SCRITTI LETTERARI, di Leonardo da Vinci - pagina 2
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La somma filicità sarà somma cagione della infelicità, e la perfezion della sapienza cagion della stoltizia.
77.
Acquista cosa nella tua gioventù che ristori il danno della tua vecchiezza.
E se tu intendi la vecchiezza aver per suo cibo la sapienza, adoprati in tal modo in gioventù, che a tal vecchiezza non manchi il nutrimento.
78.
Il giudizio nostro non giudica le cose fatte in varie distanzie di tempo nelle debite e propie lor distanzie, perché molte cose passate di molti anni parranno propinque e vicine al presente e molte cose vicine parranno antiche, insieme coll'antichità della nostra gioventù, e così fa l'occhio infra le cose distanti, che per essere alluminate dal sole, paiano vicine all'occhio, e molte cose vicine paiano distanti.
79.
O dormiente che cosa è sonno? Il sonno ha similitudine colla morte; o perché non fai adunque tale opera che dopo la morte tu abbi similitudine di perfetto vivo, che vivendo farsi col sonno simile ai tristi morti?
80.
L'omo e li animali sono propi[o] transito e condotto di cibo, sepoltura d'animali, albergo de' morti, facendo a sé vita dell'altrui morte, guaina di corruzione.
81.
Siccome l'animosità è pericolo di vita, così la paura è sicurtà di quella.
82.
Le minacce sol sono arme dello imminacciato.
83.
Dov'entra la ventura, la 'nvidia vi pone lo assedio e lo combatte, e dond'ella si diparte, vi lascia il dolore e 'l pentimento.
84.
Raro cade chi ben cammina.
85.
L'ordinare è opera signorile, l'operare è atto servile.
86.
Chi è scempio da natura e sapiente per accidentale, quando parla o opera naturalmente sempre pare scempio, e par savio nell'accidentale.
87.
COMPARAZIONE DELLA PAZIENZIA.
La pazienzia fa contro alle 'ngiurie non altrementi che si faccino i panni contra del freddo; imperocché se ti multiplicherai di panni secondo la multiplicazione del freddo, esso freddo nocere non ti potrà.
Similmente alle grande ingiurie cresci la pazienzia; esse ingiurie offendere non ti potranno la tua mente.
88.
L'età che vola, discorre nascostamente e inganna altrui e niuna cosa è più veloce che gli anni, e chi semina virtù fama ricoglie.
89.
Quando io feci Domene Dio putto, voi mi mettesti in prigione; ora s'io lo fo [g]rande, voi mi farete peggio.
90.
Quando io crederò imparare a vivere, e io imparerò a morire.
91.
Chi vol vedere come l'anima abita nel suo corpo, guardi come esso corpo usa la sua cotidiana abitazione; cioè se quella è sanza ordine e confusa, disordinato e confuso fia il corpo tenuto dalla su' anima.
92.
Gli strumenti de' barattieri sono la semenza delle bestemmie umane contro agli dei.
93.
La passione dell'animo caccia via la lussuria.
94.
Tutti li animali languiscano, empiendo l'aria di lamentazioni, le selve ruinano, le montagne aperte per rapire li generati metalli; ma che potrò io dire cosa più scellerata di quelli che levano le lalde al cielo di quelli che con più ardore han nociuto alla patria e alla spezie umana?
95.
Aristotile nel terzo dell'Etica: l'uomo è degno di lode e di vituperio solo in quelle cose che sono in sua potestà di fare e di non fare.
96.
Ti diacciano le parole in bocca e faresti gelatina in Mongibello.
97.
Siccome il ferro s'arrugginisce sanza esercizio e l'acqua si putrefà o nel freddo s'addiaccia, così lo 'ngegno sanza esercizio si guasta.
98.
Salvatico è quel che si salva.
99.
Cornelio Celso.
Il sommo bene è la sapienza, il sommo male è il dolore del corpo; imperocché essendo noi composti di due cose, cioè d'anima e di corp[o], delle quali la prima è migliore, la peggiore è il corpo, la sapienza è della miglior parte, il sommo male è della peggior parte e pessima.
Ottima cosa è nell'animo la sapienza, così è pessima cosa nel corpo il dolore.
Adunque siccome il sommo male è 'l corporal dolore, così la sapienzia è dell'animo il sommo bene, cioè de l'om saggio, e niuna altra cosa è da a questa comparare.
100.
Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire così una vita bene usata dà lieto morire.
101.
Dov'è più sentimento, lì è più, ne' martiri, gran martire.
102.
Demetrio solea dire non essere differenzia dalle parole e voce dell'imperiti ignoranti che sia da soni e strepidi causati dal ventre ripieno di superfluo vento.
E questo non senza cagion dicea, imperocché lui non reputava esser differenzia da qual parte costoro mandassino fuora la voce o dalle parte inferiori o dalla bocca, che l'una e l'altra era di pari valimento e sustanzia.
103.
La stoltizia è scudo della vergogna come la improntitudine della povertà.
104.
Farisei frati santi vol dire.
105.
La vita bene spesa lunga è.
106.
Tanto è a dire ben d'un tristo, quanto a dire male d'un bono.
107.
E questo omo ha una somma pazzia, cioè che sempre stenta per non istentare, e la vita se li fugge sotto speranza di godere i beni con somma fatica acquistati.
108.
Io t'ubbidisco, Signore, prima per l'amore che ragionevolmente portare ti debbo, secondariamente ché tu sai abbreviare o prolungare le vite a li omini.
109.
Fuggi quello studio del quale la resultante opera more insieme coll'operante d'essa.
110.
Tristo è quel discepolo che non avanza il maestro.
111.
Ecci alcuni che altro che transito di cibo e aumentatori di sterco e riempitori di destri chiamar si debbono, perché per loro altro nel mondo appare alcuna virtù in opera si mette; perché di loro altro che pieni e destri non resta.
112.
a) Sanza dubbio tal proporzione è dalla verità alla bugia quale dalla luce alle tenebre, ed è essa verità in sé di tanta eccellenzia che ancora ch'ella s'astenda sopra umili e basse materie, sanza comparazione ella [e]ccede le incertezze e bugie estese sopra li magni e altissimi discorsi, perché la mente nostra, ancora ch'ell'abbia la bugia pel quinto elemento, non resta però che la verità delle cose non sia di sommo notrimento delli intelletti fini, ma non di vagabundi ingegni.
b) E' di tanto vilipendio la bugia che s'ella dicessi ben gran cose di Dio, ella to' di grazia a sua deità; ed è di tanta eccellenzia la verità che s'ella laldassi cose minime, elle si fanno nobili.
c) Ma tu che vivi di sogni ti piace più le ragion sofistiche e barerie de' parlari nelle cose grandi e incerte, che delle certe, naturali e non di tanta altura.
113.
Il quale spirito ritrova[to] il cerebro, donde partito s'era, con voce cotali parole mosse: «O felice, o avventurato spirito, che donde me partisti ! io ho questo omo, a male mio grado, ben conosciuto.
Questo è ricetto di villania, questo è propio ammunizione di somma ingratitudine, in compagnia di tutti i vizi.
Ma che mi vo i' con parole indarno affaticandomi? La somma de' peccati solo 'n ello trovati sono.
E se alcuno infra loro si trova che alcuna bontà possegga, non altrimenti che me dalli altri omini trattati sono; e in effetto io ho questa conclusione, ch'è male se li se' amico e peggio se li se' nemico».
(E se alcuno omo v'è ch'abbi discrezione e bontà, non alt[r]ementi che me dalli altri omini tratta[t]i sono.
Mal è se tu li se' familiare e peggio se da esso stai remoto.)
114.
Chi vuole essere ricco 'n un dì, è 'mpiccato 'n un anno.
115.
Orazio: «Iddio ci vende tutti li beni per prezzo di fatica.
116.
La verità sola fu figliola del tempo.
117.
Chi altri offende, sé non sicura.
118.
La paura nasce più tosto che altra cosa.
119.
Chi dona, non dona sua livrea.
120.
Se tu avessi il corpo secondo la virtù, tu non caperesti in questo mondo.
121.
Tu cresci in reputazione come il pane in mano a' putti.
122.
Qui si conserva il nocciolo, nel quale vestì la virtuosa anima del poeta tale.
123.
L'obietto move il senso.
124.
Non ti promettere cose e non le fare, si tu [v]e' che, non l'avendo, t'abbino a dare passione.
125.
Non mi pare che li omini grossi e di tristi costumi e di poco discorso meritino sì bello strumento, né tante varietà di macchinamenti, quanto li omini speculativi e di gran discorsi, ma solo un sacco, dove si riceva il cibo e donde esso esca, ché invero altro che un transito di cibo non son da essere giudicati, perché niente mi pare che essi participino di spezie umana altro che la voce e la figura, e tutto el resto è assai manco che bestia.
126.
A torto si lamentan li omini della fuga del tempo, incolpando quello di troppa velocità, non s'accorgendo quello esser di bastevole transito; ma bona memoria di che la natura ci ha dotati, ci fa che ogni cosa lungamente passata ci pare essere presente.
127.
Il lino è dedicato a morte e curruzione de' mortali: a morte pe' lacci e reti delli uccelli, animali e pesci; a curruzione per le tele line, dove s'involgano i morti, che si sotterrano, i quali si corrompano in tali tele.
E ancora esso lino non si spicca dal suo festuco, se esso non comincia a macerarsi e corrompersi, e questo è quello col quale si debbe incoronare e ornare li uffizi funerali.
128.
La luna, densa e gra[ve], densa e grave, come sta, la luna?
FAVOLE
1.
FAVOLA.
Il rovistrice, sendo stimolato nelli sua sottili rami, ripieni di novelli frutti, dai pungenti artigli e becco delle importune merle, si doleva con pietoso rammarichio inverso essa merla, pregando quella che poi che lei li toglieva e sua diletti frutti, ilmeno non la privassi de le foglie, le quali lo difendevano dai cocenti razzi del sole, e che coll'acute unghie non iscorticasse [e] desvestissi della sua tenera pelle.
A la quale la merla con villane rampogne rispose: «O taci, salvatico sterpo.
Non sai che la natura t'ha fatti produrre questi frutti per mio notrimento? Non vedi che se' al mondo per servirmi di tale cibo? Non sai, villano, che tu sarai innella prossima invernata notrimento e cibo del foco?».
Le quali parole ascoltate dall'albero pazientemente non sanza lacrime, infra poco tempo il merlo preso dalla ragna e colti de' rami per fare gabbia per incarcerare esso merlo , toccò, infra l'altri rami, al sottile rovistrico a fare le vimini della gabbia, le quali vedendo esser causa della persa libertà del merlo, rallegratosi, mosse tale parole: «O merlo, i' son qui non ancora consumato, come dicevi, dal foco; prima vederò te prigione, che tu me brusiato».
2.
FAVOLA.
Vedendo il lauro e mirto tagliare il pero, con alta voce gridarono: «O pero, ove vai tu? Ov'è la superbia che avevi quando avevi i tua maturi frutti? Ora non ci farai tu ombra colle tue folte chiome».
Allora il pero rispose: «Io ne vo coll'agricola che mi taglia, e mi porterà alla bottega d'ottimo scultore, il quale mi farà con su' arte pigliare la forma di Giove iddio, e sarò dedicato nel tempio, e dagli omini adorato invece di Giove, e tu ti metti in punto a rimanere ispesso storpiata e pelata de' tua rami, i quali mi fieno da li omini per onorarmi posti d'intorno».
3.
FAVOLA.
Vedendo il castagno l'uomo sopra il fico, il quale piegava inverso a sé i sua rami, e di quelli ispiccava i maturi frutti, e quali metteva nell'aperta bocca disfacendoli e disertandoli coi duri denti, crollando i lunghi rami e con temultevole mormorio disse: «O fico, quanto se' tu men di me obrigato alla natura! Vedi come in me ordinò serrati i mia dolci figlioli, prima vestiti di sottile camicia, sopra la quale è posta la dura e foderata pelle, e non contentandosi di tanto benificarmi, ch' ell'ha fatto loro la forte abitazione e sopra quella fondò acute e folte spine, a ciò che le mani dell'omo non mi possino nuocere».
Allora il fico cominciò insieme co' sua figlioli a ridere, e ferme le risa, disse: «Conosci l'omo essere di tale ingegno, che lui ti sappi colle pertiche e pietre e sterpi, tratti infra i tua rami, farti povero de' tua frutti, e quelli caduti, peste co' piedi o co' sassi, in modo ch'e frutti tua escino stracciati e storpiati fora dell'armata casa; e io sono con diligenza tocco dalle mani, e non come te da bastoni e da sassi».
4.
FAVOLA.
Non si contentando il vano e vagabondo parpaglione di potere comodamente volare per l'aria, vinto dalla dilettevole fiamma della candela, diliberò volare in quella; e 'l suo giocondo movimento fu cagione di subita tristizia; imperò che 'n detto lume si consumorono le sottile ali, e 'l parpaglione misero, caduto tutto brusato a piè del candellieri, dopo molto pianto e pentimento, si rasciugò le lagrime dai bagnati occhi, e levato il viso in alto, disse: «O falsa luce, quanti come me debbi tu avere, ne' passati tempi, avere miserabilmente ingannati.
O si pure volevo vedere la luce, non dovev'io conoscere il sole dal falso lume dello spurco sevo?».
5.
FAVOLA.
Trovandosi la noce essere dalla cornacchia portata sopra un alto campanile, e per una fessura, dove cadde, fu liberata dal mortale suo becco, pregò esso muro, per quella grazia che Dio li aveva dato dell'essere tanto eminente e magno e ricco di sì belle campane e di tanto onorevole sono, che la dovessi soccorrere; perché, poi che la non era potuta cadere sotto i verdi rami del suo vecchio padre, e essere nella grassa terra, ricoperta delle sue cadenti foglie, che non la volessi lui abbandonare: imperò ch'ella, trovandosi nel fiero becco della cornacchia, ch'ella si botò, che, scampando da essa, voleva finire la vita sua 'n un picciolo buso.
Alle quali parole, il muro, mosso a compassione, fu contento ricettarla nel loco ov'era caduta.
E in fra poco tempo, la noce cominciò aprirsi, e mettere le radici infra le fessure delle pietre, e quelle allargare, e gittare i rami fori della sua caverna; e quegli in brieve levati sopra lo edifizio e ingrossate le ritorte radici, cominciò aprire i muri e cacciare le antiche pietre de' loro vecchi lochi.
Allora il muro tardi e indarno pianse la cagione del suo danno, e, in brieve aperto, rovinò gran parte delle sua membre.
6.
FAVOLA.
Trovando la scimia uno nidio di piccioli uccelli, tutta allegra appressatasi a quelli, e quali essendo già da volare, ne poté solo pigliare il minore.
Essendo piena d'allegrezza, con esso in mano se n'andò al suo ricetto; e cominciato a considerare questo uccelletto, lo cominciò a baciare; e per lo isvecerato amore, tanto lo baciò e rivolse e strinse ch'ella gli tolse la vita.
E' detta per quelli che, per non gastigare i figlioli, capitano male.
7.
Il misero salice, trovandosi non potere fruire il piacere di vedere i sua sottili rami fare ovver condurre alla desiderata grandezza e dirizzarsi al cielo per cagione della vite e di qualunche pianta li era visina, sempre elli era storpiato e diramato e guasto e raccolti in sé tutti li spiriti, e con quelli apre e spalanca le porte alla immaginazione; e stando in continua cogitazione, e ricercando con quella l'universo delle piante, con quale di quelle esso collegare si potessi, che non avessi bisogni dell'aiuto de' sua legami; e stando alquanto in questa notritiva immaginazione, con subito assalimento li corse nel pensiero la zucca; e crollato tutti i rami per grande allegrezza, paren[do]li avere trovato compagnia al suo disiato proposito imperò che quella è più atta a legare altri che essere legata e fatta tal diliberazione, rizzò i sua rami inverso il cielo; attendea spettare qualche amichevole uccello, che li fussi a tal disiderio mezzano.
In fra' quali, veduta a sé vicina la sgazza, disse inver di quella: «O gentile uccello, io ti priego, per quello soccorso, che a questi giorni, da mattina, in e mia rami trovasti, quando l'affamato falcone crudele e rapace te voleva divorare; e per quelli riposi che sopra me ispesso hai usato, quando l'alie tue a te riposo chiedeano; e per quelli piaceri che, infra detti mia rami, scherzando colle tue compagne ne' tua amori, già hai usato; io ti priego che tu truovi la zucca e impetri da quella alquante delle sue semenze, e di' a quelle che, nate ch'elle fieno, ch'io le tratterò non altrementi che se del mio corpo generate l'avessi; e similmente usa tutte quelle parole che di simile intenzione persuasive sieno, benché a te, maestra de' linguaggi, insegnare non bisogna.
E se questo farai, io sono contenta di ricevere il tuo nidio sopra il nascimento de' mia rami, insieme colla tua famiglia, sanza pagamento d'alcun fitto».
Allora la sgazza, fatti e fermi alquanti capitoli di novo col salice, e massimo che bisce o faine sopra sé mai non accettassi; alzato la coda e bassato la testa, e gittatasi del ramo, rendé il suo peso all'ali; e quelle battendo sopra la fuggitiva aria, ora qua, ora in là curiosamente col timon della coda dirizzandosi, pervenne a una zucca, e con bel saluto e alquante bone parole, impetrò le dimandate semenze.
E condottele al salice fu con lieta cera ricevuta; e raspato alquanto co' piè il terreno vicino al salice, col becco, in cerch[i]o a esso, essi grani piantò.
Li quali in brieve tempo crescendo, cominciò collo accrescimento e aprimento de' sua rami, a occupare tutti i rami del salice, e colle sue gran foglie a torle la bellezza del sole e del cielo.
E, non bastando tanto male, seguendo le zucche, cominciò, per disconcio peso, a tirare le cime de' teneri rami inver la terra, con istrane torture e disagio di quelli.
Allora scotendosi e indarno crollandosi, per fare da sé esse zucche cadere, e indarno vaneggiando alquanti giorni in simile inganno, perché la buona e forte collegazione tal pensieri negava, vedendo passare il vento, a quello raccomandandosi, e quello soffiò forte.
Allora s'aperse il vecchio e vòto gambo del salice in due parti, insino alle sue radice, e caduto in due parti, indarno pianse se medesimo, e conobbe che era nato per non aver mai bene.
8.
Le fiamme, già uno me[se] durato nella fornace de' bicchieri e veduto a sé avvicinarsi una candela 'n un bello e lustrante candelliere, con gran desiderio si forzavano accostarsi a quella.
Infra le quali una, la[s]ciato il suo naturale corso e tiratasi d'entro a uno voto stizzo, dove si pasceva, e uscita da l'opposito, fori d'una piccola fessura, alla candela che vicina l'era, si gittò, e con somma golosità e ingordigia quella divorando, quasi al fine condusse; e volendo riparare al prolungamento della sua vita, indarno tentò tornare alla fornace, donde partita s'era, perché fu costretta morire e mancare insieme colla candela; onde al fine con pianto e pentimento in fastidioso fumo si convertì, lascian[do] tutte le sorelle in isplendevole e lunga vita e bellezza.
9.
Trovandosi il vino, il divino licore dell'uva, in una aurea e ricca tazza, e sopra la tavola di Maumetto, e montato in groria di tanto onore, subito fu assaltato da una contraria cogitazione, dicendo a se medesimo: «Che fo io? di che mi rallegro io? Non m'avvedo essere vicino alla mia morte e lasciare l'aurea abitazione della tazza, e entrare innelle brutte e fetide caverne del corpo umano, e lì trasmutarmi di odorifero e suave licore in brutta e trista orina? E non bastando tanto male, ch'io ancora debba sì lungamente diacere in e brutti ricettacoli coll'altra fetida e corrotta materia uscita dalle umane interiora?».
Gridò inverso il cielo, chiedendo vendetta di tanto danno, e che si ponessi oramai fine a tanto dispregio; che, poiché quello paese producea le più belle e migliore uve di tutto l'altro mondo, che il meno esse non fussino in vino condotte.
Allora Giove fece che il beuto vino da Maumetto elevò l'anima sua inverso il celabro e quello in modo contaminò, che lo fece matto, e partorì tanti errori, che, tornato in sé, fece legge che nessuno asiatico beessi vino.
E fu lasciato poi libere le viti co' sua frutti.
10.
FAVOLA.
Stando il topo assediato, in una piccola sua abitazione, dalla donnola, la quale con continua vigilanzia attendea alla sua disfazione, e per uno piccolo spiraculo ragguardava il suo gran periculo.
Infrattanto venne la gatta e subito prese essa donnola, e immediate l'ebbe divorata.
Allora il ratto, fatto sagrificio a Giove d'alquante sue nocciole, ringraziò sommamente la sua deità; e uscito fori della sua busa a possedere la già persa libertà, de la quale subito, insieme colla vita, fu dalle feroci unglia e denti della gatta privato.
11.
Favola della lingua morsa dai denti.
12.
Il cedro, insuperbito della sua bellezza, dubita delle piante che li son d'intorno, e fattolesi torre dinanzi, il vento poi, non essendo interrotto, lo gittò per terra diradicato.
13.
FAVOLA.
La formica trovato uno grano di miglio, il grano, sentendosi preso da quella, gridò: «Se mi fai tanto piacere di lasciarmi fruire il mio desiderio del nascere, io ti renderò cento me medesimi».
E così fu fatto.
14.
Trovato il ragno uno grappolo d'uve, il quale per la sua dolcezza era molto visitato da ave e diverse qualità di mosche, li parve avere trovato loco molto comodo al suo inganno.
E calatosi giù per lo suo sottile filo, e entrato nella nova abitazione, lì ogni giorno, facendosi alli spiraculi fatti dalli intervalli de' grani dell'uve, assaltava, come ladrone, i miseri animali, che da lui non si guardavano.
E passati alquanti giorni, il vendemmiatore còlta essa uva e messa coll'altre, insieme con quelle fu pigiato.
E così l'uva fu laccio e 'nganno dello ingannatore ragno, come delle ingannate mosche.
15.
La vitalba, non istando contenta nella sua siepe, cominciò a passare co' sua rami la comune strada e appiccarsi all'opposita siepe; onde da' viandanti poi fu rotta.
16.
Addormentatosi l'asino sopra il diaccio d'un profondo lago, il suo calore dissolvé esso diaccio, e l'asino sott'acqua, a mal suo danno, si destò, e subito annegò.
17.
Trovandosi alquanta poca neve appiccata alla sommità d'un sasso, il quale era collocato sopra la strema altezza d'una altissima montagna, e raccolto in sé la maginazione, cominciò con quella a considerare, e infra sé dire: «Or non son io da essere giudicata altera e superba, avere me, picciola dramma di neve, posto in sì alto loco, e sopportare che tante quantità di neve quanto di qui per me essere veduta pò, stia più bassa di me? Certo la mia poca quantità non merta quest'altezza, ché bene posso, per testimonanza della mia piccola figura, conoscere quello che 'l sole fece ieri alle mia compagne, le quali in poche ore dal sole furono disfatte; e questo intervenne per essersi poste più alto che a loro non si richiedea.
Io voglio fuggire l'ira del sole, e abbassarmi, e trovare loco conveniente alla mia parva quantità».
E gittatasi in basso, e cominciata a discendere, rotando dell'alte spiagge su per l'altra neve, quanto più cercò loco basso, più crebbe sua quantità, in modo che, terminato il suo corso sopra uno colle, si trovò di non quasi minor grandezza che 'l colle che essa sostenea: e fu l'ultima che in quella state dal sole disfatta fusse.
Detta per quelli che s'aumiliano: son esaltati.
18.
Il falcone non potendo sopportare con pazienzia il nascondere che fa l'anitra fuggendosele dinanzi e entrando sotto acqua, volle come quella sotto acqua seguitare, e, bagnatosi le penne, rimase in essa acqua, e l'anitra, levatasi in aria, schernia il falcone che annegava.
19.
Il ragno, volendo pigliare la mosca con sue false rete, fu sopra quelle dal calabrone crudelmente morto.
20.
Volendo l'aquila sche[r]nire il gufo, rimase coll'alie impaniate, e fu dall'omopresa e morta.
21.
Avendo il cedro desiderio di fare uno bello e grande frutto in nella sommità di sé, lo mise a seguizione con tutte le forze del suo omore; il quale frutto, cresciuto, fu cagione di fare declinare la elevata e diritta cima.
22.
Il persico, avendo invidia alla gran quantità de' frutti visti fare al noce suo vicino, diliberato fare il simile, si caricò de' sua in modo tale, che 'l peso di detti frutti lo tirò diradicato e rotto alla piana terra.
23.
Il noce mostrando sopra una strada ai viandanti la ricchezza de' sua frutti, ogni omo lo lapidava.
24.
Il fico stando sanza frutti, nessuno lo riguardava; volendo, col fare essi frutti, e
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