PRIMI POEMETTI, di Giovanni Pascoli - pagina 3
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Era, sai, la speranza e la promessa,
quella; ma l'ape da' suoi bugni uscita
pasceva già l'illusïone; ond'essa
fa, come io faccio, il miele di sua vita.
II
Una nube, una pioggia...
a poco a poco
tornò l'inverno; e noi sentimmo, chiusi
per lunghi giorni, brontolare il fuoco.
Sparvero i bianchi e rossi alberi, infusi
dentro il nebbione; e per il cielo smorto
era un assiduo sibilo di fusi;
e piovve e piovve.
Il sole (onde mai sorto?)
brillò di nuovo al suon delle campane:
tutto era verde, verde era quell'orto.
Dove le branche pari a filigrane?
Tutti i petali a terra.
E su l'aurora
noi calpestammo le memorie vane
ognuna con la sua lagrima ancora.
III
Ricordi? Io dissi: «O anima sorella,
vivono! E tu saprai che per la vita
si getta qualche cosa anche più bella
della vita: la sua lieve fiorita
d'ali.
La pianta che a' suoi rami vede
i mille pomi sizïenti, addita
per terra i fiori che all'oblìo già diede...
Non però questa (io m'interruppi), questa
che non ha frutti ai rami e fiori al piede».
Stava senza timore e senza festa,
e senza inverni e senza primavere,
quella; cui non avrebbe la tempesta
tolto che foglie, nate per cadere.
IV
Albero ignoto! (io dissi: non ricordi?)
albero strano, che nel tuo fogliame
mostri due verdi e un gialleggiar discordi;
albero tristo, ch'hai diverse rame,
foglie diverse, ottuse queste, acute
quelle, e non so che rei glomi e che trame;
albero infermo della tua salute,
albero che non hai gemme fiorite,
albero che non vedi ali cadute;
albero morto, che non curi il mite
soffio che reca il polline, né il fischio
del nembo che flagella aspro la vite...
ah! sono in te le radiche del vischio!
V
Qual vento d'odio ti portò, qual forza
cieca o nemica t'inserì quel molle
piccolo seme nella dura scorza?
Tu non sapevi o non credevi: ei volle:
ti solcò tutto con sue verdi vene,
fimo si fece delle tue midolle!
E tu languivi; e la bellezza e il bene
t'uscìa di mente, né pulsar più fuori
gemme sentivi di tra il tuo lichene.
E crebbe e vinse; e tutti i tuoi colori,
tutte le tue soavità, col suco
de' tuoi pomi e il profumo de' tuoi fiori,
sono una perla pallida di muco.
VI
Due anime in te sono, albero.
Senti
più la lor pugna, quando mai t'affisi
nell'ozïoso mormorio dei venti?
Quella che aveva lagrime e sorrisi,
che ti ridea col labbro de' bocciuoli,
che ti piangea dai palmiti recisi,
e che d'amore abbrividiva ai voli
d'api villose, già sé stessa ignora.
Tu vivi l'altra, e sempre più t'involi
da te, fuggendo immobilmente; ed ora
l'ombra straniera è già di te più forte,
più te.
Sei tu, checché gemmasti allora,
ch'ora distilli il glutine di morte.
IL TORELLO
I
Su la riva del Serchio, a Selvapiana,
di qua del Ponte a cui si ferma a bere
il barrocciaio della Garfagnana,
da Castelvecchio menano, le sere
del dì di festa, il lor piccolo armento
molte ragazze dalle treccie nere.
Siedono là sul margine, col mento
sopra una mano, riguardando i pioppi
bianchi del fiume; e parlano.
Ma il vento
porta brusìo di voci, eco di scoppi
di mortaretti, eco di passi presta
ed un confuso tremito di doppi.
Dolce ascoltare allora, con la testa
voltata altrove, quelle due parole...
coperte un po' dalle campane a festa!
altrove...
al Serchio che risplende, al sole
che prende il monte...
o Nelly, anco ai vivagni
del tuo pannello, anco alle mucche sole
che brucano il palèo sotto i castagni.
II
To'...
quel vitello - al cui grande occhio appari
immensa, con un lento albero in mano,
quando con una vetta tu lo pari -
guarda stupito, nuovo, al monte, al piano:
tutto una selva, il monte; la costiera
sembra un velluto tenero di grano.
Egli che non sapea la primavera,
la dura coda svincola, saluta
il mondo bello.
Prima, esso non c'era:
ci si ritrova: fiuta l'aria, fiuta
la terra: all'aria sobbalzando avventa
le brevi corna della fronte bruta;
e con le zampe irrequïete tenta
la terra.
Il cielo è tutto pieno d'oro,
Nelly, ed il suolo è tutto pien di menta.
Vuole empir della sua gioia il sonoro
spazio, il vitello, e trae dalle profonde
fauci un muglio arrotato, agro, di toro.
Una giovenca lontana risponde.
III
Dunque, Nelly, rimeni oggi un torello:
savio, però, che sempre ha te di fronte
con nella mano il grande albero snello.
Arrivi a Castelvecchio, alla sua fonte
nuova, perenne, a cui vengono in fila
le gravi mucche nel calar dal monte.
Queste, da un canto, alla marmorea pila
succhiano l'acqua; e quando alzano il collo,
l'acqua dalle narici nere fila.
Dall'altro, suona, empiendosi al rampollo
vivo, la secchia: una fanciulla aspetta
con sui riccioli bruni il suo corollo.
A questa fonte, o Nelly, ora s'affretta
il tuo torello, a bere: dalla piena
conca l'acqua discende alla cunetta,
così ch'ell'ha come un pulsar di vena.
Egli guarda coi grossi occhi, né beve;
ché dentro l'acqua che si muove appena,
vede un coltello azzurro ondeggiar lieve...
IV
Mugola e fugge.
E poi mugolando erra
due dì, da selva a selva, nel suo colle,
strappando qualche fil d'erba alla terra.
Cerca dolente le segrete polle
verdi di capelvenere; vi mira
dentro: il coltello taglia l'ombra molle.
Aspetta al pozzo, quando alcuna tira
la secchia: l'acqua vi trabocca e sbalza:
dentro, il coltello gira gira gira.
Allora, al botro: dall'aerea balza,
scende: il coltello posa su la ghiaia;
ma la corrente un po' l'urta, e lo scalza
forse, e lo porta.
Aspetta egli: si sdraia
sui lisci giunchi, e coi grandi occhi spia,
fissando l'acqua di tra la giuncaia,
se mai quell'ombra della morte via
portino l'onde.
Sopra la sua testa
il tempo corre per la muta via.
Aspetta: e l'acqua passa e l'ombra resta.
V
Il terzo giorno...
«Ecché tu piangi, sciocca?
Sa 'ssai! En bestie, 'un ci han lunari: scólta:
'un si sa gnanco noi quel che ci tocca!»
dice tuo padre, o Nelly.
Tu sei volta
alla Via Nova, guardi nella valle,
per vederlo passare anche una volta.
Passa: un uomo alla testa, uno alle spalle:
è impastoiato, ad or ad or trempella...
Passa...
Oh! poggi solivi! ombrose stalle!
E quanto fieno! quanta lupinella!
IL SOLDATO DI SAN PIERO IN CAMPO
I
Era poc'anzi nella valle il ronzo
dell'altre sere.
Ogni campana prese
poi sonno in una lunga ansia di bronzo.
Si dicevano Ave! Ave! le chiese,
e i vecchi preti, che ristanno un poco
con le mani alla fune anco sospese.
Ave! tra uno scampanìo più fioco
dai monti, che, lassù, pare una voce
che dian quei cirri e cumuli di fuoco...
Ave! tra uno scoppiettìo veloce
di balestrucci, che nel cielo intorno
gettan ombre di pii segni di croce...
segni di croce, sul morir del giorno,
nel campo, nella via, nel casolare
dove sospira i passi del ritorno
il nonno, solo...
E già venian più rare
le squille delle Avemarie lontane;
e s'alzò dalla valle, di tra un mare
di foglie, un suono a morto, a tre campane.
II
Oh! Piangi...
Pensa...
Dormi...
Piangi...
Pensa...
Dormi...
echeggiava in ogni cuor San Piero
nell'ora dolce in cui fuma la mensa:
nell'ora in cui risuona ogni sentiero
di piedi scalzi, e anche di novelle
e di ragioni dette con mistero:
San Piero in Campo sperso là tra quelle
file di pioppi, garrulo, ai tramonti,
di rane gravi e allegre raganelle.
Echeggiava tra i monti.
Erano i monti
tutti celesti; tutto era imbevuto
di cielo: erba di poggi, acqua di fonti,
fronda di selve, e col suo blocco acuto
la liscia Pania, e con le sue foreste
il monte Gragno molle di velluto.
Sfiorava il sole tuttavia le creste,
toccando qua e là nuvole vane
e di laggiù, tra tutto quel celeste,
veniva il suono delle tre campane.
III
E Dormi...
Piangi!...
Chi piange, lo sanno
tutti: sua madre.
Come era contenta!
Egli le ritornava ora, nell'anno,
tra pochi mesi.
Ognuno lo rammenta,
buono! bello! ma il dito alza alla bocca,
come sua madre sia per lì, che senta.
Quel dolore ha una lunga ombra che tocca
tutte le case.
Col cucchiaio in mano
resta, come la veda, una che imbocca
il suo piccino, al fuoco.
- Era a Milano,
credo, a Modena...
- Dove la via sale,
due calessini vanno su pian piano,
al passo: intorno suona il disuguale
tonfo degli otto zoccoli, ed, appena,
il cigolìo leggiero delle sale.
Dolce il ritorno! Dolce essere a cena
spartendo ai bimbi irrequïeti il pane...
Vanno; e nell'aria concava e serena
rimbomba il suono delle tre campane.
IV
E Pensa...
Dormi...
È limpida la sera:
si vede sempre, e non s'accende il lume.
C'è nelle selve fumo qua, che annera,
là, che biancheggia: bruciano il pattume:
presto si coglie.
E l'uva ingrossa, e invaia
i chicchi già.
La canapa è nel fiume.
È già stesa a capretta su la ghiaia,
via via: dura ha la tiglia, alta la canna.
Ecco che già si mazzola in qualche aia.
Vengono all'aia, avanti la capanna,
i giovinotti, e ognuno si promette
con la ragazza che gli tien la manna.
Il sessantino ha messo i crini, mette
la rappa.
Già si sguscia.
Nelle stalle
le manse vacche mangiano le vette.
È uno splendore di pannocchie gialle
per tutto, alle finestre, nelle altane.
La sera è dolce: solo nella valle
suonano a morto quelle tre campane.
V
E Piangi...
Pensa...
Dormi...
Egli, sotterra
dorme! ed in terra appena benedetta!
dorme sotterra, e non nella sua terra!
Fuori è restato un po' di lui, che aspetta;
chiama i rettori del suo vicinato;
chiede la messa della sua chiesetta;
vuol l'acquasanta ch'ebbe appena nato,
che le sue fasce già bagnò, che bagni
or la sua cassa; vuol esser portato
al camposanto suo, tra i suoi castagni,
sotto il suo panno dalla frangia nera,
sopra le spalle de' suoi pii compagni,
tra il calpestìo de' suoi compagni a schiera,
tra il muto calpestìo che, dove passa,
lascia nel timo un morto odor di cera;
e il cataletto or s'alza, ora s'abbassa:
si va pian piano ma per vie non piane:
e dolcemente il capo nella cassa
si culla al suono delle sue campane.
VI
E dice Mamma...
Mamma...
Mamma...
Vuole
sua madre.
Ahimè! che voglia, quella voglia
di mamma! quel dolore, quanto duole!
Ora, più nulla.
Stride qualche foglia;
si chiamano e rispondono tranquilli
due chiù; va la Corsonna che gorgoglia.
Tu su la bruna valle alta sfavilli,
Barga, coi cento lumi tuoi.
Rimane
l'orma del pianto tra un gridìo di grilli
e un interrotto gracidar di rane.
L'ALBERGO
Qual ne corse parola oggi per l'aria,
alata? Soli, a due, quindi a branchetti,
a stormi, nella macchia solitaria
giungono muti i passeri, dai tetti
neri tra i salci, dalla chiesa nera
tra i pampani, dai borghi al monte stretti
per non cadere.
È limpida la sera:
segnano i boschi un bruno orlo sottile
su le montagne, una sottil criniera.
Non garrirà di passeri il cortile,
e salutando con le squille sole
vaporerà nell'ombra il campanile!
Non i loquaci spettator che suole,
avrà sui merli il volo de' rondoni
(uno svolìo di moscerini al sole
par di lontano sopra i torrïoni
del castellaccio); e assorderà le mura
mute il lor grido, e i muti erbosi sproni!
Giungono sempre nella macchia oscura;
frullano, entrano, affondano in un pino:
nel pino solo in mezzo alla radura.
Pende un silenzio tremulo, opalino,
su la radura: dondolano appena
le cavallette il lor campanellino.
Ed ecco nella queta aria serena
scoppia un tumulto - l'albero ne oscilla -
subito come un rotolar di piena.
È il pino, il pino che cinguetta, strilla,
pigola; ogni ago tremola e saltella.
Le imposte, per udire, apre una villa.
Nella radura quella nera ombrella
aerea tumultua...
St!...
Solo
ora s'ode un ronzìo di cantarella.
Che è? Crocchiava un ghiro sul nocciuolo?
Secca una pina crepitò? Lontano
cantava l'invisibile assiuolo?
Silenzio.
Solo il ronzìo grave e piano
s'ode in disparte, e qualche cavalletta
che scuote il suo campanellino invano.
Ma di nuovo quel pino, ecco, cinguetta,
pigola, strilla; e tutta la boscaglia
ne suona intorno, mentre l'ombre getta
più grandi.
Azzurra in cielo si ritaglia
ogni cresta dei monti; una vetrata
a mezzo il poggio razza ed abbarbaglia.
Dura il frastuono, e par d'una cascata:
pare sopra il fogliame ampio e sonoro
lo scroscio d'una luminosa acquata.
Sfuma gli alberi neri un vapor d'oro.
LA CALANDRA
I
Galleggia in alto un cinguettìo canoro.
È la calandra, immobile nel sole
meridïano, come un punto d'oro.
E le sue voci pullulano sole
dal cielo azzurro, quando è per tacere
la romanella delle risaiole;
e non più tintinnìo di sonagliere
s'ode passare per le vie lontane;
ché già desina all'ombra il carrettiere.
Né più cicale, né più rauche rane,
non un fil d'aria, non un frullo d'ale:
unica, in tutto il cielo, essa rimane.
Rimane e canta; ed il suo canto è quale
di tutto un bosco, di tutto un mattino;
vario così com'iride d'opale.
Canta; e tu n'odi il lungo mattutino
grido del merlo; e tu senti un odore
acuto di ginepro e di sapino,
senti un odore d'ombra e d'umidore,
di foglie, di corteccia e di rugiada;
un fragrar di corbezzole e di more.
Vai per un bosco e senti, ove tu vada,
quei fischi uscir più liquidi e più ricchi;
poi, come colpi da remota strada
di spaccapietre, il martellar de' picchi.
II
Ma no: dib dib: è il passero.
Ricopre
la nebbia i campi, dove è dall'aurora
de' bovi il muglio e il viavai dell'opre.
Fuma la terra, fuma il cielo; ancora
fuma il camino e, tra le tamerici,
fuma il letame e grave oggi vapora.
Vaniscono laggiù le zappatrici;
di qua l'aratro emerge per incanto,
tra un pigolìo di passeri mendici.
Ma donde viene chiaro e dolce il canto
or della quaglia? È in fior lo spigo; tondo
s'apre nei campi il fior dell'elïanto.
È sera forse? e dentro il ciel profondo
il crepuscolo indugia? e nel sereno
canta la quaglia di tra il grano biondo?
E pieno il prato è già di trilli, e pieno
il grano è già di lucciole, e su l'aie
bianche s'esala il buon odor del fieno.
E no, ch'è l'alba: è sotto le grondaie
tutto un ciarlare.
Sono intorno al nido
le rondinelle garrule massaie.
La casa dorme.
Niuno ancor nel fido
bricco il caffè, nemico al sonno, infuse.
Vola e rivola il mattutino strido
lungo le verdi persïane chiuse.
III
Un torvo strillo di poiana...
muta
solitudine...
roccie irte, malvage...
qualche cesto d'assenzio e di cicuta...
Il cielo sfuma in un rossor di brage.
Solo un torrente urlare odo: russare
d'un ebbro in mezzo una sua muta strage.
E la poiana strilla.
Ecco mi appare
una rovina, una deserta chiesa,
da cui te, solitario, odo cantare.
Canti come una dolce anima presa
da' suoi ricordi, tu, dalla rovina
dove è già la pietosa edera ascesa,
passero azzurro! O donde mai, vicina
cincia, m'inviti in vano a te? Da un orto
rosso, cui cinge il bosso e l'albaspina.
Pendono rosse tra il fogliame smorto
le dolci mele, e ingiallano le pere.
Nel mezzo un fico, nudo già, contorto.
E vi cantano cincie e capinere...
Ma no, sei tu che, immobile nel sole,
canti, o calandra, sopra le brughiere.
E le tue voci pullulano sole
dal cielo azzurro, con virtù segreta,
come veggenti limpide parole,
o grande su le brevi ali poeta!
CONTE UGOLINO
I
Ero all'Ardenza, sopra la rotonda
dei bagni, e so che lunga ora guardai
un correre, nell'acqua, onda su onda,
di lampi d'oro.
E alcuno parlò: «Sai?»
(era il Mare, in un suo grave anelare)
«io vado sempre e non avanzo mai».
E io: «Vecchione,» (ma l'eterno Mare
succhiò lo scoglio e scivolò via, forse
piangendo) «e l'uomo avanza, sì; ti pare?»
E l'occhio, vago qua e là mi corse
alla Meloria...
Di che mai ragiona,
le notti, il tardo guidator dell'Orse
ozïando su l'acqua che risuona
lugubre e frangesi alla rea scogliera?...
E vidi te, cerulea Gorgona;
e più lontana, come tra leggiera
nebbia, accennante verso te, rividi
l'altra.
Io vedeva la Capraia, ch'era
come una nube, e lineavo i lidi
della Maremma, e imaginai sonante
un castello di soli aerei stridi,
in un deserto; e poi te vidi, o Dante.
II
Sedeva sopra un masso di granito
ciclopico.
Pensava.
Il suo pensiero
come il mare infinito era infinito.
Lontani, i falchi sopra il capo austero
roteavano.
Stava la Gorgona,
come nave che aspetti il suo nocchiero.
E la Capraia uscìa d'una corona
di nebbia, appena.
Or Egli dritto stante,
imperïale sopra la persona,
tese le mani al pelago sonante,
sì che un'ondata che suggea le rosse
pomici, all'ombra dileguò di Dante.
Ed ecco, dove il cenno suo percosse,
la Gorgona crollò, vacillò; poi
salpava l'eternale àncora, e mosse.
E la Capraia scricchiolò da' suoi
scogli divelta, e tra un sottil vapore
veniva.
O due rupestri isole, voi
solcavate le bianche acque sonore,
la prua volgendo dove non indarno
voleva il dito del trïonfatore:
alla foce invisibile dell'Arno.
III
Avanzarono come ombra che cresca
all'improvviso...
quando udii, vicino:
«Conte Ugolino della Gherardesca...»
Chi parlava di te, Conte Ugolino?
Uno, fiso nel mare.
Oh! tutto in giro,
sotto il turchino ciel, mare turchino,
su cui tremola appena al tuo sospiro
un velo vago, tenue! O Capraia,
o Gorgona color dello zaffiro,
ferme io vi scòrsi, come plaustri in aia
cerula, immensa.
E a' miei piedi l'onda
battea lo scoglio e risorbìa la ghiaia.
E nella calma lucida e profonda,
nudo sul trampolino, con le braccia
arrotondate su la testa bionda,
era un fanciullo.
«Quello» io chiesi «in faccia
a noi?» «Sì, quello.» «Quel fanciullo? il Conte
che rode il teschio nell'eterna ghiaccia?»
«Foglie d'un ramo, gocciole d'un fonte!»
Egli guardava un tuffolo pescare
stridulo; scosse i ricci della fronte,
e con un grido si tuffò nel mare.
DIGITALE PURPUREA
I
Siedono.
L'una guarda l'altra.
L'una
esile e bionda, semplice di vesti
e di sguardi; ma l'altra, esile e bruna,
l'altra...
I due occhi semplici e modesti
fissano gli altri due ch'ardono.
«E mai
non ci tornasti?» «Mai!» «Non le vedesti
più?» «Non più, cara.» «Io sì: ci ritornai;
e le rividi le mie bianche suore,
e li rivissi i dolci anni che sai;
quei piccoli anni così dolci al cuore...»
L'altra sorrise.
«E di': non lo ricordi
quell'orto chiuso? i rovi con le more?
i ginepri tra cui zirlano i tordi?
i bussi amari? quel segreto canto
misterioso, con quel fiore, fior di...?»
«morte: sì, cara».
«Ed era vero? Tanto
io ci credeva che non mai, Rachele,
sarei passata al triste fiore accanto.
Ché si diceva: il fiore ha come un miele
che inebria l'aria; un suo vapor che bagna
l'anima d'un oblìo dolce e crudele.
Oh! quel convento in mezzo alla montagna
cerulea!» Maria parla: una mano
posa su quella della sua compagna;
e l'una e l'altra guardano lontano.
II
Vedono.
Sorge nell'azzurro intenso
del ciel di maggio il loro monastero,
pieno di litanie, pieno d'incenso.
Vedono; e si profuma il lor pensiero
d'odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d'innocenza e di mistero.
E negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie, dimenticate,
là, da tastiere appena appena tocche...
Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate,
ospite caro? onde più rosse e liete
tornaste alle sonanti camerate
oggi: ed oggi, più alto, Ave, ripete,
Ave Maria, la vostra voce in coro;
e poi d'un tratto (perché mai?) piangete...
Piangono, un poco, nel tramonto d'oro,
senza perché.
Quante fanciulle sono
nell'orto, bianco qua e là di loro!
Bianco e ciarliero.
Ad or ad or, col suono
di vele al vento, vengono.
Rimane
qualcuna, e legge in un suo libro buono.
In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,
l'alito ignoto spande di sua vita.
III
«Maria!» «Rachele!» Un poco più le mani
si premono.
In quell'ora hanno veduto
la fanciullezza, i cari anni lontani.
Memorie (l'una sa dell'altra al muto
premere) dolci, come è tristo e pio
il lontanar d'un ultimo saluto!
«Maria!» «Rachele!» Questa piange, «Addio!»
dice tra sé, poi volta la parola
grave a Maria, ma i neri occhi no: «Io,»
mormora, «sì: sentii quel fiore.
Sola
ero con le cetonie verdi.
Il vento
portava odor di rose e di viole a
ciocche.
Nel cuore, il languido fermento
d'un sogno che notturno arse e che s'era
all'alba, nell'ignara anima, spento.
Maria, ricordo quella grave sera.
L'aria soffiava luce di baleni
silenzïosi.
M'inoltrai leggiera,
cauta, su per i molli terrapieni
erbosi.
I piedi mi tenea la folta
erba.
Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!
Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che, vedi...
(l'altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta
con un suo lungo brivido...) si muore!»
SUOR VIRGINIA
I
Tum tum...
tum tum...
- Ell'era stata in chiesa
a pregar sola, a dir la sua corona
sotto la sola lampadina accesa.
Avea chiesto perdono a chi perdona
tutto, di nulla; simile ad ancella
ch'ha gli occhi in mano della sua padrona;
a una che su l'uscio di sorella
ricca, socchiuso, prega piano, a volo;
ch'altri non oda.
Era tornata in cella.
E ora avanti il Cristo morto solo,
avanti l'agonia di Santa Rita,
si toglieva il suo velo, il suo soggólo.
Il cingolo a tre nodi dalla vita
poi si scioglieva; un giallo teschio d'osso
girò tre volte nelle ceree dita.
Tum tum...
- Chi picchia? Si rimise in dosso
lo scapolare.
Forse alla parete
dell'altra stanza.
L'uscio non s'è mosso.
Forse qualche educanda.
Una ch'ha sete,
ch'ha male...
Aprì soavemente l'uscio.
Entrò.
Niente.
I capelli nella rete,
le braccia in croce, gli occhi nel lor guscio...
II
dormivano, composte, accomodate,
le due bambine.
Aperta la finestra
era a una gran serenità d'estate.
L'avea lasciata aperta la maestra
per via del caldo.
Un alito di vento
recava odor d'acacia e di ginestra.
Ma che frufrù nell'orto del convento!
Passava, ora d'un gufo, ora d'un gatto,
un sordo sgnaulìo subito spento.
Un grillo ora trillava, ora d'un tratto
taceva: come? Come se lì presso
fosse venuto chi sa chi, d'appiatto.
Un fischiettare, un camminar represso,
un raspare, un frugare, uno sfrascare
improvviso su su per il cipresso...
Brillavan qua e là lucciole rare,
come spiando.
Un ululo ogni tanto
veniva da un lontano casolare.
L'urlo d'un cane alla catena, e il canto
più lontano d'un rauco vagabondo,
nell'alta notte, era la gioia e il pianto
che al monastero pervenìa, dal mondo.
III
Dormivano.
Sì: anche la sorella
piccina.
Era composta, era coperta.
Suor Virginia tornò nella sua cella.
Tornò lasciando la finestra aperta
a quel lontano canto, a quel lontano
bau bau di cane ch'era sempre all'erta;
aperta a quello scalpicciar pian piano
d'uomini o foglie, a quel trillar d'un grillo,
che poi taceva sotto un piede umano...
Dormivano.
Il lor cuore era tranquillo
La suora si svestì, così leggiera,
ch'udì per terra il picchio d'uno spillo.
S'addormentava.
- Tum tum tum...
- Che era?
E Suor Virginia si levò seduta
sul letto, mormorando una preghiera.
Ella ascoltò: la piccola battuta
venìa di là.
Si mise anche una volta
lo scapolare.
Entrò.
Riguardò muta.
No.
L'una e l'altra si tenea raccolta
al dolce sonno.
Non avean bisogno
di lei.
La bimba s'era, sì, rivolta
sul cuore; all'altra; a ragionarci in sogno.
IV
Tornò, comprese.
Avea bussato il Santo.
Era venuto il tempo di lasciare
il suo cantuccio in questa Val di pianto.
A quel Santo ogni sera essa all'altare
dicea tre pater.
Egli non ignora
nell'ampia terra il nostro limitare.
Poi ch'egli va, pascendo il gregge ancora,
come allora: e devìa dalla sua strada
per dire a questo o quello ospite: «È l'ora».
Egli è notturno come la rugiada.
E viene, e bussa fin che il sonnolento
pellegrino non s'alza e non gli bada.
Egli era, dunque, entrato nel convento
per rivelarle l'ora del trapasso.
Picchiò.
Poi stava ad aspettare attento.
Ella sentito non ne aveva il passo,
perché va scalzo.
Sulla soglia trita
certo aspettava col cappuccio basso.
Suor Virginia il fardello della vita
doveva fare: il cielo era già rosso:
il suo fardello.
Tra le ceree dita
prese il rosario col suo teschio d'osso.
V
E vennero le morte undicimila
vergini, con le lampade fornite
d'olio odoroso; camminando in fila;
di bianco lino, come lei, vestite;
nelle pallide conche d'alabastro
portando accese le lor dolci vite;
passando, sì che in breve erano un nastro
bianco, ondeggiante, a un alito, pian piano,
nel cielo azzurro tra la terra e un astro;
passando, come gli Ave a grano a grano
d'una corona.
E le dicean parole
di sotto il giglio che teneano in mano.
Aveva ognuna, su le bianche stole,
l'orma di sangue della sua tortura.
Anch'ella, al cuore.
Le dicean: «Non duole».
Era, la prima d'esse, Ursula pura,
lassù, che tuttavia lampade accese
splendeano in fila per la terra oscura.
Le vergini non tutte erano ascese.
Quella picchiò tre volte con lo stelo
del giglio.
E in terra Suor Virginia intese
quei colpettini al grande uscio del cielo.
VI
Tum tum...
- Di là, con tutto quel gran cielo
alla finestra, oh! trema come foglia
secca che prilla intorno a un ragnatelo,
la bimba, e bussa, e par ch'ora, sì, voglia
dirglielo: Madre, c'è uno laggiù:
chiuda! E volge gli aperti occhi alla soglia
dell'uscio: aspetta.
Ella non venne più.
LA QUERCIA CADUTA
Dov'era l'ombra, or sé la quercia spande
morta, né più coi turbini tenzona.
La gente dice: Or vedo: era pur grande!
Pendono qua e là dalla corona
i nidietti della primavera.
Dice la gente: Or vedo: era pur buona!
Ognuno loda, ognuno taglia.
A sera
ognuno col suo grave fascio va.
Nell'aria, un pianto...
d'una capinera
che cerca il nido che non troverà.
L'AQUILONE
C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d'antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.
Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle quercie agita il vento.
Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch'erbose hanno le soglie:
un'aria d'altro luogo e d'altro mese
e d'altra vita: un'aria celestina
che regga molte bianche ali sospese...
sì, gli aquiloni! È questa una mattina
che non c'è scuola.
Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d'albaspina.
Le siepi erano brulle, irte; ma c'era
d'autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera
bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.
Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.
Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza.
S'inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.
S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo
petto del bimbo e l'avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.
Più su, più su: già come un punto brilla
lassù lassù...
Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto...
- Chi strilla?
Sono le voci della camerata
mia: le conosco tutte all'improvviso,
una dolce, una acuta, una velata...
A uno a uno tutti vi ravviso,
o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
su l'omero il pallor muto del viso.
Sì: dissi sopra te l'orazïoni,
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni!
Tu eri tutto bianco, io mi rammento.
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.
Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!
Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi pètali un fiore
ancora in boccia! O morto giovinetto,
anch'io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto...
Meglio venirci ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gara per salire un colle!
Meglio venirci con la testa bionda,
che poi che fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co' bei capelli a onda
tua madre...
adagio, per non farti male.
IL VECCHIO CASTAGNO
E Viola tornò per coglitora,
dopo sementa, dal suo zio d'Albiano.
Ed ecco, i cardi non cadeano ancora.
E dava nel frattempo ella una mano
all'altre donne, e lungo il Rio con esse
facea brocche di càrpino e d'ontano.
Ora sfogliava le seconde mèsse,
dei gelsi, ora segava erba e trifoglio,
che la brinata non gliele cocesse.
Perché la bestia dice all'uomo: «Io voglio
l'ultime frasche, s'altri ebbe le prime.
A me l'avanzo, s'è di te il rigoglio!
Le pigne tu, le pampane io: le cime
io, tu le rappe.
Io do, se tu mi desti.
Fin che c'è verde, non mi dar guaime.
Padrone, c'è del verde, che tu pesti.
Menami alle covette della strada,
menami un poco nella selva ai cesti:
ai cesti ch'ora a tutto ciò che cada,
aprono i lor fioretti color carne;
e cade brina, che attendean rugiada».
Ed ella andava qualche volta a farne
per loro, e qualche volta, ch'era bello,
menava là le vaccherelle scarne.
E con loro godeva il solicello
di fin d'ottobre, tra i castagni, sotto
il re di tutti, un vecchio mondinello.
Sotto il re dei castagni, sur un grotto
pieno di musco, si sedea Viola,
col gomitolo, i ferri e un calzerotto.
E gettava alle bestie una parola,
anco un toffo di terra, anco due ghiare
con le sue mosse di canipaiola.
Ora un giorno che stava a lavorare
sotto il castagno, e che sotto i suoi sguardi
pendean le vacche dalle stipe amare,
dei tonfi udì, come se quei bastardi
fosser lì con sassetti e con pinelle,
chiotti, per darle briga...
Erano i cardi.
Cadeano giù con le castagne belle
e nere in bocca, che sul musco arsito
ruzzolavano fuori della pelle.
Udiva; e il gran castagno ecco sul dito
le picchiò con un cardo, anzi un pallone,
piccolo, giallo, chiuso.
Era un invito:
l'albero volea dir la sua ragione.
Alzò Viola, come se capisse,
gli occhi, poi li voltò: vide un piccone;
vide un'accétta.
E il vecchio re le disse:
le disse il re:
I
...Viola!...
Violetta!...
Non la vedi costì? C'è da stamani.
Ce l'ha lasciata il caro zio.
L'accétta!
La piglia su, domani, oggi, a due mani,
e picchia giù.
Dove ella picchia, guai
a quei frassini! tristi quelli ontani!
e quei castagni! Non credevi mai,
Violetta? Lo credo! Ero il più grande!
Sono il più vecchio.
Ella è per me: vedrai.
Si sa: la quercia deve dar le ghiande,
e il fico i fichi, ed il castagno i cardi.
Vivande, noi; solo il rosaio, ghirlande!
E i cardi son più pochi, ora, e se guardi,
non son più pieni, ch'io non ho più forza.
Io ho la lupa.
Ho messo poco e tardi.
Il vecchio re sente impassir la scorza!
II
E mi ricordo ch'ero il più piccino
del branco, quando venni qua; di tutto
quello d'allora.
Io, sai, nacqui a bacino,
di là del Rio.
Di là crescevo sdutto,
lungo, con molta frasca e molte polle.
All'ombra, messa tanta e poco frutto!
Qui, posto al sole, in cima in cima al colle,
mi dava noia, i primi anni, l'asprura.
Bramavo quel bel fresco, quel bel molle.
Ma poi con gli anni feci tiglia dura,
e il sole amai, che vaporava il fiato
nella florida mia capellatura.
A un fin di verno, un uomo col pennato
mi cuccò tutto per filo e per segno!
E io restai pulito e dicapato,
con due mazzette tra la buccia e il legno.
III
Vedi i due rami dalle mille vette,
anzi il doppio grande albero che porto
sul tronco? Sono quelle due mazzette.
Ché venne aprile, e io sentiva, assòrto,
dalle mie fibre risalire il succhio
cercando in alto ciò che m'era morto:
ciò che non era, là di lì, che un mucchio
di verghe dalla lunga acqua percosse,
cui s'attorceva l'ellera e il vilucchio.
Ma io sognava tuttavia che fosse
sopra il mio fusto, e che mettesse i fiocchi
verdicci dalle sue vermelle rosse.
Io mi spingeva tutto verso gli occhi
che non avevo; io mi gettava verso
il mio passato.
C'era quei due brocchi.
Li empii di me: ma mi sentii diverso.
IV
Più dolce, o bimba, mi sentii: più manso.
Con gli anni feci le castagne.
Alcuna
ce n'è nei cardi.
Cerca.
A te le canso.
Le canso a te, mia pastorella bruna
che vieni qui per cogliere, e due volte
in cielo fare qui vedrai la luna.
Son mondinelle; tu le sai, n'hai colte.
Mòndano bene.
Esce da sé pulita
la carne, il buono, dalle vesti sciolte.
Tu le mondi per gli altri con le dita
svelte, seduta al fuoco, sul pannello.
Gli uomini stanno muti alla partita.
Quei giorni di novembre, che fa bello,
che si colma la botte del buon vino,
che, con indosso mezzo il suo mantello,
mezzo tra freddo e caldo è San Martino!...
V
Da quanti inverni vivo qui sublime!
E vidi tante creature bionde
venir su l'alba a cogliere le prime,
che poi con gli anni, esciti non so donde,
io li vedeva curvi bianchi tristi
ruspare lì, nei mucchi delle fronde,
l'ultime.
All'ultimo, io non li ho rivisti.
Non ne so nulla.
So che i coglitori
vengono e vanno, come tu venisti
e...
Ma quello che sempre, ai dì peggiori,
anche ho veduto, sia che nella bruma
la pioggia scrosci e che la neve sfiori,
è il fiato che nell'aria fredda fuma
dalla lor casa, il caldo alito, quando
il vecchio tramontano anche lui ruma
qua ne' frondai gridando e farfugliando...
VI
O fiamma allegra, che scricchioli e schiocchi,
scaldando i mesti vecchi, i bimbi savi,
da noi li avesti cioccatelle e ciocchi!
O casa buona, messa su dagli avi,
che pari il freddo, e brilli nella notte,
da noi li avesti travicelli e travi!
O mamma, che il laveggio ora o le cotte
metti all'uncino o sopra i capitoni,
da noi li avesti i necci e le ballotte!
O babbo, che nel mezzo al desco poni
il vinetto che sente un po' di rame,
da noi li avesti i pali ed i forconi!
E tu che mugli, mugli tu per fame
o per freddo, vacchina dello stento?
E da noi abbi i vincigli e lo strame...
mentre noi qui rabbrividiamo al vento.
VII
Io ne godeva.
Io amo chi mi coglie.
Ora, capanna casa fuoco vigna,
non do più frutto né legna né foglie.
Ora l'accétta scoprirà maligna
i miei segreti.
Ho dentro me dei bruchi
d'oro, che fanno, come uva, la pigna.
Aveva dentro, qua e là, nei buchi,
altri alati che nero di tra il musco
sporgeano il capo allo svolar dei fuchi.
Oh! da quanti anni sento nel mio rusco
sempre ronzare, e sempre nella state
cantarellare odo tra lusco e brusco!
Oh! scoprirà l'accétta, abbandonate
sopra lane di pioppi e ragnatele,
ovine acquide, avanzi di covate
di cinciallegre, e un gran favo di miele.
VIII
Quanto a me...
Quanto a me, mi schiapperanno
per il metato.
Prima lì nel mezzo
due ciocchi soli col pulacchio d'anno;
poi tutto v'entrerò pezzo per pezzo.
Le castagne seccate col castagno
vengono bianche e sono di più prezzo.
Ecco, il nostro fruttato io l'accompagno
anche in morte, morendo a poco a poco,
e di me l'uomo ha l'ultimo guadagno.
Mi sfarò piano, non sprizzerò fuoco
non farò vampa; adagio, come deve
un buon castagno vecchio che sa il giuoco.
Poi nel dì che si canta che si beve
che si picchia su l'aia del metato,
non sarò più.
Sarò cenere, lieve
cenere, buona per il tuo bucato.
IX
E il ceneraccio, al prato!...
Odimi.
Il fusto
è marcio, e non può darsi che ributti.
Gli dia l'accétta e l'accettino.
È giusto.
Ma vedrai, nella ceppa, che tra tutti
lo zio ralleverà qualche novello
che viva e cresca, che riscoppi e frutti.
Fa che salvi codesto, così snello,
che se tu venga quando avrai marito,
tu dica: È come il padre; anzi più bello!
Codesto, sì, costì, presso il tuo dito,
dove ho picchiato il cardo...
Oh! tuo zio!...
Digli:
Questo novello come cresce ardito!
che speriamo, io e tu, che mi somigli!
che dia su me, non dia su lui, l'accétta!
Ti farà le mondine pe' tuoi figli.
Diglielo!...
su...
Viola! Violetta!
L'ACCESTIRE
L'ALLORO
I
«Ecco l'orbaco:» disse Dore, entrando
con un ramo d'alloro umido in mano:
«prendete: io devo ritornar da Nando».
«A che fare?» la madre gridò.
«Piano
con le mie scarpe! So che il babbo è stanco:
ci vuole mezzo per calzarli il grano:
andranno scalzi! due siete ed un branco
parete!» L'uscio era socchiuso.
Fuori
era per tutto un gran barbaglio bianco.
La neve nascondea tutti i colori.
Su, v'appariva qualche fila nera
delle grandi orme degli agricoltori:
dove scendeva per veder se c'era
la terra più, dal tetto e dalla scala,
il passero: egli che avea messo a sera
tranquillamente il capo sotto l'ala.
II
«L'orbaco...» ripeté Dore, voltando
all'uscio aperto il suo nasetto rosso:
«devo aiutarlo: l'ho promesso, a Nando».
«A che fare? io lo so, mamma, e lo posso
dir io» fece Rosina: «hanno gli archetti
per pigliar qualche cincia e pettirosso!
Povere cincie! poveri uccelletti!
non hanno ove posare le zampine
nude! coperti i campi, alberi, tetti!
Non hanno che beccar, queste mattine:
né un pippolo né un becio: ecco, e costoro
tendono...
Oh! babbo è troppo buono, infine!»
Parlava, ed attendeva al suo lavoro,
stacciando su la conca alta la lieve
cenere.
E Dore le porgea l'alloro
di su l'uscio, tr
...
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