PRIMI POEMETTI, di Giovanni Pascoli - pagina 2
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Passò lontano, ripassò vicino
lo stridulo fruscìo della granata.
Fumò nell'aria torpida il camino.
Poi le stoviglie parvero fra loro
rissare nel silenzio mattutino.
Poi la fanciulla dai capelli d'oro
tessea cantando.
Andò la spola a volo,
corsero i licci e il pettine sonoro.
Cantò: «Maria cercava il suo figliuolo.
Maddalena le disse: Ave Maria:
sui neri monti io l'ho veduto: o duolo!
porta una croce e sanguina per via».
II
Tra il colpeggiar del pettine sonoro
ed il suo canto, ella sentì, «Rosina!»
la verginella dai capelli d'oro.
Sorse dalla panchetta ed in cucina
venne e trovò la cara madre pia
«Figlia,» le disse, «staccia la farina.
Viola è fuori con la mucca, via
per Ginestrelle.
Babbo oggi non viene
se non al tocco dell'Avemaria.
Sai, per il grano, che spicciarsi è bene:
presto è talora, tardi è sempre male!
E già piange le sue notti serene
il grillo stanco, e il primo temporale
cova nell'aria.
Non lo senti a sera
passar su casa un lungo rombo d'ale?
L'anatre vanno per la notte nera».
III
E seguitava: «Io voglio accomodare,
se mi riesce, questi due radicchi,
ch'ho già intoccati, con altr'erbe amare.
E tu, mentr'io soffriggo uno o due spicchi
d'aglio trito, costì, su la brunice,
fa la polenta, buona anco pei ricchi,
quando s'ha un bocconcino che ci dice».
IL DESINARE
I
Ubbidì Rosa al subito comando.
Sotto il paiolo aggiunse legna, il sale
gettò nell'acqua che fremé ronzando.
Stacciò: lo staccio, come avesse l'ale,
frullò fra le sue mani; e la farina
gialla com'oro nevicava uguale.
Ne sparse un po' nell'acqua, ove una fina
tela si stese.
Il bollor ruppe fioco.
Ella ne sparse un'altra brancatina.
E poi spentala tutta a poco a poco,
mestò.
Senza bisogno di garzone,
inginocchiata nel chiaror del fuoco,
mestò, rumò, poi schiaffeggiò il pastone,
fin che fu cotto; e lo staccò bel bello,
l'ammucchiò nel paiolo, col cannone
di pioppo; e lo sbacchiò sopra il tarvello.
II
Ora la madre nella teglia un muto
rivolo d'olio infuse, e di vivace
aglio uno spicchio vi tritò minuto.
Pose la teglia su l'ardente brace,
col facile olio; e, solo intenta ad esso,
un poco d'ora l'esplorò sagace.
L'olio cantò con murmure sommesso;
un acre odore vaporò per tutto.
Fumavano le calde erbe da presso,
nel tondo ch'ella inebbriò del flutto
stridulo, aulente; e poi nel canovaccio
nitido e grosso avviluppava il tutto.
E Rosa intanto sospendea lo staccio,
ponea le fette sopra un bianco lino,
stringea le còcche, e v'infilava il braccio.
Tornò Viola, e furono in cammino.
III
Rosa e Viola furono in cammino.
Ma la pia madre altro pensò; discese;
spillò la botte d'un segreto vino.
E poi, tornata, con le figlie prese
pei greppi; lesta, poi ch'una campana
si sentiva sonare dal paese:
non più che un'ombra pallida e lontana.
L'ANGELUS
I
Sì: sonava lontana una campana,
ombra di romba; sì che un mal vestito
che beveva, si alzò dalla fontana,
e più non bevve, e scongiurò, di rito,
l'impazïente spirito.
Via via
si sentì la campana di San Vito,
si sentì la campana di Badia
e gli altri borghi, di qua di là, pronti
cantando si raggiunsero per via.
C'era di muti spiriti nei fonti
un palpitare al tremolìo sonoro
ch'empieva l'aria e percotea nei monti.
La donna andava con le figlie; e loro
squillò sul capo, subito e soave,
dalla lor Pieve un gran tumulto d'oro.
E tu nascesti Dio da un piccolo Ave...
II
- Tu che nascesti Dio dal piccolo Ave,
dalla sorrisa paroletta alata
(disse la voce tremolando grave):
tu che nell'aia bianca e soleggiata
eri e non eri, seme che vi avesse
sperso il villano dalla corba alzata;
ma poi l'uomo ti vide e ti soppresse,
t'uccise l'uomo, o piccoletto grano;
tu facesti la spiga e poi la mèsse
e poi la vita: fa' che non in vano
nei duri solchi quella gente in riga
semini il pane suo quotidïano.
O Dio, neve raffrena, pioggia irriga,
sole riscalda quei futuri steli;
fa' che granisca la futura spiga,
o tu cui l'uomo seminò nei cieli! - Così
III
diceva tremolando grave
la voce d'oro su l'aerea Pieve;
e gli aratori l'Angelus e l'Ave
dissero; e in mezzo alla preghiera breve
la dolce madre a lui venìa; non sola:
l'erano accanto con andar più lieve
bionda la Rosa e bruna la Viola.
IL CACCIATORE
I
Po le seguiva, il fido cane.
Or essi
siedono su la porca assai contenti.
La Pieve sorridea sotto i cipressi.
Po ringhiò, fece biancheggiare i denti:
passava un uomo, un cacciator; ristette.
«Giovine, giunto qui tra le mie genti!
ciò che avanza per sei, basta per sette»
disse il capoccio; e poi con lieta cera:
«Male per voi, che bene per noi mette!
Noi ci vedemmo, o giovine, alla fiera
di Castiglione, all'osteria di Betto.
Tuo padre, Andrea buon'anima, non c'era
l'uomo più bravo e tuttavia più schietto;
e dava tempo al tempo: ecco e tu ari
un campetto con siepe e con fossetto...
Bevi il mio vino e siedi tra' miei cari!»
II
Ed ei s'assise, il giovane, tra loro,
e bevve il rosso vino.
Era di faccia
alla fanciulla da' capelli d'oro.
Ma la fanciulla dalle bianche braccia
non lo guardava.
Ed il capoccio allora
gli domandò della sudata caccia.
E lui: «La prima non ho fatto ancora;
e sì, che non so dir con quanta pena
io tutta notte l'aspettai, l'aurora!
Che ieri io rincasava a notte piena,
pensando ad altro, a non so che: zirlare
io sentiva nell'alta ombra serena.
Erano i tordi, che già vanno al mare,
in alto, in alto, in alto.
Io sentìa quelle
voci dell'ombra, nel silenzio, chiare;
e mi pareva un canticchiar di stelle.
III
Ma i tordi ancor non calano, e non sento
se non il fischio delle ballerine
seguire il solco dell'aratro lento;
e lo scoppiettìo trito senza fine
del pettirosso mattinier...
Comincia
il passo.
Sono piene le saggine
e le olivete.
Sì; ma c'è la cincia!»
LA CINCIA
I
Sorrise, e disse che una volta c'era
un re piccino; e s'egli era piccino,
la sua reggia era grande e nera nera.
E un aio aveva questo reattino
nero, e l'aio era lì sempre a gracchiare,
e più, quando vedea torbo il mattino.
Il re veniva alle finestre a mare,
il re veniva alle finestre a monte:
«Avessi l'ale! Potessi volare!»
Nitrir sentiva alla sua voce pronte
le sue pulledre sparse alla pastura
nel grande prato ch'era dopo il ponte.
E quel nitrito, per le antiche mura,
per gl'infiniti muti colonnati,
destava i cani; e nella reggia oscura
rimbombavano in tanto alti latrati.
II
Or una fata l'ode.
Ecco, sia fatto!
La gran reggia doventa una gran macchia
a colonne di pino e d'albogatto.
Nera tra i lecci vola una cornacchia.
È l'aio.
Vola su brentoli e mortelle,
libero, il recacchino, il redimacchia.
E il curvo collo svincolano snelle
quelle pulledre scalpitando, ed ecco
ch'elle frullano azzurre cinciarelle.
Tengono l'osso ancora (od uno stecco?)
le cinciallegre, piccoli mastini,
sotto le zampe, e picchiano col becco.
Dunque, dagli albigatti esse e da' pini
fanno la guardia, e il re ne' suoi sambuchi,
tra molta signoria di fiorrancini,
regna, e si svaga con la caccia ai bruchi.
III
Così, vedete, il cacciator che gira,
vede calare un branco.
Egli bel bello
s'appressa, egli già mira, egli già tira...
suona un nitrito tremulo d'uccello,
come starnuto, suona un bau bau chiaro,
come doppio squillar di campanello;
e il branco fugge prima dello sparo.
L'AVEMARIA
I
E poi sazi sorgevano: le zolle
sbriciò l'aratro, della terra nera,
dietro le vacche non ancor satolle.
Rosa, con gli altri e con Viola, a schiera,
ricopriva le porche col marrello.
Babbo voleva aver finito a sera.
Il dì passò tra sole e solicello:
il sole s'insaccò, né tornò fuori,
e Montebello si pose il cappello.
Stridule, qua e là, di più colori,
correan le foglie: non s'udia per gli ampi
filari che il vocìo degli aratori.
Palpitavano, a tratti, larghi lampi;
serrava il cardo le argentine spade;
ma tutta la sementa era nei campi.
Venne la sera ed abbuiò le strade.
II
E le vacche tornavano alle stalle;
e la gente, ciarlando per la via,
saliva co' marrelli su le spalle.
Sonò, di qua di là, l'Avemaria:
si sentì la campana di San Vito,
si sentì la campana di Badia.
Era nel cielo un pallido tinnito:
Dondola dondola dondola! - A nanna
a nanna a nanna! - Il giorno era finito.
Ora il fuoco accendeva ogni capanna,
e i bimbi sazi ricevea la cuna,
col sussurrare della ninnananna.
E le campane, A nanna a nanna! l'una;
l'altra, Dondola dondola! tra il volo
de' pipistrelli per la costa bruna.
A nanna, il bimbo! e dondoli, il paiuolo!
III
La madre era su l'uscio, poi che intese
un parlottare ed uno scalpicciare
tra la confusa romba delle chiese.
Ed un lampo alitò sul casolare,
e bianche bianche illuminò le strade;
e il capoccio ella udì dal limitare,
che diceva: «La festa il dì che cade!»
LA NOTTE
I
Nella notte scrosciò, venne dirotta
la pioggia, a striscie stridule infinite;
e il tuono rotolò da grotta a grotta.
Egli, il capoccio, avvolto nel suo mite
tacito sonno, non udiva.
Udiva
nascere l'erba.
Vide le pipite
verdi.
Il grano sfronzò, quindi accestiva.
Nevicava, in suo sogno, a fiocco a fiocco:
candido il monte, candida la riva.
No: quel bianco era fiori d'albicocco
e di susino, e l'ape uscìa dal bugno
ronzando, e il grano già facea lo stocco:
Anzi graniva; ch'era già di giugno.
La cicala friniva su gli ornelli.
Egli l'udiva, con la falce in pugno.
L'acqua veniva stridula a ruscelli.
I
L'acqua veniva, stridula, a ruscelli.
Rosa dormiva e non udiva: udiva
cantare al bosco zigoli e fringuelli.
Era nel bosco, nella reggia estiva
del redimacchia.
Intorno udìa beccare.
gemme di pioppo e mignoli d'uliva.
E la macchia pareva un alveare,
piena di frulli e di ronzìi.
Ma ella
sentiva anche un frugare, uno sfrascare,
un camminare.
Chi sarà? Ma in quella
che riguardava tra un cespuglio raro,
improvvisa cantò la cinciarella.
E sonò d'ogni parte il bau bau chiaro,
come un tintinno, delle cincie; ed ecco
pronto all'orecchio risonar lo sparo.
Ma era un tuono, che rimbombò secco.
III
E tra il tumulto carezzò Viola
che s'era desta e che piangea.
Pian piano
l'addormentava.
E Rosa rifù sola.
Pensava...
i licci della tela, il grano
della sementa, il cacciatore...
e Rosa
lo ricercava.
Dove mai? Lontano.
In una reggia.
E risognò...
Che cosa?
IL BORDONE - L'AQUILONE
IL BORDONE
Si tagliò da una siepe - era un mattino
triste ma dolce - il suo bordone, e, volta
la fronte, mosse per il suo cammino.
Sì: mosse.
E quella era la siepe folta
d'un camposanto, ed era il camposanto,
quello, dove sua madre era sepolta.
D'allora ha errato.
Seco avea soltanto
il suo bordone.
E qua tese la mano,
e qua la porse.
E ha gioito e pianto.
E vide il fiume, il mare, il monte, il piano:
tutto: e a tutto era più presso il cuore
di quanto il piede n'era più lontano.
Disperò sui tramonti, e su le aurore
sperò; sì che la via sempre riprese.
Vuoto era il frutto, ma soave il fiore.
Sopra la soglia d'infinite chiese
pregò.
Vide infiniti uomini: alcuno,
Raca! gli disse, ed altri, Ave gli rese:
scòrsero i più, come su lago bruno
ombra di nube nera presso nera
ombra di nube.
E fu tutto e nessuno.
Sì ch'ora è stanco.
Ed è, ora, una sera
triste ma dolce.
E sta, come una volta,
presso una siepe.
E questa è ancor com'era.
Ché fermo è là, presso la siepe folta
d'un camposanto; e questo camposanto
è quello dove è sua madre sepolta.
Egli è quel ch'era, ma il suo corpo è franto
dall'error lungo; e nel suo cuore è vano
ciò che gioì, ma piange ciò che ha pianto.
E sta, vecchio e canuto, con la mano
sul bordone d'allora.
Ed ecco, vede
che da quel giorno radicò pian piano,
il suo bordone, e che visse, e che diede
già fiori e foglie: sotto le sue dita
germinò, radicò sotto il suo piede.
E gli resta una foglia inaridita
che trema.
E il vento soffia.
E il pellegrino,
curvo sopra la immobile sua vita,
par che muova ora, per il suo cammino.
IL VISCHIO
I
Non li ricordi più, dunque, i mattini
meravigliosi? Nuvole a' nostri occhi,
rosee di peschi, bianche di susini,
parvero: un'aria pendula di fiocchi,
o bianchi o rosa, o l'uno e l'altro: meli,
floridi peri, gracili albicocchi.
Tale quell'orto ci apparì tra i veli
del nostro pianto, e tenne in sé riflessa
per giorni un'improvvisa alba dei cieli.
Era, sai, la speranza e la promessa,
quella; ma l'ape da' suoi bugni uscita
pasceva già l'illusïone; ond'essa
fa, come io faccio, il miele di sua vita.
II
Una nube, una pioggia...
a poco a poco
tornò l'inverno; e noi sentimmo, chiusi
per lunghi giorni, brontolare il fuoco.
Sparvero i bianchi e rossi alberi, infusi
dentro il nebbione; e per il cielo smorto
era un assiduo sibilo di fusi;
e piovve e piovve.
Il sole (onde mai sorto?)
brillò di nuovo al suon delle campane:
tutto era verde, verde era quell'orto.
Dove le branche pari a filigrane?
Tutti i petali a terra.
E su l'aurora
noi calpestammo le memorie vane
ognuna con la sua lagrima ancora.
III
Ricordi? Io dissi: «O anima sorella,
vivono! E tu saprai che per la vita
si getta qualche cosa anche più bella
della vita: la sua lieve fiorita
d'ali.
La pianta che a' suoi rami vede
i mille pomi sizïenti, addita
per terra i fiori che all'oblìo già diede...
Non però questa (io m'interruppi), questa
che non ha frutti ai rami e fiori al piede».
Stava senza timore e senza festa,
e senza inverni e senza primavere,
quella; cui non avrebbe la tempesta
tolto che foglie, nate per cadere.
IV
Albero ignoto! (io dissi: non ricordi?)
albero strano, che nel tuo fogliame
mostri due verdi e un gialleggiar discordi;
albero tristo, ch'hai diverse rame,
foglie diverse, ottuse queste, acute
quelle, e non so che rei glomi e che trame;
albero infermo della tua salute,
albero che non hai gemme fiorite,
albero che non vedi ali cadute;
albero morto, che non curi il mite
soffio che reca il polline, né il fischio
del nembo che flagella aspro la vite...
ah! sono in te le radiche del vischio!
V
Qual vento d'odio ti portò, qual forza
cieca o nemica t'inserì quel molle
piccolo seme nella dura scorza?
Tu non sapevi o non credevi: ei volle:
ti solcò tutto con sue verdi vene,
fimo si fece delle tue midolle!
E tu languivi; e la bellezza e il bene
t'uscìa di mente, né pulsar più fuori
gemme sentivi di tra il tuo lichene.
E crebbe e vinse; e tutti i tuoi colori,
tutte le tue soavità, col suco
de' tuoi pomi e il profumo de' tuoi fiori,
sono una perla pallida di muco.
VI
Due anime in te sono, albero.
Senti
più la lor pugna, quando mai t'affisi
nell'ozïoso mormorio dei venti?
Quella che aveva lagrime e sorrisi,
che ti ridea col labbro de' bocciuoli,
che ti piangea dai palmiti recisi,
e che d'amore abbrividiva ai voli
d'api villose, già sé stessa ignora.
Tu vivi l'altra, e sempre più t'involi
da te, fuggendo immobilmente; ed ora
l'ombra straniera è già di te più forte,
più te.
Sei tu, checché gemmasti allora,
ch'ora distilli il glutine di morte.
IL TORELLO
I
Su la riva del Serchio, a Selvapiana,
di qua del Ponte a cui si ferma a bere
il barrocciaio della Garfagnana,
da Castelvecchio menano, le sere
del dì di festa, il lor piccolo armento
molte ragazze dalle treccie nere.
Siedono là sul margine, col mento
sopra una mano, riguardando i pioppi
bianchi del fiume; e parlano.
Ma il vento
porta brusìo di voci, eco di scoppi
di mortaretti, eco di passi presta
ed un confuso tremito di doppi.
Dolce ascoltare allora, con la testa
voltata altrove, quelle due parole...
coperte un po' dalle campane a festa!
altrove...
al Serchio che risplende, al sole
che prende il monte...
o Nelly, anco ai vivagni
del tuo pannello, anco alle mucche sole
che brucano il palèo sotto i castagni.
II
To'...
quel vitello - al cui grande occhio appari
immensa, con un lento albero in mano,
quando con una vetta tu lo pari -
guarda stupito, nuovo, al monte, al piano:
tutto una selva, il monte; la costiera
sembra un velluto tenero di grano.
Egli che non sapea la primavera,
la dura coda svincola, saluta
il mondo bello.
Prima, esso non c'era:
ci si ritrova: fiuta l'aria, fiuta
la terra: all'aria sobbalzando avventa
le brevi corna della fronte bruta;
e con le zampe irrequïete tenta
la terra.
Il cielo è tutto pieno d'oro,
Nelly, ed il suolo è tutto pien di menta.
Vuole empir della sua gioia il sonoro
spazio, il vitello, e trae dalle profonde
fauci un muglio arrotato, agro, di toro.
Una giovenca lontana risponde.
III
Dunque, Nelly, rimeni oggi un torello:
savio, però, che sempre ha te di fronte
con nella mano il grande albero snello.
Arrivi a Castelvecchio, alla sua fonte
nuova, perenne, a cui vengono in fila
le gravi mucche nel calar dal monte.
Queste, da un canto, alla marmorea pila
succhiano l'acqua; e quando alzano il collo,
l'acqua dalle narici nere fila.
Dall'altro, suona, empiendosi al rampollo
vivo, la secchia: una fanciulla aspetta
con sui riccioli bruni il suo corollo.
A questa fonte, o Nelly, ora s'affretta
il tuo torello, a bere: dalla piena
conca l'acqua discende alla cunetta,
così ch'ell'ha come un pulsar di vena.
Egli guarda coi grossi occhi, né beve;
ché dentro l'acqua che si muove appena,
vede un coltello azzurro ondeggiar lieve...
IV
Mugola e fugge.
E poi mugolando erra
due dì, da selva a selva, nel suo colle,
strappando qualche fil d'erba alla terra.
Cerca dolente le segrete polle
verdi di capelvenere; vi mira
dentro: il coltello taglia l'ombra molle.
Aspetta al pozzo, quando alcuna tira
la secchia: l'acqua vi trabocca e sbalza:
dentro, il coltello gira gira gira.
Allora, al botro: dall'aerea balza,
scende: il coltello posa su la ghiaia;
ma la corrente un po' l'urta, e lo scalza
forse, e lo porta.
Aspetta egli: si sdraia
sui lisci giunchi, e coi grandi occhi spia,
fissando l'acqua di tra la giuncaia,
se mai quell'ombra della morte via
portino l'onde.
Sopra la sua testa
il tempo corre per la muta via.
Aspetta: e l'acqua passa e l'ombra resta.
V
Il terzo giorno...
«Ecché tu piangi, sciocca?
Sa 'ssai! En bestie, 'un ci han lunari: scólta:
'un si sa gnanco noi quel che ci tocca!»
dice tuo padre, o Nelly.
Tu sei volta
alla Via Nova, guardi nella valle,
per vederlo passare anche una volta.
Passa: un uomo alla testa, uno alle spalle:
è impastoiato, ad or ad or trempella...
Passa...
Oh! poggi solivi! ombrose stalle!
E quanto fieno! quanta lupinella!
IL SOLDATO DI SAN PIERO IN CAMPO
I
Era poc'anzi nella valle il ronzo
dell'altre sere.
Ogni campana prese
poi sonno in una lunga ansia di bronzo.
Si dicevano Ave! Ave! le chiese,
e i vecchi preti, che ristanno un poco
con le mani alla fune anco sospese.
Ave! tra uno scampanìo più fioco
dai monti, che, lassù, pare una voce
che dian quei cirri e cumuli di fuoco...
Ave! tra uno scoppiettìo veloce
di balestrucci, che nel cielo intorno
gettan ombre di pii segni di croce...
segni di croce, sul morir del giorno,
nel campo, nella via, nel casolare
dove sospira i passi del ritorno
il nonno, solo...
E già venian più rare
le squille delle Avemarie lontane;
e s'alzò dalla valle, di tra un mare
di foglie, un suono a morto, a tre campane.
II
Oh! Piangi...
Pensa...
Dormi...
Piangi...
Pensa...
Dormi...
echeggiava in ogni cuor San Piero
nell'ora dolce in cui fuma la mensa:
nell'ora in cui risuona ogni sentiero
di piedi scalzi, e anche di novelle
e di ragioni dette con mistero:
San Piero in Campo sperso là tra quelle
file di pioppi, garrulo, ai tramonti,
di rane gravi e allegre raganelle.
Echeggiava tra i monti.
Erano i monti
tutti celesti; tutto era imbevuto
di cielo: erba di poggi, acqua di fonti,
fronda di selve, e col suo blocco acuto
la liscia Pania, e con le sue foreste
il monte Gragno molle di velluto.
Sfiorava il sole tuttavia le creste,
toccando qua e là nuvole vane
e di laggiù, tra tutto quel celeste,
veniva il suono delle tre campane.
III
E Dormi...
Piangi!...
Chi piange, lo sanno
tutti: sua madre.
Come era contenta!
Egli le ritornava ora, nell'anno,
tra pochi mesi.
Ognuno lo rammenta,
buono! bello! ma il dito alza alla bocca,
come sua madre sia per lì, che senta.
Quel dolore ha una lunga ombra che tocca
tutte le case.
Col cucchiaio in mano
resta, come la veda, una che imbocca
il suo piccino, al fuoco.
- Era a Milano,
credo, a Modena...
- Dove la via sale,
due calessini vanno su pian piano,
al passo: intorno suona il disuguale
tonfo degli otto zoccoli, ed, appena,
il cigolìo leggiero delle sale.
Dolce il ritorno! Dolce essere a cena
spartendo ai bimbi irrequïeti il pane...
Vanno; e nell'aria concava e serena
rimbomba il suono delle tre campane.
IV
E Pensa...
Dormi...
È limpida la sera:
si vede sempre, e non s'accende il lume.
C'è nelle selve fumo qua, che annera,
là, che biancheggia: bruciano il pattume:
presto si coglie.
E l'uva ingrossa, e invaia
i chicchi già.
La canapa è nel fiume.
È già stesa a capretta su la ghiaia,
via via: dura ha la tiglia, alta la canna.
Ecco che già si mazzola in qualche aia.
Vengono all'aia, avanti la capanna,
i giovinotti, e ognuno si promette
con la ragazza che gli tien la manna.
Il sessantino ha messo i crini, mette
la rappa.
Già si sguscia.
Nelle stalle
le manse vacche mangiano le vette.
È uno splendore di pannocchie gialle
per tutto, alle finestre, nelle altane.
La sera è dolce: solo nella valle
suonano a morto quelle tre campane.
V
E Piangi...
Pensa...
Dormi...
Egli, sotterra
dorme! ed in terra appena benedetta!
dorme sotterra, e non nella sua terra!
Fuori è restato un po' di lui, che aspetta;
chiama i rettori del suo vicinato;
chiede la messa della sua chiesetta;
vuol l'acquasanta ch'ebbe appena nato,
che le sue fasce già bagnò, che bagni
or la sua cassa; vuol esser portato
al camposanto suo, tra i suoi castagni,
sotto il suo panno dalla frangia nera,
sopra le spalle de' suoi pii compagni,
tra il calpestìo de' suoi compagni a schiera,
tra il muto calpestìo che, dove passa,
lascia nel timo un morto odor di cera;
e il cataletto or s'alza, ora s'abbassa:
si va pian piano ma per vie non piane:
e dolcemente il capo nella cassa
si culla al suono delle sue campane.
VI
E dice Mamma...
Mamma...
Mamma...
Vuole
sua madre.
Ahimè! che voglia, quella voglia
di mamma! quel dolore, quanto duole!
Ora, più nulla.
Stride qualche foglia;
si chiamano e rispondono tranquilli
due chiù; va la Corsonna che gorgoglia.
Tu su la bruna valle alta sfavilli,
Barga, coi cento lumi tuoi.
Rimane
l'orma del pianto tra un gridìo di grilli
e un interrotto gracidar di rane.
L'ALBERGO
Qual ne corse parola oggi per l'aria,
alata? Soli, a due, quindi a branchetti,
a stormi, nella macchia solitaria
giungono muti i passeri, dai tetti
neri tra i salci, dalla chiesa nera
tra i pampani, dai borghi al monte stretti
per non cadere.
È limpida la sera:
segnano i boschi un bruno orlo sottile
su le montagne, una sottil criniera.
Non garrirà di passeri il cortile,
e salutando con le squille sole
vaporerà nell'ombra il campanile!
Non i loquaci spettator che suole,
avrà sui merli il volo de' rondoni
(uno svolìo di moscerini al sole
par di lontano sopra i torrïoni
del castellaccio); e assorderà le mura
mute il lor grido, e i muti erbosi sproni!
Giungono sempre nella macchia oscura;
frullano, entrano, affondano in un pino:
nel pino solo in mezzo alla radura.
Pende un silenzio tremulo, opalino,
su la radura: dondolano appena
le cavallette il lor campanellino.
Ed ecco nella queta aria serena
scoppia un tumulto - l'albero ne oscilla -
subito come un rotolar di piena.
È il pino, il pino che cinguetta, strilla,
pigola; ogni ago tremola e saltella.
Le imposte, per udire, apre una villa.
Nella radura quella nera ombrella
aerea tumultua...
St!...
Solo
ora s'ode un ronzìo di cantarella.
Che è? Crocchiava un ghiro sul nocciuolo?
Secca una pina crepitò? Lontano
cantava l'invisibile assiuolo?
Silenzio.
Solo il ronzìo grave e piano
s'ode in disparte, e qualche cavalletta
che scuote il suo campanellino invano.
Ma di nuovo quel pino, ecco, cinguetta,
pigola, strilla; e tutta la boscaglia
ne suona intorno, mentre l'ombre getta
più grandi.
Azzurra in cielo si ritaglia
ogni cresta dei monti; una vetrata
a mezzo il poggio razza ed abbarbaglia.
Dura il frastuono, e par d'una cascata:
pare sopra il fogliame ampio e sonoro
lo scroscio d'una luminosa acquata.
Sfuma gli alberi neri un vapor d'oro.
LA CALANDRA
I
Galleggia in alto un cinguettìo canoro.
È la calandra, immobile nel
...
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