nibbio, quando vede scoperte le magagne dell'astrologo, egli, suo servo, confidente e mezzano, gli dà il calcio dell'asino, e lo ruba e lo pianta lì.
Sono bei tratti perduti in un mondo convenzionale e superficiale, e poco studiato, e abborracciato nei momenti più interessanti.
L'autore vi mostra un'attitudine più a narrare, ad esporre, a descrivere, che a drammatizzare.
Che uomo sia mastro Iachelino, è benissimo esposto in un monologo di Nibbio; ma quando lo si vede in azione, lo si trova noioso, insipido, grossolano, molto al di sotto dell'aspettazione.
Ludovico era di coltura al di sotto de' tanti dotti di quel tempo, ed anche di alcuni della corte.
Il cardinale Ippolito pregiava assai meno i poeti, gente oziosa, che i suoi staffieri e camerieri, e volendo trarre un utile dal nostro poeta, ne fece un «cavallaro», mandandolo qua e là in suo servigio.
Ludovico, ricordandosi la grande amicizia di Leone decimo, quando era proscritto con la sua famiglia da Firenze, vistolo papa, andò a lui pieno di speranza, e non ne cavò altro che belle parole.
Fu anche in Firenze per commissione della corte ferrarese, e la profonda impressione fattagli da quella vista si rivela in una elegia scritta in quell'occasione:
A veder pien di tante ville i colli
par che 'l terren ve le germogli,
come vermène germogliar suole e rampolli.
Se dentro un mur, sotto un medesmo nome,
fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi,
non ti sarian da pareggiar due Rome.
Inviato governatore in Garfagnana, alza le strida perchè il cardinale lo abbia tolto a' dolci studi e a' cari amici e spintolo in quel «rincrescevole laberinto».
Da ultimo il cardinale volea trarselo appresso in Ungheria, e qui il nostro poeta perde le staffe e dichiara che in Ungheria non vuole andare.
Lodare il cardinale in versi, sta bene; ma far da comparsa nel suo corteggio, questo no:
Io stando qui, farò con chiara tromba
il suo nome sonar forse tanto alto,
che tanto mai non si levò colomba.
E lo loda in latino e in volgare, e più sfacciatamente in latino:
Quis patre invicto gerit Hercule fortius arma?
Mystica quis casto castius Hyppolito?
Ma Ippolito non si curava delle lodi, e lo volea servo e non poeta:
Non vuol che laude sua da me composta
per opra degna di mercè si pona:
di mercè degno è l'ir correndo in posta...
S'io l'ho con laude ne' miei versi messo,
dice ch'io l'ho fatto a piacere e in ozio:
più grato fòra essergli stato appresso.
Ludovico, scrittor di commedie, è lui medesimo un carattere de' più comici, e se, rappresentando un mondo convenzionale, è riuscito nelle commedie poco felice, è stato felicissimo dipingendo se stesso alla buona e al naturale.
Alcune sue qualità te gli affezionano Ama i fratelli e la vecchia madre, e per loro si acconcia a servitù, rodendo il freno.
Il suo ideale è la tranquillità della vita, starsene a casa fantasticando e facendo versi, vivere e lasciar vivere.
Ma il punto è che sia lasciato vivere.
Il poveruomo era un personaggio idillico, non aveva ambizioni, non curava grandezze, nè onori; «gli sapeva meglio una rapa» in casa sua che t«ordo o starna o porco selvaggio »all'altrui mensa:
E così sotto una vil coltre,
come di seta o d 'oro ben mi corco.
E più mi piace di posar le poltre
membra, che di vantarle che agli sciti
sien state, agl'indi, agli etiopi, e oltre.
Degli uomini son vari gli appetiti;
a chi piace la chierca, a chi la spada,
a chi la patria, a chi li strani liti.
Chi vuole andare attorno, attorno vada;
vegga Inghilterra, Ongheria, Francia e Spagna:
a me piace abitar la mia contrada.
Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna,
quel monte che divide e quel che serra
l'Italia, e un mare e l'altro che la bagna.
Questo mi basta: il resto della terra,
senza mai pagar l'oste, andrò cercando
con Tolomeo, sia il mondo in pace o in guerra.
Ma non è lasciato vivere, e ha tra' piedi il cardinale, e ne sente una stizza che sfoga con questo e con quello.
Qualche rara volta la stizza si alza a indignazione e gli strappa nobili accenti:
Apollo, tua merce, tua mercè, santo
collegio delle muse, io non possiedo
tanto per voi, ch'io possa farmi un manto.
...
...
Or, conchiudendo, dico che, se 'l sacro
cardinal comperato avermi stima
con li suoi doni, non mi è acerbo ed acro
renderli, e tôr la libertà mia prima.
...
...
Se avermi dato onde ogni quattro mesi
ho venticinque scudi, nè sì fermi
che molte volte non mi sien contesi,
mi debbe incatenar, schiavo tenermi,
obbligarmi ch'io sudi e tremi, senza
rispetto alcun ch'io muoia o ch'io m'infermi;
non gli lasciate aver questa credenza:
ditegli che più tosto ch'esser servo,
torrò la povertade in pazienza.
Ma sono scarse faville.
Non è così rimesso d'animo o cupido d'onori, che imiti i cortigiani e sacrifichi la sua comodità per fare a gusto del cardinale; e non è così altero, che rompa la catena una buona volta, e lo mandi con Dio.
Serve borbottando e sfogando il mal umore, con una sua propria fisonomia nella scala de' Sancio Panza e de' don Abbondio.
E ne nascono situazioni stupendamente comiche.
Tale è il suo viaggio a Roma, con tante speranze nell'amico Leone.
Come lo accoglie bene! Ma sono parole, e la sera gli tocca andare a cena sino all'insegna del Montone:
Piegossi a me dalla beata sede:
la mano e poi le gote ambe mi prese,
e il santo bacio in amendue mi diede.
Indi, col seno e con la falda piena
di speme, ma di pioggia molle e brutto,
la notte andai sin al Montone a cena.
Ora lo prende la stizza, e si sfoga descrivendo la cupidità ingorda de' cardinali; ora fa il filosofo, come volesse dire: - E quando anche avessi le ricchezze del gran Turco e tre e quattro mitre, ne val poi la pena? -
Sia ver che d'oro m'empia la scarsella
e le maniche e il grembo, e se non basta,
m'empia la gola e il ventre e le budella;
in che util mi risulta essermi stanco
in salir tanti gradi? Meglio fora
starmi in riposo, o affaticarmi manco.
Ora ha aria di scusare il papa.
- Poerino! Parenti, cardinali che gli diedero «il più bel di tutt'i manti,» amici che lo aiutarono a tornare a Firenze, dee dar bere a tanti!
Se fin che tutti beano, aspetto a trarme
la volontà di bere, o me di sete,
o secco il pozzo d 'acqua veder parme,
meglio è star nella solita quiete.
Questa magnifica situazione è sviluppata con ricchezza di motivi e di gradazioni, con una perfetta varietà di caratteri, e con un'ironia tanto più pungente, quanto appare più ingenua e più bonaria.
Lo stesso ho a dire di Ludovico fatto governatore, che fa un ritratto stizzoso de' suoi amministrati, e deplora il tempo sciupato intorno ad essi, o di Ludovico che nega di andare in Ungheria, o che raccomanda a Pietro Bembo il figlio, e gli narra la sua vita e le sue contrarietà, i suoi studi.
Ci si vede tra la stizza quella specie di rassegnazione delle anime fiacche, che significa: - Ma che ci è a fare? Pazienza! - E anche una specie di bonomia, che gli fa sciorinare tutt'i suoi difetti, come fossero perle.
Anche il Berni è così, e si fa bello della sua poltroneria; ma carica e buffoneggia, con lo scopo di far ridere: dove Ludovico si dipinge tutto al naturale a semplice sfogo del mal umore, e meno cerca l'effetto e più l'ottiene.
Si ride a spese degli altri e anche un po' a sue spese, e senza ch'egli se ne accorga o se ne guardi.
In un secolo così artificiato, dove per soverchio studio d'imitazione o per conseguire certi effetti artistici si perdeva di vista la realtà della vita, Ludovico, che scrivendo commedie o canzoni e sonetti petrarcheschi si pone in un mondo convenzionale, qui in presenza di se stesso, come Benvenuto Cellini, crea un carattere comico de' più interessanti, perchè non è solo il suo ritratto, ma del borghese e letterato italiano a quel tempo nel suo aspetto men reo.
Ha visto Roma, ha visto Firenze, è stato in Lombardia, ma il suo mondo non si è ingrandito; il suo centro è rimasto Ferrara; e le sue cure domestiche, i suoi umori con la corte, i suoi piccoli fastidi, i suoi amori, le sue relazioni letterarie, i suoi interessi privati sono tutta la sua preoccupazione allora appunto che l'Italia era corsa da' barbari e si dibatteva nella sua agonia.
Il borghese colto, spensierato, pigro, tranquillo, ritirato nella famiglia o tra le allegre brigate, è tutto qui con la sua quiete e il suo «fuge rumores».
Ci è in questo ritratto un po' di Orazio, ma l'imitazione è qui natura, è somiglianza di anima e di genio.
Il riso è puro di amarezza e di disprezzo, perchè senti che l'uomo di cui tu ridi è onesto, gentile, ingenuo, inoffensivo, ha tutte le qualità amabili delle anime deboli e buone.
Non ci è il capitolo e non la satira, perchè quell'uomo non si propone di berteggiare nè di censurare, ma unicamente di sfogare il suo umore col fratello o l'amico.
E perciò la sua narrazione è mescolata di osservazioni, facezie, motti, proverbi, movimenti stizzosi d'immaginazione, tratti e pitture satiriche, e soprattutto di apologhi graziosissimi, piccoli capilavori.
La terza rima, il linguaggio eroico e tragico del medio evo, il linguaggio della Divina Commedia e de' Trionfi, in questa profonda trasformazione letteraria diviene il linguaggio della commedia, il metro del capitolo, della satira e della epistola, con una sprezzatura che arieggia alla prosa.
La parabola si compie in queste epistole dell'Ariosto, dove la terzina è profondamente modificata, e prende forma pedestre, aguzzata e sentenziosa, come un epigramma o un proverbio.
La terzina, come il sonetto e la canzone, era il genere letterario e tradizionale.
L'ottava, la cui immagine si vede già abbozzata ne' rispetti e ne' canti popolari, era il linguaggio de' romanzi, delle narrazioni e delle descrizioni, recata a perfezione dal Poliziano.
Era il linguaggio di moda e popolare.
E la terzina sarebbe rimasta, come il sonetto e la canzone, stazionaria e convenzionale, se il Berni e l'Ariosto non le avessero data nuova vita, traendola dal cielo, e dandole abito conforme al tempo.
L'ottava rima cantava; la terzina discorreva, berteggiava, satirizzava, esprimeva la parte prosaica e reale della vita.
Fra tanti fastidi e piccole miserie della vita Ludovico scriveva l'Orlando furioso, con molta noia del cardinale Ippolito, che vedeva sciupato in quelle «corbellerie» il tempo destinato al suo «servizio».
Il Boiardo interruppe il suo Orlando innamorato proprio allora che calava le Alpi Carlo ottavo per andar «non so in che loco».
Morì qualche anno dopo, quando Ludovico traduceva Plauto e Terenzio e scriveva commedie, rappresentate magnificamente nel teatro di corte.
La gloria dell'Omero ferrarese spronò l'Ariosto a tentar qualche cosa di simile.
Cominciò in terza rima una storia epica de' fasti estensi, ma smise subito, disacconcio il metro alla sua larga vena.
E si risolse senz'altro di continuar la storia di Orlando, ripigliandola là dove l'avea lasciata il Boiardo.
Se ne consigliò col Bembo, il quale lo esortò a scrivere il poema in latino.
L'Orlando in latino! Il Bembo non capiva cosa fosse l'Orlando innamorato.
Ma lo capiva l'Ariosto, che di quella lettura facea sua delizia, e deliberò senza più di usare lo stesso metro e le stesse forme.
Così cansò l'imitazione classica, e ricuperò la libertà del suo ingegno.
Pose mano al lavoro nel 1505, al suo trentunesimo anno, e vi si seppellì per dieci anni, e spese tutto il rimanente della vita a emendarlo.
Si racconta che andasse sino a Modena in pianelle, e non se ne accorse che a metà della via.
Altri fatti si narrano della sua distrazione.
Che cosa c'era dunque nella sua testa? C'era l'Orlando furioso.
Niuna opera fu concepita nè lavorata con maggior serietà.
E ciò che la rendeva seria non era alcun sentimento religioso o morale o patriottico, di cui non era più alcun vestigio nell'arte, ma il puro sentimento dell'arte, il bisogno di realizzare i suoi fantasmi.
Ci è ne' suoi fini il desiderio un po' di secondare il gusto del secolo, e toccare tutte le corde che gli erano gradite, un po' di tessere la storia o piuttosto il panegirico di casa d'Este.
Ma sono fini che rimangono accessorii naufragati e dimenticati nella vasta tela.
Ciò che lo anima e lo preoccupa è un sentimento superiore, che è per lui fede, moralità e tutto, ed è il culto della bella forma, la schietta ispirazione artistica.
E lo vedi mutare e rimutare, finchè non abbia dato alle sue creazioni l'ultima forma che lo contenti.
Da questa serietà e genialità di lavoro uscì l'epopea del Rinascimento, il tempio consacrato alla sola divinità riverita ancora in Italia, l'Arte.
Ludovico e Dante furono i due vessilliferi di opposte civiltà.
Posti l'uno e l'altro tra due secoli, prenunziati da astri minori, furono le sintesi, in cui si compì e si chiuse il tempo loro.
In Dante finisce il medio evo; in Ludovico finisce il Rinascimento.
Ritratto tutti e due della loro età.
Dante fu più poeta che artista: all'artista nocquero la scolastica, l'allegoria, l'ascetismo, e la stessa grandezza ed energia dell'uomo.
Ci era nella sua coscienza un mondo reale troppo vivo e appassionato e resistente, perchè l'arte potesse dissolverlo e trasformarlo.
E quel mondo reale era involuto in forme così dense e fisse, che il suo sguardo profondo non potè sempre penetrarvi e attingerlo nel suo immediato.
Tutto questo mondo è già sciolto innanzi a Ludovico, nella sua realtà e nelle sue forme.
È sciolto per un lavoro anteriore al quale egli non ha partecipato.
Già nel Petrarca spunta l'artista, che si foggia il mondo del suo cuore, e se lo compone e atteggia come pittore, e ci crede e ci si appassiona e ne sente i tormenti e le gioie.
Già nel Boccaccio l'arte si trastulla a spese di quella realtà e di quelle forme.
Già su quel mondo è passato il ghigno di Lorenzo, e il riso beffardo del Pulci, e già, vòto il tempio, è surta sugli altari la nuova divinità annunziata da Orfeo, tra' profumi eleganti del Poliziano.
Ludovico non ha niente da affermare, e niente da negare.
Trova il terreno già sgombro, e senza opera sua.
Non è credente, e non è scettico; è indifferente.
Il mondo in mezzo a cui si forma, destituito di ogni parte nobile e gentile, senza religione, senza patria, senza moralità, non ha per lui che un interesse molto mediocre.
Buona pasta d'uomo, con istinti gentili e liberi, servo non fremente e ribelle, ma paziente e stizzoso, adempie nella vita la parte assegnatagli dalla sua miseria con fedeltà, con intelligenza, ma senza entusiasmo e senza partecipazione interiore.
Lo chiamavano distratto.
Ma la vita era per lui una distrazione, un accessorio, e la sua occupazione era l'arte.
Andate a vedere quest'uomo mezzano e borghese come quasi tutt'i letterati di quel tempo, nella sua bontà e tranquillità facilmente stizzoso, e che non sa conquistare la libertà e non sa patire la servitù, e tutto rimpiccinito e ritirato tra le sue contrarietà e le sue miserie si fa spesso dar la baia per le sue distrazioni e le sue collere; andate a vedere quest'uomo quando fantastica e compone.
Il suo sguardo s'illumina, la sua faccia è ispirata, si sente un iddio.
Là, su quella fronte, vive ciò che è ancora vivo in Italia: l'artista.
Già questo mondo cavalleresco, che riempie la sua immaginazione, non era stato altro mai in Italia che un mondo di fantasia e visto da lontano.
E quando ogni idealità si corruppe, molti cercavano ivi quell'ideale di bontà e di virtù che altri trovavano nella vita pastorale: così sorse sulle rovine del medio evo il poema cavalleresco e l'idillio, i due mondi poetici o ideali del Rinascimento.
Una reminiscenza di quel mondo cavalleresco c'era, ma lontana e confusa per le date, per i luoghi e per i fatti; sicchè veniva alla coscienza non da tradizioni nazionali, ma dalla lettura di romanzi tradotti o imitati.
Pure una immagine vicina di quel mondo era nelle corti, dove appariva quel non so che signorile e gentile e umano che fu detto «cortesia», e dove spesso si davano spettacoli che richiamavano alla mente quelle forme e que' costumi.
Ci era dunque nella coscienza italiana un mondo della cortesia contrapposto al mondo plebeo per la pulitezza delle forme e la gentilezza de' sentimenti; un mondo le cui leggi non erano derivate dal Vangelo, nè da alcun codice, ma dall'essere cavaliere o gentiluomo; e anche oggi sentiamo dire: «in fè di gentiluomo».
Ci era il codice dell'onore e dell'amore, che comprendeva gli obblighi del prode e leale cavaliere.
La costanza e fedeltà nell'amore, la devozione al suo signore, l'osservanza della parola, la difesa de' deboli, la riparazione delle offese, erano gli articoli principali di quel codice, il cui complesso costituiva il così detto punto d'onore.
Questo è quel mondo della cortesia che nel Decamerone apparisce come il mondo poetico in contrapposto con la rozzezza plebea: e in verità Gerbino e Guglielmo e la figlia di Tancredi e Federigo degli Alberighi sono belle immagini di un mondo superiore per finezza e fierezza di tempra.
Ma nelle corti italiane, come quelle di Urbino, di Ferrara, di Mantova, era rimasto di quel mondo appena un barlume, e più nell'apparenza che nella sostanza, anzi non rado avveniva di vedere accoppiata con l'eleganza e la galanteria dei costumi la più sfacciata perfidia, come in Cesare Borgia.
Un sentimento vero e profondo dell'onore non era dunque parte intima del carattere nazionale, e se allora potevano esserci uomini di onore, non ci era certo nè un popolo, nè una classe, dove l'onore fosse regola della vita, anzi quegli uomini colti e svegliati erano inclinati a dar dello sciocco a quelli che con loro danno o incomodità osservavano quelle leggi: non era virtù, era dabbenaggine, e destava quel leggier senso ironico, la cui punta è appena dissimulata nell'esclamazione del poeta:
O gran bontà de' cavalieri antichi!
Non ci era dunque in Italia un serio sentimento cavalleresco, che potesse ispirare qualche cosa come il Cid; e scaduto ogni sentimento religioso, morale e politico, l'onore rimaneva senza base, e non avea serbate che alcune delle sue qualità superficiali, e più brillanti che solide, di cui si vede il codice nel Cortigiano del Castiglione.
Perciò la cavalleria, come la mitologia e come il mondo religioso, non era fra noi altro che pura leggenda o romanzo, un mondo d'immaginazione, che interessava non per il suo ideale, ma per la novità, la varietà e la straordinarietà degli accidenti.
Meno il suo significato era serio, e più il suo contenuto era fantastico e licenzioso, cancellati tutt'i limiti di spazio e di tempo e di verisimiglianza.
Il cantastorie non si proponeva altro scopo che di stuzzicare la curiosità e appagare l'immaginazione, intessendo sul vecchio fondo tradizionale cavalleresco le favole più assurde, e intrigandole fra loro in modo da tener sospesa e curiosa l'attenzione.
Indi quelle forme di narrare bizzarre, interrompendo, intramettendo, ripigliando co' passaggi più bruschi, e portando l'incoerenza fino nell'esterna orditura del racconto.
Già cominciava a spuntare una scienza dell'uomo e della natura.
L'invenzione della stampa, la scoperta di Copernico, i viaggi di Colombo e di Amerigo Vespucci, gli scritti del Pomponazzi, i Discorsi del Machiavelli, la Riforma, la costruzione solida di grandi Stati, come la Spagna, la Francia, l'Inghilterra, erano fatti colossali che rinnovavano la faccia del mondo.
Ma le conseguenze non erano ancora ben chiare, e il mondo moderno, il mondo dell'uomo e della natura, o, per dirlo in una parola, la scienza, era ancora come un sole inviluppato di vapori, che non danno via a' suoi raggi.
E i vapori erano il mondo popolare dell'immaginazione, che suppliva alla scienza, riempiendo la terra di miracoli.
Ogni specie di soprannaturale era accumulata e ammessa, il miracolo de' cristiani, il prodigio de' pagani, gl'incanti de' maghi e delle fate, le imposture degli astrologi.
L'uomo stesso in mezzo a questa natura fatata e incantata era un attore degno di quel teatro: essere ancora primitivo, credulo, ignorante, abbandonato alle sue inclinazioni e passioni, determinato all'azione da sùbiti movimenti, anzi che da posata riflessione, e che non si ripiega mai in sè, non si studia, non si conosce, è tutto superficie, tutto fuori nel tumulto e nel calore della vita.
Perciò è piuttosto anch'esso una forza naturale che un essere consapevole, una forza tirata e avvolta nel vario gioco degli avvenimenti, povera di «carattere» e di «autonomia».
Nondimeno l'Italia era il paese, dove l'uomo, come intelligenza, era più adulto, più formato dall'educazione e dalla coltura, e dove il soprannaturale sotto tutte le sue forme non era ammesso che come macchina poetica, un gioco d'immaginazione.
Perciò, se in altre parti di Europa ci era ancora un legame tra il mondo cavalleresco e il mondo reale, questo legame era spezzato tra noi, e la cavalleria non era che un mondo di pura immaginazione.
Ludovico era tutt'altro che uomo cavalleresco, anzi tirava al comico.
E quando prese a voler continuare la storia del Boiardo, era come un pittore che dipinge con la stessa indifferenza una santa o una ninfa o una fata, pur di dipingerla bene.
Molti chiedono: - Quale fu lo scopo dell'Ariosto? - Non altro che rappresentare e dipingere quel mondo della cavalleria.
Omero canta l'ira di Achille; Virgilio canta Enea; Dante canta la redenzione dell'anima; l'Ariosto non canta l'impresa di Agramante o di Carlo e non le furie di Orlando e non gli amori di Ruggiero e Bradamante: l'impresa di Agramante è per lui come un punto fisso intorno al quale si sviluppa il mondo cavalleresco, non lo scopo, ma il tempo e il luogo nel quale si mostra quel mondo.
Egli canta le donne e i cavalieri, le cortesie e le audaci imprese che furono «a quel tempo» che Agramante venne in Francia.
Le furie di Orlando e gli amori di Ruggiero sono non episodi, appunto perchè non ci è un'azione unica e centrale, ma parti importanti di quell'immensa totalità che dicesi mondo cavalleresco.
L'unità è dunque non questa o quella azione e non questo o quel personaggio, ma è tutto esso mondo nel suo spirito e nel suo sviluppo nel tal luogo e nel tal tempo.
Se l'impresa di Agramante fosse non il semplice materiale dove si sviluppa il mondo cavalleresco, ma una vera e seria azione, lo scopo del poema, e se Orlando e Ruggiero fossero episodi in quest'azione, il romanzo sarebbe così difettoso, come difettosa sarebbe la Divina Commedia, a volerla giudicare con lo stesso criterio.
Belli questi episodi che invadono l'azione e la soperchiano! Bella quest'azione che ha i suoi accidenti più importanti fuori del poema nella storia del Boiardo, e che ispira un interesse molto mediocre al poeta, il quale se ne ricorda solo allora che ha bisogno di raccogliere le fila troppo sparse in un centro, e volentieri e per lungo tempo se ne dimentica, e finita essa, continua senza di essa! Unità d'azione ed episodi sono un linguaggio convenzionale venutoci da Aristotile e da Orazio, e sarebbe cosa assurda a volerlo applicare al mondo cavalleresco.
Perchè l'essenza di quel mondo è appunto la libera iniziativa dell'individuo, la mancanza di serietà, di ordine, e di persistenza in un'azione unica e principale, sì che le azioni si chiamano avventure, e i cavalieri si dicono erranti.
Staccarsi dal centro, andare vagando, e cercare avventure, è lo spirito di un mondo che ripugna così alla unità come alla disciplina.
Volere organizzare questo mondo co' precetti di Orazio e di Aristotile è un volerlo falsificare.
Il disordine qui è ordine, e la varietà è unità.
Come l'unità del mondo nella sua infinita varietà è nel suo spirito o nelle sue leggi, così l'unità di questa vasta rappresentazione è nello spirito o nelle leggi del mondo cavalleresco.
La forza centripeta è assai fiacca in questo mondo della libertà e dell'iniziativa individuale; e ci vuole l'angiolo Michele o il demonio per tirare i cavalieri erranti a Parigi, dove si combatte.
E non ci si trovano che un par di volte, e appena una giornata; chè il dì appresso corrono di nuovo dietro a' fantasmi delle loro passioni, tirati da amore, da vendetta, da gloria, e vaghi tutti di avventure strane e maravigliose.
La stessa impresa di Agramante non è un fatto religioso o politico, ma anch'essa una grande avventura, cagionata dal desiderio della vendetta.
Parigi è un punto stabile dove stanno a offesa e difesa con gli eserciti Carlo e Agramante; ma i loro paladini e cavalieri, la più parte re e signori, vanno discorrendo per il mondo, e Parigi non è che un punto di convegno dove il racconto si raccoglie alcuna volta e si riposa, e di cui si vale il poeta per comporre e annodare le fila in certi grandi intervalli.
Perchè al di sopra di quest'anarchia cavalleresca ci è uno spirito sereno e armonico, che tiene in mano le fila e le ordisce sapientemente, e sa stuzzicare la curiosità e non affaticare l'attenzione, cansare in tanta varietà e spontaneità di movimenti il cumulo e l'imbroglio, ricondurti innanzi improvviso personaggi e avvenimenti che credevi da lui dimenticati, e nella maggiore apparenza del disordine raccogliere le fila, egli solo tranquillo e sorridente in mezzo al tumulto di tanti elementi cozzanti.
Parigi è il principal nodo dell'ordito, è come un faro, che di tanto in tanto brilla e illumina tutto intorno.
La scena si apre a Parigi, appunto allora che le genti cristiane hanno avuto una gran rotta.
E allora appunto, quando il bisogno è maggiore, Rinaldo, Orlando, Brandimarte vanno via.
Rinaldo corre dietro a Baiardo, Orlando corre dietro ad Angelica, e Brandimarte corre dietro ad Orlando.
Vi trovate già in pieno mondo cavalleresco: vi si sviluppano le avventure.
E mentre essi corrono, Agramante mette il fuoco a Parigi, e Rodomonte vi entra solo e vi sparge il terrore.
Parigi è salvato, perchè una pioggia miracolosa spenge l'incendio, e Rinaldo guidato dall'angiolo Michele giunge proprio a tempo e disfà i pagani.
Agramante che assediava, è assediato.
I cavalieri pagani sono anche erranti.
Ferraù cerca Orlando, a cui ha giurato di toglier l'elmo; Gradasso cerca Rinaldo, a cui vuol togliere Baiardo; Sacripante cerca Angelica; Marfisa, Rodomonte, Ruggiero, Mandricardo contendono e pugnano tra loro.
Riesce al demonio di farli correre appresso al ronzino di Doralice, che li tira seco a Parigi.
Giungono e disfanno i cristiani.
Ma il dì appresso si raccende la discordia e vengono alle mani.
Mandricardo è ucciso da Ruggiero; Marfisa e Rodomonte lasciano per ira il campo; e chi rimane? Rinaldo tra' cristiani, Ruggiero tra' pagani.
Un duello tra Rinaldo e Ruggiero dee porre fine alla guerra.
Ma Agramante rompe i patti, è disfatto, la sua flotta è dispersa da' nemici e da' venti, e vede di lungi la sua patria arsa da' cristiani.
Il poema cominciato a Parigi si termina a Parigi, con le nozze di Ruggiero e la morte di Rodomonte.
Parigi è il legame esteriore del racconto, ma non ne è l'anima o il motivo interiore.
Il motivo è lo spirito di avventura e la soddisfazione degli appetiti, l'amore, o il punto d'onore, o il maraviglioso, che tirasi appresso il cavaliere, quando non sia sviato e impedito da forze soprannaturali.
Il soprannaturale è qui come semplice macchina o forza, senza personalità; e forze sono e non persone Michele e il demonio e la Discordia e Atlante e Melissa.
È un soprannaturale privo di ogni aureola e prestigio, e tali sono pure le spade e gli scudi incantati, e gli anelli fatati, e gl'ippogrifi, e la lancia di Argalìa, e il corno di Astolfo, e simili storie viete e note, che lasciano fredda l'immaginazione del poeta.
Si è così avvezzi a questo soprannaturale, che ci si sta dentro come in un mondo ordinario; quel fantastico in permanenza uccide se stesso e perde le sue punte e i suoi colori; se interesse ci è, non è in quello, ma negli effetti tragici o comici che sa cavarne il poeta, come sono gli effetti comici del corno di Astolfo.
Tra questo mondo soprannaturale vive una forza indisciplinata e quasi ancora primitiva, nelle varie sue gradazioni, dal mostro e dal gigante e dal pagano sino al cavaliere cristiano, il cui modello è nel codice di onore, e che rappresenta la civiltà e il progresso nella comune barbarie.
I motivi spirituali di questo mondo, l'amore, l'onore e il maraviglioso o lo spirito di avventura, sono dal poeta portati a quell'ultimo punto che confina col ridicolo: l'amore toglie il senno ad Orlando ed imbestia Rodomonte; il punto d'onore degenera in puntiglio e produce i più strani effetti, la cui immagine tragica è Mandricardo, e il cui modello comico è Rodomonte nelle sue imprese sul ponte; il maraviglioso ti conduce sino alla soglia dell'inferno e nel paradiso terrestre e nel regno della Luna.
Il mondo cavalleresco ne' suoi motivi interni è spinto all'ultima punta.
Se l'elemento soprannaturale è fiacco, e la stessa Alcina pare quasi più una personificazione allegorica che una verace persona poetica, vivacissima è al contrario la pittura degli avvenimenti determinati da forze naturali e umane, che abbracciano tutto il circolo della vita nelle sue varie e contrarie apparenze.
Vi si sviluppano profonde combinazioni estetiche, serie e comiche; come è Angelica che finisce moglie di un povero fante, la pazzia di Orlando, la peregrinazione di Astolfo nella Luna, la discordia nel campo di Agramante, Agramante in vista di Biserta, e Gradasso fatato, che, guerreggiando tutta la vita per avere Baiardo e Durlindana, quando le ha ottenute e si crede felice, è ammazzato da Orlando.
Reminiscenza di Achille è Ruggiero, liberato dagli ozi del castello incantato e dalle delizie di Alcina, e riuscito il più perfetto modello di cavaliere.
Intorno a queste grandi combinazioni si aggruppano fatti minori, che danno il finito e il contorno a questo mondo nelle sue più lievi sfumature, come è la morte di Zerbino e il lamento d'Isabella, Olimpia abbandonata, la morte e le esequie di Brandimarte, le avventure di Grifone, Dudone, Marfisa, e le scene comiche di Martano, di Gabrina e di Giocondo.
Quantunque un mondo così fatto abbia un aspetto fuori dell'ordinario e si discosti tanto da' costumi e dal sentire del suo tempo, pure Ludovico ci sta così a suo agio e ne ha sì vivamente impressa l'immaginazione, che te lo dà alla luce con tutt'i caratteri di una vita presente e reale.
E qui è il maraviglioso del genio ariostesco, rappresentare un mondo così straordinario con semplicità e naturalezza.
Le condizioni di esistenza sono veramente fantastiche sino all'assurdo; ma una volta ammesse quelle basi, il movimento storico diviene profondamente umano e naturale.
Si vegga con che fine gradazioni psicologiche è condotto Orlando sino a perdere il senno, con che scala intelligente è rappresentato il dolore di Olimpia, o la discordia de' pagani nel campo di Agramante.
Perciò tutti quei personaggi ti stanno innanzi vivi, e non puoi dimenticarli più.
Alcuni anzi son divenuti caratteri comici proverbiali, come Rodomonte, Gradasso, Sacripante, Marfisa.
Il poeta non s'intromette niente nella sua storia, e più che attore, è spettatore che gode alla vista di quel mondo, quasi non fosse il mondo suo, il parto della sua immaginazione.
Indi quella perfetta obbiettività e perspicuità del mondo ariostesco, che è stata detta chiarezza omerica.
L'arte italiana in questa semplicità e chiarezza ariostesca tocca la sua perfezione, ed è per queste due qualità che l'Ariosto è il principe degli artisti italiani, dico «artisti» e non «poeti».
Non dà valore alle cose, slegate dalla realtà e puro gioco d'immaginazione; ma dà un immenso valore alla loro formazione, e intorno vi si travaglia con la maggiore serietà.
Non ci è così piccolo particolare, che non tiri la sua attenzione, e non abbia le sue ultime finitezze.
Appunto perchè l'interesse è non nella cosa, ma nella sua forma, la maniera sobria e comprensiva di Dante è abbandonata, e non hai schizzi, hai quadri finiti.
Ciò che nel Decamerone ti dà il periodo, qui te lo dà l'ottava, di una ossatura perfetta, e congegnata a modo di un quadro col suo protagonista, i suoi accessorii e il suo sfondo.
Il Poliziano ti dà una serie, di cui lascia il legame all'immaginazione: l'Ariosto ti dà un vero periodo, così distribuito e proporzionato che pare una persona.
E l'effetto è non solo in quella ossatura materiale così solida e bene ordinata, ma in quell'onda musicale, in quella superficie scorrevole e facile, che ti fa giungere all'anima insieme coi fatti i loro motivi e i loro affetti.
Nel secolo de' grandi pittori, quando l'immaginazione italiana mirava a dare all'immagine tutta la sua finitezza, l'Ariosto è pittore compìto, che non ti lascia l'oggetto finchè non ne abbia fatto un quadro.
E non è che cerchi effetti di luce o di armonia straordinari, o lusso di colori e di accessorii: non ci è ombra di affettazione, o di pretensione; ci è l'oggetto per se stesso, che si spiega naturalmente.
Il poeta fissa l'esteriorità nel punto che è viva, quando cioè è atteggiata così o così per movimenti interni o esteriori, e non osserva, non riflette, non la scruta, non l'interroga, non cerca al di dentro, non la palpa, non la maneggia per volerla abbellire.
Nessun movimento subbiettivo viene a turbare l'obbiettività del suo quadro; nessun movimento intenzionale.
Non ci è il poeta, ci è la cosa che vive, e si move, e non vedi chi la move, e pare si mova da sè! Questa sublime semplicità nella piena chiarezza della visione è ciò che il Galilei chiamava a ragione la «divinità» dell'Ariosto.
E non è solo nel minuto, ma nelle grandi masse.
La sua vista rimane tranquilla e chiara ne' più bruschi e complicati movimenti d'insieme.
Indi è che dipinge duelli, battaglie, giostre, feste, spettacoli, paesaggi, castella, con quella purezza e semplicità di disegno che dipinge le cose minime.
Nelle ottave del Poliziano la superficie non ha più nulla di scabro, ma ti accorgi che è stata strofinata, leccata, lisciata e si vede l'intenzione dell'eleganza.
Qui la superficie è così naturalmente piana, che ti par nata a quel modo e che non possa essere altrimenti.
Pigliamo ad esempio la rosa:
Questa di verdi gemme s'incappella;
quella si mostra allo sportel vezzosa;
l'altra, che in dolce foco ardea pur ora,
languida cade e il bel pratello infiora.
Qui la rosa m'ha aria di una fanciulla civettuola, che prende questa o quell'attitudine per parer vezzosa.
L'«incappellarsi», lo «sportello», quell'«ardere in dolce foco», sono immagini appiccatele da immaginazione umana.
È la rosa non nella sua naturalezza immediata, ma come pare all'uomo.
Ci si vede il lavoro dello spirito, che l'orna e la vezzeggia, la rosa passata attraverso lo spirito e uscitane trasformata.
Vedi ora nell'Ariosto, la rosa,
che in bel giardin su la nativa spina
mentre sola e sicura si riposa,
nè gregge nè pastor se le avvicina;
l'aura soave e l'alba rugiadosa,
l'acqua, la terra al suo favor s'inchina:
gioveni vaghi e donne innamorate
amano averne e seni e tempie ornate.
Ma non sì tosto dal materno stelo
rimossa viene e dal suo ceppo verde,
che quanto avea dagli uomini e dal cielo
favor, grazia e bellezza, tutto perde.
Questa è la storia o il romanzo della rosa.
Il poeta ha aria non di descrivere, ma di raccontare, e ti pone innanzi la cosa nella sua verità naturale, sì che niente paia oltrepassato, esagerato, o trasformato.
L'«alba rugiadosa», il «ceppo verde», la «nativa spina», i «gioveni vaghi», le «donne innamorate», i «seni e le tempie», il «gregge e il pastore» sono tutte immagini naturali, distinte, plastiche, obbiettive, prodotte da una immaginazione impersonale, assorbita dallo spettacolo.
E guarda alla movenza dell'ottava, con tanta semplicità che l'ultimo verso par ti caschi per terra, come vil prosa, a quel modo che è cascata la rosa da quella sua altezza verginale.
Gli è che qui eleganza, armonia, colorito non vengono da alcun preconcetto dello spirito, ma sono la forma stessa delle cose, non il loro ornamento o la loro veste, ma la loro chiarezza.
Come le cose minime, così le grandi masse sono disegnate con la stessa perspicuità e purezza.
Fra tante battaglie e duelli e incanti e paesaggi non trovi mai ripetizioni o reminiscenze, perchè ciascuna cosa è come un individuo perfettamente distinto e caratterizzato.
Quadro, piccolo o grande che sia, prende la sua movenza e il suo colore dalla cosa rappresentata, e però ciascun quadro è in sè distinto e compìto, condotto e disegnato negli ultimi particolari.
Lo spirito ne' suoi preconcetti è limitato, e produce la «maniera», che ti pone innanzi non la cosa vista, ma il modo di guardarla, la visione: e perciò facilmente imitabili sono i poeti subbiettivi, ne' quali prevale la maniera, come il Petrarca, il Tasso, il Marino, e simili.
Al contrario inimitabile è l'Ariosto che non ha maniera, perchè è tutto obbliato e calato nelle cose, e non ha un guardare suo proprio e personale.
Anzi egli ha una perfetta bonomia, un'aria di raccontare alla schietta e alla buona, come le cose gli si presentano, senza mettervi niente di suo.
Ha un ingegno poroso, che riceve e rende le cose nella evidenza e distinzione della loro personalità, senza che esse trovino ivi intoppo o alterazione.
Perciò il suo ingegno è trasmutabile in tutte guise, non secondo il suo umore, ma secondo la varia natura delle cose.
Con la stessa facilità e sicurezza vien fuori l'eroico, il tragico, il comico, l'idillico, il licenzioso, come qualità naturali delle cose, anzi che del suo spirito.
Di che viene l'evidenza miracolosa di questo mondo nella sua infinita varietà e libertà, e la sua serietà artistica nel suo insieme e nelle minime parti.
L'evidenza è in quel coglier gli oggetti vivi, cioè in azione, e metterti innanzi tutti gli accessorii essenziali, anch'essi in azione, cioè come movimenti, attitudini o motivi, accessorii che Dante fa indovinare, e che qui si sviluppano nelle larghe pieghe dell'ottava.
E perchè gli oggetti sono còlti in azione o in movimento, le descrizioni sono rare e sobrie, e appena accennati i caratteri e i paesaggi, che sono l'uomo e la natura nel loro stato d'immobilità, e abbozzate le intramesse e le commettiture e le circostanze facilmente intelligibili, e gli antecedenti richiamati brevemente, e l'azione colta nel momento più interessante e condotta innanzi con le vele gonfie e con prospero vento.
Mai non ti accade d'impaludare o di deviare: come in questo mondo par che non esistano limiti di spazio o di tempo, così nello stile non trovi intoppi o ingombri, e sei in acqua limpida e corrente.
Tutto è succo e pieno di senso.
Niente ci sta in modo assoluto: tutto è relativo e intenzionale, e concorre all'effetto, ora serio ora comico.
L'effetto è quale te lo può dare un mondo di sola immaginazione, al quale il poeta non prende altra partecipazione che artistica, che non ha alcuna relazione con le sue passioni e i suoi sentimenti.
L'effetto è una viva curiosità sempre nutrita e accompagnata spesso da una tranquilla soddisfazione, come chi sa di sognare, e gli piace, e tiene gli occhi mezzo chiusi, immerso in quella contemplazione.
Il sogno gli piace, pure non dice nulla al suo cuore e alla sua mente: è un dolce ozio dell'immaginazione.
È un flutto d'immagini così vive e limpide, così naturali e così espressive, che ti tengono a sè e non ti concedono alcuna distrazione; e ti giungono portate da onde sonore, tra colori e tra mormorii, che dilettano la vista e suonano deliziosamente nell'orecchio.
Quel mondo è il tuo rêve, o per dirla con linguaggio tolto a quel mondo, è il tuo castello incantato, il tuo sogno dorato.
L'impressione non è così profonda che oltrepassi l'immaginazione e colpisca il tuo essere in ciò che di più serio ha il pensiero o il sentimento.
La più gagliarda impressione ti suscita appena una emozione, nuvoletta nel suo formarsi già sciolta in quel limpido cielo.
Di queste nuvolette leggiere, appena disegnate, è sparso il racconto, e sono movimenti subitanei che provocano una risata o una lacrima, immediatamente repressi e trasformati.
Eccone qualche esempio:
- Nè men ti raccomando ancora la mia Fiordi...
-
ma dir non puote «ligi», e qui finìo...
Stese la mano in quella chioma d'oro,
e strascinollo a se' con violenza;
ma come gli occhi in quel bel volto mise,
gli ne venne pietade e non l'uccise.
Così subitanee e così fugaci sono le tue emozioni, quando ti balzano innanzi certe immagini tenere.
Si sveglia subito nel tuo cuore qualche cosa che si move, e che non puoi chiamare ancora «sentimento», quando una nuova immagine ti avverte del gioco e ricaschi nella tranquillità della tua visione.
Una delle creature più simpatiche dell'Ariosto è Zerbino, e quando gli giunge addosso la spada di Mandricardo, ci è nel nostro cuore un piccol movimento, che risponde ai palpiti della sua Isabella; ma il poeta con una galanteria piena di grazia paragona la lunga e non profonda ferita al nastro purpureo, che partisce la tela d'argento ricamata dalla sua bella, e spenge in sul nascere quel movimento.
La morte di Zerbino è una scena molto tenera, il cui sentimento troppo straziante è rintuzzato da immagini graziosissime.
Isabella è china sul morente: il poeta la guarda, e la trova pallidetta come rosa:
rosa non còlta in sua stagion, sì ch'ella
impallidisca in su la siepe ombrosa.
Zerbino, morendo, nella sua disperazione manda un ultimo sguardo pieno di passione all'amata:
per queste bocca e per questi occhi giuro,
per queste chiome onde allacciato fui...
Talora è una sola circostanza ben collocata, che dal sentimentale ti gitta nell'immagine:
e straccia a torto l'auree crespe chiome.
A quest'ufficio adempiono specialmente i paragoni, che nel più vivo dell'emozione te ne distraggono e ti presentano un altro oggetto.
Sacripante nel suo dolore paragona la verginella alla rosa.
Angelica incalzata da Rinaldo pare una cavriola fuggente, che abbia veduta la madre sotto i denti del pardo:
ad ogni sterpo che passando tocca,
esser si crede all'empia fera in bocca.
L'«impasto leone», l'«uscito di tenebre serpente», l'«orsa assalita nella petrosa tana», il «vase a bocca stretta e a lungo collo, onde l'acqua esce a goccia a goccia», e simili spettacoli, non nuovi e non originali, come presso Dante, ma di apparenze e movenze vivacissime, sono gagliarde diversioni e distrazioni che riconducono la vita al di fuori anche nel maggiore strazio della passione.
Veggasi nel canto quarantacinquesimo il lamento di Bradamante, che è una vera canzone elegiaca, sparsa di amabili paragoni.
Quell'occhio vagante, che cerca se stesso nella natura, ha già rasciutte le lacrime.
Onde nasce quel tono generale del sentimento più vicino all'elegiaco e all'idillico che all'eroico e al tragico; ciò che è conforme non pure alla natura impressionabile e tenera del poeta, ma alla stessa tendenza dell'arte, dal Petrarca in qua.
Anche la natura rimane tutta al di fuori e non ti cerca l'anima, com'è il giardino di Alcina e il paradiso terrestre.
Ci è l'immagine, non ci è il sentimento:
Zaffir, rubini, oro, topazi e perle
e diamanti e crisoliti e iacinti
potriano i fiori assimigliar che per le
liete piagge v'avea l'aura dipinti...
Cantan fra i rami gli augelletti vaghi
azzurri e bianchi e verdi e rossi e gialli,
murmuranti ruscelli e cheti laghi
di limpidezza vincono i cristalli.
Qual è il suono che manda questa natura? Quali impressioni? Quali ispirazioni? Astolfo fra tanta bellezza guarda e passa, e non gli si move il core che di maraviglia alla vista di un muro che è tutto di una gemma
più che carbonchio lucida e vermiglia.
O stupenda opra! O dedalo architetto!
Non hai dunque il sentimento della natura, come non hai il sentimento della patria, della famiglia, dell'umanità, e neppure dell'amore, dell'onore.
In luogo del sentimento hai la sentenza morale, che è la sua astrazione, il sentimento naturalizzato e cristallizzato in bei versi, come:
il miser suole
dar facile credenza a quel che vuole.
Ecco magnifiche sentenze intorno all'amore:
Quel che l'uom vede, Amor gli fa invisibile,
e l'invisibil fa vedere Amore.
Che non può far di un cor che abbia suggetto
questo crudele e traditore Amore?...
Che lietamente in sul principio applaude,
e tesse di nascosto inganno e fraude.
...
...
Amor che sempre
d'ogni promessa sua fu disleale,
e sempre guarda come involva e stempre
ogni nostro disegno razionale...
Io dico e dissi e dirò finch'io viva
che chi si trova in degno laccio preso
pur che altamente abbia locato il core
pianger non dee, se ben languisce e muore.
Chi mette il piè sull'amorosa pania,
cerchi ritrarlo e non v'inveschi l'ale:
chè non è in somma amor se non insania,
a giudizio de' savi universale.
Oh gran contrasto in giovenil pensiero
desir di lauda ed impeto d'amore!
Né, chi più vaglia, ancor si trova il vero,
chè resta or questo, or guel superiore.
Amor sempre rio non si ritrova:
se spesso nuoce, anche talvolta giova.
La lunga absenzia, il veder vari luoghi,
praticare altre femmine di fuore,
par che sovente disacerbi e sfogli
dell'amorose passïoni il core.
Amor dee far gentile un cor villano,
e non far d'un gentil contrario effetto.
Queste sentenze non sono osservazioni profonde e originali, ma luoghi comuni assai bene versificati, che non lasciano alcun vestigio di sè.
Il sentimento, ora condensato in una sentenza, ora tradotto in una immagine, appena nato, si dissolve.
Non mancano tratti sentimentali, come è la risposta di Dardinello a Rinaldo, o di Agramante a Brandimarte, o i lamenti di Olimpia o di Orlando o di Cloridano così musicali ed elegiaci; ma stanno come inviluppati in quel mare fantastico, e naufragati sotto a quei flutti d'immagini.
Sono voci d'angoscia e di passione, che prima di giungere a noi già si confondono col rumore delle onde e diventano visibili: sono immagini Un ultimo esempio ce lo dà Orlando, che piangendo e chiamando Angelica la paragona ad un'agnella smarrita, e ci fa intorno de' ricami.
In una società così poco sentimentale, così superficiale e mobile, e così ricca d'immaginazione, come povera di coscienza, si può concepire quale viva ammirazione dovessero destare questi quadri plastici.
La nuova letteratura iniziata in quei giri musicali del Decamerone si contemplava e si ammirava in queste flessuose ottave, dove la vita nella sua rapida vicenda è così palpabile e così limpida «Procul este, profani.» Nessuna ombra del reale, nessuno spettro del presente, nessuna voce profonda del cuore o della mente venga a turbare questa danza serena.
Siamo nel regno della pura arte: assistiamo a' miracoli dell'immaginazione.
Il poeta volge le spalle all'Italia, al secolo, al reale e al presente, e naviga come Dante in un altro mondo, e quando dalla lunga via ritorna, si circonda, come d'una corona, di poeti e di artisti, vera immagine di quella Italia, madre della coltura e dell'arte, a cui egli presentava l'Orlando.
Ma Dante si traeva appresso nell'altro mondo tutta la terra: la patria lo inseguiva anche colà co' suoi fantasmi.
Ludovico naviga con la testa scarica e il cuore tranquillo, come un pittore che viaggia e dipinge quello che vede.
Ciò che gli fa tremare la mano, ciò che gli fa battere il cuore, è questo solo pensiero: «Quello che mi sta nella testa, quello che io vedo così bene qua dentro, uscirà così sulla tela?».
E tocca e ritocca, sino alla morte, scontento, inquieto: perchè non è tranquillo, chi ha qualche cosa a realizzare, sulla terra.
Ciò che Ludovico ha a realizzare non è questo o quel contenuto nella sua realtà e serietà.
Il mondo cavalleresco è per lui fuori della storia, libera creatura della sua immaginazione.
Ciò che ha a realizzare in quello è la forma, la pura forma, la pura arte, il sogno di quel secolo e di quella società, la musa del Risorgimento.
Ed ha tutte le qualità da ciò.
Ha sensibilità più che sentimento; ha impressioni ed emozioni più che passioni; ha vista chiara più che profonda; ha l'anima tranquilla, sgombra di ogni preoccupazione, piena di fantasie, allegra nella produzione, e tutta versata al di fuori nei suoi fantasmi.
È lo spirito non ancora consapevole, che vive al di fuori e si espande nel mondo e s'immedesima con quello e lo riflette puro con brio giovanile.
Così è venuto fuori quasi di un getto, quasi per generazione spontanea, questo mondo cavalleresco, sorriso dalle Grazie, di una freschezza eterna, tolto alle ombre e a' vapori e a' misteri del medio evo, e illuminato sotto il cielo italiano di una luce allegra e soave.
Niente è uscito dalla fantasia moderna che sia comparabile a questo limpido mondo omerico.
Il Risorgimento realizzava il suo sogno, la nuova letteratura avea trovato il suo mondo.
E che cosa volea questa nuova letteratura? Non volea già questo o quel contenuto.
Era scettica e cinica, e credeva solo all'arte.
E l'Ariosto le dava questo mondo dell'arte in un contenuto di pura immaginazione.
Ma non ci accostiamo molto a questa bella esteriorità.
Se ci mettiamo sopra la mano, la ci fugge come ombra, e se guardiamo al di sotto, pare non ci sia nulla.
Quando leggi Omero, senti uscirne, non sai come, le mille voci della natura, che trovano un'eco nelle tue fibre, e sembrano le tue voci, le voci della tua anima.
Gli è che ivi la forma è esso medesimo il contenuto, e il contenuto sei tu, è vita della tua vita, è sangue del tuo sangue.
Qui il contenuto è un giuoco della immaginazione, e non ti ci profondi e non ti ci appassioni, appunto perchè hai il sentimento che è un giuoco.
Talora sta per spuntarti la lacrima, quando ti svegli di un tratto e scoppi in una risata.
Pare, ma non è vero, che al di sotto di questa bella esteriorità non ci è nulla.
Al di sotto ci è Momo, ci è lo spirito di Giovanni Boccaccio.
L'elemento dell'arte negativo e dissolvente avea già percorso tutto il suo ciclo a Firenze, giunto sino alla pura buffoneria.
Il Boccaccio, il Sacchetti, il Magnifico, il Pulci, il Berni hanno il proposito espresso della caricatura, hanno innanzi un mondo reale, di cui mettono in rilievo il lato comico.
L'Ariosto non ha intenzione di mettere in gioco la cavalleria, come fece il Cervantes, e nel suo mondo s'incontrano episodi comici, e anche licenziosi, e anche grotteschi, come la Gabrina, con la stessa indifferenza che s'incontrano episodi tragici ed elegiaci.
Ma, se il suo riso non è intenzionale, non è neppure un semplice mezzo di stile per divertire i lettori buffoneggiando, come fece poi il Berni nel suo Orlando.
Il suo riso è più serio e più profondo.
È il riso dello spirito moderno, diffuso sul soprannaturale di ogni qualità; è, se non ancora la scienza, il buon senso, generato da un sentimento già sviluppato del reale e del possibile, è il riso precursore della scienza.
Ludovico è innanzi tutto un artista.
A questo mondo cavalleresco egli non ci crede; pur se ne innamora, ci si appassiona, ci vive entro, ne fa il suo mondo, più serio a lui che tutto il mondo che lo circonda.
Ma è un amore, un interesse semplicemente di artista.
La sua immaginazione se lo assimila, ne acquista una piena intelligenza, fa e disfà, compone e ricompone, con assoluta padronanza, come materia di cui conosce tutti gli elementi, e che atteggia e configura a suo genio.
La materia, in Dante così resistente e scabra, qui perde i suoi angoli e le sue punte, e come cera, riceve tutte le impressioni.
L'immaginazione le si accosta sgombra di ogni preconcetto e di ogni intenzione, e vi si cala e vi si obblia, e pare non sia altro che la stessa materia.
Il creatore è scomparso nella creatura.
L'obbiettività è perfetta.
Ma guarda bene, e vedrai sulla faccia di quella creatura la fisonomia poco riverente di colui che l'ha creata, e che in certi momenti pare si burli della tua emozione e ti squadri la mano.
Non sai se è di te che si burli o della sua creatura, e a ogni modo ci mette una grazia, che gli daresti un bacio.
La burla ti coglie improvviso, nella maggiore serietà della rappresentazione.
Una barzelletta, un motto ti disfà in un istante le creazioni più interessanti, e ti avviene così spesso, che non ti abbandoni più e prendi guardia, e ti avvezzi a poco a poco a quell'ambiente equivoco nel quale si aggira quel mondo.
Quando l'autore sembra interamente scomparso nella sua creazione, tu non te la lasci fare, e sai che un bel momento metterà fuori il capo e ti farà una smorfia.
Di sotto a quella obbiettività omerica si sviluppa di un tratto sotto forma d'ironia l'elemento subbiettivo e negativo.
Cosa è dunque questo mondo? È la sintesi del Risorgimento nelle sue varie tendenze.
È il medio evo, il mondo chiamato «barbaro», il passato, rifatto dall'immaginazione e disfatto dallo spirito.
Ci è lì dentro quel sentimento dell'arte, quel culto della forma e della bellezza, quella obbiettività di una immaginazione giovane, ricca, analitica, pittoresca, che caratterizza la nuova letteratura, che genera i miracoli della pittura e dell'architettura, e che lì giunge alla sua perfezione, congiunta con lo splendore e con l'armonia la massima semplicità e naturalezza di disegno.
E c'è insieme quell'intimo senso dell'uomo e della natura, o del reale, che ti atteggia il labbro ad un ghigno involontario, quando ti vedi sfilare innanzi un mondo fuori della natura e fuori dell'uomo, generato dalla tua immaginazione.
Tu ammassi le nuvole; tu le configuri; tu formi i magnifici spettacoli; e tu te la ridi, perchè sai che quel mondo sei tu che lo componi, e non ci vedi altra serietà se non quella che gli dà la tua immaginazione.
Tu sei a un tempo fanciullo e uomo.
Come fanciullo, senti bisogno di esercitare la tua immaginazione, e formi soldati e castelli e ci fantastichi intorno; ma ecco sopraggiungere l'uomo, che ti fa un ghigno, e quel ghigno vuol dire: - Sono soldati e castelli di carta.
- La cultura è nel suo fiore, l'immaginazione è nel maggior vigore della sua espansione, ed opera i più grandi miracoli dell'arte; ma lo spirito è già adulto, materialista e realista, incredulo, ironico, e si trastulla a spese della sua immaginazione.
Questo momento dello spirito moderno, che ricompone il passato non come realtà, ma come arte, e, appunto perchè semplice gioco d'immaginazione o arte pura, lo perseguita della sua ironia, è la vita interiore del mondo ariostesco, è il suo organismo estetico.
Prendi un quadro di Raffaello ed un sonetto del Berni, ed avrai accentuati gli estremi, tra' quali erra questa unità superiore, dove sono fusi e contemperati ciò che è troppo ideale nell'uno e ciò che è troppo grossolano nell'altro.
La quale fusione è fatta con gradazioni così intelligenti e con passaggi così naturali, e il lettore fin dal principio vi è così ben preparato, che non hai dissonanze o stonature, e niente ti urta, perchè il poeta opera senza coscienza o intenzione, e concepisce a quel modo naturalmente, ed è lui medesimo l'unità che comunica al suo mondo.
Vedi come concepisce.
Il protagonista non è il savio Orlando, ma Orlando matto e furioso.
Questo tipo della cavalleria così trasformato è già una concezione ironica.
Ma guarda ora come vien fuori questa concezione.
Il momento della pazzia è rappresentato con tale realtà di colorito, che la tua illusione è perfetta.
Ci si vede una profonda conoscenza della natura umana nelle sue più fine gradazioni.
È un «crescendo» di particolari e di colori, che ti rendono naturalissimo un fatto così straordinario.
Venuto in furore e matto, il poeta te lo abbandona alle risate del pubblico.
Ad una scena tenera succede la più schietta allegrezza comica, la caricatura spinta sino alla buffoneria.
Anche il modo come Orlando riacquista il senno ha un profondo senso comico.
Secondo le tradizioni del medio evo, l'uomo non può trovare la pace che nell'altro mondo.
È la base della Divina Commedia.
Il poeta materializza questo concetto e lo rende comico, cavandone la bizzarra concezione che ciò che si perde in terra, si ritrova nell'altro mondo.
Di qui il viaggio di Astolfo sull'ippogrifo nell'altro mondo, che è una vera parodia del viaggio dantesco.
Il fumo e il puzzo gl'impedisce di entrare nell'inferno; ma all'ingresso trova le prime peccatrici, punite, come Lidia, per la soverchia crudeltà verso gli amanti.
È il concetto della Francesca da Rimini preso a rovescio, e divenuto comico.
Poi sale al paradiso terrestre, e in un bel palagio di gemme trova san Giovanni evangelista, Enoch ed Elia, che gli danno alloggio in una stanza e provvedono di buona biada il suo cavallo, e a lui danno frutti di tal sapore,
che a suo giudicio sanza
scusa non sono i due primi parenti
se per quei fur sì poco ubbidienti.
Astolfo vi trova buon cibo, buon riposo e «tutt'i comodi».
È il paradiso terrestre materializzato.
Di là, «uscito del letto», con san Giovanni ascende sulla Luna.
Qui la parodia prende forma satirica, senza fiele e in aria scherzosa.
In un vallone è ammassato ciò che in terra si perde:
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l'inutil tempo che si perde a giuoco,
e l'ozio lungo d'uomini ignoranti;
vani disegni che non han mai loco,
i vani desidèri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.
Per comprendere questa ironia, bisogna ricordare che la Luna era come un castello di Spagna o un castello in aria nelle idee popolari, e anche oggidì uno che vive nelle astrattezze si dice che «sta nel regno della luna».
Là si trova in varie ampolle un liquore sottile e molle, che è il senno che si perde in terra.
Di sofisti e di astrologhi raccolto
e di poeti ancor ve n'era molto.
Chiama sofisti i filosofi e li mette a un mazzo con gli astrologhi e i poeti.
Dove il medio evo vedea il maggior senno, egli vede vacuità e astrazione.
La fine è di una schietta allegria:
e vi son tutte l'occorrenze nostre;
sol la pazzia non v'è poca, nè assai,
chè sta qua giù, nè se ne parte mai.
L'ironia colpisce anche Angelica, la figliuola del maggior re del Levante, l'amata di Orlando, di Rinaldo, di Sacripante, di Ferraù, che finisce moglie di un «povero fante».
La scena comincia nel Boiardo con le più eroiche apparenze della cavalleria, giostre, tornei, duelli, con Carlomagno circondato de' suoi paladini, tra il fiore de' cavalieri di Francia, di Spagna, di Lamagna, d'Inghilterra, tra cui pompeggia la figura di Angelica, la reina del racconto; e va a finire in un idillio, negli amori di Angelica e Medoro.
Ciò che nel Boiardo ha proporzioni epiche e cavalleresche, soprattutto nelle battaglie di Albracca, passando nel cervello di Ludovico, si trasforma in una concezione ironica.
Anche nella guerra tra Carlo e Agramante, unità esteriore e meccanica del poema, la cavalleria è guardata da un aspetto comico.
Il lato eroico della cavalleria è l'individualità, quella forza d'iniziativa che fa di ogni cavaliere l'uomo libero, che trova il suo limite in se stesso, cioè a dire nelle leggi dell'amore e dell'onore, a cui ubbidisce volontariamente.
Togli il limite, e l'iniziativa individuale diviene confusione e anarchia, l'eroico divien comico.
Il cavaliere non ubbidisce più che a' suoi istinti e passioni; si sviluppa in lui la parte bestiale, nascono collisioni e attriti del più alto effetto comico.
Il concetto è già adombrato con brio nel ritratto della Discordia, capitata da san Michele in un convento di frati, «tra santi ufficii e messe»:
avea dietro e dinanzi e d'ambi i lati
notai, procuratori ed avvocati.
Questa scena, dove sono attori san Michele, il Silenzio, la Frode, la Discordia, è ammiratissima per originalità di concezione e fusione di colori:
Dovunque drizza Michelangel le ale,
fuggon le nubi e torna il ciel sereno,
gli gira intorno un aureo cerchio, quale
veggiam di notte lampeggiar baleno.
Versi stupendamente epici, che vanno digradando fin nel satirico con naturali mutamenti di tono.
Ed è un satirico ancora più efficace, perchè non ci è apparenza d'intenzione satirica, anzi ci si rivela una bonomia, un'aria senza malizia, dov'è la finezza dell'ironia ariostesca.
La Discordia fa il suo mestiere, e ne viene la famosa scena nel campo di Agramante rimasta proverbiale dov'è il vero scioglimento dell'azione, il motivo interno della dissoluzione e della sconfitta dell'esercito pagano.
I movimenti comici in questa scena sono più nelle cose che nelle frasi, fondati su quel subitaneo e impreveduto delle impressioni e degl'istinti che toglie luogo alla riflessione e spinge i cavalieri gli uni contro gli altri.
Rodomonte è il più spiccato carattere di questo genere, ed è rimasto proverbiale, mistura di forza e di coraggio e di bestialità.
Le sue imprecazioni contro le donne, la sua credulità e sciocchezza nel fatto d'Isabella, la sua comica lotta col pazzo Orlando, la sua scurrilità e grossolanità verso Bradamante sono tratti felicissimi, che mettono in evidenza il cavaliere errante nel suo aspetto comico, materia gigantesca vuota di senno, grossolana e bestiale.
Il contrapposto è Ruggiero, «di virtù fonte», nel quale il poeta ha voluto rappresentare la parte seria ed eroica del cavaliere, leale, gentile, magnanimo.
Nella sua concezione ci entra un po' l'Achille omerico, un po' Damone e Pizia, Quinzio e Flaminio, collisioni tra l'onore e l'amore, tra l'amore e l'amicizia, da cui escono molti effetti drammatici.
Ma chi ha studiato un po' Ludovico, come si dipinge egli medesimo, vede che l'uomo è al di sotto del poeta nè in lui ci è la stoffa, da cui escono le grandi figure eroiche, ne ci è nel suo tempo.
Manca al suo eroe prediletto semplicità e naturalezza: l'eroico va digradando nel fantastico e nell'idillico.
Perciò il suo Ruggiero non ha potuto togliere il posto a Orlando e Rinaldo, gli eroi dell'antica cavalleria, e malgrado le sue simpatie pel fondatore di casa d'Este, l'interesse è assai più per Orlando e Rodomonte, creazioni geniali e originali.
L'ironia è non solo nella concezione fondamentale del poema, ma negli accessorii cavallereschi.
L'amore di Orlando verso Angelica è stato perfettamente cavalleresco, sì che, avendola per molto tempo in sua mano, non le ha tolto l'onore, «almeno» secondo che Angelica ne assicura Sacripante, il quale dal canto suo non vuole essere «così sciocco».
Doralice piange la morte di Mandricardo; ma, se non fosse vergogna, andrebbe «forse» a stringer la mano a Ruggiero:
Io dico «forse», non ch'io ve l'accerti,
ma potrebbe esser stato di leggiero...
Per lei buono era vivo Mandricardo;
ma che ne volea far dopo la morte?
Un riso scettico aleggia sulle virtù cavalleresche e sui grandi colpi de' cavalieri, quei gran colpi «ch'essi soli sanno fare».
Una frase, un motto scopre l'ironia sotto le più serie apparenze.
È un riso talora a fior di labbra, appena percettibile nella serietà della fisonomia.
Questo risolino che quasi involontariamente erra tra le labbra e non si propaga sulla faccia, e non degenera che assai di rado in aperta e sonora risata, questa magnifica esposizione artistica che ti dà tutta l'apparenza e l'illusione della realtà nelle cose più strane e assurde, tutto questo, fuso insieme senz'aria d'intenzione e di malizia e con perfetta bonarietà, ti mostra la concezione come un corpo in movimento e cangiante, che non puoi fissare e definire, più simile a fantasma che a corpo.
Non sai se è cosa seria o da burla; pur ti piace, perchè, mentre la tua immaginazione è soddisfatta, il tuo buon senso non è offeso, e contempli le vaghe fantasie egregiamente dipinte di secoli infantili col risolino intelligente di un secolo adulto.
Questo mondo, dove non è alcuna serietà di vita interiore, non religione, non patria, non famiglia, e non sentimento della natura, e non onore e non amore, questo mondo della pura arte, scherzo di una immaginazione che ride della sua opera e si trastulla a proprie spese, è in fondo una concezione umoristica profondata e seppellita sotto la serietà di un'alta ispirazione artistica.
Il poeta considera il mondo non come un esercizio serio della vita nello scopo e ne' mezzi, ma come una docile materia abbandonata alle combinazioni e a' trastulli della sua immaginazione.
Ci è in lui la coscienza che il suo lavoro è così serio artisticamente, come è serio il lavoro di Omero, di Virgilio o di Dante, e ci è insieme la coscienza che è un lavoro semplicemente artistico, e perciò dal punto di vista del reale uno scherzo, o come dicea il cardinale Ippolito, una «corbelleria».
E sarebbe stato una corbelleria, se l'autore avesse voluto dargli più serietà che non portava, e fondarvi sopra una vera epopea.
Ma la corbelleria diviene una concezione profonda di verità, perchè il poeta è il primo a riderne dietro la tela, ed ha l'aria di beffarsi lui de' suoi uditori.
Questo stare al di sopra del mondo, e tenerne in mano le fila, e fare e disfare a talento, considerandolo non altrimenti che un arsenale d'immaginazione, è ciò che dicesi «capriccio» e «umore».
Se non che il poeta è zimbello spesso della sua immaginazione, e si obblia in quel suo mondo, e gli dà l'ultima finitezza.
Di che nasce che l'umore piglia la forma contenuta dell'ironia, e tu ondeggi in una atmosfera equivoca e mobile, dove vizio e virtù, vero e falso confondono i loro confini, e dove tutto è superficie, passioni, caratteri, mezzi e fini, superficie maravigliosa per chiarezza, semplicità e naturalezza di esposizione, che all'ultimo dispare come un fantasma, cacciato via da una frase ironica, dispare, ma dopo di avere destata la tua ammirazione e suscitate in te molte emozioni.
In questo mondo fanciullesco dell'immaginazione, dove si rivela un così alto sentimento dell'arte e insieme la coscienza di un mondo adulto e illuminato, si dissolve il medio evo e si genera il mondo moderno.
E perchè questo è fatto senza espressa intenzione, anzi con la bonomia e naturalezza di chi sente e concepisce a quella guisa, i due mondi non sono tra loro in antitesi, come nel Cervantes, ma convivono, entrano l'uno nell'altro, sono la rappresentazione artistica dell'un mondo con sópravi l'impronta dell'altro.
In questa fusione più sentita che pensata, e che fa dell'autore e della sua creazione un solo mondo armonico perfettamente compenetrato, sta la verità e la perpetua giovinezza del mondo ariostesco, per la sua eccellenza come opera di pura arte il lavoro più finito dell'immaginazione italiana, e per il profondo significato della sua ironia una colonna luminosa nella storia dello spirito umano.
XIV
LA MACCARONEA
Mentre Ludovico componeva il suo Orlando a Ferrara, Girolamo Folengo vi facea i primi studi sotto la guida di un tal Cocaio.
Era di Cipada, villaggio mantovano, di famiglia nobile e agiata.
Strinse conoscenza con Ludovico.
Comparivano allora in istampa la Spagna, il Buovo, la Trebisonda, l'Ancroia, il Morgante, il Mambriano del Cieco di Ferrara, l'Orlando innamorato.
Avea il capo pieno di romanzi più che di grammatica, e pensò rifare l'Orlando innamorato, ma saputo del Berni, smise per allora.
Andato in istudio a Bologna, fu discepolo del Pomponazzi, che dava bando al soprasensibile e al sopranaturale, e predicava il più aperto naturalismo.
Gli studenti erano ordinati a modo di casta, con le loro leggi e privilegi, capi i più arrischiati e baldanzosi, tra' quali era un giovane mantovano, chiamato con lo stesso nome di Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, che lo tenne a battesimo.
Vive erano tra loro le reminiscenze cavalleresche, rinfrescate dalla lettura; e duelli, sfide, avventure, imprese amorose erano una parte della loro vita, più interessante che le lezioni accademiche.
Fra tanti capi ameni ci era Girolamo, che per le sue eccentricità si fe' mandar via da Bologna, e non fu voluto ricevere in casa il padre, sicchè finì frate in Brescia, ribattezzatosi Teofilo.
Ma ne fuggì con una donna, e ricomparso nel secolo, per campare la vita si die' a scriver romanzi, sotto il nome di quel tal Cocaio, postogli a' fianchi, Cassandra inascoltata, dal padre, e di Merlino, il celebre mago de' romanzi di cavalleria.
Ebbe fama, ma quattrini pochi, e Merlino il «pitocco», come si chiama nel suo Orlandino, stanco della vita errante, si rifece frate, scrisse poesie sacre, e morì pentito e confesso e da buon cristiano, come il Boccaccio.
Merlino, o piuttosto Teofilo, o piuttosto Girolamo, era, come vedete, uno di quegli uomini che si chiamano «scapestrati», e fin dal principio perdono l'orizzonte, e fanno una vita «sbagliata».
Messosi fuori di ogni regola e convenienza sociale, in una vita equivoca, non laico e non frate, tra miseria e dispregio, si abbrutì, divenne cinico, sfrontato e volgare.
Trattò la società come nemica, e le sputò sul viso, prorompendo in una risata pregna di bile.
Ridere a spese delle forme religiose e cavalleresche era moda; egli ci mise intenzione e passione.
Ciò che negli altri era colorito, in lui fu l'obbiettivo, lo scopo.
E a questa intenzione furono armi una fantasia originale, una immaginazione ricca e una vena comica tra il buffonesco e il satirico.
La sua prima concezione, come ci assicura quel tal Cocaio, fu l'Orlandino o le geste del piccolo Orlando, poema in ottava rima e in otto capitoli.
Lo chiama la prima deca «autentica» di Turpino, stimando apocrife tutte le storie in voga, eccetto quelle del Boiardo, del Pulci, dell'Ariosto e del Cieco da Ferrara:
Apocrife son tutte e le riprovo,
come nemiche d'ogni veritate;
Boiardo, l'Ariosto, Pulci, e il Cieco
autenticati sono ed io con seco.
Ma Orlando nasce al settimo capitolo, e quando comincia appena a vivere, finisce il poema.
Forse il poco successo gli tolse la voglia di andare innanzi.
La forma è orrida, irta di barbarismi e solecismi, e confessa egli medesimo che i lettori vi trovavano
oscuri sensi ed affettate rime.
- Ma che colpa ci ho io? - Soggiunge Merlino:
Non tutti Sannazzari ed Ariosti,
non tutti son Boiardi ed altri eletti,
li cui sonori accenti fur composti
dell'alma Clio negli ederati tetti,
tetti si larghi a lor, a noi sì angosti,
e rari son pur troppo gli entro accetti!
Ho riportato questi versi come esempio.
Era di scarsa coltura, e lo chiamavano per istrazio il «grammatico»,
che tanto è a dire quanto un puro asino;
e poco studioso della lingua chiamava chiacchieroni i toscani, che accusavano lui di lombardismi e latinismi:
Tu mi dirai, lettor, ch'io son lombardo
e più sboccato assai di un bergamasco;
grosso nel profferir, nel scriver tardo,
però dal Tosco facilmente io casco.
Una lingua cruda, che è una miscela di voci latine, lombarde, italiane e paesane senza gusto e armonia, uno stile stecchito, asciutto, lordo e plebeo, spiegano la fredda accoglienza di un pubblico così colto e artistico.
Il concetto è la difesa delle inclinazioni naturali contro le restrizioni religiose, con pitture satiriche de' chierici, «qui praedicant ieiunium ventre pleno».
Vi penetrano alcune idee della Riforma, come nella preghiera di Berta, non a' santi, dic'ella, ma a Dio, e mescolate con invettive e buffonerie a spese de' frati o «incappucciati», con bile e stizza di frate sfratato.
Il che non procede da fede intellettuale e non da indignazione di animo elevato, ma da scioltezza di costumi e di coscienza.
Veggasi ad esempio il ritratto di Griffarrosto, allusione al priore del suo convento, ritratto osceno e bilioso, tra il ringhio del cane e gli attucci senza vergogna della scimmia.
La sua caricatura de' tornei cavallereschi, concepita con brio, eseguita in forma stentata e grossolana, rivela una fantasia originale, a cui mancano gl'istrumenti.
Riuscitogli male l'italiano, tentò un poema in latino, e smise subito.
In ultimo trovò il suo istrumento, una lingua senza grammatiche e senza dizionari, e di cui nessuno aveva a chiedergli conto, una lingua tutta sua, trasformabile a sua posta secondo il bisogno del suo orecchio e della sua immaginazione, dico la lingua maccaronica.
Il latino era allora lingua viva nelle classi colte e diffusa.
Sannazzaro, Vida, Fracastoro, Flaminio erano nomi sonori più che il Berni o l'Ariosto o il Boiardo.
Se in Firenze l'italiano avea vinta la prova, nelle altre parti d'Italia il latino aveva ancora la preminenza.
In quella dissoluzione generale di credenze, d'idee, di forme, la buffoneria penetrò anche nelle due lingue, e ne uscì una terza lingua, innesto delle due, possibile solo in Italia, dove esse erano lingue note e affini.
Avemmo adunque il pedantesco, un latino italianizzato, e il maccaronico, un italiano latinizzato, con mal definiti confini, sì che talora il pedantesco entra nel maccaronico e il maccaronico nel pedantesco.
Tentativi infelici e dimenticati, quando nel 1521, cinque anni dopo l'Orlando furioso, uscì in luce la Maccaronea di Merlin Cocaio, e fece tale impressione, che in quattro anni se ne fecero sei edizioni.
La Maccaronea nel principio è l'Orlandino, mutati i nomi.
A quel modo che Milone rapisce Berta e poi la lascia, e Berta gli partorisce Orlando; Guido, discendente di Rinaldo, rapisce Baldovina, figlia di Carlomagno, e fugge con lei in Italia, accolti ospitalmente da un contadino di Cipada, patria appunto del nostro Merlino.
Guido lascia Baldovina, cercando avventure, ed ella muore, dopo di aver partorito Baldo.
Fin qui l'Orlandino e la Maccaronea vanno insieme; ma qui l'Orlandino finisce subito, e la trama è ripigliata e continuata nella Maccaronea.
Baldo, come Orlandino, ha molta forza e coraggio, e si gitta a imprese arrischiate.
Ha parecchi compagni, tra' quali Fracasso, che ricorda Morgante, da cui discende, e Cingar, che ricorda Margutte.
Dicono che sotto questi nomi si celino gl'irrequieti studenti di Bologna, capitanati da quel Francesco mantovano, che sarebbe Baldo.
Fatto è che, date e ricevute molte busse, Baldo è messo in prigione.
Cingar, vestito da frate, lo libera.
Eccoli tutti per terra e per mare cavalieri erranti e compiono audaci imprese.
Baldo distrugge corsari, estermina le fate, ritrova Guido suo padre fatto romito, che gli predice grandi destini; va in Africa, scopre le foci del Nilo, scende nell'inferno.
Giunto co' suoi in quella parte dell'inferno, dove ha sede la menzogna e la ciarlataneria e dove stanno i negromanti, gli astrologi e i poeti, Merlino trova colà il suo posto e pianta i suoi personaggi e finisce il racconto.
Abbandonarsi alla sua sbrigliata immaginazione e accumulare avventure è a prima vista lo scopo di Merlino, come di tutt'i romanzieri di quel tempo.
Anzi di avventure ce n'è troppe; e fra tanti intrighi l'autore pare talora intricato e stanco.
Ti senti sbalzato altrove prima che abbi potuto ben digerire il cibo messoti innanzi.
Molte avventure sono reminiscenze classiche e cavalleresche, ma rifatte e trasformate in modo originale; e il tutt'insieme è originalissimo.
Cominciamo con Carlomagno e i paladini, ma dopo alcuni libri o canti ci troviamo in Cipada, con l'immaginazione errante fra Mantova, Venezia, Bologna, e con innanzi l'Italia con la sua scorza da medio evo penetrata da uno spirito cinico e dissolvente.
Le forme sono epiche, ma caricate in modo che si scopre l'ironia.
La caricatura non è un semplice sfogo d'immaginazione comica e buffonesca, come le avventure non sono un semplice stimolo di curiosità: ci è una intenzione che penetra in quei fatti e in quelle forme e se li assoggetta, ci è la parodia.
Baldo è l'ultimo di quella serie di cavalieri erranti, che comincia con Aiace, Achille, Teseo, continua con Bruto, Pompeo e gli altri eroi celebrati da Livio e Sallustio, e va a finire in Orlando e Rinaldo, da cui discende Baldo.
La sua missione è di purgare la terra da' mostri, dagli assassini e dalle streghe.
La cavalleria è l'istrumento divino contro Lucifero.
Baldo vince i corsari, atterra i mostri, uccide le streghe e debella l'inferno.
Tutto questo è raccontato con un suono di tromba così romoroso, con un accento epico così caricato, che si ride di buona voglia a spese di Baldo, di Fracasso, di Cingar, e degli altri cavalieri.
Ma in quest'allegra parodia penetra un'intenzione ancora più profonda, la satira delle opinioni, delle credenze, delle istituzioni, de' costumi, delle forme religiose e sociali.
Il medio evo ne' suoi diversi aspetti è in fuga, frustato a sangue dal terribile frate, rifatto laico.
Perchè infine i mostri, le streghe e l'inferno non sono altro che forme religiose e sociali, i vizi, le lascivie e i pregiudizi popolari.
E come tutta questa dissoluzione non nasce da nuova fede o da nuova coscienza, ma da compiuta privazione di coscienza e di fede, la cavalleria, che in nome della giustizia e della virtù debella l'inferno, è essa medesima una parodia e l'impressione ultima è una risata sopra tutti e sopra tutto.
Qualche sforzo di un'aspirazione più seria ci è; Leonardo che muore, per mantenere intatta la sua verginità, è una bella immagine allegorica perduta fra tante caricature.
Hai una dissoluzione universale di tutte le idee e di tutte le credenze, nella sua forma più cinica.
Lì dentro ci è la società italiana còlta dal vero nella sua ultima espressione: coltura e arte assisa sulle rovine del medio evo, beffarda e vuota.
La lingua stessa è una parodia del latino e dell'italiano, che si beffano a vicenda.
Come i maccheroni vogliono essere ben conditi di cacio e di butirro, così la lingua maccaronica vuol essere ben mescolata.
Spesso vi apparisce per terzo anche il dialetto locale, e si fa un intingolo saporitissimo.
La lingua è in se stessa comica, perchè quel grave latino epico, che intoppa tutt'a un tratto in una parola italiana stranamente latinizzata, e talora tolta dal vernacolo, produce il riso.
La parodia che è nelle cose scende nella lingua, la quale sembra un eroe con la maschera di Pulcinella, un Virgilio carnascialesco.
Alione astigiano e qualche altro avevano già dato esempio di questa lingua recata a perfezione da Merlino.
Egli ne sa tutt'i segreti e la maneggia con un'audacia da padrone, con un tale sentimento di armonia, che par l'abbia già bella e formata nell'orecchio.
Come saggio, cito alcuni brani della sua invocazione alla musa maccaronica:
Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat,
o macaroneam Musae quae funditis artem...
Non mihi Melpomene, mihi non menchiona Thalia,
Non Phoebus grattans chitarrinum carmina dictent...
Pancificae tantum Musae doctaeque sorellae,
Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna, Pedrala,
imboccare suum veniant macarone poëtam.
Ecco in qual modo descrive il Parnaso di queste muse plebee:
Credite quod giuro, neque solam dire bosiam
possem per quantos abscondit terra tesoros:
illic ad bassum currunt cava flumina brodae,
quae lacum suppae generant, pelagumque guacetti.
Hic de materia tortarum mille videntur
ire redire rates...
Sunt ibi costerae freschi tenerique botiri,
in quibus ad nubesfumant caldaria centum,
plena casoncellis, macaronibus atque foiadis.
Ipsae habitant nymphae super alti montis aguzzum,
formaiumque tridant grataloribus usque foratis.
E non è meno originale il suo stile.
Della nuova letteratura i grandi «stilisti» sono il Boccaccio, il Poliziano, l'Ariosto.
Costoro narrando fanno quadri, ciò che costituisce il periodo.
Ti offrono le cose dipinte, sono coloristi: Merlino dipinge le cose con altre cose, i suoi colori non sono concetti o immagini, sono fatti.
Ha poche reminiscenze classiche: tra lui e la natura non ci è nulla di mezzo.
La sua immaginazione non rimane nella vaga generalità delle cose, ma scende nel più minuto della realtà e ne cava novità di paragoni e di colori.
I fatti più assurdi e fantastici sono narrati co' più precisi particolari, ed hanno l'evidenza della storia, e ti rivelano un raro talento di osservazione dell'uomo e della natura, non nelle loro linee generali solamente, ma nelle singole e locali forme della loro esistenza.
Veggasi la descrizione della caverna di Eolo e della tempesta, e le disperazioni di Cingar:
Solus ibi Cingar cantone tremebat in uno,
atque morire timens, cagarellam sentit abassum...
Undique mors urget, mors undique cruda menazzat.
Infinita facit cunctis vota ille beatis,
iurat, quod cancar veniat sibi, velle per omnem
pergere descalzus mundum, saccove dobatus.
Vult in Agrignano sanctum retrovare Danesum,
qui nunc vivit adhuc vastae sub fornice rupis,
fertque oculi cilios distesos usque genocchios.
Ad zocolos ibit, quos olim Ascensa ferebat:
quos in Taprobana gens portugalla catavit.
Hisque decem faciet per fratres dicere messas,
his quoque candelam tam grandem, tamque pesentam
vult offerre simul, quam grandis quamque pesentus
est arbor navis, prigolo si scampet ab isto.
Se stessum accusat multas robasse botegas,
sgardinasse casas et sgallinasse polaros:
at si de tanto travaio vadat adessum
liber speditus, vult esse Macharius alter,
alter heremita Paulus, spondetque Sepulchri
post visitamentum, vitam menare tapinam.
Talia dum Cingar trepido sub pectore pensat,
en ruptae sublimis aquae montagna ruinat,
quae superans altam gabiam strepitosa trapassat,
nec pocas secum portavit in aequora gentes.
La stessa ricchezza di particolari trovi nella descrizione de' venti, e nelle vicende della tempesta.
Ci hai il carattere dello stile di Merlino, un realismo animato da una immaginazione impressionabile e da un umorismo inestinguibile.
Non ha tutto la stessa perfezione: ci è di molta ciarpa, la facilità è talora negligenza; desideri l'ultima mano, desideri la serietà artistica dell'Ariosto.
Questo realismo rapido, nutrito di fatti, sobrio di colori, fa di Merlino lo scrittore più vicino alla maniera di Dante, salvo che Dante spesso ti fa degli schizzi, ed egli disegna e compie tutto il fatto.
Il suo continuatore e imitatore è fuori d'Italia, è Rabelais, che ha la stessa maniera.
In Italia prevalse la rettorica, la cui prima regola è l'orrore del particolare e la vaga generalità.
Merlino al contrario aborre le perifrasi, i concetti, le astrazioni e quel colorire a vuoto per via di figure e d'immagini, e non pare che lavori con la riflessione o con l'immaginazione, ma che stia lì tutto attirato in mezzo a un mondo che si muove, guardato e parodiato ne' suoi minimi movimenti.
Baldovina e Guido giungono affamati in casa di Berto, e cucinano essi medesimi il pasto.
Al poeta non fugge nulla, i cibi, il modo di apparecchiarli, il desco, l'affaccendarsi di Berto, la fisonomia e gli atti de' due suoi ospiti: e ne nasce una scena di famiglia piena di allegria comica, il cui effetto è tutto ne' particolari.
Il piccolo Baldo va a scuola, e in luogo del Donato studia romanzi.
Hai innanzi la scuola di quel tempo, i libri alla moda, i costumi de' maestri e degli scolari, ciascun particolare con la sua fisonomia:
Beldovina tamen cartam comprarat et illam
letrarurm tolam, supra quam disceret «a, b».
Unde scholam Baldus nisi non spontaneus ibat,
nam quis erat tanti, seu mater, sive pedantus,
qui tam terribilem posset sforzare putinum?
Ipse tribus sic sic profectum fecerat annis,
ut quoscumque libros legeret, nostrique Maronis
terribiles guerras fertur recitasse magistro.
At mox Orlandi nasare volumina coepit,
non deponentum vacat ultra ediscere normas;
non speties, numeros, non casus atque figuras;
non Doctrinalis versamina tradere menti;
non hinc, non illinc, non hoc, non illoc et altras
mille pedantorum baias, totidemque fusaras.
Fecit de cuius Donati deque Perotto
scartozzos ac sub prunis salcizza cosivit.
Orlandi tantum gradant, et gesta Rinaldi;
namque animum guerris faciebat talibus altum.
Legerat Ancroiam, Tribisondam, facta Danesi,
Antonnaeque Bovum, Antiforra, Realia Franzae,
innamoramentum Carlonis, et Aspera-montem,
Spagnam, Altobellum, Morgantis bella gigantis,
Meschinique provas, et qui «Cavalerius Orsae»
dicitur, et nulla cecinit qui laude Leandram.
Vidit ut Angelicam sapiens Orlandus amavit,
utque caminavit nudo cum corpore mattus,
utque retro mortam tirabat ubique cavallam,
utque asinum legnis caricatum calce ferivit,
illeque per coelum veluti cornacchia volavit.
Baldus in his factis nimium stigatur ad arma,
sed tantum quod sit piccolettus corpore tristat.
È una scena di quel tempo, ispirata a Merlino dalla sua vita studentesca di Ferrara e Bologna, quando Cocaio, il suo pedagogo, gli metteva in mano Donato e il Porretto, ed egli ne faceva «scartozzos», e leggeva romanzi, e sopra tutti l'Orlando furioso.
Non c'è una sola generalità: tutto è cose, e ciascuna cosa è animata, come un uomo ha la sua fisonomia e il suo movimento, determinato da forze interiori.
Non solo vedi quello che fa Baldo, ma quello che pensa e sente; perchè la parola, se nel suo senso letterale esprime un'azione, con la sua aria maccaronica e la sua giacitura e la sua armonia te ne dà il sentimento, come è quel «nasarat», e quel «volavit», e quel «piccolettus», e quell'«hinc, illinc, hoc, illoc, et altras mille pedantorum baias».
La parte seria del racconto dovrebb'esser la cavalleria, perchè essa è che fa guerra all'inferno, cioè alla malvagità e al vizio.
Ma la serietà è apparente, e il fondo è una parodia scoperta, il cui eroe più simpatico è il gigante Fracasso, parodia di quella forza oltreumana che si attribuiva a' cavalieri erranti.
Dico «parodia scoperta», se guardiamo alla conclusione ingegnosissima; perchè, giunti i cavalieri nella regione infernale delle menzogne poetiche, Merlino te li pianta, e si ferma colà come nella sua patria.
Questa patria de' poeti, de' cantanti, degli astrologi, de' negromanti, di tutti quelli
qui fingunt, cantant, dovinant somnia genti,
compluere libros follis vanisque novellis,
è una conchiglia, o piuttosto una immensa zucca, secca e vuota, «mangiabilis, quando tenerina fuit», dove tremila barbieri strappano i denti a' condannati.
E Merlino esclama:
Zucca mihi patria est, opus est hic perdere dentes,
tot quot in immenso posui mendacia libro.
E tronca il racconto, e dice addio a Baldo:
Balde, vale, studio alterius te denique lasso.
Il poeta conchiude beffandosi di Baldo e della sua arte, e di se stesso, che ha composto un vero mostro oraziano, fuori di tutte le regole, perduti i remi, mescolati l'austro co' fiori e i cignali col mare:
Tange peroptatum, navis stracchissima, portum,
tange, quod amisi longinqua per aequora remos:
he heu, quid volui, misero mihi, perditus Austrum
floribus, et liquidis immisi fontibus apros.
È il comico portato all'estremo dell'umore.
La caricatura del Boccaccio, la buffoneria del Pulci, l'ironia dell'Ariosto è qui l'allegro e capriccioso umore di una negazione universale e scoperta, nella forma più cinica.
In questa negazione universale la satira penetra dappertutto, e attinge la società, come il medio evo l'aveva costituita, in tutte le sue forme, religiose, politiche, morali, intellettuali.
La scolastica è messa alla berlina: san Tommaso e Scoto e Alberto stanno come visionari accanto agli astrologi e a' negromanti.
Megera fa un terribile ritratto di tutt'i disordini della Chiesa e de' papi, e Aletto fulmina ugualmente guelfi e ghibellini, i seguaci della Francia e i seguaci dell'Impero.
I monaci sono il principale bersaglio di questi strali poetici.
Una delle pitture più comiche è quel biricchino di Cingar vestito da francescano per liberare Baldo dal carcere:
Iam non is Cingar, quia sanctus portat amictus...
sub tunicis latitant sacris quam saepe ribaldi!
Notabile è la satira de' frati nell'ottavo libro:
Postquam giocarunt nummos borsamque vodarunt,
postquam pane caret cophinum, vinoque berillus
in fratres properant, datur his extemplo capuzzus.
La moltiplicità de' conventi gli fa temere che un bel dì rimanga la gente cristiana senza soldati e senza contadini.
Scherza su' motti del Vangelo.
Fa una parodia della confessione.
I cavalieri erranti giungono alla porta dell'inferno, dov'e parodiata la celebre scritta di Dante:
Regia Luciferi dicor, bandita tenetur
chors hic, intrando patet, ast uscendo seratur.
Ma non possono domare l'inferno, se prima non si confessano, e il confessore è Merlino stesso, il poeta:
Nomine Merlinus dicor, de sanguine Mantus,
est mihi cognomen Cocaius maccaronensis.
Quale confessione i cavalieri possano fare a Merlino, soprattutto Cingar, il lettore s'immagini.
È una farsa.
Tutta l'opera è penetrata da uno spirito capriccioso e beffardo, che fa di quel mondo in mezzo a cui si trova il suo aperto trastullo, e gli dà forme carnascialesche.
Anche la Moscheide di Merlino è una caricatura o un travestimento carnevalesco della cavalleria in uno stile più corretto e uguale.
La guerra finisce con la sconfitta compiuta delle mosche, descritta co' tratti, da lui caricati, dell'Ariosto e di altri poeti cavallereschi.
Eccone alcuni brani verso la fine:
Numquam facta fuit tam cruda baruffola mundo:
nil nisi per terram membra taiata micant.
Grandes mortorum vadunt ad sydera montes,
sydera, quae multo rossa cruore colant.
Pulmones, milzae, lardi, ventralia, membri
Saturni ad sphaeram foeda per astra volant.
Una corada Iovis mostazzum colsit, et uno
Sol ibi ventrazzo spinctus ab axe fuit.
Dumque dei coenant, puero Ganimede ministro,
multa super mensas ossa taiata cadunt.
Nunc brazzus Ragni, nunc gamba cruenta Pedocchi,
nunc cor Moschini, nunc pulicina manus...
...
trucidatis ducibus, Moschaea ruinat
tota, nec una quidem vivere Moschaea potest.
Formicae, Pulices, Ragni - Victoria! - clamant,
trombettae tararan iam frisolando sonant.
Il Rodomonte delle mosche è Siccaborone, sul quale da una torre gittano un sasso enorme,
qui super elmettum schiazzavit Siccaboronem,
vitaque cum gemitu sub Phlegetonta fugit.
La Zanitonella o gli amori di Zanina e Tonello è un suo poemetto bucolico in caricatura, dove si fa strazio delle immagini e de' sentimenti petrarcheschi e idillici.
Il Petrarca narra che Amore colpì lui improvviso e disarmato.
Il medesimo avviene a Tonello:
Solus solettus stabam colegatus in umbra,
pascebamque meas virda per arva capras.
Nulla travaiabant vodam pensiria mentem,
nullaaue cogebat cura gratare caput,
cum mihi bolzoniger cor, oyme, Cupido, forasti,
nec tuns in fallum dardus alhora dedit...
More valenthominis schenam de-retro feristi:
o bellas provas quas, traditore, facis!
Guardando un po' addentro in questa caricatura universale del mondo, si vedono qua e là spuntare alcuni lineamenti confusi di un mondo nuovo.
Ci si sente lo spirito della Riforma, il dolore di un'Italia scissa tra Impero e Francia, essa che unita aveva imperato sull'universo, l'indignazione di tanta licenza e corruzione de' costumi nel secolo degl'ipocriti e delle cortigiane, un disprezzo delle fantasticherie teologiche, scolastiche e astrologiche, un sentimento del reale e dell'umano.
Ma sono velleità, immagini confuse e volubili, che si affacciano appena e non hanno presa sul suo spirito vagabondo e sulla sua capricciosa immaginazione.
XV
MACHIAVELLI
Dicesi che Machiavelli fosse in Roma, quando il 1515 uscì in luce l'Orlando furioso.
Lodò il poema, ma non celò il suo dispiacere di essere dimenticato dall'Ariosto nella lunga lista ch'egli stese nell'ultimo canto di poeti italiani.
Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il secolo nella sua doppia faccia, ancorchè contemporanei e conoscenti, sembrano ignoti l'uno all'altro.
Niccolò Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una fisonomia essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de' Medici.
Era un piacevolone, che si spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete brigate, verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e beffardo che vedi nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulci e in Lorenzo e nel Berni.
Poco agiato de' beni della fortuna, nel corso ordinario delle cose sarebbe riuscito un letterato fra' tanti stipendiati a Roma, o a Firenze, e dello stesso stampo.
Ma caduti i Medici, ristaurata la repubblica e nominato segretario, ebbe parte principalissima nelle pubbliche faccende, esercitò molte legazioni in Italia e fuori, acquistando esperienza degli uomini e delle cose, e si affezionò alla repubblica, per la quale non gli parve assai di sostenere la tortura, poi che tornarono i Medici.
In quegli uffici e in quelle lotte si raffermò la sua tempra e si formò il suo spirito.
Tolto alle pubbliche faccende, nel suo ozio di San Casciano meditò su' fati dell'antica Roma e sulle sorti di Firenze, anzi d'Italia.
Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non potesse mantenere la sua indipendenza, se non fosse unita tutta o gran parte sotto un solo principe.
E sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze, volesse pigliare l'impresa.
Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi, e trarlo di ozio e di miseria.
All'ultimo, poco e male adoperato da' Medici, finì la vita tristamente, lasciando non altra eredità a' figliuoli che il nome.
Di lui fu scritto: «Tanto nomini nullum par elogium».
I suoi Decennali, arida cronaca delle «fatiche d'Italia di dieci anni», scritta in quindici dì, i suoi otto capitoli dell'Asino d'oro, sotto nome di bestie satira de' degeneri fiorentini, gli altri suoi capitoli dell'Occasione, della Fortuna, dell'Ingratitudine, dell'Ambizione, i suoi canti carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o canzoni, sono lavori letterari su' quali è impressa la fisonomia di quel tempo, alcuni tra il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi, sempre aridi.
Il verso rasenta la prosa; il colorito è sobrio e spesso monco; scarse e comuni sono le immagini.
Ma in questo fondo comune e sgraziato appariscono i vestigi di un nuovo essere, una profondità insolita di giudizio e di osservazione.
Manca l'immaginativa: soprabbonda lo spirito.
Ci è il critico, non ci è il poeta.
Non ci è l'uomo nello stato di spontaneità che compone e fantastica, come era Ludovico Ariosto.
Ci è l'uomo che si osserva anche soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue e dell'universo con tranquillità filosofica: il suo poetare è un discorrere:
Io spero, e lo sperar cresce il tormento,
io piango, e 'l pianger ciba il lasso core;
io rido, e il rider mio non passa drento;
io ardo, e l'arsion non par di fuore;
io temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io sento,
ogni cosa mi dà nuovo dolore;
così sperando piango, rido e ardo,
e paura ho di ciò che io odo o guardo.
Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle cose mondane nel capitolo della Fortuna.
Delle sue poesie cosa è rimasto? Qualche verso ingegnoso, come ne' Decennali:
la voce d'un Cappon tra cento Galli,
e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto De diavoli o de' romiti.
Il suo capolavoro è il capitolo dell'Occasione, massime la chiusa, che ti colpisce d'improvviso e ti fa pensoso.
Nel poeta si sente lo scrittore del Principe e de' Discorsi.
Anche in prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie, secondo le idee che correvano in quella età.
Talora si mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche alle confraternite, nella descrizione della peste, e ne' discorsi che mette in bocca a' suoi personaggi storici.
Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in chiesa al tempo della peste, dove abbondano i lenocini della rettorica e gli artifici dello stile: ciò che si chiamava eleganza.
Ma nel Principe, ne' Discorsi, nelle Lettere, nelle Relazioni, ne' Dialoghi sulla milizia, nelle Storie, Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l'aria di chi reputi indegno della sua gravità correre appresso alle parole e a' periodi.
Dove non pensò alla forma riuscì maestro della forma.
E senza cercarla trovò la prosa italiana.
È visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito incredulo e beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana in quel tempo.
E avea pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini e delle cose, che rese Lorenzo eminente fra' principi, e che troviamo generalmente negli statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a Napoli, quando vivea Ferdinando d'Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il Moro, e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti, presso le quali dimoravano.
Ci era l'arte, mancava la scienza.
Lorenzo era l'artista.
Machiavelli doveva essere il critico.
Firenze era ancora il cuore d'Italia: lì ci erano ancora i lineamenti di un popolo, ci era l'immagine della patria.
La libertà non voleva ancora morire.
L'idea ghibellina e guelfa era spenta, ma ci era invece l'idea repubblicana alla romana, effetto della coltura classica, che fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle memorie gloriose del passato, resisteva a' Medici.
L'uso della libertà e le lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo, e rendevano possibile Savonarola, Capponi, Michelangiolo, Ferruccio, e l'immortale resistenza agli eserciti papali imperiali.
L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore della libertà erano forze morali fra quella corruzione medicea rese ancora più acute e vivaci dal contrasto.
Machiavelli per la sua coltura letteraria, per la vita licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura.
Non crede a nessuna religione, e perciò le accetta tutte, e magnificando la morale in astratto vi passa sopra nella pratica della vita.
Ma ha l'animo fortemente temprato e rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e solitari.
E la sua coscienza non è vuota.
Ci è lì dentro la libertà e l'indipendenza della patria.
Il suo ingegno superiore e pratico non gli consentiva le illusioni, e lo teneva ne' limiti del possibile.
E quando vide perduta la libertà, pensò all'indipendenza, e cercò negli stessi Medici l'istrumento della salvezza.
Certo, anche questa era un'utopia o una illusione, un'ultima tavola alla quale si afferra il misero nell'inevitabile naufragio; ma un'utopia, che rivelava la forza e la giovinezza della sua anima e la vivacità della sua fede.
Se Francesco Guicciardini vide più giusto e con più esatto sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua coscienza era già vuota e petrificata.
L'immagine del Machiavelli è giunta a' posteri simpatica e circondata di un'aureola poetica per la forte tempra, e la sincerità del patriottismo e l'elevatezza del linguaggio e per quella sua aria di virilità e di dignità fra tanta folla di letterati venderecci.
La sua influenza non fu pari al suo merito.
Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe oggi, più che uomo di Stato e di azione.
E la sua povertà, la vita scorretta, le abitudini plebee e «fuori della regola», come gli rimproverava il correttissimo Guicciardini, non gli aumentavano riputazione.
Consapevole di sua grandezza, spregiava quella esteriorità delle forme e que' mezzi artificiali di farsi via nel mondo, che sono sì familiari e sì facili a' mediocri.
Ma la sua influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua fama si è ita sempre ingrandendo fra gli odii degli uni e le glorificazioni degli altri.
Il suo nome è rimasto la bandiera, intorno alla quale hanno battagliato le nuove generazioni nel loro contraddittorio movimento ora indietro, ora innanzi.
Ci è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue il Principe, che ha gittato nell'ombra le altre sue opere.
L'autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale.
E hanno trovato che questo libro è un codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi, e il successo loda l'opera.
E hanno chiamato machiavellismo questa dottrina.
Molte difese sonosi fatte di questo libro ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole.
Così n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito.
Questa critica non è che una pedanteria.
Ed è anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica, oggi cosa reale.
Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e cercare ivi i fondamenti della sua grandezza.
Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la coscienza chiara e seria di tutto quel movimento, che nella sua spontaneità dal Petrarca e dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del Cinquecento.
In lui comincia veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la riflessione della vita.
Anche lui è in mezzo a quel movimento, e vi piglia parte, ne ha le passioni e le tendenze.
Ma, passato il momento dell'azione, ridotto in solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito, ha la forza di staccarsi dalla sua società, e interrogarla: - Cosa sei? Dove vai? -
L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava l'Europa con l'occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le Alpi.
Il suo modello era il mondo greco e romano, che si studiava di assimilarsi.
Soprastava per coltura, per industrie, per ricchezze, per opere d'arti e d'ingegno: teneva senza contrasto il primato intellettivo in Europa.
Grave fu lo sgomento negl'italiani, quando ebbero gli stranieri in casa; ma vi si ausarono, e trescarono con quelli, confidando di cacciarli via tutti con la superiorità dell'ingegno.
Spettacolo pieno di ammaestramento è vedere tra lanzi, svizzeri, tedeschi e francesi e spagnuoli l'alto e spensierato riso di letterati, artisti, latinisti, novellieri e buffoni nelle eleganti corti italiane.
Fino ne' campi i sonettisti assediavano i principi: Giovanni de' Medici cadeva tra' lazzi di Pietro Aretino.
Gli stranieri guardavano attoniti le maraviglie di Firenze, di Venezia, di Roma e tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi regalavano e corteggiavano i letterati, che con la stessa indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo quinto.
L'Italia era inchinata e studiata da' suoi devastatori, come la Grecia fu da' romani.
Fra tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza e di grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e vide la malattia, dove altri vedevano la più prospera salute.
Quello che oggi diciamo decadenza egli disse «corruttela», e base di tutte le sue speculazioni fu questo fatto, la corruttela della razza italiana, anzi latina, e la sanità della germanica.
La forma più grossolana di questa corruttela era la licenza de' costumi e del linguaggio, massime nel clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e di Caterina, ed ora messa in mostra ne' dipinti e negli scritti, penetrata in tutte le classi della società e in tutte le forme della letteratura, divenuta come una salsa piccante che dava sapore alla vita.
La licenza accompagnata con l'empietà e l'incredulità avea a suo principal centro la corte romana, protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo.
Fu la vista di quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò alla separazione Lutero e i suoi concittadini.
Nondimeno il clero per abito tradizionale tuonava dal pergamo contro quella licenza.
Il Vangelo rimaneva sempre un ideale non contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il pensiero non era più la parola e la parola non era più l'azione, non ci era armonia nella vita.
In questa disarmonia era il principale motivo comico del Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli.
Nessun italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella licenza, a' cui allettamenti pur non sapeva resistere.
Altra era la teoria, altra la pratica.
E nessuno poteva non desiderare una riforma de' costumi, una restaurazione della coscienza.
Sentimenti e desidèri vani, affogati nel rumore di quei baccanali.
Non ci era il tempo di piegarsi in sè, di considerare la vita seriamente.
Pure erano sentimenti e desidèri che più tardi fruttificarono e agevolarono l'opera del Concilio di Trento e la reazione cattolica.
Rifare il medio evo, e ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze con una ristaurazione religiosa e morale era stato già il concetto di Geronimo Savonarola, ripreso poi e purgato nel Concilio di Trento.
Era il concetto più accessibile alle moltitudini e più facile a presentarsi.
I volghi cercano la medicina a' loro mali nel passato.
Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel carnevale italiano, giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto.
Essa era non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella coscienza, vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni.
E perciò, non che pensasse di ricondurre indietro l'Italia e di ristaurare il medio evo, concorse alla sua demolizione.
L'altro mondo, la cavalleria, l'amore platonico sono i tre concetti fondamentali, intorno a' quali si aggira la letteratura nel medio evo, de' quali la nuova letteratura è la parodia più o meno consapevole.
Anche nella faccia del Machiavelli sorprendi un movimento ironico, quando parla del medio evo, soprattutto allora che affetta maggior serietà.
La misura del linguaggio rende più terribili i suoi colpi.
Nella sua opera demolitiva è visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico.
Il suo Belfegor è della stessa razza, dalla quale era uscito Astarotte.
Ma la sua negazione non è pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza vuota.
In quella negazione ci è un'affermazione, un altro mondo sorto nella sua coscienza.
E perciò la sua negazione è seria ed eloquente.
Papato e impero, guelfismo e ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni sono demolite nel suo spirito.
E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto un nuovo edificio sociale e politico.
Le idee che generarono quelle istituzioni sono morte, non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza, rimasta vuota.
E in quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana.
Questo popolo non si può rinnovare, se non rifacendosi una coscienza.
Ed è a questo che attende Machiavelli.
Con l'una mano distrugge, con l'altra edifica.
Da lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la ricostruzione.
Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare.
Basti qui accennare la idea fondamentale.
Il medio evo riposa sopra questa base: che il peccato è attaccarsi a questa vita, come cosa sostanziale, e la virtù è negazione della vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa vita non è la realtà o la verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non quello che è, ma quello che dee essere, e perciò il suo vero contenuto è l'altro mondo.
L'inferno.
Il Purgatorio.
Il Paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia.
Da questo concetto della vita teologico-etico uscì la Divina Commedia e tutta la letteratura del Dugento e del Trecento.
Il simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto.
La realtà terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo: l'amore è un simbolo.
E l'uomo e la natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli enti o negli universali, forze estramondane, che sono la maggiore del sillogismo, l'universale da cui esce il particolare.
Tutto questo, forma e concetto, era già dal Boccaccio in qua negato, caricato, parodiato, materia di sollazzo e di passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e licenziosa, che aveva a base la glorificazione della carne o del peccato, la voluttà, l'epicureismo, reazione all'ascetismo.
Andavano insieme teologi e astrologi e poeti, tutti visionari: conclusione geniale della Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo della Luna ariostesco.
In teoria ci era una piena indifferenza, e in pratica una piena licenza.
Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa.
La stessa licenza nella vita, e la stessa indifferenza nella teoria.
La sua coltura non è straordinaria: molti a quel tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di erudizione.
Di speculazioni filosofiche sembra così digiuno come di enunciazioni scolastiche e teologiche.
E a ogni modo non se ne cura.
Il suo spirito è tutto nella vita pratica.
Nelle scienze naturali non sembra sia molto innanzi, quando vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso delle stelle.
Battista Alberti avea certo una coltura più vasta e più compiuta.
Niccolò non è filosofo della natura, è filosofo dell'uomo.
Ma il suo ingegno oltrepassa l'argomento e prepara Galileo.
L'uomo, come Machiavelli lo concepisce, non ha la faccia estatica e contemplativa del medio evo, e non la faccia tranquilla e idillica del Risorgimento.
Ha la faccia moderna dell'uomo che opera e lavora intorno ad uno scopo.
Ciascun uomo ha la sua missione su questa terra, secondo le sue attitudini.
La vita non è un giuoco d'immaginazione, e non è contemplazione Non è teologia, e non è neppure arte.
Essa ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi.
Riabilitare la vita terrena, darle uno scopo, rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire l'uomo nella sua serietà e nella sua attività: questo è lo spirito che aleggia in tutte le opere del Machiavelli.
È negazione del medio evo, e insieme negazione del Risorgimento.
La contemplazione divina lo soddisfa così poco, come la contemplazione artistica.
La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non tali però che debbano e possano costituire lo scopo della vita.
Combatte l'immaginazione, come il nemico più pericoloso, e quel veder le cose in immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la malattia che si ha a curare.
Ripete ad ogni tratto che bisogna giudicar le cose come sono, e non come debbono essere.
Quel «dover essere», a cui tende il contenuto nel medio evo e la forma nel Risorgimento, dee far luogo all'«essere», o com'egli dice, alla verità «effettuale».
Subordinare il mondo dell'immaginazione, come religione e come arte, al mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e dall'osservazione, questa è la base del Machiavelli.
Risecati tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento della vita la patria.
La missione dell'uomo su questa terra, il suo primo dovere è il patriottismo, la gloria, la grandezza, la libertà della patria.
Nel medio evo non ci era il concetto di patria: ci era il concetto di fedeltà e di sudditanza.
Gli uomini nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore, rappresentanti di Dio; l'uno era lo spirito, l'altro il corpo della società.
Intorno a questi due «Soli» stavano gli astri minori, re, principi, duchi, baroni, a cui stavano di contro in antagonismo naturale i comuni liberi.
Ma la libertà era privilegio papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per la grazia di Dio, e perciò del papa o dell'imperatore, e spesso imploravano legati apostolici o imperiali a tutela e pacificazione.
Savonarola proclamò re di Firenze Gesù Cristo, ben inteso lasciando a sè il dritto di rappresentarlo e interpretarlo.
È un tratto che illumina tutte le idee di quel tempo.
Ci era ancora il papa e ci era l'imperatore; ma l'opinione, sulla quale si fondava la loro potenza, non ci era più nelle classi colte d'Italia.
Il papa stesso e l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio, il papa, ingrandito di territorio, diminuito di autorità, l'imperatore debole e impacciato a casa.
Di papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni.
Di quel mondo rimanevano avanzi in Italia il papa, i gentiluomini e gli avventurieri o mercenari.
Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un sistema di governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia.
Democratico, combatte il concetto di un governo stretto, e tratta assai aspramente i gentiluomini, reminiscenze feudali.
E vede ne' mercenari o avventurieri la prima cagione della debolezza italiana incontro allo straniero, e propone e svolge largamente il concetto di una milizia nazionale Nel papato temporale, nei gentiluomini, negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo.
La «patria» del Machiavelli è naturalmente il comune libero, libero per sua virtù e non per grazia del papa e dell'imperatore, governo di tutti nell'interesse di tutti.
Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico de' grandi Stati che si erano formati in Europa, e come il comune era destinato anch'esso a sparire con tutte le altre istituzioni del medio evo.
Il suo comune gli par cosa troppo piccola e non possibile a durare dirimpetto a quelle potenti agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano «Stati» o «Nazioni».
Già Lorenzo, mosso dallo stesso pensiero, avea tentato una grande lega italica, che assicurasse l'«equilibrio» tra' vari Stati e la mutua difesa, e che pure non riuscì ad impedire l'invasione di Carlo ottavo.
Niccolò propone addirittura la costituzione di un grande Stato italiano, che sia baluardo d'Italia contro lo straniero.
Il concetto di patria gli si allarga.
Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione.
L'Italia nell'utopia dantesca è il «giardino dell'impero»; nell'utopia del Machiavelli è la «patria», nazione autonoma e indipendente.
La «patria» del Machiavelli è una divinità, superiore anche alla moralità e alla legge.
A quel modo che il Dio degli ascetici assorbiva in sè l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica.
«Ragion di Stato» e «salute pubblica» erano le formole volgari, nelle quali si esprimeva questo dritto della patria, superiore ad ogni dritto.
La divinità era scesa di cielo in terra e si chiamava la «patria», ed era non meno terribile.
La sua volontà e il suo interesse era «suprema lex».
Era sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo.
E quando questo essere collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi la servitù.
Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini alla cosa pubblica.
I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della libertà.
L'uomo non era un essere autonomo, e di fine a se stesso: era l'istrumento della patria, o ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato sull'arbitrio di un solo.
Patria era dove tutti concorrevano più o meno al governo, e se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò che dicevasi «repubblica».
E dicevasi «principato», dove uno comandava e tutti ubbidivano.
Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre l'individuo assorbito nella società, o, come fu detto poi, l'onnipotenza dello Stato.
Queste idee sono enunciate dal Machiavelli, non come da lui trovate e analizzate, ma come già per lunga tradizione ammesse, e fortificate dalla coltura classica.
Ci è lì dentro lo spirito dell'antica Roma, che con la sua immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva alle menti modello non solo nell'arte e nella letteratura, ma ancora nello Stato.
La patria assorbisce anche la religione.
Uno Stato non può vivere senza religione.
E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è solo perchè a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri, ma ancora perchè co' suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel popolo l'autorità della religione.
Ma egli vuole una religione di Stato, che sia in mano del principe un mezzo di governo.
Della religione si era perduto il senso, ed era arte presso i letterati e istrumento politico negli statisti.
Anche la moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza, l'osservanza della fede, la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga bene alla patria; e se le incontra sulla sua via non istrumenti, ma ostacoli, gli spezza.
Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre virtù de' buoni principi; ma ci odori un po' di rettorica, che spicca più in quel fondo ignudo della sua prosa.
Non è in lui e non è in nessuno de' suoi contemporanei un sentimento religioso e morale schietto e semplice.
Noi che vediamo le cose di lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si emancipa dalla teocrazia, e diviene a sua volta invadente.
Ma allora la lotta era ancor viva, e l'una esagerazione portava l'altra.
Togliendo le esagerazioni, ciò che esce dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del potere civile, che ha la sua legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di subordinazione a Roma.
Nel Machiavelli non ci è alcun vestigio di diritto divino.
Il fondamento delle repubbliche è «vox populi», il consenso di tutti.
E il fondamento de' principati è la forza, o la conquista legittimata e assicurata dal buon governo.
Un po' di cielo e un po' di papa ci entra pure, ma come forze atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi.
Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che hanno «disarmato il cielo e effeminato il mondo» e che rendono l'uomo più atto a «sopportare le ingiurie che a vendicarle».
«Agere et pati fortia romanum est».
Il cattolicismo male interpretato rende l'uomo più atto a patire che a fare.
Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gl'italiani inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza della patria.
La virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa «forza», «energia», che renda gli uomini atti a' grandi sacrifici e alle grandi imprese.
Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi ne' singolari incontri riescono spesso vittoriosi: manca l'educazione o la disciplina o, come egli dice, «i buoni ordini e le buone armi», che fanno gagliardi e liberi i popoli.
Alla virtù premio è la gloria.
«Patria», «virtù», «gloria», sono le tre parole sacre, la triplice base di questo mondo.
Come gl'individui hanno la loro missione in terra, così anche le nazioni.
Gl'individui senza patria, senza virtù, senza gloria sono atomi perduti, «numerus fruges consumere nati».
E parimente ci sono nazioni oziose e vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè nel mondo.
Nazioni storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio nell'umanità, o, come dicevasi allora, nel genere umano, come Assiria, Persia, Grecia e Roma.
Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù o la tempra, gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza morale.
Ma come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiezza, quando le idee che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si fiacca.
E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e passa ad altre nazioni.
Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali.
Il fato storico non è la provvidenza, e non la fortuna, ma la «forza delle cose», determinata dalle leggi dello spirito e della natura.
Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà ed immortale nella sua produzione.
Perciò la storia non è accozzamento di fatti fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di effetti, il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni e dagl'interessi degli uomini.
La politica o l'arte del governare ha per suo campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo.
Governare è intendere e regolare le forze che muovono il mondo.
Uomo di Stato è colui che sa calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini.
La grandezza e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le movono.
E quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono.
E a governare, quelli che stanno solo in sul lione, non se ne intendono.
Ci vuole anche la volpe, o la prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che muovono gli Stati.
Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro, dritti e doveri.
E come ci è un dritto privato, così ci è un dritto pubblico, o dritto delle genti, o, come dicesi oggi, dritto internazionale.
Anche la guerra ha le sue leggi.
Le nazioni muoiono.
Ma lo spirito umano non muore mai.
Eternamente giovane, passa di una nazione in un'altra, e continua secondo le sue leggi organiche la storia del genere umano.
C'è dunque non solo la storia di questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale e logica, determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito.
La storia del genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero.
Di qui esce ciò che poi fu detto «filosofia della storia».
Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non ci è nel Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di partenza segnato con chiarezza e indicato a' suoi successori.
Il suo campo chiuso è la politica e la storia.
Questi concetti non sono nuovi.
I concetti filosofici, come i poetici, suppongono una lunga elaborazione.
Ci si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche realista, ch'era in fondo l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici, e la conoscenza e il possesso di se stesso.
E a' contemporanei non parvero nuovi, nè audaci, veggendo ivi formulato quello che in tutti era sentimento vago.
L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo, anche in Dante Roma è presente allo spirito.
Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale, la Roma di Cesare, e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente giudicato.
Dante chiama le gloriose imprese della repubblica «miracoli della provvidenza», come preparazione all'impero: dove pel Machiavelli non ci sono miracoli, o i miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà principalissima alla virtù.
Di lui è questo motto profondo: «I buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese».
Il classicismo adunque era la semplice scorza, sotto alla quale le due età inviluppavano le loro tendenze.
Sotto al classicismo di Dante ci è il misticismo e il ghibellinismo; la corteccia è classica, il nocciolo è medievale.
E sotto al classicismo del Machiavelli ci è lo spirito moderno che ivi cerca e trova se stesso.
Ammira Roma, quanto biasima i tempi suoi, dove «non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia e vituperio, e non vi è osservanza di religione, non di leggi e non di milizia, ma sono maculati di ogni ragione bruttura».
Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e in molte sentenze senti i vestigi di quell'antica sapienza.
Da Roma gli viene anche la nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza morale.
Talora ti pare un romano avvolto nel pallio, in quella sua gravità; ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino equivoco.
Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e alla naturale.
È in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de' tempi moderni.
Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi, religiosa, morale, politica, intellettuale.
E non è solo negazione vuota.
È affermazione, è il verbo.
Di contro a ciascuna negazione sorge un'affermazione.
Non è la caduta del mondo, è il suo rinnovamento.
Dirimpetto alla teocrazia sorge l'autonomia e l'indipendenza dello Stato.
Tra l'impero e la città o il feudo, le due unità politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la Nazione, alla quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi, la razza, la lingua, la storia, i confini.
Tra le repubbliche e i principati spunta già una specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli altri, e assicuri a un tempo la libertà e la stabilità, governo che è un presentimento de' nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in Firenze.
È tutto un nuovo mondo politico che appare.
Si vegga, fra l'altro, dove il Machiavelli tocca della formazione de' grandi Stati, e soprattutto della Francia.
Anche la base religiosa è mutata.
Il Machiavelli vuole recisa dalla religione ogni temporalità, e, come Dante, combatte la confusione de' due reggimenti, e fa una descrizione de' principati ecclesiastici, notabile per la profondità dell'ironia.
La religione ricondotta nella sua sfera spirituale è da lui considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione, come istrumento di grandezza nazionale.
È in fondo l'idea di una Chiesa nazionale, dipendente dallo Stato, e accomodata a' fini e agl'interessi della nazione.
Altra è pure la base morale.
Il fine etico del medio evo è la santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della carne.
Il Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è meno severo verso l'educazione ascetica.
La sua dea non è Rachele, ma è Lia, non è la vita contemplativa, ma la vita attiva.
E perciò la virtù è per lui la vita attiva, vita di azione, e in servigio della patria.
I suoi santi sono più simili agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano.
O per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota.
E si rinnova pure la base intellettuale.
Secondo il gergo di allora, il Machiavelli non combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto.
Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore della storia.
Questo è già tutta una rivoluzione.
È il famoso «cogito», nel quale s'inizia la scienza moderna.
È l'uomo emancipato dal mondo soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la sua indipendenza, e prende possesso del mondo.
E si rinnova il metodo.
Il Machiavelli non riconosce verità a priori e princìpi astratti, e non riconosce autorità di nessuno, come criterio del vero.
Di teologia e di filosofia e di etica fa stima uguale, mondi d'immaginazione, fuori della realtà.
La verità è la cosa effettuale, e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente de' fatti.
Tutto il formolario scolastico va giù.
A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte dell'intelletto incardinate nella pretesa esistenza degli universali sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale.
Le proposizioni generali, le «maggiori» del sillogismo, sono capovolte e compariscono in ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione.
In luogo del sillogismo hai la «serie», cioè a dire concatenazione di fatti, che sono insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio:
«Avendo la città di Firenze ...
perduta parte dell'imperio suo, fu necessitata a fare guerra a coloro che lo occupavano, e perchè chi l'occupava era potente, ne seguiva che si spendeva assai nella guerra senza alcun frutto: dallo spendere assai ne risultava assai gravezze, dalle gravezze infinite querele del popolo; e perchè questa guerra era amministrata da un magistrato di dieci cittadini, ...
l'universale cominciò a recarselo in dispetto, come quello che fosse cagione e della guerra e delle spese di essa.»
Qui i fatti sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una doppia serie, l'una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo intelligente; l'altra semplicissima che ti dà la causa apparente e superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte l'universale, con una serietà ed una sicurezza, che rende profondamente ironica la conclusione.
I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella natura e nell'uomo, non vi senti alcuno artificio.
Ma è un'apparenza.
Essi sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il suo posto, ha il suo valore di causa o di effetto, ha il suo ufficio in tutta la catena: il fatto non è solo fatto, o accidente, ma è ragione, considerazione: sotto la narrazione si cela l'argomentazione.
Così l'autore ha potuto in poche pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo alla sua storia di Firenze.
I suoi ragionamenti sono anch'essi fatti intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra.
Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da un'acuta osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia.
Molti di questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di tutti, com'è quel «ritirare le cose a' loro princìpi», o quell'ironia de' «profeti disarmati», o «gli uomini si stuccano del bene, e del male si affliggono», o «gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli».
Di queste sentenze o pensieri ce ne sono raccolte.
E sono un intero arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue spoglie.
Come esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata e peregrina, ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi.
Con la forma scolastica rovina la forma letteraria, fondata sul periodo.
Ne' lavori didascalici il periodo era una forma sillogistica dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua maggiore e dalle sue idee medie, ciò che dicevasi dimostrazione, se la materia era intellettuale, o descrizione, se la materia era di puri fatti.
Machiavelli ti dà semplici proposizioni, ripudiato ogni corteggio; non descrive e non dimostra, narra o enuncia, e perciò non ha artificio di periodo.
Non solo uccide la forma letteraria, ma uccide la forma stessa come forma, e fa questo nel secolo della forma, la sola divinità riconosciuta.
Appunto perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto e la forma è nulla.
O, per dire più corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o materiale.
Ciò che a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole, o morale, o bella, ma che la sia.
Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è inutile cercare se possa o debba essere altrimenti.
La base della vita, e perciò del sapere, è il «Nosce te ipsum», la conoscenza del mondo nella sua realtà.
Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il moralizzare sono frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati all'immaginazione.
Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento astratto, etico e poetico.
Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo motto è: «Nil admirari».
Non si maraviglia e non si appassiona, perchè comprende, come non dimostra e non descrive, perchè vede e tocca.
Investe la cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e le figure, i periodi e gli ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione.
Sceglie la via più breve, e perciò la diritta: non si distrae e non distrae.
Ti dà una serie stretta e rapida di proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti gli accidenti, e tutti gli episodi.
Ha l'aria del pretore, che «non curat de minimis», di un uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo, nè voglia di guardarsi attorno.
Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un artificio, come talora è in Tacito e sempre è nel Davanzati, ma è naturale chiarezza di visione, che gli rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme pienezza di cose, che non gli fa sentire necessità di riempiere gli spazi vuoti con belletti e impolpature, che tanto piacciono a' cervelli oziosi.
La sua semplicità talora è negligenza; la sua sobrietà talora è magrezza: difetti delle sue qualità.
E sono pedanti quelli che cercano il pel nell'uovo, e gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina prosa trovino latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze.
La prosa del Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura, non interna coesione: vi abbonda l'affetto e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto.
Nella prosa del Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura, la cui espressione è il periodo.
Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel lusso di congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione interna.
Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella coscienza, indifferente e scettica.
Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori.
Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o frivolo.
Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò rettorica: l'animo vi rimane profondamente indifferente.
Monsignor della Casa scrive l'orazione a Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno, salvo che qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti riesce falso.
Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel tempo, come rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la principale importanza della vita ne' costumi e ne' modi.
Anche l'intelletto, in quella sua virilità ozioso, poneva la principale importanza della composizione ne' costumi e ne' modi, ovvero nell'abito.
Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale, un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo.
I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche, i poeti petrarcheggiavano, i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e rettorico, con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o indifferenza dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di tutta l'anima.
Ci era lo scrittore, non ci era l'uomo.
E fin d'allora fu considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che dicevasi «forma letteraria», nella piena indifferenza dell'animo: divorzio compiuto tra l'uomo e lo scrittore.
Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna.
Qui l'uomo è tutto, e non ci è lo scrittore, o ci è solo in quanto uomo.
Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un'arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione.
Talora ci si prova, e ci riesce maestro; ed è, quando vuol fare il letterato anche lui.
L'uomo è in lui tutto.
Quello che scrive è una produzione immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro, cose e impressioni spesso condensate in una parola.
Perchè è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e presente.
Cerca la cosa, non il suo colore: pure la cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello, perciò naturalmente colorita, traversata d'ironia, di malinconia, d'indignazione, di dignità, ma principalmente lei nella sua chiarezza plastica.
Quella prosa è chiara e piena come un marmo, ma un marmo qua e là venato.
È la grande maniera di Dante che vive là dentro.
Parlando dei mutamenti introdotti al medio evo ne' nomi delle cose e degli uomini, finisce così: «e i Cesari e i Pompei Pietri, Mattei e Giovanni diventarono».
Qui non ci è che il marmo, la cosa ignuda; ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le impressioni fatte da quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei Cesari e Pompei, il disprezzo per quei Pietri e Mattei, lo sdegno di quel mutamento; e lo vedi alla scelta caratteristica de' nomi, al loro collocamento in contrasto come nemici, e a quell'ultimo ed energico «diventarono», che accenna a mutamenti non solo di nomi, ma di animi.
Questa prosa asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto già adulto emancipato da elementi mistici, etici e poetici, e divenuto il supremo regolatore del mondo: la logica o la forza delle cose, il fato moderno.
Questo è in effetti il senso intimo del mondo, come il Machiavelli lo concepisce.
Lasciando da parte le sue origini, il mondo è quello che è, un attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi proprie.
Ciò che dicesi «fato», non è altro che la logica, il risultato necessario di queste forze, appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie, interessi, mosse e regolate da una forza superiore, lo spirito umano, il pensiero, l'intelletto.
Il Dio di Dante è l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato era sapienza.
Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza e la regola delle forze mondane: il risultato è scienza.
- Bisogna amare -, dice Dante.
- Bisogna intendere -, dice Machiavelli.
L'anima del mondo dantesco è il cuore: l'anima del mondo machiavellico e il cervello.
Quel mondo è essenzialmente mistico ed etico: questo è essenzialmente umano e logico.
La virtù muta il suo significato.
Non è sentimento morale, ma è semplicemente forza o energia, la tempra dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso, perchè avea la forza di operare secondo logica, cioè di accettare i mezzi, quando aveva accettato lo scopo.
Se l'anima del mondo è il cervello, hai una prosa che è tutta e sola cervello.
Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni.
La storia di Firenze sotto forma narrativa è una logica degli avvenimenti.
Dino scrive col cuore commosso, con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo, tutto offende il suo senso morale.
Vi domina il sentimento etico, come in Dante, nel Mussato, in tutt'i trecentisti.
Ma ciò che interessa il Machiavelli è la spiegazione de' fatti nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e meditativo, a modo di filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo.
I personaggi non sono còlti nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione: non è una storia drammatica.
L'autore non è sulla scena, nè dietro la scena; ma è nella sua camera, e mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i motivi.
La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e tutto raccolto in questo lavoro intellettivo, non distratto da emozioni e impressioni.
È l'apatia dell'ingegno superiore, che guarda con compassione a' moti convulsi e nervosi delle passioni.
Ne' Discorsi ci è maggior vita intellettuale.
L'intelletto si stacca da' fatti, e vi torna, per attingervi lena e ispirazione.
I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira.
Narra breve, come chi ricordi quello che tutti sanno, ed ha fretta di uscirne.
Ma, appena finito il racconto, comincia il discorso.
L'intelletto, come rinvigorito a quella fonte, se ne spicca tutto pieno d'ispirazioni originali, sorpreso e contento insieme.
Senti lì il piacere di quell'esercizio intellettuale e di quella originalità, di quel dir cose che a' volgari sembrano paradossi.
Quei pensieri sono come una schiera ben serrata, dove non penetra niente dal di fuori, a turbarvi l'ordine.
Non è una mente agitata nel calore della produzione tra quel flutto d'immaginazioni e di emozioni che ti annunzia la fermentazione come avviene talora anche a' più grandi pensatori.
È l'intelletto pieno di gioventù e di freschezza, tranquillo nella sua forza, e in sospetto di tutto ciò che non è lui.
Digressioni, immagini, effetti paragoni, giri viziosi, perplessità di posizioni, tutto è sbandito in queste serie disciplinate d'idee, mobili e generative, venute fuori da un vigor d'analisi insolito e legate da una logica inflessibile.
Tutto è profondo, ed è così chiaro e semplice, che ti par superficiale.
Il fondamento de' Discorsi è questo, che gli uomini «non sanno essere nè in tutto buoni, nè in tutto tristi», e perciò non hanno tempra logica, non hanno virtù.
Hanno velleità, non hanno volontà.
Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni, superstizioni tolgono loro la risolutezza.
Perciò «stanno» volentieri «in sull'ambiguo», e scelgono le «vie di mezzo», e «seguono le apparenze».
Ci è nello spirito umano uno stimolo o appetito insaziabile che lo tiene in continua opera e produce il progresso storico.
Ond'è che gli uomini non sono tranquilli, e salgono di un'ambizione in un'altra, e prima si difendono, e poi offendono, e più uno ha, più desidera.
Sicchè negli scopi gli uomini sono infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e incerti.
Quello che degl'individui, si può dire anche dell'uomo collettivo, come famiglia, o classe.
Nelle società non ci è in fondo che due sole classi, degli «abbienti» e de' «non abbienti», de' ricchi e de' poveri.
E la storia non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi non ha.
Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi.
E sono liberi, quando hanno a fondamento l'«equalità».
Perciò libertà non può essere, dove sono «gentiluomini» o classi previlegiate.
È chiaro che una scienza o arte politica non è possibile, quando non abbia per base la conoscenza della materia su che si ha a esercitare, cioè dell'uomo come individuo e come classe.
Perciò una gran parte di questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi, degli ottimati o gentiluomini, de' principi, de' francesi, de' tedeschi, degli spagnuoli, d'individui e di popoli.
Sono ritratti finissimi per originalità di osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il «carattere», cioè quelle forze che movono individui e popoli o classi ad operare così o così.
Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza propria e immediata; e perciò freschissime e vive anche oggi.
Poichè il carattere umano ha questa base comune, che i desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed esitante è la virtù del conseguirli, hai disproporzione tra lo scopo e i mezzi; onde nascono le oscillazioni e i disordini della storia.
Perciò la scienza politica o l'arte di condurre e governare gli uomini ha per base la precisione dello scopo e la virtù de' mezzi; e in questa consonanza è quella energia intellettuale, che fa grandi gli uomini e le nazioni.
La logica governa il mondo.
Questo punto di vista logico, preponderante nella storia, comunica all'esposizione una calma intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di uomo che sa e vuole.
Il cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello.
Più uno sa, e più osa.
Quando la tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro.
L'uomo allora non sa quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua immaginazione e dalle sue passioni: com'è proprio del volgo.
Un'applicazione di questa implacabile logica è il Principe.
Machiavelli biasima i principi che per fraude o per forza tolgono la libertà a' popoli.
Ma, avuto lo Stato, indica loro con quali mezzi debbano mantenerlo.
Lo scopo non è qui la difesa della patria, ma la conservazione del principe: se non che il principe provvede a se stesso, provvedendo allo Stato.
L'interesse pubblico è il suo interesse.
Libertà non può dare, ma può dare buone leggi che assicurino l'onore, la vita, la sostanza de' cittadini.
Dee mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo in freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti.
Governi i sudditi, non ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli, «non ingannato da loro, ma ingannando loro».
Come stanno alle apparenze, il principe dee darsi tutte le buone apparenze, e non volendo essere, parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti e degl'ingegni.
Nè tema d'essere scoperto; perchè gli uomini sono naturalmente semplici e creduli.
Ciò che in loro ha più efficacia è la paura: perciò il principe miri a farsi temere più che amare.
Soprattutto eviti di rendersi odioso o spregevole.
Chi legge il trattato De regimine principum di Egidio Colonna vi troverà un magnifico mondo etico, senza alcun riscontro con la vita reale.
Chi legge questo Principe del Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico, fondato sullo studio dell'uomo e della vita.
L'uomo vi è come natura, sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non secondo criteri morali, ma secondo criteri logici.
Ciò che gli si dee domandare non è se quello che egli fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra' mezzi e lo scopo.
Il mondo non è governato dalla forza come forza, ma dalla forza come intelligenza.
L'Italia non ti potea dare più un mondo divino ed etico: ti dà un mondo logico.
Ciò che era in lei ancora intatto era l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo dell'intelletto, purgato dalle passioni e dalle immaginazioni.
Machiavelli bisogna giudicarlo da quest'alto punto di vista.
Ciò a cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei.
La chiarezza dell'intelletto non intorbidato da elementi soprannaturali o fantastici o sentimentali è il suo ideale.
E il suo eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che comprende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istrumenti.
Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome del genere umano.
Veggasi il capitolo decimo, una delle proteste più eloquenti che sieno uscite da un gran cuore.
Ma, posto lo scopo, la sua ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo.
La responsabilità morale è nello scopo, non è ne' mezzi.
Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza.
Ammette il terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole.
L'odioso è il male fatto per libidine o per passione o per fanatismo, senza scopo.
Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che pur bisogna andare.
Quando Machiavelli scrivea queste cose, l'Italia si trastullava ne' romanzi e nelle novelle, con lo straniero a casa.
Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato.
La tempra era rotta.
Tutti volevano cacciar lo straniero, a tutti «puzzava il barbaro dominio»; ma erano velleità.
E si comprende come il Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra attaccando il male nella sua radice.
Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi.
Al contrario, quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro.
E Machiavelli glorifica la tempra anche nel male.
Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia, intelletto chiaro e animo fermo, ancorachè destituito d'ogni senso morale, che il buon Pier Soderini, cima di galantuomo, ma «anima sciocca», che per la sua incapacità e la sua fiacchezza perdette la repubblica.
Ma, se in Italia la tempra era infiacchita, lo spirito era integro.
Se da una parte Machiavelli poneva a base della vita l'essere «uomo», iniziando l'età virile della forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico dello spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza incoerente, cioè a dire indisciplinata e senza scopo.
Il tipo cavalleresco, com'era concepito in Italia, era ridicolo per questo, che si presentava all'immaginazione come un esercizio incomposto di una forza gigantesca senza serietà di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta la forza ne' fini più seri e più frivoli: ciò che rende così comici Morgante, Mandricardo, Fracasso.
Ci erano certo i fini cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa degli oppressi, ma che parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici non altrimenti che quegli effetti straordinari di forza corporale.
Si può dire di quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano quello che Doralice dicea a Mandricardo, quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello avea fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse, «fu naturale ferita di core» - Lo spirito italiano adunque da una parte metteva in caricatura il medio evo come un giuoco disordinato di forze, e dall'altra gittava la base di una nuova età su questo principio virile, che la forza è intelligenza, serietà di scopo e di mezzi.
Ciò che l'Italia distruggeva, ciò che creava, rivelava una potenza intellettuale, che precorreva l'Europa di un secolo.
Ma in Italia c'era l'intelligenza e non ci era la forza.
E si credeva con la superiorità intellettuale di potere cacciar gli stranieri.
Era una intelligenza adulta, svegliatissima, ma astratta, una logica formale nella piena indifferenza dello scopo.
Era la scienza per la scienza, come l'arte per l'arte.
Nella coscienza non ci era più uno scopo, nè un contenuto.
E quando la coscienza è vuota, il cuore è freddo, e la tempra è fiacca anche nella maggiore virilità dell'intelletto.
Il movimento dello spirito era stato assolutamente negativo e comico.
Agl'italiani era più facile ridere delle forze indisciplinate che disciplinarsi, e più facile ridere degli stranieri che mandarli via.
Il frizzo era l'attestato della loro superiorità intellettuale e della loro decadenza morale.
Mancava non la forza fisica, e non il coraggio che ne è la conseguenza, ma la forza morale, che ci tenga stretti intorno ad una idea, e risoluti a vivere e a morire per quella.
Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima di questa decadenza, o, com'egli diceva, «corruttela»:
«Qui, - scrive - è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse ne' capi.
Specchiatevi ne' duelli e ne' congressi de' pochi, quanto gl'italiani siano superiori con le forze, con la destrezza, con l'ingegno.»
Pure l'Italia era corrotta, perchè difettiva di forze morali, e perciò di un degno scopo, che riempisse di sè la coscienza nazionale Di lui è questo grande concetto: che il nerbo della guerra non sono i danari, nè le fortezze, nè i soldati, ma le forze morali, o, com'egli dice, il patriottismo e la disciplina.
Di quella corruzione italiana la principal causa era il pervertimento religioso.
Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui Lutero era il comento:
«La ...
religione, se ne' princìpi della repubblica cristiana si fosse mantenuta secondo che dal fondatore di essa fu ordinato, sarebbero gli Stati e le repubbliche più felici e più unite ch'elle non sono.
Nè si può fare altra maggiore coniettura della declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione.
Chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo o la rovina o il flagello.»
Certo, non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio paese, ma è un dovere, di cui l'illustre uomo sente tutta la grandezza:
«Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi.»
Per lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo.
Il suo sguardo abbraccia tutta la storia del mondo.
Vede tanta gloria in Assiria, in Media, in Persia, in Grecia, in Italia e Roma.
Celebra il regno de' Franchi, il regno de' Turchi, quello del soldano, e le geste della «setta saracina», e le virtù «de' popoli della Magna» al tempo suo.
Lo spirito umano, immutabile e immortale, passa di gente in gente e vi mostra la sua virtù.
E quando gitta l'occhio sull'Italia, il paragone lo strazia.
Le sue più belle pagine storiche sono dove narra la decadenza di Genova, di Venezia, di altre città italiane in tanto fiorire degli Stati europei.
Non adulare il suo paese, ma dirgli il vero, fargli sentire la propria decadenza, perchè ne abbia vergogna e stimolo, descrivere la malattia e notare i rimedi, gli pare ufficio d'uomo dabbene.
Questo sentimento del dovere dà alle sue parole una grande elevatezza morale:
«Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna non fossero più chiari del sole, andrei nel parlare più rattenuto.
Ma, essendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi, acciocchè gli animi de' giovani che questi miei scritti leggeranno, possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli...
Perchè gli è ufficio di uomo buono, quel bene, che per la malignità dei tempi e della fortuna non ha potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè, sendone molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo.»
Queste parole sono un monumento.
Ci si sente dentro lo spirito di Dante.
Machiavelli tiene la sua promessa.
Giudica con severità uomini e cose.
Del papato tutti sanno quello che ha scritto.
Nè è più indulgente verso i principi:
«Questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma l'ignavia loro; perchè, non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possono mutarsi, ...
quando poi vennero i tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a difendersi.»
Degli avventurieri scrive:
«Il fine delle loro virtù è stato che [Italia] è stata corsa da Carlo, predata da Luigi, forzata da Ferrando e vituperata da' svizzeri; ...
tanto che essi han condotto Italia schiava e vituperata.»
Nè è meno severo verso i gentiluomini, avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa pittura:
«Gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi vivono de' proventi delle loro possessioni abbondantemente, senz'avere alcuna cura o di coltivare o di alcuna altra necessaria fatica a vivere.
Questi tali sono perniciosi in ogni provincia: ma più perniciosi sono quelli che oltre alle predette fortune comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro.
Di queste due sorte di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia.
Di qui nasce che in quelle provincie non è stato mai alcuno vivere politico, perchè tali generazioni di uomini sono nemici di ogni civiltà.»
Degna di nota è qui l'idea, tutta moderna, che il fine dell'uomo è il lavoro, e che il maggior nemico della civiltà è l'ozio: principio che ha gittato giù i conventi, ed ha rovinato dalla radice non solo il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il sistema feudale, fondato su questo fatto: che l'ozio de' pochi vivea del lavoro de' molti.
Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte le cause della decadenza italiana, potea ben dire, accennando a Savonarola:
«Ond'è che a Carlo, re di Francia, fu lecito a pigliare Italia col gesso; e chi diceva come di questo ne erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quelli che credeva, ma questi ch'io ho narrati.»
Gli oziosi sono fatalisti.
Spiegano tutto con la fortuna.
Anche allora de' mali d'Italia accagionavano la mala sorte.
Machiavelli scrive:
«La fortuna dimostra la sua potenza, dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta i suoi impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini e i ripari a tenerla.
E se voi considererete l'Italia che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun riparo.»
Essendo l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca un redentore, un principe italiano, che come Teseo o Ciro o Mosè o Romolo, la riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si richieda l'opera di un solo, a governarlo l'opera di tutti.
Ne' grandi pericoli i romani nominavano un dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non vede altro scampo che nella dittatura:
«Cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto, come Cesare, ma per riordinarla, come Romolo.»
Di Cesare scrive un giudizio originale rimasto celebre:
«Nè sia è alcuno che s'inganni per la gloria di Cesare, sentendolo massime celebrare dagli scrittori; perchè questi che lo lodano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dell'imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori pèarlassero liberamente di lui.
Ma chi vuol conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbero, vegga quello che dicono di Catilina.
E tanto è più detestabile Cesare, quanto è più da biasimare quello che ha fatto, che quello che ha voluto fare un male.
Vegga pure con quante laudi celebrano Bruto; talchè non potendo biasimare quello per la sua potenza, e' celebrano il nimico suo...
E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia, il mondo abbia con Cesare.»
Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con la forza, non solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo:
«Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono loro proposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte gli rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di se una sempiterna infamia.»
Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo, che sani l'Italia dalle sue ferite, «e ponga fine ...
a' sacchi di Lombardia, alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite».
È l'idea tradizionale del Redentore o del Messia.
Anche Dante invocava un messia politico, il veltro.
Se non che il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino dell'impero; dove il salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano, perchè la sua Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori di lei era straniero, barbaro, «oltramontano».
Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano da Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica Monarchia dell'uno col Principe dell'altro, così moderno ne' concetti e nella forma.
L'idea del Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di Dante.
Ed oggi è facile assegnarne le cagioni.
«Patria», «libertà», «Italia», «buoni ordini», «buone armi», erano parole per le moltitudini, dove non era penetrato alcun raggio d'istruzione e di educazione.
Le classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita privata, tra ozi idillici e letterari, erano cosmopolite, animate dagl'interessi generali dell'arte e della scienza, che non hanno patria.
Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene.
Gli stranieri prima la spaventarono con la ferocia degli atti e de' modi; poi la vinsero con le moine, inchinandola e celebrando la sua sapienza.
E per lungo tempo gl'italiani, perduta libertà e indipendenza, continuarono a vantarsi per bocca de' loro poeti signori del mondo, e a ricordare le avite glorie.
Odio contro gli stranieri ce ne era, ed anche buona volontà di liberarsene.
Ma ci era così poca fibra, che di una redenzione italica non ci fu neppure il tentativo.
Nello stesso Machiavelli fu una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio per giungere alla sua attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico e poetico fuori del suo solito, e che testimonia più le aspirazioni di un nobile cuore che la calma persuasione di un uomo politico.
Furono illusioni.
Vedeva l'Italia un po' a traverso de' suoi desidèri.
Il suo onore, come cittadino, e di avere avuto queste illusioni.
E la sua gloria, come pensatore, è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via.
Le illusioni del presente erano la verità del futuro.
Non è maraviglia che il Machiavelli con tanta esperienza del mondo, con tanta sagacia d'osservazione abbia avuto illusioni, perchè nella sua natura ci entrava molto del poetico.
Vedilo nell'osteria giocare con l'oste, con un mugnaio, con due fornaciari a «picca» e a «tric trac»:
«E ...
nascono molte contese e molti dispetti di parole ingiuriose, e il più delle volte si combatte per un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano.»
Questo non è che plebeo, ma diviene profondamente poetico nel comento appostovi:
«Rinvolto in quella viltà, traggo il cervello di muffa, e sfogo la malignità di questa mia sorte, sendo contento che mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne vergognasse.»
Vedilo tutto solo pel bosco con un Petrarca o con un Dante «libertineggiare» con lo spirito, fantasticare, abbandonato alle onde dell'immaginazione.
«Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nello scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste contadina piena di fango e di loto, e mi metto abiti regali e curiali, e vestito decentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini; da' quali ricevuto amorevolmente, mi pasco del cibo che solum è mio; e non mi vergogno di parlar con loro e domandarli delle loro azioni, ed essi per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte, tutto mi trasferisco in loro.»
Quel «trasferirsi in loro», quel «libertineggiare» sono frasi energiche di uno spirito contemplativo, estatico, entusiastico.
Ci è una parentela tra Dante e Machiavelli.
Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito del Boccaccio, che si beffa della «divina Commedia», e cerca la commedia in questo mondo.
Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e divinatrice.
Ecco: il principe leva la bandiera, grida: - Fuori i barbari! - A modo di Giulio.
Il poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua immaginazione:
«Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio?»
E finisce co' versi del Petrarca:
Virtù contra al furore
prenderà l'armi, e fia il combatter corto:
chè l'antico valore
negl'italici cor non è ancor morto.
Ma furono brevi illusioni.
C'era nel suo spirito la bella immagine di un mondo morale e civile, e di un popolo virtuoso e disciplinato, ispirata dall'antica Roma: ciò che lo fa eloquente ne' suoi biasimi e nelle sue lodi.
Ma era un mondo poetico troppo disforme alla realtà, ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo, troppo simile per molte parti a' suoi contemporanei.
Ond'è che la sua vera musa non è l'entusiasmo, è l'ironia.
La sua aria beffarda congiunta con la sagacia dell'osservazione lo chiariscono uomo del Risorgimento De' principi ecclesiastici scrive:
«Costoro soli hanno Stati e non gli difendono, hanno sudditi e non gli governano, e gli Stati per essere indifesi non sono lor tolti, ed i sudditi per non essere governati non se ne curano, nè pensano nè possono alienarsi da loro.
...
Essendo quelli retti da cagione superiore, alla quale la mente umana non aggiunge, lascerò il parlarne; perchè, essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio d'uomo temerario e presuntuoso il discorrerne.»
In tanta riverenza di parole non è difficile sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio ironico che trovi ne' contemporanei.
Famosi sono i suoi ritratti per l'originalità e vivacità dell'osservazione.
De' francesi e spagnuoli scrive:
«Il francese ruberia con l'alito, per mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi ha rubato: natura contraria dello spagnuolo, che di quello che ti ruba, mai ne vedi nulla.»
Da questo profondo ed originale talento di osservazione, da questo spirito ironico uscì la Mandragola, l'alto riso nel quale finirono le sue illusioni e i suoi disinganni.
Dopo i primi tentativi idillici, la commedia si era chiusa nelle forme di Plauto e di Terenzio.
L'Ariosto scrivea per la corte di Ferrara; il cardinale di Bibbiena scrivea per le corti di Urbino e di Roma.
Vi si rappresentavano anche con molta magnificenza traduzioni dal latino.
Talora gli attori erano fanciulli.
«Fu pur troppo nuova cosa, - scrive il Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un palmo servare quella gravità, quelli gesti così severi, [simular] parasiti e ciò che fece mai Menandro.»
Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o intromesse erano le «moresche», balli mimici.
Le decorazioni magnifiche.
Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi
«un tempio, ...
tanto ben finito, - dice il Castiglione - che non saria possibile a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con istorie bellissime: finte le finestre di alabastro, tutti gli architravi e le cornici d'oro fino e azzurro oltramarino, ...
figure intorno tonde finte di marmo, colonnette lavorate...
Da un de' capi era un arco trionfale...
Era finta di marmo, ma era pittura, la storia delli tre Orazi, bellissima...
In cima dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un bello atto, che ferìa con un'asta un nudo, che gli era a' piedi.»
L'Italia si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue arti, architettura, scultura, pittura.
Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi.
Quattro intromesse, una «moresca di Iasón» o Giasone, un carro di Venere, un carro di Nettuno, un carro di Giunone.
La prima intromessa è così descritta dal Castiglione:
«La prima fu una moresca di Iasón, il quale comparse nella scena da un capo ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa bellissima dall'altro furon visti in un tratto due tori tanto simili al vero, che alcuni pensàrno che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca.
A questi si accostò il buon Iasón, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro, e poi seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco dal palco uomini armati all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa.
E questi ballarono una fiera moresca, per ammazzare Iasón; e poi quando furono all'entrare, si ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedeano morire.
Dietro ad essi se n'entrò Iasòn, e subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando eccellentissimamente, e questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa.»
Finita la commedia nacque sul palco all'improvviso un Amorino, che dichiarò con alcune stanze il significato delle intromesse.
Poi
«si udì una musica nascosa di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore: e così fu finita la festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide.»
dice sempre il Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte ad ordinarla.
Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un facsimile di Calandrino, il marito sciocco, motivo comico del Decamerone, rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle.
Non vi manca il negromante o l'astrologo che vive a spese de' gonzi.
L'intreccio nasce da un fratello e una sorella similissimi di figura, che vestiti or da uomo, or da donna generano equivoci curiosissimi.
Dov'è lo sciocco ci è anche il furbo, e il furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il cui pedagogo ci perde le sue lezioni.
Molto bella è una scena tra il pedagogo e Fessenio, il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia.
Come si vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio.
La tela è antica, lo spirito è moderno.
Assisti ad una rappresentazione di una delle più ciniche novelle del Decamerone.
Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di Lorenzo de' Medici.
È uno sguardo allegro e superficiale gittato sul mondo.
I caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni.
Pare che quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire, e che tutta la loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta nelle gole de' cantanti e nelle gambe delle ballerine.
Queste erano le commedie dette «d'intreccio», sullo stesso stampo delle novelle.
A prima vista ti pare alcuna cosa di simile la Mandragola.
Anche ivi è grande varietà d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani.
Ma niente è lasciato al caso.
Machiavelli concepisce la commedia, come ha concepito la storia.
Il suo mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna di qualità proprie, che debbono condurre inevitabilmente al tale risultato.
L'interesse è perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo.
Il protagonista è il solito marito sciocco.
Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo istrutto e che sa di latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor dottrina di lui, ma più pratica del mondo.
Ci è già qui un concetto assai più profondo che non è in Calandro: si sente il gran pensatore.
L'obbiettivo dell'azione comica è la moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera Lucrezia.
E si tratta di vincerla non con la forza, ma con l'astuzia.
Gli antecedenti sono simili a quelli della Lucrezia romana.
Callimaco, come Sesto, sente vantar la sua bellezza, e lascia Parigi, e torna in Firenze sua patria, risoluto di farla sua.
La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina.
Il mondo è mutato e rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia.
Come Machiavelli ha potuto esercitare il suo ingegno a scriver commedie?
Scusatelo con questo, che s'ingegna
con questi van pensieri
fare il suo tristo tempo più soave;
perchè altrove non ave
dove voltare il viso;
chè gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altre virtue,
non sendo premio alle fatiche sue.
Cattivi versi, ma strazianti.
Il suo riso è frutto di malinconia.
Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de' Medici e Federigo d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore, il cardinale da Bibbiena, «assassinato di amore», e il Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno scrivea gli Asolani e l'altro la Calandria, e Machiavelli parlava al deserto, ammonendo, consigliando, e non udito e non curato, fece come gli altri, scrisse commedie, ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e i cardinali.
Callimaco, l'innamorato di Lucrezia, si associa all'impresa Ligurio, un parasito che usava in casa Nicia.
Lo sciocco è Nicia, il furbo è Ligurio, l'amico di casa, come si direbbe oggi.
Ligurio tiene le fila in mano, e fa movere tutti gli attori a suo gusto, perchè conosce il loro carattere, ciò che li move.
Ligurio è un essere destituito d'ogni senso morale e che per un buon boccone tradirebbe Cristo.
Non ha bisogno di essere Iago, perchè Nicia non è Otello.
E un volgare mariuolo, che con un po' più di spirito farebbe ridere.
Riesce odioso e spregevole, il peggior tipo d'uomo che abbia nel Principe concepito Machiavelli.
Fessenio è più allegro e più spiritoso, perciò più tollerabile.
Ciò che move Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia: finisce le sue geste in cantina.
Ma questo suo lato comico è appena indicato, e questa figura ti riesce volgare e fredda.
Un altro associato di Callimaco è il suo servo Siro.
Costui ha poca parte, ma è assai ben disegnato.
Ode tutto, vede tutto, capisce tutto, ed ha aria di non udire, non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo a' suoni.
Ma questo lato comico è poco sviluppato, e ti riesce anche lui freddo.
Ciò che non guasta nulla, essendo una parte secondaria.
Colui che è dietro la scena e fa ballare i suoi figurini è Ligurio.
E sembra che l'ambizione di questo furfante sia di nascondere sè, e mettere in vista tutto il suo mondo.
Poco interessante per se stesso, lo ammiri nella sua opera, e perdi lui di vista.
Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete false.
La parte odiosa è riversata sul capo di Ligurio.
A lui le smanie e i delirii.
Non è amore petrarchesco, e non è cinica volgarità: è vero amor naturale coi colori suoi, rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende comico.
«...
Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte m'assalta tanto desio d'essere una volta con costei, ch'io mi sento dalle piante de' piè al capo tutto alterare: le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si sbarba dal petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira.»
Ma queste sono figure secondarie.
L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il marito sciocco, sì sciocco che diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato e lo conduce lui stesso al letto nuziale.
L'autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie, concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne' modi più acconci a metterlo in lume.
La sua semplicità è accompagnata con tanta prosunzione di saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che l'effetto comico se ne accresce.
E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene sempre la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori.
Nelle ultime scene ci è una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel teatro antico e moderno.
Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia.
L'azione, così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e ti rivela inesplorate profondità.
Gl'istrumenti adoperati a vincer Lucrezia sono il confessore e la madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza superstiziosa dell'altra.
E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è terribilmente ignudo, scopre senza pietà quel putridume Sostrata, la madre, in poche pennellate è ammirabilmente dipinta.
È una brava donna, ma di poco criterio, e avvezza a pensare col cervello del suo confessore.
Alle ragioni della figliuola risponde: - Io non ti so dire tante cose, figliuola mia.
Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu di poi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol bene -.
E non si parte mai di là, è la sua idea fissa, la sua sola idea: - T'ho detto e ridicoti che se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi -.
Il confessore sa perfettamente che madre è questa.
«...
È ...
una bestia, - dice - e sarammi un grande aiuto a condurre Lucrezia alle mie voglie».
-
Il carattere più interessante è fra Timoteo, il precursore di Tartufo, meno artificiato, anzi tutto naturale.
Fa bottega della chiesa, della Madonna, del purgatorio.
Ma gli uomini non ci credono più, e la bottega rende poco.
E lui aguzza l'ingegno.
Se la prende co' frati, che non sanno mantenere la riputazione dell'immagine miracolosa della Madonna:
«Io dissi mattutino, lessi una Vita de' santi padri, andai in chiesa, ed accesi una lampada ch'era spenta, mutai il velo a una Madonna che fa miracoli.
Quante volte ho io detto a questi frati che la tengano pulita? E si maravigliano poi che la divozione manca.
Oh quanto poco cervello e in questi mia frati!»
Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato: còlto sul fatto in un dialogo con una sua penitente, pittura di costumi profonda nella sua semplicità.
Sta spesso in chiesa, perchè «in chiesa vale più la sua mercanzia».
È di mediocre levatura, buono a uccellar donne:
«...
Madonna Lucrezia è savia e buona.
Ma io la giungerò in su la bontà, e tutte le donne hanno poco cervello, e come n'e una che sappia dire due parole, e' se ne predica; perchè in terra di ciechi chi ha un occhio è signore.»
Conosce bene i suoi polli:
«Le più caritative persone che sieno son le donne, e le più fastidiose.
Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le intrattiene, ha l'utile e i fastidi insieme.
Ed è vero che non è il mele senza le mosche.»
Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del mestiere con la facilità indifferente e meccanica dell'abitudine.
A Ligurio che, promettendo larga limosina, lo richiede che procuri un aborto, risponde: - Sia col nome di Dio, facciasi ciò che volete, e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa.
...
Datemi ...
cotesti danari, da poter cominciare a far qualche bene -.
Parla spesso solo, e si fa il suo esame, e si dà l'assoluzione, sempre che glie ne venga utile:
«Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai.
La cosa conviene che stia segreta, perché l'importa così a loro dirla come a me.
Sia come si voglia, io non me ne pento.»
Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia:
«Dio sa ch'io non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio ufficio, intratteneva i miei divoti.
Capitommi innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intignere il dito in un errore, donde io vi ho messo il braccio e tutta la persona, e non so ancora dov'io m'abbia a capitare.
Pure mi conforto che quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura.»
Questo è l'uomo, a cui la madre conduce la figliuola.
Il frate spiega tutta la sua industria a persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa del Vangelo e della storia sacra.
«Io son contenta, - conchiude Lucrezia - ma non credo mai esser viva domattina».
E il frate risponde:
«Non dubitare, figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiolo Raffaello, che t'accompagni.
Andate in buon'ora, e preparatevi a questo misterio, che si fa sera.
- Rimanete in pace, padre -»
dice la madre, e la povera Lucrezia, che non è ben persuasa, sospira:
«Dio m'aiuti e la nostra Donna che non càpiti male».
Quel fatto il frate lo chiama un «misterio», e il mezzano è l'angiol Raffaello!
Queste cose movevano indignazione in Germania e provocavano la Riforma.
In Italia facevano ridere.
E il primo a ridere era il papa.
Quando un male diviene così sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena, e non ha rimedio.
Tutti ridevano.
Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo.
Nel riso di Machiavelli ci è alcun che di tristo e di serio, che oltrepassa la caricatura, e nuoce all'arte.
Evidentemente, il poeta non piglia confidenza con Timoteo, non lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne sta lontano, quasi abbia ribrezzo.
Timoteo è anima secca, volgare e stupida, senz'immaginazione e senza spirito, non è abbastanza idealizzato, ha colori troppo crudi e cinici.
Lo stile nudo e naturale ha aria più di discorso che di dialogo.
Senti meno il poeta che il critico, il grande osservatore e ritrattista.
Appunto perciò la Mandragola è una commedia che ha fatto il suo tempo.
È troppo incorporata in quella società, in ciò ch'ella ha di più reale e particolare.
Quei sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono, non li trovi oggi più.
La depravazione del prete e la sua terribile influenza sulla donna e sulla famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue: non possiamo farne una commedia.
Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella pittura di Nicia, qui perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assimiglia piuttosto un anatomico, che nuda le carni e mostra i nervi e i tendini.
Nella sua immaginazione non ci è il riso e non ci è l'indignazione al cospetto di Timoteo: c'è quella spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe, o l'avventuriere o il gentiluomo.
Sono come animali strani, che, curioso osservatore, egli analizza e descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle emozioni e alle impressioni.
La Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura.
È un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo governato dal caso.
Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le più profonde combinazioni della vita interiore.
L'impulso dell'azione viene da forze spirituali, inevitabili come il fato.
Basta conoscere i personaggi, per indovinare la fine.
Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le cui premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono.
E chi meglio sa calcolarle, colui vince.
Il soprannaturale, il maraviglioso, il caso sono detronizzati.
Succede il carattere.
Quello che Machiavelli è nella storia e nella politica, è ancora nell'arte.
Si distinsero due specie di commedie, «d'intreccio» e «di carattere».
«Commedia d'intreccio» fu detta, dove l'interesse nasce dagli sviluppi dell'azione, come erano tutte le commedie e novelle di quel tempo e anche tragedie.
Si cercava l'effetto nella stranezza e nella complicazione degli accidenti.
Commedia di carattere fu detta, dove l'azione è mezzo a mettere in mostra un carattere.
E sono definizioni viziose.
Hai da una parte commedie sbardellate per troppo cumulo d'intrighi, dall'altra commedie scarne per troppa povertà d'azione.
Machiavelli riunisce le due qualità.
La sua commedia è una vera e propria azione, vivacissima di movimenti e di situazioni, animata da forze interiori, che ci stanno come forze o istrumenti, e non come fini o risultati.
Il carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non come qualità astratta.
Ciò che di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le forme più allegre e più corpulente fino della più volgare e cinica buffoneria, come è il «Don Cuccù», e la «palla di aloè».
Ci è lì tutto Machiavelli, l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo scrittoio.
Di ogni scrittore muore una parte.
E anche del Machiavelli una parte è morta, quella per la quale e venuto a trista celebrità.
È la sua parte più grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua vitale, così vitale che è stata detta il «machiavellismo» Anche oggi, quando uno straniero vuol dire un complimento all'Italia, la chiama patria di Dante e di Savonarola e tace di Machiavelli.
Noi stessi non osiamo chiamarci «figli di Machiavelli».
Tra il grande uomo e noi ci è il machiavellismo.
È una parola, ma una parola consacrata dal tempo, che parla all'immaginazione e ti spaventa come fosse l'orco.
Del Machiavelli è avvenuto quello che del Petrarca.
Si è chiamato «petrarchismo» quello che in lui è un incidente ed è il tutto ne' suoi imitatori.
E si è chiamato «machiavellismo» quello che nella sua dottrina è accessorio e relativo, e si è dimenticato quello che vi è di assoluto e di permanente.
Così è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo e dal meno interessante.
È tempo di rintegrare l'immagine.
Ci è nel Machiavelli una logica formale e c'è un contenuto.
La sua logica ha per base la serietà dello scopo, ciò ch'egli chiama «virtù».
Proporti uno scopo, quando non puoi o non vuoi conseguirlo, è da femmina.
Essere uomo significa «marciare allo scopo».
Ma nella loro marcia gli uomini errano spesso, perchè hanno l'intelletto e la volontà intorbidata da fantasmi e da sentimenti, e giudicano secondo le apparenze.
Sono spiriti fiacchi e deboli quelli che stimano le cose, come le paiono e non come le sono: a quel modo che fa la plebe.
Cacciar via dunque tutte le vane apparenze, e andare allo scopo con lucidità di mente e fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver la stoffa d'uomo.
Quest'uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o un tristo.
Ciò è fuori dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo.
Ciò a che guarda Machiavelli è di vedere se è un uomo ciò a che mira è rifare le radici alla pianta «uomo» in declinazione.
In questa sua logica la virtù è il carattere o la tempra, e il vizio è l'incoerenza, la paura, l'oscillazione.
Si comprende che in questa generalità ci è lezioni per tutti, pe' buoni e pe' birbanti, e che lo stesso libro sembra agli uni il codice de' tiranni, e agli altri il codice degli uomini liberi.
Ciò che vi s'impara è di essere un uomo, come base di tutto il resto.
Vi s'impara che la storia, come la natura, non è regolata dal caso, ma da forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla concordanza dello scopo e de' mezzi; e che l'uomo, come essere collettivo o individuo, non è degno di questo nome, se non sia anch'esso una forza intelligente, coerenza di scopo e di mezzi.
Da questa base esce l'età virile del mondo, sottratta possibilmente all'influsso dell'immaginazione e delle passioni, con uno scopo chiaro e serio, e con mezzi precisi.
Questo è il concetto fondamentale, l'obbiettivo del Machiavelli.
Ma non è principio astratto e ozioso: ci è un contenuto, che abbiamo già delineato ne' tratti essenziali.
La serietà della vita terrestre, col suo istrumento, il lavoro; col suo obbiettivo, la patria; col suo principio, l'eguaglianza e la libertà; col suo vincolo morale, la nazione, col suo fattore, lo spirito o il pensiero umano, immutabile ed immortale, col suo organismo, lo Stato, autonomo e indipendente, con la disciplina delle forze, con l'equilibrio degl'interessi, ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui è di corona la gloria, cioè l'approvazione del genere umano, ed è di base la virtù o il carattere, «agere et pati fortia».
Il fondamento scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come te la porge l'esperienza e l'osservazione.
L'immaginazione, il sentimento, l'astrazione sono così perniciosi nella scienza, come nella vita.
Muore la scolastica, nasce la scienza.
Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi giovane ancora.
È il programma del mondo moderno, sviluppato, corretto, ampliato, più o meno realizzato.
E sono grandi le nazioni che più vi si avvicinano.
Siamo dunque alteri del nostro Machiavelli.
Gloria a lui, quando crolla alcuna parte dell'antico edificio.
E gloria a lui, quando si fabbrica alcuna parte del nuovo.
In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa, e annunziano l'entrata degl'Italiani a Roma.
Il potere temporale crolla.
E si grida il «viva» all'unità d'Italia.
Sia gloria al Machiavelli.
Scrittore, non solo profondo, ma simpatico.
Perchè nelle sue transazioni politiche discerni sempre le sue vere inclinazioni.
Antipapale, antimperiale, antifeudale, civile, moderno e democratico.
E quando, stretto dal suo scopo, propone certi mezzi, non di rado s'interrompe, protesta, ha quasi aria di chiederti scusa e di dirti: - Guarda che siamo in tempi corrotti; e se i mezzi son questi, e il mondo è fatto così, la colpa non è mia.
-
Ciò che è morto del Machiavelli non è il sistema, è la sua esagerazione.
La sua «patria» mi rassomiglia troppo l'antica divinità, e assorbe in sè religione, moralità, individualità.
Il suo «Stato» non è contento di essere autonomo esso, ma toglie l'autonomia a tutto il rimanente.
Ci sono i dritti dello Stato: mancano i dritti dell'uomo.
La «ragione di Stato» ebbe le sue forche, come l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la «salute pubblica» le sue mannaie.
Fu stato di guerra e in quel furore di lotte religiose e politiche ebbe la sua culla sanguinosa il mondo moderno.
Dalla forza uscì la giustizia.
Da quelle lotte uscì la libertà di coscienza, l'indipendenza del potere civile e più tardi la libertà e la nazionalità.
E se chiamate machiavellismo quei mezzi, vogliate chiamare anche machiavellismo quei fini.
Ma i mezzi sono relativi e si trasformano, sono la parte che muore: i fini rimangono eterni.
Gloria del Machiavelli è il suo programma, e non è sua colpa che l'intelletto gli abbia indicati de' mezzi, i quali la storia posteriore dimostrò conformi alla logica del mondo.
Fu più facile il biasimarli, che sceglierne altri.
Dura lex, sed ita lex.
Certo, oggi il mondo è migliorato in questo aspetto.
Certi mezzi non sarebbero più tollerati, e produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva Machiavelli, allontanerebbero dallo scopo.
L'assassinio politico, il tradimento, la frode, le sette, le congiure sono mezzi che tendono a scomparire.
Presentiamo già tempi più umani e civili, dove non sieno più possibili la guerra, il duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato e la salute pubblica.
Sarà l'età dell'oro.
Le nazioni saranno confederate, e non ci sarà altra gara che d'industrie, di commerci e di studi.
È un bel programma.
E quantunque sembri un'utopia, non dispero.
Ciò che lo spirito concepisce, presto o tardi viene a maturità.
Ho fede nel progresso e nell'avvenire.
Ma siamo ben lontani dal Machiavelli.
E anche da' nostri tempi.
E non è co' criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che possiamo giudicare e condannare Machiavelli.
Anche oggi siamo costretti a dire: - Crudele è la logica della storia; ma quella è.
-
Nel machiavellismo ci è una parte variabile nella qualità e nella quantità, relativa al tempo, al luogo, allo stato della coltura, alle condizioni morali de' popoli.
Questa parte, che riguarda i mezzi, è molto mutata, e muterà in tutto, quando la società sia radicalmente rinnovata.
Ma la teoria de' mezzi è assoluta ed eterna, perchè fondata sulle qualità immutabili della natura umana.
Il principio, dal quale si sviluppa quella teoria, è questo, che i mezzi debbono avere per base l'intelligenza e il calcolo delle forze che movono gli uomini.
È chiaro che in queste forze c'è l'assoluto e il relativo, e il torto del Machiavelli, comunissimo a tutt'i grandi pensatori, è di avere espresso in modo assoluto tutto, anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile.
Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l'uomo considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società.
Su questa base sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze sociali.
Gl'inizi della scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura classica unisca esperienza grande, e un intelletto chiaro e libero.
Questo è il machiavellismo, come scienza e come metodo.
Ivi il pensiero moderno trova la sua base e il suo linguaggio.
Come contenuto, il machiavellismo su' rottami del medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le transazioni e i vacillamenti dell'uomo politico, un mondo fondato sulla patria, sulla nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità e serietà dell'uomo.
In letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo è la storia e la politica emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali, e condotte in forma razionale; è il pensiero volto agli studi positivi dell'uomo e della natura, messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche; è il linguaggio purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico, e ridotto nella forma spedita e naturale della conversazione e del discorso.
È l'ultimo e più maturo frutto del genio toscano.
Su questa via incontriamo prima Francesco Guicciardini con tutti gli scrittori politici della scuola fiorentina e veneta, poi Galileo Galilei con la sua illustre coorte di naturalisti.
Francesco Guicciardini, ancorche di pochi anni più giovane di Machiavelli e di Michelangiolo, già non sembra della stessa generazione.
Senti in lui il precursore di una generazione più fiacca e più corrotta, della quale egli ha scritto il vangelo ne' suoi Ricordi.
Ha le stesse aspirazioni del Machiavelli.
Odia i preti.
Odia lo straniero.
Vuole l'Italia unita.
Vuole anche la libertà, concepita a modo suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si avvicina a' presenti ordini costituzionali o misti.
Ma sono semplici desidèri, e non metterebbe un dito a realizzarli.
«Tre cose, - scrive - desidero vedere innanzi alla mia morte, ma dubito, ancora che vivessi molto, non ne vedere alcuna: uno vivere di repubblica bene ordinato nella città nostra, Italia liberata da tutt'i barbari, e liberato il mondo della tirannide di questi scelerati preti.»
Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e l'autonomia delle nazioni, l'affrancamento del laicato, ecco il programma del Machiavelli, divenuto il testamento del Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di tutta la parte liberale e civile europea.
Si può credere che questi fossero i desidèri anche delle classi colte.
Ma erano amori platonici, senza influsso nella pratica della vita.
Il ritratto di quella società è il Guicciardini, che scrive: «Conoscere non è mettere in atto».
Altro è desiderare, altro è fare.
La teoria non è la pratica.
Pensa come vuoi, ma fa come ti torna.
La regola della vita è «l'interesse proprio», «il tuo particolare».
Il Guicciardini biasima «l'ambizione, l'avarizia e la mollizie de' preti» e il dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, «per vedere ridurre questa caterva di scelerati a' termini debiti, cioè a restare o senza vizi o senza autorità»; ma «per il suo particolare» è necessitato «amare la grandezza de' pontefici» e servire a' preti e al dominio temporale.
Vuole emendata la religione in molte parti; ma non ci si mescola, lui, «non combatte con la religione, nè con le cose, che pare che dependono da Dio; perchè questo obbietto ha troppa forza nella mente delli sciocchi».
Ama la gloria e desidera di fare «cose grandi ed eccelse», ma a patto che non sia «con suo danno o incomodità».
Ama la patria, e, se perisce, glie ne duole, non per lei, perchè «così ha a essere», ma per sè, «nato in tempi di tanta infelicità».
È zelante del ben pubblico, ma «non s'ingolfa tanto nello Stato» da mettere in quello tutta la sua fortuna.
Vuole la libertà, ma quando la sia perduta, non è bene fare mutazioni, perchè «mutano i visi delle persone, non le cose, e non puoi fare fondamento sul populo», e quando la vada male, ti tocca «la vita spregiata del fuoruscita».
Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che «governano non ti abbiano in sospetto e neppure ti pongano fra' malcontenti».
Quelli che altrimenti fanno, sono uomini «leggieri».
Molti, è vero, gridano libertà, ma «in quasi tutti prepondera il rispetto dell'interesse suo».
Essendo il mondo fatto così, hai a pigliare il mondo com'è, e condurti di guisa che non te ne venga danno, anzi la maggiore comodità possibile.
Così fanno gli uomini «savi».
La corruttela italiana era appunto in questo, che la coscienza era vuota, e mancava ogni degno scopo alla vita.
Machiavelli ti addita in fondo al cammino della vita terrestre la patria, la nazione, la libertà.
Non ci è più il cielo per lui, ma ci è ancora la terra.
Il Guicciardini ammette anche lui questi fini, come cose belle e buone e desiderabili, ma li ammette sub conditione, a patto che sieno conciliabili col tuo «particulare», come dice, cioè col tuo interesse personale.
Non crede alla virtù, alla generosità, al patriottismo, al sacrificio, al disinteresse.
Ne' più prepondera l'interesse proprio, e mette se francamente tra questi più, che sono i savi: gli altri li chiama «pazzi», come furono i fiorentini, che «vollero contro ogni ragione opporsi», quando «i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta», e intende dell'assedio di Firenze, illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi, tra' quali erano Michelangelo e Ferruccio.
Machiavelli combatte la corruttela italiana, e non dispera del suo paese.
Ha le illusioni di un nobile cuore.
Appartiene a quella generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina cercavano i rimedi, e non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia con la loro caduta.
Nel Guicciardini comparisce una generazione già rassegnata.
Non ha illusioni.
E perchè non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli pure, e ne fa la sua saviezza e la sua aureola.
I suoi Ricordi sono la corruttela italiana codificata e innalzata a regola della vita.
Il dio del Guicciardini è il suo particolare.
Ed è un dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici, o lo Stato del Machiavelli.
Tutti gl'ideali scompariscono.
Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato.
Non rimane sulla scena del mondo che l'individuo.
Ciascuno per sè, verso e contro tutti.
Questo non è più corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita.
Il Guicciardini si crede più savio del Machiavelli, perchè non ha le sue illusioni.
Quel venir fuori sempre con l'antica Roma lo infastidisce, e rompe in questo motto sanguinoso:
«Quanto s'ingannano coloro che ad ogni parola allegano i romani! Bisognerebbe avere una città condizionata com'era la loro, e poi governarsi secondo quello esemplo: il quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un cavallo.»
In questo concetto della vita il Guicciardini è di così buona fede, che non sente rimorso, e non mostra la menoma esitazione, e guarda con un'aria di superiorità sprezzante gli uomini che fanno altrimenti.
Il che avviene, a suo avviso, non per virtù o altezza d'animo, ma «per debolezza di cervello», avendo offuscato lo spirito dalle apparenze, dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle passioni.
Ci si vede l'ultimo risultato a cui giunge lo spirito italiano, già adulto e progredito, che caccia via l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello, o, come dice il Guicciardini, «ingegno positivo».
Perchè l'ingegno sia positivo si richiede la «prudenza naturale», la «dottrina» che dà le regole, l'«esperienza» che dà gli esempli, e il «naturale buono», tale cioè che stia al reale, e non abbia illusioni.
E non basta.
Si richiede anche la «discrezione» o il discernimento, perchè è «grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e per dire così per regola, perchè quasi tutte hanno distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si trovano scritte in su' libri, ma bisogna lo insegni la discrezione».
Il vero libro della vita è dunque «il libro della discrezione», a leggere il quale si richiede da natura «buono e perspicace occhio».
La dottrina sola non basta, e non è bene stare al giudicio di quelli che scrivono, e in ogni cosa «volere vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a mettere in speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza d'animo e di corpo, in modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini che di dotti».
L'uomo positivo vede il mondo altro da quello che «a' volgari» pare.
Non crede agli astrologi, ai teologi, a' filosofi e a tutti quelli che scrivono le cose sopra natura, o che non si veggono, «e dicono mille pazzie: perchè in effetti gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagazione ha servito e serve più a esercitare gl'ingegni che a trovare la verità».
Questa base intellettuale è quella medesima del Machiavelli, l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo «speculare» o l'osservare.
Nè altro è il sistema.
Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma anche più recisa, e ammette quello che il Machiavelli ammette.
Ma è più logico e più conseguente.
Poichè la base è il mondo com'è, crede un'illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo, quando esso le ha di asino, e lo piglia com'è e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento.
Conoscere non è mettere in atto.
Ciò che è nella tua mente e nella tua coscienza non può essere di regola alla tua vita.
Vivere è conoscere il mondo e voltarlo a benefizio tuo.
Tienti bene con tutti, perchè «gli uomini si riscontrano».
Stai con chi vince, perchè «te ne viene parte di lode e di premio».
«Abbi appetito della roba», perchè la ti dà riputazione, e la povertà è spregiata.
Sii schietto, perchè, «quando sia il caso di simulare, più facilmente acquisti fede».
Sii stretto nello spendere, perchè «più onore ti fa uno ducato che tu hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi».
Studia di «parere buono», perchè «il buon nome vale più che molte ricchezze».
Non meritarti nome di sospettoso, ma, perchè più sono i cattivi che i buoni, «credi poco e fidati poco», Questo è il succo dell'arte della vita seguita da' più, ancorchè con qualche ipocrisia, come se ne vergognassero.
Ma il Guicciardini ne fa un codice, fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza, e sull'interesse individuale.
È il codice di quella borghesia italiana, tranquilla, scettica, intelligente e positiva, succeduta a' codici d'amore e alle regole della cavalleria.
Ma il Guicciardini con tutta la sua saviezza trovò un altro più savio di lui, e volendo usare Cosimo a benefizio suo, avvenne che fu lui istrumento di Cosimo.
Così finì la vita, come il Machiavelli, nella solitudine e nell'abbandono.
Ebbe anche lui le sue illusioni e i suoi disinganni, meno nobili, meno degni della posterità, perchè si riferivano al suo particolare.
Ritirato nella sua villa d'Arcetri, usò gli ozi a scrivere la Storia d'Italia.
Se guardiamo alla potenza intellettuale, è il lavoro più importante che sia uscito da mente italiana.
Ciò che lo interessa non è la scena, la parte teatrale o poetica, sulla quale facevano i loro esercizii rettorici il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli altri storici.
I fatti più maravigliosi o commoventi sono da lui raccontati con una certa sprezzatura, come di uomo che ne ha viste assai e non si maraviglia e non si commove più di nulla.
Non ha simpatie e antipatie, non ha tenerezze e indignazioni, e neppure ha programmi e preconcetti intorno a' risultati generali dei fatti e alle sorti del suo paese.
Il suo intelletto chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo svii.
È l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo notate, e che in lui sono egregie, la prudenza naturale, la dottrina, l'esperienza, il naturale buono e la discrezione.
Maravigliosa è soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere princìpi, nè regole assolute, e giudicare caso per caso, guardando in ciascun fatto la sua individualità, quel complesso di circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non un altro: dov'è la vera distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno.
Con queste disposizioni è naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena, dove penetra con sicurezza il suo occhio perspicace.
Ha comune col Machiavelli il disprezzo della superficie, di ciò che si vede e si dice il parere, e lo studio dell'essere, di ciò che è al di sotto, e che non si vede.
Hai innanzi non la sola descrizione de' fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione, li vedi nascere e svilupparsi.
I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con la stessa calma di spirito che i motivi più nobili.
Ciò che l'interessa non è il carattere etico o morale di quelli, ma la loro azione su' fatti.
Il motivo determinante è l'interesse, ed è sagacissimo nell'indagazione non meno degl'interessi privati che degl'interessi detti pubblici, e sono interessi di re e di corti.
Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono sotto il manto di fini più nobili, come la gloria, l'onore, la libertà, l'indipendenza, fini che escono in mezzo, quando si vuol cattivare i popoli o gli eserciti.
Di che nasce, massime nelle concioni, una specie di rettorica, ad usum delphini, voglio dire ad uso de' volgari, che non guardano nel fondo, e si lasciano trarre alle belle apparenze.
I popoli e gli eserciti vi stanno come istrumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li movono con la violenza e con l'astuzia, e li usano a' fini loro.
Lo storico avea intenzioni letterarie.
La sua prosa, massime ne' Ricordi, ha la precisione lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e semplicità e perfetta evidenza, che l'avvicina agli esempli più finiti della prosa francese, senza che ne abbia i difetti.
Lo stile e la lingua in questi due scrittori giunge per vigore intellettuale ad un grado di perfezione che non è stato più avanzato.
Ma il Guicciardini, di un giudizio così sano nell'andamento de' fatti umani, avea de' preconcetti in letteratura, opinioni ammesse senza esame, solo perchè ammesse da tutti.
Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo, la traduzione del parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo molto complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima volta le sue prove.
Molti uomini mediocri, quali il Casa, o il Castiglione, o il Salviati, o lo Speroni, vi riescono con minore difficoltà, come disciplinati ed educati a quella forma.
La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del suo periodo.
Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua franchezza spinta sino al cinismo.
Sono artifici puramente letterari e rettorici.
E sono rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue orazioni, le sue sentenze morali, un certo calore d'immaginazione e di sentimento, una certa solennità di tuono.
Al di sotto di questi splendori artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di un perfetto organismo, freddo come la logica ed esatto come la meccanica, e che non è forse in fondo se non un corso di forze e d'interessi seguiti nei loro più intimi recessi da un intelletto superiore.
La Storia d'Italia è in venti libri e si stende dal 1494 al 1532 Comincia con la calata di Carlo ottavo, finisce con la caduta di Firenze.
Apparisce in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo terzo, il papa della Inquisizione e del Concilio di Trento.
Questo periodo storico si può chiamare la «tragedia italiana», perchè in questo spazio di tempo l'Italia dopo un vano dibattersi cesse in potestà dello straniero.
Ma lo storico non ha pur sentore dell'unità e del significato di questa tragedia; e il protagonista non è l'Italia e non è il popolo italiano.
La tragedia c'è, e sono le grandi calamità che colpiscono gl'individui, le arsioni, le prede, gli stupri, tutt'i mali della guerra.
Avvolto fra tanti «atrocissimi accidenti», sagacissimo a indagarne i più riposti motivi nel carattere degli attori e nelle loro forze, l'insieme gli fugge.
La Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e Francesco primo, la trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l'Italia bilanciata di Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e soggetta, questi fatti generali preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più oscuri pettegolezzi tra' principi.
Sembra un naturalista, che studi e classifichi erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro fisiologia, che li fa essere così o così.
L'uomo vi apparisce come un essere naturale, che operi così fatalmente come un animale, determinato all'azione da passioni, opinioni, interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa necessità che l'animale è determinato da' suoi istinti e qualunque essere vivente dalle sue leggi costitutive.
Considerando l'uomo a questo modo, lo storico conserva quella calma dell'intelletto, quell'apatia e indifferenza che ha un filosofo nella spiegazione de' fenomeni naturali.
Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo stesso interesse; anzi Malatesta è più interessante, perchè la sua azione è meno spiegabile e attira più la sua attenzione intellettuale.
Di che si stacca questo concetto della storia, che l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni libero, è determinato da motivi interni, o dal suo carattere, e si può calcolare quello che farà e come riuscirà quasi con quella sicurezza che si ha nella storia naturale.
Perciò chi perde, ha sempre torto, dovendo recarne la cagione a se stesso, che ha mal calcolato le sue forze e quelle degli altri.
Questa specie di fisica storica non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui come una specie di macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla plebe, a noi poco interessanti, perchè sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno da cui escono quei miracoli, e tutto il nostro interesse è concentrato nello studio dell'ingegno.
Il Machiavelli va più in là.
Egli intravede una specie di fisica sociale, come si direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gl'individui, ma la società e il genere umano.
Perciò patria, libertà, nazione, umanità, classi sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gl'interessi, le opinioni, le forze che movono gl'individui.
E se vogliamo trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo ad imparare nelle sue opere.
Indi è che, come carattere morale, il segretario fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati, che sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine, e come forza intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtù sintetica, una larghezza di vista, che manca in quello.
Lui, è un punto di partenza nella storia, destinato a svilupparsi; l'altro è un bel quadro, finito e chiuso in sè.
XVI
PIETRO ARETINO
Il mondo teologico-etico del medio evo tocca l'estremo della sua contraddizione in questo mondo positivo del Guicciardini, un mondo puramente umano e naturale, chiuso nell'egoismo individuale, superiore a tutt'i vincoli morali che tengono insieme gli uomini.
Il ritratto vivente di questo mondo nella sua forma più cinica e più depravata è Pietro Aretino.
L'immagine del secolo ha in lui l'ultima pennellata.
Pietro nacque nel 1492 in uno spedale di Arezzo da Tita, la bella cortigiana, la modella scolpita e dipinta da parecchi artisti.
Senza nome, senza famiglia, senza amici e protettori, senza istruzione.
«Andai alla scuola, quanto intesi la santa croce, componendo ladramente merito scusa, e non quegli che lambiccano l'arte de' greci e de' latini.» A tredici anni rubò la madre e fuggì a Perugia, e si allogò presso un legatore di libri.
A diciannove anni attirato dalla fama della corte di Roma e che tutti vi si facevano ricchi, vi giunse che non aveva un quattrino, e fu ricevuto domestico presso un ricco negoziante, Agostino Chigi, e poco poi presso il cardinale di San Giovanni.
Cercò fortuna presso papa Giulio, e non riuscitogli, vagando e libertineggiando per la Lombardia, da ultimo si fe' cappuccino in Ravenna.
Salito al pontificato Leone decimo, e concorrendo a quella corte letterati, buffoni, istrioni, cantori, ogni specie di avventurieri, gli parve lì il suo posto, smise l'abito e corse a Roma, e vestì la livrea del papa, divenne suo valletto.
Spiritoso, allegro, libertino, sfacciato, mezzano, in quella scuola compì la sua educazione e la sua istruzione.
Imparò a chiudere in quattordici versi le sue libidini e le sue adulazioni e le sue buffonerie, e ne fe' traffico e ne cavò di bei quattrini.
Ma era sempre un valletto, e poco gli era a sperare in una corte, dove s'improvvisava in latino.
Armato di lettere di raccomandazione, va a Milano, a Pisa, a Bologna, a Ferrara, a Mantova, e si presenta a principi e monsignori sfacciatamente, con aria e prosunzione di letterato.
Studia come una donna l'arte di piacere, e aiuta la ciarlataneria con la compiacenza.
«A Bologna mi fu cominciato a essere donato; il vescovo di Pisa mi fe' fare una casacca di raso nero ricamata in oro, che non fu mai la più superba; presso il signor Marchese di Mantova sono in tanta grazia, che il dormir e il mangiar lascia per ragionar meco, e dice non avere altro piacere, ed ha scritto al cardinale cose di me che veramente onorevolmente mi gioveranno, e son io regalato di trecento scudi.
Tutta la corte mi adora, e par beato chi può avere uno de' miei versi, e quanti mai feci, il signore li ha fatti copiare, e ho fatto qualcuno in sua lode.
E sto qui, e tutto il giorno mi dona, e gran cose, che le vedrete ad Arezzo.» Gli dànno del messere e del signore; il valletto è un gentiluomo, e torna a Roma «tra paggi di taverna, e vestito come un duca», compagno e mezzano de' piaceri signorili, e con a lato gli Estensi e i Gonzaga che gli hanno familiarmente la mano sulla spalla.
Continua il mestiere così bene incominciato.
Una sua «laude» di Clemente settimo gli frutta la prima pensione; sono versacci:
Or queste sì che saran lodi, queste
lodi chiare saranno, e sole e vere,
appunto come il vero e come il sole.
Il suo spirito, il suo umore gioviale, l'estro libidinoso gli acquistarono tanta riputazione, che fuggito di Roma per i suoi sedici sonetti illustrativi de' disegni osceni di Giulio Romano, fu cercato come un buon compagnone da Giovanni de' Medici, capo delle Bande Nere, detto il gran diavolo.
Aveva poco più che trent'anni.
Giovanni e Francesco primo se lo disputano.
Giovanni voleva fare signore di Arezzo il suo compagno di orgie e di libidini, quando una palla tedesca gli troncò il disegno e la vita.
Pietro avea coscienza oramai della sua forza.
E lasciando le corti, riparò in Venezia come in una rocca sicura, e di lì padroneggiò l'Italia con la penna.
Udiamo lui stesso, come si dipinge nelle sue lettere: «Dopo ch'io mi rifugiai sotto l'egida della grandezza e delle libertà veneziane, non ho più nulla da invidiare.
Nè il soffio dell'invidia, nè l'ombra della malizia non potranno offuscare la mia fama, nè togliere la possanza della mia casa.
- Io sono un uomo libero per la grazia di Dio.
- Non mi rendo schiavo de' pedanti.
- Non mi si vede percorrere le tracce nè del Petrarca nè di Boccaccio.
Bastami il genio mio indipendente.
Ad altri lascio folleggiar la purezza dello stile, la profondità del pensiero; ad altri la pazzia di torturarsi, di trasformarsi, mutando sè stessi.
Senza maestro, senz'arte, senza modello, senza guida, senza luce, io avanzo, e il sudore de' miei inchiostri mi fruttano la felicità e la rinomanza.
Che avrei di più a desiderare? - Con una penna e qualche foglio di carta me ne burlo dell'universo.
Mi dicono ch'io sia figlio di cortigiana; ciò non mi torna male; ma tuttavia ho l'anima di un re.
Io vivo libero, mi diverto, e perciò posso chiamarmi felice.
- Le mie medaglie sono composte d'ogni metallo e di ogni composizione.
La mia effigie è posta in fronte a' palagi.
Si scolpisce la mia testa sopra i pettini, sopra i tondi, sulle cornici degli specchi, come quella di Alessandro, di Cesare, di Scipione.
Alcuni vetri di cristallo si chiamano vasi aretini.
Una razza di cavalli ha preso questo nome, perchè papa Clemente me ne ha donato uno di quella specie.
Il ruscello che bagna una parte della mia casa è denominato l'Aretino.
Le mie donne vogliono esser chiamate Aretine.
Infine si dice stile aretino.
I pedanti possono morir di rabbia prima di giungere a tanto onore.» E non erano ciarle.
L'Ariosto dice di lui: «il flagello de' principi, il divin Pietro Aretino».
Un pedante, parlando delle lettere dell'Aretino e del Bembo, diceva al Bembo: «Chiameremo voi il nostro Cicerone, e lui il nostro Plinio.» «Purchè Pietro se ne contenti», rispose il Bembo.
E non se ne contentava.
A Bernardo Tasso, che vantava le sue lettere, scrive: «Stimando di troppo le proprie vostre opere, e non abbastanza le altrui, voi avete messo in compromesso il vostro giudizio.
Nello stile epistolare voi siete l'imitator mio, e voi camminate dietro di me a piè nudi.
Voi non potete imitare nè la facilità delle mie frasi, nè lo splendore delle mie metafore.
Son cose che si veggono languire nelle vostre carte, e che nascono vigorose nelle mie.
Convengo che voi avete qualche merito, una certa grazia di stile angelico e di armonia celeste, che risuona gradevolmente negl'inni, nelle odi e negli epitalami.
Ma tutte queste dolcitudini non convengono alle Epistole, che hanno d'uopo di espressione e di rilievo, non di miniatura e di artifizio.
È colpa del vostro gusto che preferisce il profumo de' fiori al sapore de' frutti.
Ma non sapete chi son io? Non sapete quante lettere ho pubblicate, che sonosi trovate maravigliose? Io non mi starò qui a fare il mio elogio, il quale finalmente non sarebbe che verità.
Non vi dirò che gli uomini di merito dovrebbero riguardare siccome un giorno memorabile il dì della mia nascita: io che, senza seguire e senza servir le corti, ho costretto tutto quanto vi ha di grande sulla terra, duchi, principi e monarchi, a diventar tributarii del mio ingegno! Per quanto è lungo e largo il mondo, la fama non si occupa che di me.
Nella Persia e nell'India trovasi il mio ritratto e vi è stimato il mio nome.
Finalmente io vi saluto, e statevi ben certo, che se molte persone biasimano il vostro modo di scrivere, ciò non è per invidia - e se qualche altre lo lodano, egli e per compassione.» Tale si teneva e tale lo teneva il mondo.
Fu creduto un grand'uomo sulla sua fede.
Non mirava alla gloria; dell'avvenire se ne infischiava; voleva il presente.
E l'ebbe, più che nessun mortale.
Medaglie, corone, titoli, pensioni, gratificazioni, stoffe d'oro e d'argento, catene e anella d'oro, statue e dipinti, vasi e gemme preziose, tutto ebbe che la cupidità di un uomo potesse ottenere.
Giulio III lo nominò cavaliere di San Pietro.
E per poco non fu fatto cardinale.
Avea di sole pensioni ottocentoventi scudi.
Di gratificazioni ebbe in diciotto anni venticinquemila scudi.
Spese durante la sua vita più di un milione di franchi.
Gli vennero regali fino dal corsaro Barbarossa e dal sultano Solimano.
La sua casa principesca è affollata di artisti, donne, preti, musici, monaci, valletti, paggi, e molti gli portano i loro presenti, chi un vaso d'oro, chi un quadro, chi una borsa piena di ducati, e chi abiti e stoffe.
Sull'ingresso vedi un busto di marmo bianco coronato di alloro: è Pietro Aretino.
Aretino a dritta, Aretino a manca; guardate nelle medaglie d'ogni grandezza e d'ogni metallo sospese alla tappezzeria di velluto rosso: sempre l'immagine di Pietro Aretino.
Morì a sessantacinque anni, il 1557, e di tanto nome non rimase nulla.
Le sue opere poco poi furono dimenticate, la sua memoria è infame; un uomo ben educato non pronunzierebbe il suo nome innanzi a una donna.
Chi fu dunque questo Pietro, corteggiato dalle donne, temuto dagli emuli, esaltato dagli scrittori, così popolare, baciato dal papa, e che cavalcava a fianco di Carlo quinto? Fu la coscienza e l'immagine del suo secolo.
E il suo secolo lo fece grande.
Machiavelli e Guicciardini dicono che l'appetito è la leva del mondo.
Quello che essi pensarono, Pietro fu.
Ebbe da natura grandi appetiti e forze proporzionate.
Vedi il suo ritratto, fatto da Tiziano.
Figura di lupo che cerca la preda.
L'incisore gli formò la cornice di pelle e zampe di lupo; e la testa del lupo assai simile di struttura sta sopra alla testa dell'uomo.
Occhi scintillanti, narici aperte, denti in evidenza per il labbro inferiore abbassato, grossissima la parte posteriore del capo, sede degli appetiti sensuali, verso la quale pare che si gitti la testa, calva nella parte anteriore.
«Figlio di cortigiana, anima di re», dice lui.
Legatore di libri, valletto del papa, miserie! I suoi bisogni sono infiniti.
Non gli basta mangiare; vuole gustare; non gli basta il piacere; vuole la voluttà; non gli basta il vestire; vuole lo sfarzo; non gli basta arricchire; vuole arricchire gli altri, spendere e spandere.
E a chi se ne maraviglia risponde: «Ebbene, che farci a questo? Se io son nato per vivere così, chi m'impedirà di vivere così?» I suoi sogni dorati sono vini squisiti, cibi delicati, ricchi palagi, belle fanciulle, belli abiti.
Di ciò che appetisce, ha il gusto.
E nessuno è giudice più competente in fatto di buoni bocconi e di godimenti leciti e illeciti.
È in lui non solo il senso del piacere, ma il senso dell'arte.
Cerca ne' suoi godimenti il magnifico, lo sfarzoso, il bello, il buon gusto, l'eleganza.
Ed ha forze proporzionate a' suoi appetiti, un corpo di ferro, una energia di volontà, la conoscenza e il disprezzo degli uomini, e quella maravigliosa facoltà che il Guicciardini chiama discrezione, il fiuto, il da fare caso per caso.
Sa quello che vuole.
La sua vita non è scissa in varie direzioni: uno è lo scopo, la soddisfazione de' suoi appetiti, o, come dice il Guicciardini, il suo particolare.
Tutti i mezzi sono eccellenti, e li adopera secondo i casi.
Ora è ipocrita, ora è sfacciato.
Ora è strisciante, ora è insolente.
Ora adula, ora calunnia.
La credulità, la paura, la vanità, la generosità dell'uomo sono in mano sua un ariete per batterlo in breccia ed espugnarlo.
Ha tutte le chiavi per tutte le porte.
Oggi un uomo simile sarebbe detto un camorrista, e molte sue lettere sarebbero chiamate ricatti.
Il maestro del genere è lui.
Specula soprattutto sulla paura.
Il linguaggio del secolo è officioso, adulatorio; il suo tono è sprezzante e sfrontato.
Le calunnie stampate erano peggio che pugnali; cosa stampata voleva dir cosa vera; e lui mette a prezzo la calunnia, il silenzio e l'elogio.
Non gli spiacea aver nome di mala lingua, anzi era parte della sua forza.
Francesco primo gl'inviò una catena d'oro composta di lingue incatenate e con le punte vermiglie, come intinte nel veleno, con sopravi questo esergo: «Lingua eius loquetur mendacium».
Aretino gli fa mille ringraziamenti.
Quando non gli conviene dir male delle persone, dice male delle cose, tanto per conservarsi la reputazione, come sono le sue intemerate contro gli ecclesiastici, i nobili, i principi.
Così l'uomo abbietto fu tenuto un apostolo, e fu detto flagello de' principi.
Talora trovò chi non aveva paura.
Achille della Volta gli die' una pugnalata.
Nicolò Franco, suo segretario, gli scrisse carte di vitupèri.
Pietro Strozzi lo minaccia di ucciderlo, se si attenta a pronunziare il suo nome.
È bastonato, sputacchiato.
È lui allora che ha paura, perchè era vile e poltrone.
Sir Howel lo bastona, ed egli loda il Signore che gli accorda la facoltà di perdonare le ingiurie.
Giovanni, il gran diavolo, morendo gli disse: «Ciò che più mi fa soffrire è vedere un poltrone.» Ma in generale amavano meglio trattarlo come Cerbero, e chiudergli i latrati, gittandogli un'offa.
Le sue lettere sono capilavori di malizia e di sfrontatezza.
Prende tutte le forme e tutti gli abiti, dal buffone e dal millantatore sino al sant'uomo calunniato e disconosciuto.
Come saggio, ecco una sua lettera alla piissima e petrarchesca marchesa di Pescara, che lo aveva esortato a cangiar vita e a scrivere opere pie:
«Confesso che non sono meno utile al mondo e meno gradevole a Gesù, spendendo le mie veglie per cose futili, che se le impiegassi in opere di pietà.
Ma quale ne è la causa? La sensualità altrui e la mia povertà.
Se i principi fossero così divoti, come io sono bisognoso, la mia penna non traccerebbe che miserere.
Illustrissima madonna, tutti al mondo non possedono l'ispirazione della grazia divina.
Il fuoco della concupiscenza divora la maggior parte; ma Voi, voi non ardete che di fiamma angelica.
Per noi musiche e commedie sono quel che è per voi la preghiera e la predica.
Voi non rivolgereste gli occhi per vedere Ercole nelle fiamme o Marsia scorticato; noi altrettanto per non riguardare san Lorenzo sulla graticola o san Bartolomeo spoglio della sua pelle.
Vedete un po': io ho un amico, per nome Brucioli, il quale dedicò la sua Bibbia al Re Cristianissimo.
Dopo cinque anni non ne ebbe tampoco risposta.
La mia commedia, invece, la Cortigiana, acquistossi dal medesimo re una ricca collana.
Di guisa che la mia cortigiana si sentirebbe tentata a beffarsi del Vecchio Testamento, se non fosse cosa troppo indecorosa.
Accordatemi mille scuse, Signora, per le baie che vi ho scritte, non per malizia, ma per vivere.
Che Gesù v'ispiri di farmi tenere da Sebastiano da Pesaro il resto della somma, sulla quale ho già ricevuto trenta scudi, e di cui vi sono anticipatamente debitore.»
All'ultimo una stoccata, come si direbbe oggi.
È una lettera tirata giù di un fiato da un genio infernale.
Con che bonomia si beffa della pia donna, avendo aria di farne l'elogio! Con che cinismo proclama le sue speculazioni sulla libidine e sulla oscenità umana, come fossero la cosa più naturale di questo mondo! Specula pure sulla divozione, e con pari indifferenza scrive libri osceni e vite di santi, il Ragionamento della Nanna e la Vita di santa Caterina da Siena, la Cortigiana errante e la Vita di Cristo.
E perchè no? Posto che traeva guadagno di qua e di là.
Scrisse di ogni materia, e in ogni forma, dialoghi, romanzi, epopee, capitoli, commedie, e anche una tragedia, l'Orazia.
Immagina quali eroi possono essere gli Orazii, quale eroina l'Orazia, e che specie di popolo romano può uscire dall'immaginazione di Pietro.
Pure è il solo lavoro che abbia intenzioni artistiche, fatto ch'era già vecchio e sazio e cupido più di gloria che di danari.
Gli riuscì una freddura, un mondo astratto e pedestre, di cui non comprese la semplicità e la grandezza.
Negli altri suoi lavori senti lui nella verità della sua natura, dedito a piacere al suo pubblico, a interessarlo, a guadagnarselo, a fare effetto.
Ci è innanzi a lui una specie di mercato morale: conosce qual è la merce più richiesta, più facile a spacciare e a più caro prezzo.
Si fa una coscienza e un'arte posticcia, variabile secondo i gusti del suo padrone, il pubblico.
Perciò fu lo scrittore più alla moda, più popolare e meglio ricompensato.
I suoi libri osceni sono il modello di un genere di letteratura, che sotto nome di racconti galanti invase l'Europa.
L'oscenità era una salsa molto ricercata in Italia dal Boccaccio in poi; qui è essa l'intingolo.
Le vite di santi sono veri romanzi, dove ne sballa di ogni sorta, solleticando la natura fantastica e sentimentale delle pinzochere.
Fabbro di versi assai grossolano, senti ne' suoi sonetti e capitoli la bile e la malignità congiunta con la servilità.
Così, alludendo alla munificenza di Francesco primo, dice a Pier Luigi Farnese:
Impara tu, Pier Luigi ammorbato,
impara, ducarel da tre quattrini,
il costume da un Re tanto onorato.
Ogni signor di trenta contadini
e d'una bicoccazza usurpar vuole
le cerimonie de' culti divini.
Pietro non è un malvagio per natura.
È malvagio per calcolo e per bisogno.
Educato fra tristi esempi, senza religione, senza patria, senza famiglia, privo di ogni senso morale, con i più sfrenati appetiti e con molti mezzi intellettuali per soddisfarli, il centro dell'universo è lui, il mondo pare fatto a suo servizio.
Su questa base, la sua logica e uguale alla sua tempra.
Ha una chiara percezione de' mezzi, e nessuna esitazione o scrupolo a metterli in atto.
E non lo dissimula, anzi se ne fa gloria, è lì la sua forza, e vuole che tutti ne sieno persuasi.
Il mondo era un po' a sua immagine, molti erano che avrebbero voluto imitarlo, ma non avevano il suo ingegno, la sua operosità, la sua penetrazione, la sua versatilità, il suo spirito.
Perciò l'ammiravano.
Fra tanti avventurieri e condottieri, di cui l'Italia era ammorbata, gente vagabonda senza princìpi, senza professione e in cerca di una fortuna a qualunque costo, il principe, il modello era lui.
Tiziano lo chiama il condottiero della letteratura.
E lui non se ne offende, se ne pavoneggia.
Lasciato alla sua spontaneità, quando non lo preme il bisogno, e non opera per calcolo, scopre buone qualità.
È allegro, conversevole, liberale, anzi magnifico, amico a tutta prova, riconoscente, ammiratore de' grandi artisti, come di Michelangiolo e di Tiziano.
Aveva la logica del male e la vanità del bene.
Pietro come uomo è un personaggio importante, il cui studio ci tira bene addentro ne' misteri della società italiana, della quale era immagine in quella sua mescolanza di depravazione morale, di forza intellettuale e di sentimento artistico.
Ma non è meno importante come scrittore.
La coltura tendeva a fissarsi e a meccanizzarsi.
Non si discuteva più se si aveva a scrivere in volgare o in latino.
Il volgare aveva conquistato oramai il suo dritto di cittadinanza.
Ma si discuteva se il volgare si avesse a chiamare toscano o italiano.
E non era contesa di parole, ma di cose.
Perchè molti scrittori pretendevano di scrivere come si parlava dall'un capo all'altro d'Italia, e non erano disposti di andare a prender lezione in Firenze.
Amavano meglio latinizzare che toscaneggiare Riconoscevano come modelli il Boccaccio e il Petrarca, ma non davano alcuna autorità alla lingua viva.
Lingua viva era per loro il linguaggio comune, che atteggiavano alla latina e alla boccaccevole.
Questo meccanismo era accettato generalmente; se non che in Firenze il fondo della lingua non era il linguaggio comune, mescolato di elementi locali, siculi, lombardi, veneti, ma l'idioma toscano, così com'era stato maneggiato dagli scrittori.
E Firenze, esaurita la produzione intellettuale, alzò le colonne di Ercole nel suo vocabolario della Crusca, e disse: non si va più oltre.
Il Bembo e più tardi il Salviati fissarono le forme grammaticali.
E le regole dello scrivere in tutt'i generi furono fissate nelle rettoriche, traduzioni o raffazzonamenti di Aristotile, Cicerone e Quintiliano.
Si giunse a questo, che Giulio Camillo pretendea d'insegnare tutto il sapere mediante un suo meccanismo.
Tendenza al meccanizzare: che è fenomeno costante in tutte le età che la produzione si esaurisce, e la coltura si arresta, e si raccoglie nelle sue forme e si cristallizza.
Pietro, di mediocrissima coltura, considera tutte queste regole come pedanteria.
La sua vita interiore così spontanea e piena di forza produttiva mal vi si può adagiare.
Il pedantismo è il suo nemico e lo combatte corpo a corpo.
E chiama pedantismo quel veder le cose non in sè stesse e per visione diretta, ma a traverso di preconcetti, di libri e di regole.
Quegl'inviluppi di parole e di forme gli sono così odiosi, come l'ipocrisia, quel «covrirsi della larva di un'affettata modestia, invilupparsi nella pelle della volpe e predicar l'umiltà e la decenza senza valer meglio degli altri.» Non ascoltate quest'ipocriti,» scrive al cardinale di Ravenna «pedanti comentatori di Seneca, i quali, dopo di aver passata la lor vita nell'assassinare i morti, non sono contenti se non quando crocifiggono i vivi.
Sì, monsignore, egli è il pedantismo, che ha avvelenato i Medici; è il pedantismo che ha ucciso il duca Alessandro; è il pedantismo che ha prodotto tutt'i mali di questo mondo; è desso che per la bocca del pedante Lutero ha provocata l'eresia e l'ha armata contro la nostra santa fede.
Lorenzino si fe' assassino per pedanteria, e per pedanteria si fe' eretico Lutero, cioè a dire operarono per preconcetti, secondo i libri, e senza nessuna intelligenza de' tempi loro.» Non è meno implacabile verso il pedantismo letterario.
Al Dolce scrive: «Andate pur per le vie che al vostro studio mostra la natura.
Il Petrarca e il Boccaccio sono imitati da chi esprime i concetti suoi con la dolcezza e con la leggiadria con cui dolcemente e leggiadramente essi andarono esprimendo i loro, e non da chi gli saccheggia, non pur de' «quinci», de' «quindi», de' «soventi» e degli «snelli», ma de' versi interi.
Il pedante che voglia imitare, «rimoreggia» dell'imitazione, e mentre ne schiamazza negli scartabelli, la trasfigura in locuzione, ricamandola con parole tisiche in regola.
O turba errante, io ti dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo della natura nelle sue allegrezze, il qual si sta nel furor proprio, e mancandone, il cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli e un campanile senza campane, per la qual cosa chi vuol comporre e non trae cotal grazia dalle fasce è un zugo infreddato.
Imparate ciò ch'io favello da quel savio pittore, il quale, nel mostrare a colui che il dimandò, chi egli imitava, una brigata d'uomini col dito, volle inferire che dal vivo e dal vero toglieva gli esempi, come gli tolgo io parlando e scrivendo.
La natura di cui son secretario mi detta ciò ch'io compongo.
È certo ch'io imito me stesso, perchè la natura è una compagnona badiale, e l'arte una piattola che bisogna che si appicchi; sicchè attendete a esser scultore di sensi e non miniator di vocaboli.» Parecchi scrivevano allora così alla naturale, e basta citare fra tutti il Cellini, tutto vita e tutto cose.
Ma il Cellini si teneva un ignorante, e voleva che il Varchi riducesse la sua Vita nella forma de' dotti, dove l'Aretino si teneva superiore a tutti gli altri, e dava facilmente del pedante a quelli che lambiccavano le parole.
Ci è in lui una coscienza critica così diritta e decisa, che in quel tempo ci dee parere straordinaria.
La stessa libertà e altezza di giudizio portò nelle arti, di cui aveva il sentimento.
A Michelangiolo scrive: «Ho sospirato di sentirmi sì piccolo e di saper voi così grande».
Il suo favorito è il suo amico e compare Tiziano, il cui realismo così pieno e quasi sensuale si affà alla sua natura.
Preso di febbre, si appoggia alla finestra, e guarda le gondole e il Canal grande di Venezia, e rimane pensoso e contemplativo, lui, Pietro Aretino! La vista della bella natura lo purifica, lo trasforma.
E scrive al Tiziano: «Quasi uomo che fatto noioso a se stesso non sa che farsi della mente, non che de' pensieri, rivolgo gli occhi al cielo, il quale, da che Dio lo creò, non fu mai abbellito da così vaga pittura di ombre e di lumi, onde l'aria era tale, quale vorrebbono esprimerla coloro che hanno invidia a voi, per non esser voi.
I casamenti, benchè sien pietre vere, parevano di materia artificiata.
E di poi scorgete l'aria, ch'io compresi in alcun luogo pura e viva, in altra parte torbida e smorta.
Considerate anche la maraviglia ch'io ebbi de' nuvoli, i quali nella principal veduta mezzi si stavano vicini a' tetti degli edificii, e mezzi nella penultima, perocchè la diritta era tutta di uno sfumato pendente in bigio nero.
Mi stupii certo del color vario di cui essi si dimostravano: i più vicini ardevano con le fiamme del foco solare, e i più lontani rosseggiavano d'un ardore di minio non così bene acceso.
O con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l'aria in là, discostandola da' palazzi con il modo che la discosta il Vecellio nel far de' paesi! Appariva in certi lati un verde azzurro, e in alcuni altri un azzurro veramente composto dalle bizzarrie della natura maestra de' maestri.
Ella con i chiari e con gli scuri sfondava e rilevava in maniera, che io, che so come il vostro pennello è spirito dei suoi spiriti, e tre e quattro volte esclamai: - O Tiziano, dove sete mo? - Per mia fe' che, se voi aveste ritratto ciò ch'io vi conto, indurreste gli uomini nello stupore che confuse me.» È notabile che questo sentimento della natura vivente, de' suoi colori e de' suoi chiaroscuri, non produce nella sua anima alcuna impressione o elevatezza morale, ma solo una ammirazione o stupore artistico, come in un italiano di quel tempo.
Vede la natura a traverso il pennello di Tiziano e del paesista Vecellio, ma la vede viva, immediata, e con un sentimento dell'arte che cerchi invano nel Vasari.
Fra tante opere pedantesche di quel tempo intorno all'arte e allo scrivere, le sue lettere artistiche e letterarie segnano i primi splendori di una critica indipendente, che oltrepassa i libri e le tradizioni, e trova la sua base nella natura.
Quale il critico, tale lo scrittore.
Delle parole non si dà un pensiero al mondo.
Le accoglie tutte, onde che vengano e quali che sieno, toscane, locali e forestiere, nobili e plebee, poetiche o prosaiche, aspre e dolci, umili e sonore.
E n'esce uno scrivere, che è il linguaggio parlato anche oggi comunemente in Italia dalle classi colte.
Abolisce il periodo, spezza le giunture, dissolve le perifrasi, disfà ripieni ed ellissi, rompe ogni artificio di quel meccanismo che dicevasi forma letteraria, s'accosta al parlar naturale.
Nel Lasca, nel Cellini, nel Cecchi, nel Machiavelli ci è la stessa naturalezza, ma ci senti l'impronta toscana, tutta grazia.
Questi è un toscano ineducato, figlio della natura, vivuto fuori del suo paese, e che parla tutte le lingue fra le quali esercita le sue speculazioni.
Fugge il toscaneggiare, come una pedanteria; non cerca la grazia, cerca l'espressione e il rilievo.
La parola è buona, quando gli renda la cosa atteggiata come è nel suo cervello, e non la cerca, gli viene innanzi cosa e parola, tanta e la sua facilità.
Non sempre la parola è propria, e non sempre adatta, perchè spesso scarabocchia, e non scrive, abusando della sua facilità.
Il suo motto è: «Come viene, viene», e nascono grandi ineguaglianze.
Di Cicerone e del Boccaccio non si dà fastidio, anzi fa proprio l'opposto, cercando non magnificenza e larghezza di forme, nelle quali si dondola un cervello indolente, ma la forma più rapida e più conveniente alla velocità delle sue percezioni.
E neppure affetta brevità, come il Davanzati, cervello ozioso, tutto alle prese con le parole e gl'incisi, perchè la sua attenzione non è al di fuori, è tutta al di dentro.
Abbandona i procedimenti meccanici, non cura le finezze e le lascivie della forma.
Ha tanta forza e facilità di produzione, e tanta ricchezza di concetti e d'immagini, che tutto esce fuori con impeto e per la via più diritta.
Non ci è intoppo, non ci è digressione o distrazione: pronto e deciso nello stile, come nella vita.
Mai non fu così vero il detto, che lo stile è l'uomo.
Come il suo io è il centro dell'universo, è il centro del suo stile.
Il mondo che rappresenta non esiste per sè, ma per lui, e lo tratta e lo maneggia come cosa sua, con quel capriccio e con quella libertà che il Folengo tratta il mondo della sua immaginazione.
Se non che nel Folengo si sviluppa l'umore, perchè il suo mondo è immaginario, e lo tratta senz'alcuna serietà, solo per riderne; dove il mondo di Pietro è cosa reale, e ne ha una perfetta conoscenza, e lo tratta per sfruttarlo, per cavarne il suo utile.
Perciò non rispetta il suo argomento, non si cala e non si obblia in esso; ma ne fa il suo istrumento, i suoi mezzi, anche a costo di profanarlo indegnamente.
Tratta Gesù Cristo come un cavaliere errante, e «che importa» dice «la menzogna che io mescolo a queste opere? Dacchè io parlo de' Santi, che sono il nostro rifugio celeste, le mie parole diventano parole di evangelio».
Di santa Caterina scrive che «Io non avrei fatto sei pagine di tutto, se avessi voluto attenermi alla tradizione e alla storia.
Le mie spalle hanno assunto tutto il peso dell'invenzione; perchè infine queste cose tornano alla più gran gloria di Dio».
Talora si secca per via, il cervello è vuoto, e ammassa aggettivi con uno sfoggio di pompa oratoria, che rivela il ciarlatano: «Come lodare il religioso, il chiaro, il grazioso, il nobile, l'ardente, il fedele, il veridico, il soave, il buono, il salutare, il santo e il sacro linguaggio della giovane Caterina, vergine, sacra, santa, salutare, nobile, graziosa, chiara, religiosa e facile?» Sembra una campana che ti assorda, e ti turi le orecchie.
Questo dicevasi stile fiorito, e l'Aretino te ne regala, quando non ha di meglio.
Talora vuol pur dire, ma non ha vena, e non sentimento, ed esce nelle più sbardellate metafore e nelle sottigliezze più assurde, massime ne' suoi elogi, che gli erano così ben pagati.
«Essendo i meriti vostri» scrive al duca d'Urbino «le stelle del Ciel della Gloria, una di loro, quasi pianeta dell'ingegno mio, lo inclina a ritràrvi con lo stil delle parole la imagine dell'anima, acciocchè la vera faccia delle sue virtù, desiderata dal mondo, possa vedersi in ogni parte; ma il poter suo, avanzato dall'altezza del subbietto, non ostante che sia mosso da cotale influsso, non può esprimere in qual modo la bontà, la clemenza e la fortezza di pari concordia vi abbiano concesso, per fatal decreto, il vero nome di Principe.» È un periodo alla boccaccevole, stiracchiato ne' concetti e nella forma.
Qui non ci è il «come viene, viene»; ma ci è il non voler venire e il farlo venire per forza.
I suoi panegirici sono tutti rettorici, metaforici, miniati, falsamente pomposi, gonfiati sino all'assurdo, e sembrano quasi caricature ironiche sotto forma di omaggi.
Il dir bene non era per lui cosa tanto facile, quanto il dir male, dove spiega tutto il vigore della sua natura cinica e sarcastica.
Assume un tuono enfatico, e cerca peregrinità di concetti e di modi, un linguaggio prezioso, composto tutto di perle, ma di perle false: preziosità passata in Francia con Voiture e Balzac e castigata da Molière, e che in Italia dovea divenire la fisonomia della nostra letteratura.
Ecco alcune di queste perle false, messe in circolazione dall'Aretino: «Io pesco nel lago della mia memoria con l'amo del pensiero.
- Il mio merito risplende della vernice della vostra grazia.
- Il chiodo della riconoscenza conficca il nome de' miei amici nel mio cuore.
- Non seppellite le mie speranze nella tomba delle vostre false promesse.
- La vostra grandezza ascende le scale del cielo con istupor delle genti.
- La vostra eloquenza si move dal natural dell'intelletto con tanta facondia, che si riman confusa nella maraviglia la lingua che le proferisce i concetti e l'orecchie che l'ascoltano.
- Tòrre a Solimano, in servigio della Cristianità, l'animo dall'anima, l'anima dal corpo, e il corpo dalle armi.
- Raccogliete l'affezione mia in un lembo della vostra pietà.
- Mi dono a voi, padri de' vostri popoli, fratelli de' vostri servi, erarii della caritade e subbietti della clemenza.
- La faccia della liberalità ha per ispecchio il cuore di coloro a cui si porge.
- La vostra Eccellenza ricerca da me qualche ciancia per farne ventaglio del caldo grande che arde questi dì.» Questo stile fiorito o prezioso è traversato a quando a quando da lampi di genio: paragoni originali, immagini splendide, concetti nuovi e arditi, pennellate incisive, e trovi pure, quando è abbandonato a sè e non cerca l'effetto, verità di sentimento e di colorito, come in questa lettera così commovente nella sua semplicità: «Le scarpe azzurro-turchine, ricamate in oro, che ho ricevute insieme con la vostra lettera, m'han fatto tanto piangere, quanto m'hanno arrecato di piacere.
La giovinetta che doveva adornarsene, questa mattina ha ricevuto gli olii santi, ed io non posso scrivervene di più, tanto sono commosso.» La dissoluzione del meccanismo letterario è una forma di scrivere più vicina al parlare, libera da ogni preconcetto e immediata espressione di quel di dentro, uno stile ora fiorito, ora prezioso, che sono le due forme della declinazione dell'arte e delle lettere, ecco ciò che significa Pietro Aretino, come scrittore.
La sua influenza non fu piccola.
Aveva attorno secretari, allievi e imitatori della sua maniera, come il Franco, il Dolce, il Landi, il Doni, e altri mestieranti.
«Io vivo di Kirieleison» scrive il Doni.
«I miei libri sono scritti prima di esser composti, e letti prima di esser stampati».
La sua Libreria si legge ancora oggi per un certo brio e per curiose notizie.
Ma Pietro ha ancora una certa importanza, come scrittor di commedie.
C'era un mondo comico convenzionale, la cui base era Plauto e Terenzio, con accessorii cavati dalla vita plebea e volgare di quel tempo.
La base erano equivoci, riconoscimenti, viluppi di accidenti, che tenessero viva la curiosità.
Intorno vi si schieravano caratteri divenuti convenzionali, il parassito, il servo ghiottone, la cortigiana, la serva furba e mezzana, il figliuolo prodigo, il padre avaro e burlato, il poltrone che fa il bravo, il sensale, l'usuraio.
Lo studio de' nostri comici è interessante, chi voglia conoscer bene addentro i misteri di quella corruttela italiana.
Vedrà i legami di famiglia sciolti, e figli scioperati accoccarla a' padri, zimbello essi medesimi di usurai, cortigiani e mezzani, tra le risa del rispettabile pubblico.
Codesto mondo era la commedia, con sue forme fisse alla latina, sparsa di lazzi e di lubricità.
Il più fecondo scrittor comico fu il Cecchi, morto il 1587, che in meno di dieci giorni improvvisava commedie, farse, storie e rappresentazioni sacre.
Ha il brio e la grazia fiorentina comune col Lasca, ma ha meno spirito e movimento, anzi talora ti par di stare in una morta gora.
Il suo mondo e i suoi caratteri sono come un repertorio già noto e fissato, e la furia gl'impedisce di darvi il colore e la carne.
Ti riesce non di rado scarno e paludoso.
Pietro dà dentro in tutto questo meccanismo, e lo disfà.
Non riconosce regole e non tradizioni e non usi teatrali.
«Non vi maravigliate», dice nel prologo della Cortigiana «se lo stil comico non si osserva con l'ordine che si richiede, perchè si vive d'un'altra maniera a Roma, che non si vivea in Atene».
Fra le regole c'era questa, che i personaggi non potevano comparire più di cinque volte in iscena.
Pietro se ne burla con molto spirito: «Se voi vedessi uscire i personaggi più di cinque volte in iscena, non ve ne ridete, perchè le catene, che tengono i molini sul fiume, non terrebbono i pazzi di oggidì».
Mira all'effetto; tronca gl'indugi, sgombra gl'intoppi; evita le preparazioni, gli episodi, le descrizioni, le concioni, i soliloqui spessi; cerca in tutto l'azione e il movimento, e ti gitta fin dal principio nel bel mezzo di quel suo mondo furfantesco vivamente particolareggiato.
Non ha la sintesi del Machiavelli, quell'abbracciare con sicuro occhio un vasto insieme, e legarlo e svilupparlo con fatalità logica, come fosse un'argomentazione.
Non è ingegno speculativo, è uomo d'azione, e lui stesso personaggio da commedia.
Perciò non ti dà un'azione bene studiata e ordita come è la Mandragola; gli fugge l'insieme, il mondo gli si presenta a pezzi e a bocconi.
Ma come il Machiavelli, egli ha una profonda esperienza del cuore umano e grande conoscenza de' caratteri, i quali si sviluppano ben rilevati e sporgenti tra la varietà degli accidenti, e dominano la scena, e generano invenzioni e situazioni piccanti.
Come ci gode questo furfante fra tante bricconate che mette in iscena! Perchè infine quel mondo comico è il suo mondo, quello dove ha fatto tante prove di malizia e di ciarlataneria.
Il concetto fondamentale è che il mondo è di chi se lo piglia, e perciò è de' furbi e degli sfacciati, e guai agli sciocchi! Tocca ad essi il danno e le beffe, perchè sono loro abbandonati alle risa del pubblico, sono loro la materia comica.
L'Ipocrita è l'apoteosi di un furfante, che a furia d'intrighi e di malizia diviene ricco, proprio come l'Aretino.
La Talanta è una cortigiana che l'accocca a tutt'i suoi amanti, e finisce ricca, stimata e maritata a un suo antico e fedele amante, alla barba degli altri.
Il Filosofo, mentre studia Platone e Aristotile, se la fa fare dalla moglie, e poi il buon uomo si riconcilia con essa.
Nella Cortigiana messer Maco, che vuol divenire cardinale, e Parabolano che in grazia delle sue ricchezze crede di avere a' suoi piedi tutte le donne, sono per tutta la commedia zimbello di cortigiane, di mezzani e di furfanti.
Il Marescalco o grande scudiere, per non far dispiacere al duca di Mantova, suo signore, consente a sposarsi con una donna, che non ha mai visto, lui nemico delle donne e del matrimonio.
Nè questo è un mondo immaginario e subbiettivo, anzi è proprio quella società lì, co' suoi costumi egregiamente rappresentati nel più fino e nel più minuto.
Pietro vi gavazza entro, come nel suo elemento, lanciando satire, elogi, epigrammi, bricconerie e laidezze, con un brio e un ardore di movenze, come fossero fuochi artificiali.
Alcuni caratteri sono rimasti celebri, e tutti son vivi e veri.
Il suo Marescalco ha ispirato Rabelais e Shakespeare, ed è uno scherzo originalissimo.
Il suo Parabolano è rimasto l'appellativo degli uomini fatui e vani.
Messer Maco è il tipo, da cui usciva il Pourceaugnac.
Il suo ipocrita è un Tartufo innocuo e messo in buona luce.
Il suo filosofo, che egli chiama Plataristotile, è una caricatura de' Platonici di quel tempo.
A sentirlo sentenziare è savissimo, ma non ha pratica del mondo, e il servo la sa più lunga di lui, e più lunga del servo la sa Tessa, la moglie.
Questo filosofo, a cui la moglie gliela fa sul naso, pronunzia sentenze bellissime sulle donne, mentre il servo, che sa tutto, gli fa la boccaccia:
«Plataristotile - La femmina è guida del male e maestra della scelleratezza.
Servo - Chi lo sa, nol dica.
Plataristotile - Il petto della femmina è corroborato d'inganni.
Servo - Tristo per chi non la intende.
Plataristotile - Solo quella è casta che da nessuno è pregata.
Servo - Questo sì ch'io stracredo.
Plataristotile - Chi sopporta la perfidia della moglie, impara a perdonare le ingiurie.
Servo - Bella ricetta per chi è polmone.»
E il servo conchiude: «Vostra Saviezza pigli quello che vi potria intervenire in buona parte, e non si lasci tanto andar dietro agli speculamenti dottrineschi, che il diavolo non vi lasciasse poi andare per i canneti».
«Tu parli da eloquente, » risponde il filosofo; «ma non ci son per considerar sopra, per lo appetito della gloria che conseguisco filosofando».
Il suo Boccaccio è uno di quei merli capitati nelle unghie di una cortigiana e scorticati vivi.
La sua serva tende l'imboscata:
«Boccaccio - Che cosa move la tua madonna a voler parlare a me, che son forestiere?
Lisa - Forse la grazia ch'è in voi; maffe sì ch'ella c'è, or via.
Boccaccio - Tu ti diletti da ben dire.
Lisa - Mi venga la morte, se non ispasima di favellarvi.
Boccaccio - Chi è gentile, il dimostra.
Lisa - Nel vederla manderete a monte le bellezze d'ogni altra...
State saldo, fermatevi, e mirate il sole, la luna e le stelle, che si levano là su quell'uscio.
Boccaccio - Che brava appariscenzia!
Lisa - Il vostro giudizio ha garbo.
Boccaccio - Purch'io sia l'uom ch'ella cerca.
I nomi alle volte si strantendono.
Lisa - Il vostro è sì dolce che si appicca alle labbra.
Eccola corrervi incontro a braccia aperte.»
Le cortigiane sono il suo tema favorito.
La sua Angelica è il tipo di tutte le altre.
E la sua Nanna è la maestra del genere.
Questa è la commedia che poteva produrre quel secolo, l'ultimo atto del Decamerone, un mondo sfacciato e cinico, i cui protagonisti sono cortigiani e cortigiane, e il cui centro è la corte di Roma, segno a' flagelli dell'uomo, che nella sua rocca di Venezia erasi assicurata l'impunità.
Secondo una tradizione popolare molto espressiva Pietro morì di soverchio ridere, come morì Margutte, e come moriva l'Italia.
XVII
TORQUATO TASSO
L' Ariosto, il Machiavelli, l'Aretino sono le tre forme dello spirito italiano a quel tempo un'immaginazione serena e artistica, che si sente pura immaginazione e beffa se stessa; un intelletto adulto, che dà bando alle illusioni dell'immaginazione e del sentimento, e t'introduce nel santuario della scienza, nel mondo dell'uomo e della natura; una dissoluzione morale, senza rimorso, perchè senza coscienza, perciò sfacciata e cinica.
Intorno all'Ariosto si schierano gl'innumerabili novellieri, romanzieri e comici, pasto avido di popolo colto e ozioso, che vive di castelli incantati, perchè non prende più sul serio la vita reale.
Intorno al Machiavelli si stringono tutta una schiera d'illustri statisti e storici, come il Guicciardini, il Giannotti, il Paruta, il Segni, il Nardi, e tutt'i grandi pensatori, che cercano la redenzione nella scienza.
Attorno all'Aretino si move tutto il mondo plebeo de' letterati, istrioni, buffoni, cortigiani, speculatori e mestieranti.
L'Ariosto spinge l'immaginazione fino al punto che provoca l'ironia.
Il Machiavelli spinge la sua realtà e la logica a tal segno che produce il raccapriccio.
E l'Aretino spinge il suo cinismo a tal grado che produce il disgusto.
Queste tre forme dello spirito si riflettono in loro ingrandite e condensate.
Quello era il tempo che i grandi Stati d'Europa prendevano stabile assetto, e fondavano ciascuno la «patria» di Machiavelli, cioè una totalità politica fortificata e cementata da idee religiose, morali e nazionali.
E quello era il tempo che l'Italia non solo non riusciva a fondare la patria, ma perdeva affatto la sua indipendenza, la sua libertà, il suo primato nella storia del mondo.
Di questa catastrofe non ci era una coscienza nazionale, anzi ci era una certa soddisfazione.
Dopo tante calamità venivano tempi di pace e di riposo, e il nuovo dominio non parve grave a popoli stanchi di tumulti e di lotte, avvezzi a mutare padroni, e pazienti di servitù, che non toccava le leggi, i costumi, le tradizioni, le superstizioni, e assicurava le vite e le sostanze.
Alcun moto di plebe ci fu, come a Napoli per l'Inquisizione e per la gabella de' frutti, cagionato da poca abilità ne' governanti, anzi che da elevatezza di sentimenti ne' sudditi.
Quanto alle classi colte, ritirate da gran tempo nella vita privata, negli ozi letterari e ne' piaceri della città e della villa, niente parve loro mutato in Italia, perchè niente era mutato nella lor vita.
Contenti anche i letterati, a' quali non mancava il pane delle corti e l'ozio delle accademie.
Questa Italia spagnuola-papale aveva anche un aspetto più decente.
A forza di gridare che il male era nella licenza de' costumi, massime fra gli ecclesiastici, il Concilio di Trento si diede a curare il male riformando i costumi e la disciplina.
«Si non caste, tamen caute.» Al cinismo successe l'ipocrisia.
Il vizio si nascose; si tolse lo scandalo.
E non fu più tollerata tutta quella letteratura oscena e satirica; Niccolò Franco, l'allievo e poi il rivale di Pietro Aretino, predicatosi da sè «flagello del flagello de' principi», finì impiccato per un suo epigramma latino.
Il riso del Boccaccio morì sulle labbra di Pietro Aretino.
La censura preventiva, stabilita già dal Concilio lateranense, fu applicata con severità; fu costituita la Congregazione dell'Indice.
Sorsero nuovi ordini religiosi per la riforma de' costumi e l'educazione della gioventù, i teatini, i somaschi, i barnabiti, i padri dell'oratorio, i gesuiti.
Si composero poesie sacre, che si cantavano nelle chiese e nelle processioni.
San Filippo Neri introdusse gli «oratorii», drammi e commedie sacre.
L'istruzione cadde in mano a' preti e a' frati.
Spirava un odore di santità!
Questa fu la riforma fatta dal Concilio di Trento, e che il Sarpi chiama «difformazione».
Il tema prediletto de' poeti italiani e de' protestanti erano gli scandali della corte romana.
Roma, la «meretrice» di Dante, la «Babilonia» del Petrarca, era stata assalita da' protestanti nel suo lato più debole, e più efficace sulle grossolane moltitudini, nella sua scostumatezza.
Il Concilio spezzò quest'arma antica di guerra in mano agli avversari, riformando la disciplina e dando in questo ragione al vecchio Savonarola.
Rimosso lo scandalo, il Concilio credea di aver tolta alla Riforma protestante la sua ragion di essere, e stimò possibile una conciliazione.
Ma la licenza de' costumi era il pretesto, e non la cagion vera e intima della Riforma germanica e della incredulità italiana, che era l'intelletto già adulto e libero, che non voleva riconoscere autorità di sorta e reclamava la libertà di esame.
Ora il Concilio non dava a questo alcuna soddisfazione, come sarebbe stato un accostare la gerarchia a forme democratiche e lasciare alcuna larghezza di opinione in certe quistioni; anzi fece proprio l'opposto, rafforzò l'autorità papale a spese de' vescovi, atteggiando la gerarchia a monarchia assoluta, e definì tutte le quistioni di domma e di fede, negando la competenza della ragione e della coscienza individuale.
Così la scissione divenne definitiva, e l'Europa cristiana fu divisa in due campi: dall'un lato la Riforma, dall'altro il romanismo e il papismo.
La Riforma avea per bandiera la libertà di coscienza e la competenza della ragione nell'interpretazione della Bibbia e nelle quistioni teologiche; il romanismo avea per contrario a fondamento l'autorità infallibile della Chiesa, anzi del papa, e l'ubbidienza passiva, il «credo quia absurdum».
Questa lotta tra la fede e la scienza, l'autorità e la libertà, è antica, coeva alle origini stesse della religione, ma si manifestava in quistioni parziali intorno a questo o a quel dogma, e solo allora se ne acquistò coscienza, e la differenza fu elevata a principio.
In questa coscienza più chiara sta l'importanza della Riforma e del Concilio di Trento.
Innanzi di questo tempo, ci era in Italia una specie di ecletismo, per il quale filosofia e teologia andavano insieme, senza troppo saper come, a quel modo che classicismo e cristianesimo, e le idee più ardite si facevano largo, quando erano accompagnate con la clausola: «salva la fede».
Era una specie di compromesso tacito, per il quale il mondo, bene o male, andava innanzi, senza troppi urti.
Ora non sono più possibili gli equivoci, le cautele e ipocrisie oratorie: le due parti sanno quello che vogliono, e stanno a fronte nemiche.
La Chiesa, anzi il papa si proclama solo e infallibile interprete della verità, e dichiara eretica non questa o quella proposizione solamente, ma la libertà e la ragione, il dritto di esame e di discussione.
Da questa lotta esce il concetto moderno della libertà.
Presso gli antichi «libertà» era partecipazione de' cittadini al governo, nel qual senso è intesa anche dal Machiavelli.
Presso i moderni accanto a questa libertà politica è la libertà intellettuale, o, come fu detto, la «libertà di coscienza», cioè a dire la libertà di pensare, di scrivere, di parlare, di riunirsi, di discutere, di avere una opinione e divulgarla e insegnarla: libertà sostanziale dell'individuo, dritto naturale dell'uomo, e indipendente dallo Stato e dalla Chiesa.
Di qui viene questa conseguenza, che interpretare e bandire la verità è dritto naturale dell'uomo, e non privilegio di prete: sicchè proprio della Riforma fu il secolarizzare la religione.
Il concetto opposto fondato sull'onnipotenza della Chiesa o dello Stato è il dritto divino, la teocrazia, il cesarismo, assorbimento dell'individuo nell'essere collettivo, come si chiami, o Chiesa, o Stato, o papa, o imperatore.
Il Concilio di Trento portava conseguenze non solo religiose, ma politiche.
Da esso usciva la consacrazione della monarchia assoluta sulle rovine de' privilegi feudali e delle franchigie comunali.
Papa e re si diedero la mano.
Il re prestava al papa il braccio secolare, e il papa lo consacrava, lo legittimava, gli dava i suoi inquisitori e i suoi confessori.
La monarchia fu ordinata a modo della gerarchia ecclesiastica, e fondata sullo stesso principio dell'autorità e della ubbidienza passiva.
Trono e altare furono del pari inviolabili, e indiscutibili.
E fu atto di ribellione pensare liberamente di papa o di re, anzi venne su il motto: «De Deo parum, de rege nihil».
Così la religione divenne un istrumento politico, il dispotismo religioso divenne il sussidio naturale del dispotismo politico.
Ma l'autorità e la fede sono di quelle cose che non si possono imporre.
E in Italia era così difficile restaurare la fede, come la moralità.
Ciò che si potè conseguire fu l'ipocrisia, cioè a dire l'osservanza delle forme in disaccordo con la coscienza.
Divenne regola di saviezza la dissimulazione e la falsità nel linguaggio, ne' costumi, nella vita pubblica e privata: immoralità profonda, che toglieva ogni autorità alla coscienza, ed ogni dignità alla vita.
Le classi colte incredule e scettiche si rassegnarono a questa vita in maschera con la stessa facilità che si acconciarono alla servitù e al dominio straniero.
Quanto alle plebi, vegetavano, e fu cura e interesse de' superiori lasciarle in quella beata stupidità.
Non mancarono resistenze individuali.
Molti uomini pii, e anche ecclesiastici, amarono meglio ardere su' roghi o esulare che mentire alla coscienza.
Intere famiglie abbandonarono l'Italia, e portarono altrove le loro industrie.
Uomini egregi di virtù e di scienza onorarono il paese natio scrivendo, predicando nella Svizzera, nell'Inghilterra, in Germania.
Operosissimo fra tutti il Socino, da Siena, da cui presero nome i sociniani.
Il suo merito è di avere avuto della Riforma una coscienza assai più chiara, che non Lutero e non Calvino, facendo fede quanto l'intelletto italiano era innanzi in queste speculazioni.
Perchè il Socino, uscendo dalle quistioni parziali intorno a questo o a quel pronunziato teologico, sulle quali battagliavano Lutero, Melantone e Calvino, proclama la ragione sola competente, negando ogni elemento soprannaturale, e fa centro dell'universo l'uomo nel suo libero arbitrio, negando l'onniscienza divina e la predestinazione.
Ci si vede subito l'italiano, il concittadino di Machiavelli.
A questi esempi e a questi martìri l'Italia rimaneva indifferente.
Quistioni che insanguinavano mezza Europa, non la toccavano.
Ed erano quistioni, dalle quali sciolte nell'uno o nell'altro modo, dipendeva l'avvenire della civiltà e la sorte delle nazioni.
Rimase romana tutta la gente latina, Spagna, Francia, Italia.
Ma in Francia e nella Spagna non fu, se non dopo accanite persecuzioni, che resero indimenticabile il Tribunale della inquisizione e la giornata di san Bartolomeo.
In quelle lotte lo spirito nazionale si ritemprò, e si svegliarono gl'intelletti; e il sentimento religioso esaltato dagl'interessi politici e dal fanatismo delle plebi fu fattore di civiltà, accentrò le forze intorno alla monarchia assoluta, costituì fortemente l'unità nazionale e impresse alla vita intellettuale un moto più celere.
La Spagna di Carlo quinto e di Filippo secondo ebbe il suo Cervantes, il suo Lopez e il suo Calderon, e la Francia ebbe il suo secolo d'oro, co' suoi poeti, filosofi e oratori, ebbe Cartesio, Malebranche e Pascal, ebbe Bossuet e Fènelon, Corneille, Racine, e Molière Le due nazioni uscirono dalla lotta potenti, prospere, e saldamente unificate.
In Italia non ci fu lotta, perchè non ci fu coscienza, voglio dire convinzioni e passioni religiose, morali e politiche.
Le altre nazioni entravano pure allora in via; essa giungeva al termine del suo cammino, stanca e scettica.
Rimase papale con una coltura tutta pagana ed antipapale.
Il suo romanismo non fu effetto di rinnovamento religioso negli spiriti, come tentò di fare frate Savonarola, fu inerzia e passività; mancava la forza e di combatterlo e di accettarlo Piacque quella maggiore castigatezza e correzione nelle forme, stucchi della licenza, nè dispiaceva quel nuovo splendore del papato, e non avendo patria, si fabbricavano volentieri una patria universale o cattolica, col suo centro a Roma.
Venne in voga predicare contro gli eretici, e celebrare le vittorie cattoliche sopra i turchi, come quella di Lepanto, e più tardi quella di Vienna.
Papa e Spagna imperavano, nessuno riluttante.
Ma se Filippo secondo o Luigi decimoquarto potevano dire: - Lo Stato son io -; Spagna e papa non potevano dire: - L'Italia siamo noi.
- Mancavano loro que' gagliardi consensi che vengono dal di dentro e formano il vincolo nazionale.
Lo spirito italiano ubbidiva inerte e non scontento, ma rimaneva al di fuori, non s'immedesimava in loro.
Le idee vecchie non erano credute più con sincerità, e mancavano idee nuove, che formassero la coscienza e rinvigorissero la tempra: indi quel consenso superficiale ed esteriore, quello stato di acquiescenza passiva e di sonnolenza morale.
L'intelletto in quella sua virilità non apparteneva a loro, era contro di loro.
E se vogliamo trovare i vestigi di una nuova Italia, che si vada lentamente elaborando, dobbiamo cercarli nell'opposizione fatta a Spagna e papa.
La storia di questa opposizione è la storia della vita nuova.
Il primo fenomeno di questa sonnolenza italiana fu il meccanismo, una stagnazione nelle idee, uno studio di fissare e immobilizzare le forme.
Si arrestò ogni movimento filosofico e speculativo.
Il Concilio di Trento avea poste le colonne d'Ercole, avea pensato esso per tutti.
La scienza fu presa in sospetto.
Permesso appena il platonizzare.
I grandi problemi della destinazione umana, etici, politici, metafisici, furono messi da parte, ed al pensiero non rimase altro campo che lo studio della natura ne' limiti della Bibbia.
Crebbe invece lo studio delle forme.
Fu allora che si formò l'Accademia della Crusca, e fu il Concilio di Trento della nostra lingua.
Anch'essa scomunicò scrittori e pose dommi.
E ne venne un arruffio concepibile solo in quell'ozio delle menti.
La nostra lingua avea già una forma stabile e sicura in tutta Italia.
Il toscano era «il fiore della lingua italiana», così dice Speron Speroni.
Ci era dunque una lingua italiana, vale a dire un fondo comune di vocaboli con una comune forma grammaticale, atteggiato variamente e colorito secondo le varie parti d'Italia.
Allora, come ora, si sentiva nello scrittore l'italiano e anche il toscano, il lombardo, o il veneziano, o il napolitano.
Questa varietà di atteggiamento e di colorito, questo elemento locale era la parte viva della lingua, che lo scrittore attingeva dall'ambiente in cui era.
Se Firenze fosse stata un centro effettivo d'Italia, come Parigi, la lingua fiorentina sarebbe rimasta lingua viva di tutti gli scrittori italiani, che ivi avrebbero avuto la loro naturale attrazione.
Ma Firenze era allora per gli italiani un museo, da studiarsi nei suoi monumenti, voglio dire ne' suoi scrittori.
L'Accademia della Crusca considero la lingua come il latino, vale a dire come una lingua compiuta e chiusa in sè, di modo che non rimanesse a fare altro, se non l'inventario.
Chiamò puri tutt'i vocaboli contenuti nel suo dizionario e usati da questo o da quello scrittore, e scomunicò tutti gli altri.
Fece una scelta degli scrittori, e di sua autorità creò gli eletti ed i reprobi.
Così la lingua, segregata dall'uso vivente, divenne un cadavere, notomizzato, studiato, riprodotto artificialmente, e gl'italiani si avvezzarono a imparare e scrivere la loro lingua, come si fa il latino o il greco.
Il Petrarca e il Boccaccio diventarono modelli così inviolabili come la Bibbia, e il «non si può» venne in moda anche per le parole, tanto che mancò pazienza fino al gesuita Bartoli.
A mostrare in qual modo studiassero i nostri letterati, cito ad esempio un uomo coltissimo e d'ingegno non ordinario, Speron Speroni:
«Io veramente fin da' primi anni, desiderando oltramodo di parlare e di scrivere volgarmente i concetti del mio intelletto, e questo non tanto per dovere essere inteso, il che è cosa degna da ogni volgare, quanto a fine che il nome mio con qualche laude tra' famosi si numerasse, ogni altra cura posposta, alla lezion del Petrarca e delle Cento novelle con sommo studio mi rivolgei: nella qual lezione con poco frutto non pochi mesi per me medesimo esercitatomi, ultimamente da Dio ispirato ricorsi al nostro messer Trifon Gabriele; dal quale benignamente aiutato, vidi e intesi perfettamente quei due autori, li quali, non sapendo che notar mi dovessi, avea trascorso più volte.»
Questo è un solo periodo! E che affanno! E domando se vi par lingua viva.
Ecco ora in iscena Trifone, uno de' grammatici e critici più riputati e chiamato il Socrate di quella età:
«Questo nostro buon padre primieramente mi fece noti i vocaboli, poi mi die' regole da conoscere le declinazioni e coniugazioni de' nomi e verbi toscani, finalmente gli articoli, i pronomi, i participi, gli adverbi e le altre parti dell'orazione distintamente mi dichiarò: tanto che accolte in uno le cose imparate, io ne composi una mia grammatica, con la quale, scrivendo, io mi reggeva...
Poichè a me parve d'esser fatto un solenne gramatico, ...
io mi diedi al far versi: allora pieno tutto di numeri, di sentenzie e di parole petrarchesche o boccacciane, per certi anni fei cose a' miei amici meravigliose; poscia parendomi che la mia vena si cominciasse a seccare (perciocchè alcune volte mi mancava i vocaboli, e non avendo che dire in diversi sonetti, uno istesso concetto m'era venuto ritratto), a quello ricorsi che fa il mondo oggidì, e con grandissima diligenzia feci un rimario o vocabolario volgare, nel quale per alfabeto ogni parola, che già usarono questi due, distintamente riposi: oltre di ciò in un altro libro i modi loro del descriver le cose, giorno, notte, ira, pace, odio, amore, paura, speranza, bellezza siffattamente raccolsi, che nè parole, nè concetto usciva di me, che le novelle e i sonetti loro non ne fossero esempio...
Era d'opinione che la nostra arte oratoria e poetica altro non fosse che imitar loro ambidue, prosa e versi a lor modo scrivendo.»
Adunque la lingua, la «testura delle parole», i loro «numeri» e la loro «concinnità», frasi del tempo, si studiavano nel Boccaccio e nel Petrarca, e se ne cavarono grammatiche, dizionari e repertorii di frasi e di concetti.
Così insegnava Trifone Gabriele, detto Socrate, e così praticava Speron Speroni, riuscito con questa scuola a scrivere in quel gergo artificiale e convenzionale, che si e visto.
Così la lingua, fatta classica e pura, rimase immobile e cristallizzata, come lingua morta, e il suo studio divenne difficilissimo.
Si voleva non solo che la parola fosse pura, ma che fosse numerosa ed elegante.
Si formo una scienza de' numeri non pure in verso, ma in prosa.
Il periodo divenne un artificio complicatissimo.
Eccone un saggio nello Speroni:
«...
come la composizione della prosa è ordinanza delle voci delle parole, così i numeri sono ordini delle sillabe loro; con li quali dilettando le orecchie, la buona arte oratoria comincia, continua e finisce l'orazione; perciocchè ogni clausola, come ha principio, così ha mezzo e fine: nel principio si va movendo, e ascende; nel mezzo quasi stanca della fatica stando in pie si posa alquanto; poi discende e vola al fine per acquetarsi...
La prosa alcuna volta ben compone le parole non belle, e altra volta le belle malamente va componendo; e può occorrere che, siccome nella musica bene e spesso le buone voci discordano, e le non buone o per usanza o per arte sono tra loro concordi; così i pari, i simili e i contrari, cose tutte per lor natura ben risonanti, qualche volta con voce aspra e difforme, qualche volta scioccamente e a bocca aperta, va esplicando la orazione.
Finalmente molte fiate intravviene che la prosa perfettamente composta, quasi fiume del proprio corso appagandosi, non si cura non che di giungere al fine, ma di posarsi per lo cammino, e va sempre, e se 'l fiato non le mancasse, continuamente tutta sua vita camminerebbe: però a' numeri ricorriamo, li quali, attraversando la strada piacevolmente con lusinghe e con vezzi, a rinfrescarsi e albergare con loro la invitino, e non volendo la cortesia, vogliono usare le forze e per ben suo, mal suo grado, con violenzia l'arrestino.»
Con questi criteri non è maraviglia che a lungo andare si sia giunto a tale, che un predicatore componeva i suoi periodi a suon di musica.
E si comprende anche che lo Speroni fabbricasse a questo modo i suoi periodi, e quanta ammirazione dovessero destare i periodi con tanto artificio congegnati del Bembo, del Casa o del Castiglione.
La parola ebbe una sua personalità, fu isolata dalla cosa; e ci furono parole pure e impure, belle e brutte, aspre e dolci, nobili e plebee.
Nella scelta delle parole stava il segreto della eleganza.
Si cercava non la parola propria, ma la parola ornata, o la perifrasi; la ripetizione era peccato mortale, e se la cosa era la stessa, dovea cercarsi una diversa parola, tacere i nomi propri e «ogni cosa delle altrui voci adornare», come lo Speroni nota del Petrarca, il quale chiamò «la testa 'oro fino' e 'tetto d'oro'; gli occhi 'soli', 'stelle', 'zaffiri', 'nido' e 'albergo d'amore'; le guance or 'neve e rose', or 'latte e foco'; 'rubini' i labbri; 'perle' i denti; la gola e il petto ora 'avorio', ora 'alabastro'».
Una lingua viva è sempre propria, perchè la parola ti esce insieme con la cosa; una lingua morta è necessariamente impropria, perchè la trovi ne' dizionari e negli scrittori bella e fatta, mutilata di tutti quegli accessorii che il popolo vi aggiungeva, e che determinavano il suo significato e il suo colore.
Così la nostra lingua, giunta a un alto grado di perfezione, che pure allora nella Eneide del Caro e nel Tacito del Davanzati mostrava la sua potenza, si arresto nel suo sviluppo, a quel modo che la vita italiana, e disputavano come si avesse a chiamare, o «toscana» o «fiorentina» o «italiana,» quando era già bella e imbalsamata, ben rinchiusa e coperchiata nel dizionario della Crusca.
Il medesimo era della grammatica.
Si cercò il criterio non nella natura e nel significato delle cose, e non nella logica necessità, ma nell'uso variabilissimo degli scrittori.
Indi regole arbitrarie e più arbitrarie eccezioni, e quella folla di significati attribuiti a una sola parola, e tante inutilità decorate col nome di «ripieno», e sottigliezze infinite su di una lettera o una sillaba.
Onde nacque una ortografia in molte parti campata in aria e tentennante, una sintassi complicata e incerta, un guazzabuglio di particelle, pronomi, generi, casi, alterazioni e costruzioni, una grammatica che anche oggi è una delle meno precise e semplici.
Avemmo una lingua senza proprietà e una grammatica senza precisione; perchè lingua e grammatica furono considerate non in rispetto alle cose, ma per se stesse, come forme vacue e arbitrarie.
L'attenzione era tutta al di fuori, sulla superficie.
La letteratura fu un artificio tecnico, un meccanismo.
E si cercò il suo fondamento non nelle ragioni intrinseche di ciascuna forma messa in relazione con le cose, ma nell'esempio degli scrittori.
Come del periodo, così immaginarono uno schema artificiale e immobile di composizione, la cui base fu posta in una certa concordanza del tutto e delle parti, come in un orologio, e questo chiamavano scrivere classico.
Smarrito il sentimento dell'arte e della poesia, non rimase che un concetto prosaico di perfezione meccanica, la regolarità e la correzione.
Davano una importanza straordinaria alla lingua, alla grammatica, all'elocuzione, al periodo, alla composizione: e qui erano le colonne di Ercole, qui finiva la critica.
Gli scrittori giudicati secondo questi criteri erano più o meno lodati secondo che più o meno si avvicinavano al modello.
Si vantavano le commedie e le tragedie di quel tempo per la loro conformità alle regole.
E come un effetto bisognava ottenere sugli spettatori, e quella regolarità ammiratissima era pur la più noiosa cosa di questo mondo, cercavano l'effetto ne' mezzi più grossolani e caricati, a cui sogliono ricorrere gli uomini mediocri.
Le commedie erano buffonerie, le tragedie erano orrori, e tra le più insopportabili era appunto la Canace dello Speroni.
Una sola cosa mancava all'Italia, il genere eroico, e lo Speroni è tutto sconsolato di non trovarne l'esempio nel Petrarca: «Quasi nuovo alchimista, lungamente mi faticai per trovare l'eroico, il qual nome niuna guisa di rima dal Petrarca tessuta non è degna di appropriarsi.» Il Trissino era mal riuscito.
L'Orlando furioso era fuori regola, e gli si perdonava, perchè era «romanzo» e non poema.
Il problema era di «trovare l'eroico», come diceva lo Speroni.
Ciascun vede quanto Pietro Aretino entrasse innanzi per ingegno critico a tutti costoro.
Conforme a quei criteri era la pratica.
Comenti al Boccaccio e al Petrarca infiniti.
Molte traduzioni di classici, tra le quali il Livio del Nardi, la Rettorica e l'Eneide del Caro, le Metamorfosi dell'Anguillara, il Tacito del Davanzati.
Grammatiche e rettoriche tutte ad uno stampo dal Bembo al Buommattei, detto «messer Ripieno», anzi sino al Corticelli.
Imitazioni, anzi contraffazioni classiche in uno stile artificiato, che tirava a sè anche i più robusti ingegni, anche il Guicciardini.
E le accademie che moltiplicavano sotto i nomi più strani, dove, finiti i baccanali, regnavano vuote cicalate e dispute grammaticali.
Come contrapposto, non mancavano gli eccentrici, che cercavano fama per via opposta, come il Lando, che chiamava «imbecille» il Boccaccio e «animalaccio» Aristotile, e solleticava l'attenzione pubblica co' suoi Paradossi.
Nella prima metà del secolo la libertà, anzi la licenza dello scrivere gittava in mezzo a quell'aspetto uniforme e pedantesco della letteratura la vivezza, la grazia, la mordacità, la lubricità, la personalità dello scrittore.
Dirimpetto al classico ci era l'avventuriere.
Ultimo di questi avventurieri fu Benvenuto Cellini, morto nel 1570, Natura ricchissima, geniale e incolta, compendia in sè l'italiano di quel tempo, non modificato dalla coltura.
Ci è in lui del Michelangiolo e dell'Aretino insieme fusi, o piuttosto egli è l'elemento greggio, primitivo, popolano, da cui usciva ugualmente l'Aretino e Michelangiolo.
Artista geniale e coscienzioso, l'arte è il suo dio, la sua moralità, la sua legge, il suo dritto.
L'artista, secondo lui, è superiore alla legge, e «gli uomini, come Benvenuto, unici nella loro professione, non hanno ad essere obbligati alle leggi».
Cerca la sua ventura di corte in corte, armato di spada e di schioppetto, e si fa ragione con le sue armi e con la lingua non meno mortale, che «fora e taglia».
Se incontra il suo nemico, gli tira una stoccata, e se lo ammazza, suo danno; perchè «li colpi non si dànno a patti».
Se lo mettono prigione, gli pare uno scandalo e gli fanno uno «scellerato torto».
È divoto, come una pinzochera, e superstizioso come un brigante.
Crede a' miracoli, a' diavoli, agl'incantesimi, e, quando ne ha bisogno, si ricorda di Dio e de' santi, e canta salmi e orazioni, e va in pellegrinaggio.
Non ha ombra di senso morale, non discernimento del bene e del male, e spesso si vanta di delitti che non ha commessi.
Bugiardo, millantatore, audace, sfacciato, pettegolo, dissoluto, soverchiatore, e sotto aria d'indipendenza, servitore di chi lo paga.
È contentissimo di sè e non si tiene al di sotto di nessuno, salvo il «divinissimo» Michelangiolo.
Potentissimo di forza e di vita interiore, questo cavaliere errante dettò egli medesimo la sua vita, e si ritrasse con tutte queste belle qualità, sicurissimo di alzare a sè un monumento di gloria.
Queste qualità vengon fuori con la spontaneità della natura ed il brio della forza in uno stile evidente e deciso, come il suo cesello.
Nella seconda metà del secolo questa vita ricca e licenziosa è compressa, e la personalità scompare sotto il compasso dell'accademia e del Concilio di Trento.
Rimangono stizze, passioncelle, denuncie, calunnie, furori grammaticali, la parte più grossolana e pedantesca di quella vita.
In quel tempo l'Inghilterra avea il suo Shakespeare; Rabelais e Montaigne, pieni di reminiscenze italiane, preludevano al gran secolo; Cervantes scrivea il suo Don Chisciotte, e Camoens le sue Lusiadi.
E i nostri critici scrivevano gli Avvertimenti grammaticali e i Dialoghi sull'Amore platonico, Sulla Rettorica, Sulla Storia, sulla Vita attiva e contemplativa, e cercavano e non trovavano il genere eroico.
Tra queste preoccupazioni e miserie venne in luce la Gerusalemme Liberata.
L'Italia avea il suo poema eroico, non so che «simile» all'Iliade e all'Eneide, e i critici dovevano essere soddisfatti.
Il giovane Pellegrini annunziò la buona novella a suon di tromba, con l'entusiasmo dell'età.
La Gerusalemme intoppava in un mondo non più poetico, ma critico.
Il sentimento dell'arte era esausto, l'ispirazione e la spontaneità nel comporre e nel giudicare era guasta da ragionamenti fondati sopra concetti critici, generalmente ammessi e tenuti come vangelo.
L'Ariosto si pose a scrivere come gli era dettato dentro, e non guardava altro.
Il suo argomento divenne innanzi al suo genio un vero mondo, con la sua propria maniera di essere e con le sue regole.
Il Tasso, come Dante, era già critico prima di esser poeta, aveva già innanzi a sè tutta una scuola poetica.
Ciò che sta avanti a lui non è il suo argomento, ma certi fini, certe preoccupazioni certi modelli, e Orazio e Aristotile, e Omero e Virgilio.
A diciotto anni è già una maraviglia di dotto, e conosce Platone e Aristotile e sviluppa a maraviglia tesi di filosofia, di rettorica e di etica.
Scrive il Rinaldo, e, come aveva imparato il «simplex et unum», studia all'unità dell'azione e alla semplicità della composizione, e ne chiede scusa al pubblico.
Ma il pubblico, avvezzo alle larghe e magnifiche proporzioni dell'Orlando e dell'Amadigi, trova il pasto un po' magro e ne torce la bocca.
Lasciò allora da parte il poema cavalleresco, o, come dicevano, il romanzo, e pensò di dare all'Italia quel poema eroico, che tutti cercavano.
Esitò sulla scelta dell'argomento, avea pronti quattro o cinque temi, e rimise l'elezione, dicesi, al duca Alfonso, suo mecenate.
In somma cominciò la Gerusalemme.
Volle fare un poema «regolare», come dicevano, secondo le regole.
L'argomento rispondeva a' tempi pel suo carattere religioso e cosmopolitico, e vi poteva senza sforzo introdurre un eroe estense, e, come l'Ariosto, far la sua corte al duca.
Si die' una cura infinita delle proporzioni e delle distanze, per conservare l'unità e la semplicità della composizione.
Guardò al verisimile, per dare al suo mondo un aspetto di naturale e di credibile.
Introdusse un'azione seria, intorno a cui tutto convergesse, e fece del pio Goffredo un protagonista effettivo, un vero capo e re a uso moderno.
Soppresse i cavalieri erranti, e cavò l'intreccio non dallo spirito di avventura, ma dall'azione celeste e infernale, come in Omero.
Umanizzò il soprannaturale, rendendolo spiegabile e quasi allegorico, e come una semplice esteriorità degl'istinti e delle passioni.
Nobilitò i caratteri, sopprimendo il volgare, il grottesco e il comico, e sonò la tromba dal primo all'ultimo verso.
Tolse molta parte al caso e alla forza brutale, e molta ne die' all'ingegno, alla forza morale, alle scienze, come ne' suoi duelli e battaglie.
Mirò a dare al suo racconto un'apparenza di storia e di realtà.
Si consigliava spesso con i critici, e dava loro a leggere il poema canto per canto, e mutava e correggeva, docilissimo.
Tra questi critici consultati era Speron Speroni.
Il Tasso voleva fare un poema seriamente eroico, animato da spirito religioso, possibilmente storico e prossimo al vero o verisimile, di un maraviglioso naturalmente spiegabile, e di un congegno così coerente e semplice, che fosse vicino ad una logica perfezione.
Questo era il suo ideale classico, che cercò di realizzare, e che spiegò ne' suoi scritti sul poema eroico e sulla poesia, ne' quali mostrò che ne sapeva più de' suoi avversari.
Il poema fu accolto con quello spirito che fu composto.
Letto prima a bocconi; quando uscì tutto intero, scorretto e senza saputa dell'autore, si destò un vespaio.
I critici lo combatterono con le sue armi.
- Se volevate fare un poema religioso, - diceva l'Antoniano - dovevate darci un poema che potesse andar nelle mani anche delle monache.
- Gli uomini pii, che allora davano il tuono, mostravano scandalo di quegli amori rappresentati con tanta voluttà, malgrado che il povero Tasso ne chiedesse perdono alla Musa «coronata di stelle fra' beati cori».
E per farli tacere, costruì un'allegoria postuma e particolareggiata, che fosse di passaporto a quei diletti profani.
Come arte, il poema fu esaminato nella composizione, nella elocuzione, nella lingua e fino nella grammatica: che era la materia critica di quel tempo.
Trovavano la composizione difettosa, soprattutto per l'episodio di Olindo e Sofronia, lasciati lì e dimenticati nel rimanente dell'azione.
Parea loro che la vera e seria azione comprendesse pochi canti, e il resto fosse un tessuto di episodi e avventure legate non necessariamente con quella.
L'elocuzione giudicavano artificiata e pretensiosa, la lingua impura e impropria, e non abbastanza osservata la grammatica.
Facevano continui confronti con l'Eneide e con l'Iliade, e disputavano sottilmente e futilmente sul genere eroico e sulle sue regole.
Sorsero confronti stranissimi tra l'Orlando e la Gerusalemme, e chi facea primo l'Ariosto e chi il Tasso.
La contesa occupò per qualche tempo l'oziosa Italia, e oscurò ancora più il senso poetico, e non fe' dare un passo alla critica.
Si rimase come in un pantano.
Fra tanti opuscoli merita attenzione quello di un giovane, chiamato a grandi destini, Galileo Galilei, che ne scrisse con un gran buon senso, con molto gusto e con un retto sentimento dell'arte.
L'Accademia della Crusca ebbe molta parte in questa contesa.
E si comprende.
Mancava alla lingua del Tasso il sapore toscano, quel non so che schietto e natio, con una vivezza e una grazia che è un amore.
Ma il Salviati rese pedantesca l'accusa, facendo il pedagogo e notando i punti e le virgole.
L'esagerazione dell'accusa suscitò l'entusiasmo della difesa, e il libro fu più noto e desiderato.
Oggi, in tanto silenzio e indifferenza pubblica, un autore si terrebbe fortunato di svegliare tanta attenzione.
Ma il Tasso ne venne malato del dispiacere, e, quasi fossero assalti personali, trattò i suoi critici come nemici.
In verità, il principal suo nemico era lui stesso.
Si difendeva, ma con cattiva coscienza, perchè, professando i medesimi princìpi critici, sentiva in fondo di aver torto.
E venne nell'infelice idea di rifare il suo poema, e dare soddisfazione alla critica.
Così uscì la Gerusalemme Conquistata.
Purgò la lingua, ubbidì alla grammatica.
Le «armi» cessarono di essere «pietose» e non divennero «pie»; il «capitano» divenne il «cavalier sovrano»; il «gran sepolcro» sparve del tutto, e il sublime «io ti perdón» fu trasformato nel prosaico «perdón io».
Le correzioni sono quasi tutte infelici, di seconda mano, fatte a freddo.
Non ci è più il poeta, ci è il grammatico e il linguista, co' suoi terribili critici dirimpetto.
Corresse anche l'elocuzione, rifiutò i lenocini, cercò una forma più grave e solenne, che ti riesce fredda e insipida.
Peggior guasto nella composizione.
Soppresse Olindo e Sofronia, e vi sostituì una fastidiosa rassegna militare.
Cacciò via Rinaldo, come reminiscenza cavalleresca, e vi ficcò un Riccardo, nome storico delle crociate, divenuto un Achille, a cui die' un Patroclo in Ruperto.
Trasformò Argante in un Ettore, figliuolo del re, di Aladino divenuto Ducalto.
Fe' di Solimano un Mezenzio, e lo regalò di un figliuolo per imitare in sulla fine la leggenda virgiliana.
Troncò le storie finali di Armida e di Erminia mutata in Nicea.
Anticipò la venuta degli egizi, e moltiplicò le azioni militari, per occupare il posto lasciato vuoto dagli episodi abbreviati o soppressi.
E gli parve così di aver rafforzata l'unità e la semplicità dell'azione, resa più coerente e logica la composizione, e dato al poema un colorito più storico e reale.
Ma non parve al pubblico, che non potè risolversi a dimenticare Armida, Rinaldo, Erminia, Sofronia, le sue più care creazioni e più popolari.
E dimenticò piuttosto la Gerusalemme conquistata, che oggi nessuno più legge.
La poetica del Tasso è nelle sue basi essenziali conforme a quella di Dante.
Lo scopo della poesia è per lui il «vero condito in molli versi», come era per Dante il «vero sotto favoloso e ornato parlare ascoso».
Il concetto religioso è anche il medesimo, la lotta della passione con la ragione.
Passione e ragione sono in Dante inferno e paradiso, e nel Tasso Dio e Lucifero, e i loro istrumenti in terra Armida e la celeste guida di Ubaldo e Carlo.
L'intreccio è tutto fondato su questo antagonismo, divenuto il luogo comune de' poeti italiani.
L'Armida del Tasso è l'Angelica del Boiardo e dell'Ariosto, salvo che il Boiardo affoga il concetto nella immensità della sua tela, e l'Ariosto se ne ride saporitamente, dove il Tasso ne fa il centro del suo racconto.
Questo, che i critici chiamavano un «episodio», era il concetto sostanziale del poema.
Omero canta l'ira di Achille, cioè canta non la ragione, ma la passione, nella quale si manifesta la vita energicamente.
Le sue divinità sono esseri appassionati, Giove stesso non è la ragione, ma la necessità delle cose, il fato.
Virgilio s'accosta al concetto cristiano, togliendo il pio Enea agli abbracciamenti di Didone.
Pure, poeticamente ciò che desta il maggiore interesse non è il pio Enea, ma l'abbandonata Didone.
Nella leggenda cristiana il paradiso perduto e il peccato di Adamo sono argomenti epici, ne' quali erompe la vita nella violenza de' suoi istinti e delle sue forze.
Nella passione e morte di Cristo l'interesse poetico giunge al suo più alto effetto tragico, perchè è il martirio della verità.
In Dante questo concetto preso nella sua logica perfezione produce l'astrazione del paradiso e l'intrusione dell'allegoria; come nel Tasso produce l'astrazione del Goffredo.
Si confondeva il vero poetico, che è nella rappresentazione della vita, col vero teologico o filosofico, che è un'astrazione mentale o intellettuale della vita.
L'Ariosto se la cava benissimo, perchè canta la follia di Orlando, e quando viene la volta della ragione, volge il fatto a una soluzione comica e piccante, mandando Astolfo a pescarla nel regno della Luna.
Il Tasso vuol restaurare il concetto nella sua serietà, e mirando a quella perfezione mentale, gli esce l'infelice costruzione del Goffredo e la fredda allegoria della «donna celeste».
Non è meno errato il suo concetto della vita epica.
Ciò che lo preoccupa è la verità storica, il verisimile o il nesso logico, e una certa dignità uguale e sostenuta.
E non vede che questo è l'esterno tessuto della vita, o il meccanismo, il semplice materiale con appena la sua ossatura e il suo ordine logico.
Il suo occhio critico non va al di là, e quando il poeta morì e sopravvisse il critico, esagerando questi concetti astratti e superficiali, guastò miserabilmente il suo lavoro, e ci die' nella Gerusalemme conquistata di quella ricca vita il solo scheletro, il quale, perchè meglio congegnato e meccanizzato, gli parve cosa più perfetta.
Ma il Tasso, come Dante, era poeta, ed aveva una vera ispirazione.
E la spontaneità del poeta supplì in gran parte agli artifici del critico.
Torquato Tasso, educato in Napoli da' gesuiti, vivuto nella sua prima gioventù a Roma, dove spiravano già le aure del Concilio di Trento, era un sincero credente, ed era insieme fantastico, cavalleresco, sentimentale, penetrato ed imbevuto di tutti gli elementi della coltura italiana.
Pugnavano in lui due uomini: il pagano e il cattolico, l'Ariosto e il Concilio di Trento.
Mortagli la madre che era ancor giovinetto, lontano il padre, insidiato da' parenti, confiscati i beni, tra' più acuti bisogni della vita, non dimentica mai di essere un gentiluomo.
Serve in corte e si sente libero; vive tra' vizi e le bassezze, e rimane onesto; domanda pietà con la testa alta e con aria d'uomo superiore e in nome de' princìpi più elevati della dignità umana.
Ha una certa somiglianza col Petrarca.
Tutti e due furono i poeti della transizione, gl'illustri malati, che sentivano nel loro petto lo strazio di due mondi, che non poterono conciliare.
La musa della transizione è la malinconia.
Ma la malinconia del Petrarca era superficiale: rimaneva nella immaginazione, non penetrò nella vita.
Era una malinconia non priva di dolcezza, che si effondeva e si calmava negli studi, e lo tenne contemplativo e tranquillo fino alla più tarda età.
La malinconia del Tasso è più profonda, lo strazio non è solo nella sua immaginazione, ma nel suo cuore, e penetra in tutta la vita.
Sensitivo, impressionabile, tenero, lacrimoso.
Prende sul serio tutte le sue idee, religiose, filosofiche, morali, poetiche, e vi conforma il suo essere.
Entusiasta sino all'allucinazione, perde la misura del reale e spazia nel mondo della sua intelligenza, dove lo tiene alto sull'umanità l'elevatezza e l'onestà dell'animo.
Gli manca quel fiuto degli uomini e quel senso pratico della vita, che abbonda a' mediocri.
La sua immaginazione è in continuo travaglio, e gli corona e trasforma la vita non solo come poeta, ma come uomo.
Immaginatevelo nell'Italia del Cinquecento e in una di quelle corti, e presentirete la tragedia.
All'abbandono, alla confidenza, all'espansione della prima giovinezza succede tutto il corteggio del disinganno, la diffidenza, il concentramento, la malinconia, l'umor nero e l'allucinazione: stato fluttuante tra la sanità e la pazzia, e che potè far credere, non che ad altri, ma a lui stesso di non avere intero il senno.
In luogo di medici e di medicine gli era bisogno un ritiro tranquillo, co' suoi libri, e vicina una madre, o una sorella, o amici resi intelligenti dall'affetto.
Invece ebbe il carcere e la sterile compassione degli uomini, lui supplicante invano a tutt'i principi d'Italia.
Libero, trovò una sorella ed un amico, che se valsero a raddolcire, non poterono sanare un'immaginazione da tanto tempo disordinata.
E quando ebbe un primo riso della fortuna, il giorno della sua incoronazione fu il giorno della sua morte.
Guardate in viso il Petrarca e il Tasso.
Tutti e due hanno la faccia assorta e distratta, gli occhi gittati nello spazio e senza sguardo, perchè mirano al di dentro.
Ma il Petrarca ha la faccia idillica e riposata di uomo che ha già pensato ed è soddisfatto del suo pensiero; il Tasso ha la faccia elegiaca e torbida di uomo che cerca e non trova.
E nell'uno e nell'altro non vedi i lineamenti accentuati ed energici della faccia dantesca.
Manca al Tasso, come al Petrarca, la forza con la sua calma olimpica e con la sua risoluta volontà.
È un carattere lirico, non è un carattere eroico.
E come il Petrarca, è natura subbiettiva, che crea di se stesso il suo universo.
Se fosse nato nel medio evo, sarebbe stato un santo.
Nato fra quello scetticismo ipocrita e quella coltura contraddittoria, vive tra scrupoli e dubbi, e non sa diffinire egli medesimo se gli è un eretico o un cattolico, più crudele inquisitore di sè che il tribunale dell'Inquisizione.
Cominciò molto vicino all'Ariosto col suo Rinaldo.
E gli parve che non se ne fosse discostato abbastanza con la sua Gerusalemme Liberata.
Scrupoli critici e religiosi lo condussero alla Gerusalemme conquistata, ch'egli chiamava la «vera Gerusalemme», la «Gerusalemme celeste».
E non parsogli ancora abbastanza, scrisse le Sette giornate della creazione.
Se in Italia ci fosse stato un serio movimento e rinnovamento religioso, la Gerusalemme sarebbe stato il poema di questo nuovo mondo, animato da quello stesso spirito che senti nella Messiade o nel Paradiso perduto.
Ma il movimento era superficiale e formale, prodotto da interessi e sentimenti politici più che da sincere convinzioni.
E tale si rivela nella Gerusalemme Liberata.
Il Tasso non era un pensatore originale, nè gittò mai uno sguardo libero su' formidabili problemi della vita.
Fu un dotto e un erudito, come pochi ce n'erano allora, non un pensatore.
Il suo mondo religioso ha de' lineamenti fissi e già trovati, non prodotti dal suo cervello.
La sua critica e la sua filosofia è cosa imparata, ben capita, ben esposta, discorsa con argomenti e forme proprie, ma non è cosa scrutata nelle sue fonti e nelle sue basi, dove logori una parte del suo cervello.
Ignora Copernico, e sembra estraneo a tutto quel gran movimento d'idee che allora rinnovava la faccia di Europa, e allettava in pericolose meditazioni i più nobili intelletti d'Italia.
Innanzi al suo spirito ci stanno certe colonne d'Ercole, che gli vietano andare innanzi; e quando involontariamente spinge oltre lo sguardo, rimane atterrito e si confessa al padre inquisitore, come avesse gustato del frutto proibito.
La sua religione è un fatto esteriore al suo spirito, un complesso di dottrine da credere e non da esaminare, e un complesso di forme da osservare.
Nel suo spirito ci è una coltura letteraria e filosofica indipendente da ogni influenza religiosa, Aristotile e Platone, Omero e Virgilio, il Petrarca e l'Ariosto, e più tardi anche Dante.
Nel suo carattere ci è una lealtà e alterezza di gentiluomo, che ricorda tipi cavallereschi anzi che evangelici.
Nella sua vita ci è una poesia martire della realtà; vita ideale nell'amore, nella religione, nella scienza, nella condotta, riuscita a un lungo martirio coronato da morte precoce.
Fu una delle più nobili incarnazioni dello spirito italiano, materia alta di poesia, che attende chi la sciolga dal marmo, dove Goethe l'ha incastrata, e rifaccia uomo la statua.
Che cosa è dunque la religione nella Gerusalemme? È una religione alla italiana, dommatica, storica e formale: ci è la lettera, non ci è lo spirito.
I suoi cristiani credono, si confessano, pregano, fanno processioni: questa è la vernice; quale è il fondo? È un mondo cavalleresco, fantastico, romanzesco e voluttuoso, che sente la messa e si fa la croce.
La religione è l'accessorio di questa vita, non ne è lo spirito, come in Milton o in Klopstok.
La vita è nella sua base, quale si era andata formando dai Boccaccio in qua, col suo ideale tra il fantastico e l'idillico, aggiuntavi ora un'apparenza di serietà, di realtà e di religione.
Il tipo dell'eroe cristiano è Goffredo, carattere astratto, rigido, esterno e tutto di un pezzo.
Ciò che è in lui di più intimo è il suo sogno, che è pure imitazione pagana, reminiscenza del sogno di Scipione.
Il concetto religioso è manifestato in Armida, la concupiscenza o il senso, e in Ubaldo, voce della «donna celeste» o della ragione.
Ma «la ragione parla, e il senso morde», come dice il Petrarca, e l'interesse poetico è tutto intorno ad Armida.
La ragione usa una rettorica più pagana che cristiana, e mostra aver pratica più con Seneca e con Virgilio che con la Bibbia: il fonte della sua morale non è il paradiso, ma la gloria.
La ragione parla, e Armida opera, circondata di artifici e di allettamenti.
E l'autore qui si trova nel campo suo, e s'immerge in fantasie ariostesche, profane, idilliche, che crede trasformate in poesia religiosa, perchè in ultimo vi appicca la verga aurea immortale di Ubaldo, e la sua rettorica.
Rinaldo, il convertito, non ha una chiara personalità, perchè quello che è e quello che diviene non si sviluppa nella sua coscienza, e non par quasi opera sua, ma influsso di potenze malefiche e benefiche, le quali se lo contendono.
Il dramma è tutto esterno, e rimane d'assai inferiore alla confessione di Dante, penetrata da spirito religioso.
Quanto al rimanente, Rinaldo è una reminiscenza del Rinaldo o Orlando ariostesco in proporzioni ridotte, come Argante è una reminiscenza di Rodomonte con faccia più seria.
Più tardi Rinaldo, trasformato in Riccardo, divenne una reminiscenza di Achille; Sveno, mutato in Ruperto, fu reminiscenza di Patroclo, e Solimano divenne Mezenzio, e Argante Ettore.
Reminiscenze cavalleresche, reminiscenze classiche, più vivaci e fresche le prime, come più vicine e ancora sonanti nello spirito italiano.
Il Tasso sentiva confusamente che il poema non gli era venuto così conforme al suo tipo religioso, com'egli aveva in mente.
E nella Gerusalemme conquistata cercò supplirvi.
Ma cosa fece? Accentuò qualche allegoria, diluì il sogno di Goffredo, appiccò al bel viaggio al di là dell'Oceano, sola ispirazione moderna e degna di Camoens, un viaggio sotterraneo assai stentato di concetto e di forma, e vi aggiunse una storia anteriore delle crociate, dipinta nella tenda di Goffredo.
Rese il poema più pesante, ma non più religioso, perchè la religione non è nel dogma, non nella storia e non nelle forme, ma nello spirito.
E lo spirito religioso, come qualunque fenomeno della vita interiore, non è cosa che si possa mettere per forza di volontà.
Volea fare anche un poema serio.
Ma la sua serietà è negativa e meccanica, perchè da una parte consiste nel risecare dalla vita ariostesca ogni elemento plebeo e comico, e dall'altra in un ordito più logico e più semplice, secondo il modello classico.
E sente pure di non esservi riuscito, e nella Gerusalemme rifatta usa colori ancora più oscuri, e cerca un meccanismo più perfetto.
Gitta tutt'i personaggi nello stesso stampo, e, per far seria la vita, la fa monotona e povera.
Cerca una serietà della vita in tempi di transizione, oscillanti fra tendenze contraddittorie, senza scopo e senza dignità.
Cerca l'eroico, quando mancavano le due prime condizioni di ogni vera grandezza, la semplicità e la spontaneità.
La sua serietà è come la sua religione, superficiale e letteraria.
E voleva soprattutto dare al suo poema un aspetto di credibilità e di realtà.
Sceglie i suoi elementi dalla storia; cerca esattezza di nomi e di luoghi; guarda ad una connessione verisimile d'intreccio; e, come uno scultore, ingrandisce i suoi personaggi con tale uguaglianza di proporzioni, che sembrano tolti dal vero.
Chiude in limiti ragionevoli i miracoli della forza fisica; nè la forza e il coraggio sono i soli fattori del suo mondo, ma anche l'esperienza, la saggezza, l'abilità e la destrezza.
Rifacendo la Gerusalemme, accentuò ancora questa sua intenzione, cercando maggiore esattezza storica e geografica.
Nelle sue tendenze critiche e artistiche si vede già un'anticipazione di quella scuola storica e realista che si sviluppò più tardi.
Ma sono tendenze intellettuali, cioè puramente critiche, in contraddizione con lo stato ancora fantastico dello spirito italiano e con la sua natura romanzesca e subbiettiva.
Gli manca la forza di trasferirsi fuori di sè, non ha il divino obblio dell'Ariosto, non attinge la storia nel suo spirito e nella sua vita interiore, attinge appena il suo aspetto materiale e superficiale.
Ciò che vive al di sotto è lui stesso: cerca l'epico, e trova il lirico, cerca il vero o il reale, e genera il fantastico, cerca la storia, e s'incontra con la sua anima.
La Gerusalemme conquistata, di aspetto più regolare e di un meccanismo più severo, è un ultimo sforzo per effettuare un mondo poetico, dal quale egli sentiva esser rimasto molto lontano nella prima Gerusalemme.
La base di questo mondo dovea essere la serietà di una vita presa dal vero, colta nella sua realtà storica e animata da spirito religioso.
Rimase in lui un mondo puramente intenzionale, un presentimento di una nuova poesia, uno scheletro che rimpolpato e colorito e animato da vita interiore si chiamerà un giorno I Promessi Sposi.
Come in Dante, così nel Tasso questo mondo intenzionale penetrato in un fondo estraneo vi rimane appiccaticcio.
Ci è qui come nel Petrarca un mondo non riconciliato di elementi vecchi e nuovi, gli uni che si trasformano, gli altri ancora in formazione.
Il di fuori è assai ben congegnato e concorde; ma è una concordia meccanica e intellettuale, condotta a perfezione nella seconda Gerusalemme.
Sotto a quel meccanismo senti il disorganismo, un principio di vita molto attivo nelle parti, che non giunge a formare una totalità armonica.
Il fenomeno è stato avvertito da' critici, a' quali è parso che l'interesse sia maggiore negli episodi che nell'insieme; e questi episodi, Olindo e Sofronia, Rinaldo e Armida, Clorinda ed Erminia sono i soli rimasti vivi nel popolo, giudice inappellabile di poesia.
Ma ciò che si chiama «episodio» è al contrario il fondo stesso del racconto, la sua sostanza poetica; perchè il poema, sotto una vernice religiosa e storica, è nella sua essenza un mondo romanzesco e fantastico, conforme alla natura dello scrittore e del tempo.
Il fantastico è per lungo tempo la condizione di un popolo, che non ha l'intelligenza e la pratica della vita terrestre e non la prende sul serio.
La vita di quelle plebi superstiziose e di quelle borghesie oziose e gaudenti era il romanzo, il maraviglioso delle avventure prodotte da combinazioni straordinarie di casi o da forze soprannaturali.
Il Tasso stesso era di un carattere romanzesco, insciente e aborrente delle necessità della vita pratica.
Il suo viaggio per gli Abruzzi in veste da contadino, e il suo presentarsi alla sorella non conosciuto, e la scena tenera che ne fu effetto, è tutto un romanzo.
Aggiungi le impressioni letterarie che gli venivano dalla lettura dell'Ariosto e dell'Amadigi, e la gran voga de' romanzi e il favore del pubblico, e ci spiegheremo come la prima cosa che uscì dal suo cervello fu il Rinaldo, e come questo mondo romanzesco si conserva invitto attraverso le sue velleità religiose, storiche e classiche.
L'intreccio fondamentale del poema è un romanzo fantastico a modo ariostesco, un'Angelica che fa perdere il senno a Orlando, e un Astolfo che fa un viaggio fantastico per ricuperarglielo.
Hai Armida che innamora Rinaldo, e Ubaldo che attraversa l'Oceano per guarirlo con lo specchio della ragione.
Angelica e Armida sono maghe tutt'e due, e istrumenti di potenze infernali, ma sono donne innanzi tutto, e la loro più pericolosa magia sono i vezzi e le lusinghe.
Come Angelica, così Armida si tira appresso i guerrieri cristiani e li tien lontani dal campo; nè vi manca l'altro mezzo ariostesco, la discordia, che produce la morte di Gernando, l'esilio volontario di Rinaldo e la cattività di Argillano.
Da queste cause, le quali non sono altro che le passioni sciolte da ogni freno di ragione e svegliate da vane apparenze, escono le infinite avventure dell'Ariosto e le poche del Tasso annodate intorno alla principale, Armida e Rinaldo.
La selva incantata, che ricorda la selva dantesca, è la selva degli errori e delle passioni, o delle vane apparenze, nè i cristiani possono entrare in Gerusalemme, se non disfacciano quegl'incanti, cioè a dire, se non si purghino delle passioni.
Questo è il concetto allegorico di Dante, divenuto tradizionale nella nostra poesia, smarrito alquanto nel pelago di avventure del Boiardo e dell'Ariosto, e ripescato dal Tasso con un'apparenza di serietà, che non giunge a cancellare l'impronta ariostesca, cioè quel carattere romanzesco, che gli avevano dato il Boiardo e l'Ariosto.
Intorno a questo centro fantastico moltiplicano duelli e battaglie: materia tanto più popolare, quanto meno in un popolo è sviluppato un serio senso militare.
Il popolo italiano era il meno battagliero di Europa, e si pasceva di battaglie immaginarie.
Vanamente cerchiamo in questo mondo fantastico un senso storico e reale, ancorachè il poeta vi si adoperi.
Mancano i sentimenti più cari della vita.
Non ci è la donna, non la famiglia, non l'amico, non la patria, non il raccoglimento religioso, nessuna immagine di una vita seria e semplice.
Gildippe e Odoardo riesce una freddura.
La «pietà» di Goffredo e la «saviezza» di Raimondo sono epiteti.
L'amicizia di Sveno e Rinaldo e nelle parole.
Unica corda è l'amore, e spesso riesce artificiato e rettorico, com'è ne' lamenti di Tancredi e di Armida, ed anche in Erminia con quelle sue battaglie tra l'onore e l'amore.
Nessuna cosa vale tanto a mostrare il fondo frivolo e scarso della vita italiana, quanto questi sforzi impotenti del Tasso a raggiungere una serietà alla quale pur mirava.
Volere o non volere, rimane ariostesco, e di gran lunga inferiore a quell'esempio.
Gli manca la naturalezza, la semplicità, la vena, la facilità e il brio dell'Ariosto: tutte le grandi qualità della forza.
Quella vita romanzesca, così ricca di situazioni e di gradazioni, così piena di movimenti e di armonie, con una obbiettività e una chiarezza che sforza il tuo buon senso e ti tira seco come sotto l'influsso di una malia, se ne è ita per sempre.
Su quel fondo romanzesco il Tasso edifica un nuovo mondo poetico, e qui è la sua creazione, qui sviluppa le sue grandi qualità.
È un mondo lirico, subiettivo e musicale, riflesso della sua anima petrarchesca, e, per dirlo in una parola, è un mondo sentimentale.
È un sentimento idillico ed elegiaco che trova nella natura e nell'uomo le note più soavi e più delicate.
Già questo sentimento si era sviluppato al primo apparire del Risorgimento nel Poliziano e nel Pontano, deviato e sperduto fra tanto incalzare di novelle, di commedie e di romanzi.
L'idillio era il riposo di una società stanca, la quale, mancata ogni serietà di vita pubblica e privata, si rifuggiva ne' campi, come l'uomo stanco cercava pace ne' conventi.
Sopravvennero le agitazioni e i disordini dell'invasione straniera; e quando fine della lotta fu un'Italia papale e spagnuola, perduta ogni libertà di pensiero e di azione, e mancato ogni alto scopo della vita, l'idillio ricomparve con più forza, e divenne l'espressione più accentuata della decadenza italiana.
Solo esso è forma vivente fra tante forme puramente letterarie.
L'idillio italiano non è imitazione, ma è creazione originale dello spirito.
Già si annunzia nel Petrarca, quale si afferma nel Tasso, un dolce fantasticare tra' mille suoni della natura.
L'anima ritirata in sè è malinconica e disposta alla tenerezza, e senti la sua presenza e il suo accento in quel fantasticare.
La natura diviene musicale, acquista una sensibilità, manda fuori con le sue immagini mormorii e suoni, voci della vita interiore.
Prevale nell'uomo la parte femminile, la grazia, la dolcezza, la pietà, la tenerezza, la sensibilità, la voluttà e la lacrima; tutto quel complesso di amabili qualità che dicesi il «sentimentale».
I popoli, come gl'individui, nel pendio della loro decadenza diventano nervosi, vaporosi, sentimentali.
Non è un sentimento che venga dalle cose, ciò che è proprio della sanità, ma è un sentimento che viene dalla loro anima troppo sensitiva e lacrimosa.
Manca la forza epica di attingere la realtà in se stessa, e questa vita femminile è un tessuto di tenere o dolci illusioni, nelle quali l'anima effonde la sua sensibilità.
Il sentimento è perciò essenzialmente lirico e subbiettivo.
Come il lavoro è tutto al di dentro, ci si sente l'opera dello spirito, non so che manifatturato, la cosa non colta nella naturalezza e semplicità della sua esistenza, ma divenuta un fantasma e un concetto dello spirito.
Il Tasso cerca l'eroico, il serio, il reale, lo storico, il religioso, il classico, e si logora in questi tentativi fino all'ultima età.
Sarebbe riuscito un Trissino; ma la natura lo aveva fatto un poeta, il poeta inconscio d'un mondo lirico e sentimentale, che succedeva al mondo ariostesco.
A quest'ufficio ha tutte le qualità di poeta e di uomo.
L'uomo è fantastico, appassionato, malinconico, di una perfetta sincerità e buona fede.
Il poeta è tutto musica e spirito, concettoso insieme e sentimentale.
La sua immaginazione non è chiusa in sè, come in un ultimo termine, a quel modo che dal Boccaccio all'Ariosto si rivela nella poesia, ma è penetrata di languori, di lamenti, di concetti e di sospiri, e va diritto al cuore.
L'Ariosto dice:
in sì dolci atti, in sì dolci lamenti,
che parea ad ascoltar fermare i venti.
Il sentimento appena annunziato si scioglie in una immagine fantastica.
Il Tasso dice:
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave,
ch'al cor gli serpe ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lacrimar gl'invoglia e sforza.
Nella forma ariostesca ci è una virtù espansiva, che rimane superiore all'emozione e cerca il suo riposo non nel particolare, ma nell'insieme: qualità della forza.
Nella forma del Tasso ci è l'impressionabilità, che turba l'equilibrio e la serenità della mente, e la trattiene intorno alla sua emozione: l'immagine si liquefà e diviene un «non so che», annunzio dell'immagine che cessa e dell'emozione che soverchia:
e un non so che confuso instilla al core
di pietà, di spavento e di dolore.
Anche tra' furori delle battaglie la nota prevalente è l'elegiaca, come nella ottava:
Giace il cavallo al suo signore appresso.
Ne' casi di morte gli riesce meglio l'elegiaco che l'eroico.
Aladino, che cadendo morde la terra ove regnò, è grottesco.
Solimano, che
...
...
gemito non spande,
nè atto fa se non altero e grande,
ti offre un'immagine indistinta.
Argante muore come Capaneo, ma la forma è concettosa e insieme vaga, e quelle voci e que' moti «superbi, formidabili, feroci» non ti dànno niente di percettibile avanti all'immaginazione.
L'idea in queste forme rimane intellettuale, non diviene arte.
Al contrario precise, anzi pittoresche, sono le immagini di Dudone, di Lesbino, de' figli di Latino, di Gildippe ed Odoardo, dove le note caratteristiche sono la grazia e la dolcezza.
Così è pure nella morte di Clorinda; ispirazione petrarchesca con qualche reminiscenza di Dante.
Clorinda è Beatrice nel punto che parea dire: - Io sono in pace -; ma è una Beatrice spogliata de' terrori e degli splendori della sua divinità.
Il sole non si oscura, la terra non trema, e gli angioli non scendono come pioggia di manna.
La religione del Tasso è timida, ci è innanzi a lui il ghigno del secolo, mal dissimulato sotto l'occhio dell'inquisitore.
L'elemento religioso era ammesso come macchina poetica, a quel modo che la mitologia: tale è l'angiolo di Tortosa, e Plutone, messi insieme.
È una macchina insipida in tutt'i nostri epici, perchè convenzionale, e non meditata nelle sue profondità.
Gli angioli del Tasso sono luoghi comuni, e il suo Plutone, se guadagna come scultura, è superficialissimo come spirito, e parla come un maestro di rettorica.
La parte attiva e interessante è affidata alla magia, ancora in voga a quel tempo, dalla quale il Tasso trae tutto il suo maraviglioso.
La morte di Clorinda non è una trasfigurazione, come quella di Beatrice, e si accosta al carattere elegiaco e malinconico di quella di Laura, nel cui bel volto «morte bella parea».
Qui tutto è preciso e percettibile, il plastico è fuso col sentimentale, il riposo idillico col patetico, e l'effetto è un raccoglimento muto e solenne di una pietà senz'accento, come suona in questa immagine nel suo fantastico così umana e vera e semplice, perchè rispondente alle reali impressioni e parvenze di un'anima addolorata:
...
...
in lei converso
sembra per la pietate il cielo e il sole.
La stessa ispirazione petrarchesca è nelle ultime parole di Sofronia:
Mira il ciel com'è bello, e mira il sole
che a sè par che ne inviti e ne console.
Movimento lirico, che ricorda immagini simili di Dante e del Petrarca, accompagnate nel Tasso da un tono alquanto pedantesco, quando vuol darvi uno sviluppo puramente dottrinale e religioso, come nelle prime parole di Sofronia, che hanno aria di una riprensione amorevole fatta da un confessore a un condannato a morte, o nelle parole di Piero a Tancredi, che hanno aria di predica.
La sua anima candida e nobile la senti più nelle sue imitazioni petrarchesche e platoniche, che in ciò che tira dal fondo dottrinale e tradizionale religioso.
Sofronia, che fa una lezione a Olindo, ricorda Beatrice che ne fa una simile e più aspra a Dante; ma Beatrice è nel suo carattere, è tutta l'epopea di quel secolo, ci è in lei la santa, la donna, ed anche il dottore di teologia; Sofronia è rigida, tutta di un pezzo, costruzione artificiale e solitaria in un mondo dissonante,
perciò appunto esagerata nelle sue tinte religiose, a cominciare da quella «vergine di già matura verginità» per finire in quel bruttissimo:
...
...
ella non schiva,
poi che seco non muor, che seco viva.
In questa eroina, martire della fede, non ci è la santa con le sue estasi e i suoi ardori oltremondani, e non ci penetra il femminile con la sua grazia e amabilità.
È uscita dal cervello concetto cristiano con reminiscenze pagane e platoniche.
Colui che l'ha concepita, pensava a Eurialo e Niso, a Beatrice e a Laura.
La creatura è rimasta nel suo intelletto, e non ha avuto la forza di penetrare nella sua coscienza e nella sua immaginazione così com'era, nel suo immediato.
Il che avviene quando la coscienza e l'immaginazione sono già preoccupate, e non conservano nella loro verginità le concezioni dell'intelletto.
Se è vero che, concependo Sofronia, il Tasso pensasse a Eleonora, è una ragione di più, che ci spiega l'artificio e la durezza di questa costruzione.
Perciò Sofronia è la meno viva e la meno interessante fra le donne del Tasso, e non è stata mai popolare.
Ma Sofronia è umanizzata da Olindo, il femminile, in un episodio dove l'uomo è Sofronia: Olindo diviene eroe per amore, come altri diviene eroe per paura.
Il suo carattere non è la forza, qualità estranea al tempo ed al Tasso, e che senti così bene in quel sublime: «Me me, adsum qui feci, in me convertite ferrum», imitato qui a rovescio e rettoricamente.
Il carattere di questo timido amante, «o mal visto, o mal noto, o mal gradito», presentato a' lettori in una forma artificiosa e sottile, è l'eco del Tasso, un'anticipazione del Tancredi, la stampa di quel tempo e di quel poeta, un elegiaco spinto sino al gemebondo, un idillico spinto sino al voluttuoso.
Il vero eroe del poema è Tancredi, che è il Tasso stesso miniato: personaggio lirico e subbiettivo, dove penetra il soffio di tempi più moderni, come in Amleto.
Tancredi è gentiluomo, cioè cavalleresco nel senso più delicato e nobile, gagliardo e destro più che gigantesco di corpo, malinconico, assorto, flebile, amabile, consacrato da un amore infelice.
La sua Clorinda è una Camilla battezzata, tradizione virgiliana che al momento della morte si rivela dantesca e petrarchesca.
Carattere muto, diviene intelligibile e umano in morte, come Beatrice e Laura.
La sua apparizione a Tancredi ricorda quella di Laura, ed è una delle più felici imitazioni.
La formazione poetica della donna non fa in Clorinda alcun passo: rimane reminiscenza petrarchesca.
E se vuoi trovare l'ideale femminile compiutamente realizzato nella vita in quel suo complesso di amabili qualità, dèi cercarlo non nella donna, ma nell'uomo, nel Petrarca e nel Tasso, caratteri femminili nel senso più elevato, e in questa simpatica e immortale creatura del Tasso, il Tancredi.
Si è detto che l'uomo nella sua decadenza tenda al femminile, diventi nervoso, impressionabile, malinconico.
Il simile è de' popoli.
E lo spirito italiano fa la sua ultima apparizione poetica tra' languori e i lamenti dell'idillio e dell'elegia, divenuto sensitivo e delicato e musicale.
Il sentimento è il genio del Tasso, che gli fa rompere la superficie ariostesca, e gli fa cavare di là dentro i primi suoni dell'anima.
L'uomo non è più al di fuori, si ripiega, si raccoglie.
Lo stesso Argante è colpito da questo sublime raccoglimento innanzi alla caduta di Gerusalemme, come il poeta innanzi alle rovine di Cartagine, o quando nell'immensità dell'oceano concepisce e comprende Colombo.
Qui è l'originalità e la creazione del gran poeta, che sorprende Solimano nelle sue lacrime e Tancredi nella sua vanagloria.
Vita intima, della quale dopo Dante e il Petrarca si era perduta la memoria.
Con l'elegiaco si accompagna l'idillico.
L'immagine sua più pura e ideale è l'innamorata Erminia, che acqueta le cure e le smanie nel riposo della vita campestre.
Quella scena è tra le più interessanti della poesia italiana.
Erminia è comica nel suo atteggiamento eroico, e fredda e accademica nelle sue discussioni tra l'onore e l'amore; ma quando si abbandona all'amore, si rivelano in lei di bei movimenti lirici, come:
Oh belle agli occhi miei tende latine!
Nella sua anima ci è l'impronta malinconica e pensosa del Tasso, una certa dolcezza e delicatezza di fibra, che la tien lontana dalla disperazione, e la dispone alla pace e alla solitudine campestre, della quale un pastore gli fa un quadro tra' più finiti della nostra poesia.
Erminia errante pe' campi con le sue pecorelle, tutta sola in compagnia del suo amore, pensosa e fantastica e lacrimosa, espande le sue pene con una dolcezza musicale, il cui segreto è meno nelle immagini che nel numero.
Trovi reminiscenze petrarchesche e luoghi comuni in una musica nuova, piena di misteri o di «non so che» nella sua melodia.
Un traduttore può rendere il senso, ma non la musica di quelle ottave.
L'anima del poeta non è nelle cose, ma nel loro suono, a cui è sacrificata alcuna volta la proprietà, la precisione, la sobrietà, tutte le alte qualità dello stile, che rendono ammirabile il Petrarca, suo ispiratore: pur non te ne avvedi sotto la malia di quell'onda musicale, che non è un artifizio esteriore e meccanico, ma è il non so che del sentimento, che viene dall'anima e va all'anima.
L'idillico non è in questa o quella scena, ma è la sostanza del poema, il suo significato.
La base ideale del poema è il trionfo della virtù sul piacere, o della ragione sulle passioni.
Un lato di questa base rimane intellettuale e allegorico, e si risolve poeticamente in esortazioni paterne, come:
Signor, non sotto l'ombra o in piaggia molle,
tra fonti e fior, tra ninfe e tra sirene,
ma in cima all'erto e faticoso colle
della virtù riposto è il nostro bene.
Contrapposto alla virtù è il piacere, e qui si sviluppano tutte le facoltà idilliche del poeta.
In Erminia l'idea idillica è la pace della vita campestre, farmaco del dolore vòlto in dolce melanconia.
Qui l'idea idillica è il piacere della bella natura spinto sino alla voluttà e alla mollezza, come ozio di anima e contrapposto alla virtù e alla gloria: ciò che il poeta chiude nel motto: «quel che piace, ei lice», traduzione del dantesco: «libito fe' licito».
Questa idea è sviluppata nel canto della ninfa e nel canto dell'uccello, che sono due veri inni al Piacere:
Solo chi segue ciò che piace è saggio.
Il primo canto è di una esecuzione così perfetta per naturalezza e semplicità, che soggioga anche il severo Galilei, e gli fa dire che qui il Tasso si accosta alla divinità dell'Ariosto.
L'altro canto è fondato su questo concetto maneggiato così spesso da Lorenzo e dal Poliziano: «Amiamo, chè la vita è breve».
L'immagine è anche imitata dal Poliziano: è la descrizione della rosa, fatta pure dall'Ariosto; ma, dove nel Poliziano ci è il puro sentimento della bellezza, qui si sviluppa un elemento sentimentale o elegiaco: l'impressione non è la bellezza della rosa, ma la sua breve vita, e ne nasce un canto immortale, penetrato di piacere e di dolore, il cui complesso è una voluttà resa più intensa da immagini tenere, fatti la morte e il dolore istrumenti del piacere e dell'amore.
Il protagonista di questo mondo idillico è Armida, anzi questo mondo è il suo prodotto, perchè essa è la maga del piacere che gli dà vita.
Armida e Rinaldo ricordano Alcina e Ruggiero, e il concetto stesso del guerriero tenuto negli ozi lontano dalla guerra risale ad Achille in Sciro, come l'idea dell'amore sensuale che trasforma gli uomini in bestie è già tutta intera nella maga Circe.
Di questa lotta tra il piacere e la virtù si trovano vestigi poetici in tutte le nazioni.
Il Tasso con un senso di poesia profondo ha fatto di Armida una vittima della sua magia.
La donna vince la maga, e come Cupido finisce innamorato di Psiche, cioè a dire di divino si fa umano, Armida finisce donna che obblia Idraotte e l'inferno e la sua missione, e pone la sua magia a' servigi del suo amore.
Questo rende Armida assai più interessante di Alcina, e le dà un nuovo significato.
È l'ultima apparizione magica della poesia, apparizione entro la quale penetra e vince l'uomo e la natura.
È il soprannaturale domato e sciolto dalle leggi più forti della natura.
È la donna uscita dal grembo delle idee platoniche e delle allegorie, che si rivela co' suoi istinti nella pienezza della vita terrena.
Già in Angelica apparisce la donna; ma la storia di Angelica finisce appunto allora, e allora appunto comincia la storia di Armida.
Angelica, terminando le sue avventure nella prosa idillica del suo matrimonio con un «povero fante», è salutata e accomiatata dal poeta con quel suo risolino ironico.
Il concetto, ripigliato dal Tasso, diviene una interessante storia di donna, a cui l'arte magica dà il teatro e lo scenario.
Così la maga Armida è l'ultima maga della poesia e la più interessante nella chiarezza e verità della sua vita femminile.
Vive anche oggi nel popolo più che Alcina, Angelica, Olimpia e Didone, perchè unisce tutti gli splendori della magia con tutta la realtà di un povero core di donna.
La sua riabilitazione è in quell'ultimo motto tolto alla Madonna: - Ecco l'ancilla tua -; conclusione piena di senso: molto le è perdonato, perchè ha molto amato.
Ed è l'amore che uccide in lei la maga e la fa donna.
Trasformazione assai più poetica che non è lo scudo di Ubaldo e la donna celeste: ond'è che Rinaldo nella sua conversione t'interessa assai meno che Armida in questa sua trasfigurazione, perchè quella conversione nasce da cause esterne e soprannaturali, e questa trasfigurazione è il logico effetto di movimenti interni e naturali.
In Erminia e in Armida si compie la donna, non quale uscì dalla mente di Dante e del Petrarca, di cui si trovano le orme in Sofronia e in Clorinda, non il tipo divino, eroico e tragico della donna, ma un tipo più umano, idillico ed elegiaco.
La forza di Erminia è nella sua debolezza.
Senza patria e senza famiglia, sola sulla terra, vive perchè ama, e, perchè ama, opera, ma le sue vere azioni sono discorsi interiori, visioni, estasi, illusioni, lamenti e lacrime, tutto un mondo lirico, che si effonde con una dolcezza melanconica tra onde musicali.
Erminia pastorella è la madre di tutte le Filli e Amarilli che vennero poi, lontanissime dal modello.
Nè tra le creature idilliche del Boccaccio, del Poliziano, del Molza, del Sannazzaro c'è nessuna che le si avvicini.
In Armida si sviluppa tutto il romanzo di un amore femminile con le sue voluttà, con i suoi ardori sensuali, con le sue furie e le sue gelosie e i suoi odii.
Nessuno aveva ancora colta la donna con un'analisi così fina nell'ardenza e nella fragilità de' suoi propositi, nelle sue contraddizioni.
La lingua dice: - Odio -, e il cuore risponde: - Amo; - la mano saetta, e il cuore maledice la mano:
e mentre ella saetta, Amor lei piaga.
Si dirà che tutto questo non è eroico, e non tragico; e appunto per questo elle sono creature viventi, figlie non dell'intelletto, ma di tutta l'anima, con l'impronta sulla fisonomia del poeta e del secolo.
Il mondo idillico, figlio della mente d'Armida, è il palazzo e il giardino incantato, cioè la bella natura campestre resa artistica, trasformata dall'arte in istrumento di voluttà, sì che pare che «imiti l'imitatrice sua».
Nell'Odissea, nelle Georgiche, nelle Stanze, ne' giardini ariosteschi la bella natura è sostanzialmente campestre o idillica, e il suo ideale umano è la vita pastorale: l'età dell'oro attinge anche di là le sue immagini.
Il quadro abituale della poesia classica e italiana è il verde de' campi, i fiori, gli alberi, il riso della primavera, le fresche ombre, gli antri, le onde, gli uccelli, le placide aurette, quadro decorato dall'arte con le sue statue e i suoi intagli.
Questa vista della natura si allarga innanzi al secolo di Colombo e di Copernico, e ne senti l'impressione nell'immensità dell'oceano, dove il Tasso trova alcune belle ispirazioni.
Ma alla fine del viaggio, toccando le isole Fortunate, soggiorno di Armida, ricasca nel solito quadro, e vi pone l'ultima mano.
Qui vedi raccolto come in un bel mazzetto tutto ciò che di vezzoso e di leggiadro avea trovato l'immaginazione poetica da Omero all'Ariosto; m
...
[Pagina successiva]