PRIMI POEMETTI, di Giovanni Pascoli - pagina 5
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Le dicean: «Non duole».
Era, la prima d'esse, Ursula pura,
lassù, che tuttavia lampade accese
splendeano in fila per la terra oscura.
Le vergini non tutte erano ascese.
Quella picchiò tre volte con lo stelo
del giglio.
E in terra Suor Virginia intese
quei colpettini al grande uscio del cielo.
VI
Tum tum...
- Di là, con tutto quel gran cielo
alla finestra, oh! trema come foglia
secca che prilla intorno a un ragnatelo,
la bimba, e bussa, e par ch'ora, sì, voglia
dirglielo: Madre, c'è uno laggiù:
chiuda! E volge gli aperti occhi alla soglia
dell'uscio: aspetta.
Ella non venne più.
Dov'era l'ombra, or sé la quercia spande
morta, né più coi turbini tenzona.
La gente dice: Or vedo: era pur grande!
Pendono qua e là dalla corona
i nidietti della primavera.
Dice la gente: Or vedo: era pur buona!
Ognuno loda, ognuno taglia.
A sera
ognuno col suo grave fascio va.
Nell'aria, un pianto...
d'una capinera
che cerca il nido che non troverà.
C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d'antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.
Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle quercie agita il vento.
Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
un'aria d'altro luogo e d'altro mese
e d'altra vita: un'aria celestina
che regga molte bianche ali sospese...
sì, gli aquiloni! È questa una mattina
che non c'è scuola.
Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d'albaspina.
Le siepi erano brulle, irte; ma c'era
d'autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera
bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.
Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.
Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza.
S'inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.
S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo
petto del bimbo e l'avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.
Più su, più su: già come un punto brilla
lassù lassù...
Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto...
- Chi strilla?
Sono le voci della camerata
mia: le conosco tutte all'improvviso,
una dolce, una acuta, una velata...
A uno a uno tutti vi ravviso,
o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
su l'omero il pallor muto del viso.
Sì: dissi sopra te l'orazïoni,
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni!
Tu eri tutto bianco, io mi rammento.
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.
Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!
Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi pètali un fiore
ancora in boccia! O morto giovinetto,
anch'io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto...
Meglio venirci ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gara per salire un colle!
Meglio venirci con la testa bionda,
che poi che fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co' bei capelli a onda
tua madre...
adagio, per non farti male.
IL VECCHIO CASTAGNO
E Viola tornò per coglitora,
dopo sementa, dal suo zio d'Albiano.
Ed ecco, i cardi non cadeano ancora.
E dava nel frattempo ella una mano
all'altre donne, e lungo il Rio con esse
facea brocche di càrpino e d'ontano.
Ora sfogliava le seconde mèsse,
dei gelsi, ora segava erba e trifoglio,
che la brinata non gliele cocesse.
Perché la bestia dice all'uomo: «Io voglio
l'ultime frasche, s'altri ebbe le prime.
A me l'avanzo, s'è di te il rigoglio!
Le pigne tu, le pampane io: le cime
io, tu le rappe.
Io do, se tu mi desti.
Fin che c'è verde, non mi dar guaime.
Padrone, c'è del verde, che tu pesti.
Menami alle covette della strada,
menami un poco nella selva ai cesti:
ai cesti ch'ora a tutto ciò che cada,
aprono i lor fioretti color carne;
e cade brina, che attendean rugiada».
Ed ella andava qualche volta a farne
per loro, e qualche volta, ch'era bello,
menava là le vaccherelle scarne.
E con loro godeva il solicello
di fin d'ottobre, tra i castagni, sotto
il re di tutti, un vecchio mondinello.
Sotto il re dei castagni, sur un grotto
pieno di musco, si sedea Viola,
col gomitolo, i ferri e un calzerotto.
E gettava alle bestie una parola,
anco un toffo di terra, anco due ghiare
con le sue mosse di canipaiola.
Ora un giorno che stava a lavorare
sotto il castagno, e che sotto i suoi sguardi
pendean le vacche dalle stipe amare,
dei tonfi udì, come se quei bastardi
fosser lì con sassetti e con pinelle,
chiotti, per darle briga...
Erano i cardi.
Cadeano giù con le castagne belle
e nere in bocca, che sul musco arsito
ruzzolavano fuori della pelle.
Udiva; e il gran castagno ecco sul dito
le picchiò con un cardo, anzi un pallone,
piccolo, giallo, chiuso.
Era un invito:
l'albero volea dir la sua ragione.
Alzò Viola, come se capisse,
gli occhi, poi li voltò: vide un piccone;
vide un'accétta.
E il vecchio re le disse:
le disse il re:
I
...Viola!...
Violetta!...
Non la vedi costì? C'è da stamani.
Ce l'ha lasciata il caro zio.
L'accétta!
La piglia su, domani, oggi, a due mani,
e picchia giù.
Dove ella picchia, guai
a quei frassini! tristi quelli ontani!
e quei castagni! Non credevi mai,
Violetta? Lo credo! Ero il più grande!
Sono il più vecchio.
Ella è per me: vedrai.
Si sa: la quercia deve dar le ghiande,
e il fico i fichi, ed il castagno i cardi.
Vivande, noi; solo il rosaio, ghirlande!
E i cardi son più pochi, ora, e se guardi,
non son più pieni, ch'io non ho più forza.
Io ho la lupa.
Ho messo poco e tardi.
Il vecchio re sente impassir la scorza!
II
E mi ricordo ch'ero il più piccino
del branco, quando venni qua; di tutto
quello d'allora.
Io, sai, nacqui a bacino,
di là del Rio.
Di là crescevo sdutto,
lungo, con molta frasca e molte polle.
All'ombra, messa tanta e poco frutto!
Qui, posto al sole, in cima in cima al colle,
mi dava noia, i primi anni, l'asprura.
Bramavo quel bel fresco, quel bel molle.
Ma poi con gli anni feci tiglia dura,
e il sole amai, che vaporava il fiato
nella florida mia capellatura.
A un fin di verno, un uomo col pennato
mi cuccò tutto per filo e per segno!
E io restai pulito e dicapato,
con due mazzette tra la buccia e il legno.
III
Vedi i due rami dalle mille vette,
anzi il doppio grande albero che porto
sul tronco? Sono quelle due mazzette.
Ché venne aprile, e io sentiva, assòrto,
dalle mie fibre risalire il succhio
cercando in alto ciò che m'era morto:
ciò che non era, là di lì, che un mucchio
di verghe dalla lunga acqua percosse,
cui s'attorceva l'ellera e il vilucchio.
Ma io sognava tuttavia che fosse
sopra il mio fusto, e che mettesse i fiocchi
verdicci dalle sue vermelle rosse.
Io mi spingeva tutto verso gli occhi
che non avevo; io mi gettava verso
il mio passato.
C'era quei due brocchi.
Li empii di me: ma mi sentii diverso.
IV
Più dolce, o bimba, mi sentii: più manso.
Con gli anni feci le castagne.
Alcuna
ce n'è nei cardi.
Cerca.
A te le canso.
Le canso a te, mia pastorella bruna
che vieni qui per cogliere, e due volte
in cielo fare qui vedrai la luna.
Son mondinelle; tu le sai, n'hai colte.
Mòndano bene.
Esce da sé pulita
la carne, il buono, dalle vesti sciolte.
Tu le mondi per gli altri con le dita
svelte, seduta al fuoco, sul pannello.
Gli uomini stanno muti alla partita.
Quei giorni di novembre, che fa bello,
che si colma la botte del buon vino,
che, con indosso mezzo il suo mantello,
mezzo tra freddo e caldo è San Martino!...
V
Da quanti inverni vivo qui sublime!
E vidi tante creature bionde
venir su l'alba a cogliere le prime,
che poi con gli anni, esciti non so donde,
io li vedeva curvi bianchi tristi
ruspare lì, nei mucchi delle fronde,
l'ultime.
All'ultimo, io non li ho rivisti.
Non ne so nulla.
So che i coglitori
vengono e vanno, come tu venisti
e...
Ma quello che sempre, ai dì peggiori,
anche ho veduto, sia che nella bruma
la pioggia scrosci e che la neve sfiori,
è il fiato che nell'aria fredda fuma
dalla lor casa, il caldo alito, quando
il vecchio tramontano anche lui ruma
qua ne' frondai gridando e farfugliando...
VI
O fiamma allegra, che scricchioli e schiocchi,
scaldando i mesti vecchi, i bimbi savi,
da noi li avesti cioccatelle e ciocchi!
O casa buona, messa su dagli avi,
che pari il freddo, e brilli nella notte,
da noi li avesti travicelli e travi!
O mamma, che il laveggio ora o le cotte
metti all'uncino o sopra i capitoni,
da noi li avesti i necci e le ballotte!
O babbo, che nel mezzo al desco poni
il vinetto che sente un po' di rame,
da noi li avesti i pali ed i forconi!
E tu che mugli, mugli tu per fame
o per freddo, vacchina dello stento?
E da noi abbi i vincigli e lo strame...
mentre noi qui rabbrividiamo al vento.
VII
Io ne godeva.
Io amo chi mi coglie.
Ora, capanna casa fuoco vigna,
non do più frutto né legna né foglie.
Ora l'accétta scoprirà maligna
i miei segreti.
Ho dentro me dei bruchi
d'oro, che fanno, come uva, la pigna.
Aveva dentro, qua e là, nei buchi,
altri alati che nero di tra il musco
sporgeano il capo allo svolar dei fuchi.
Oh! da quanti anni sento nel mio rusco
sempre ronzare, e sempre nella state
cantarellare odo tra lusco e brusco!
Oh! scoprirà l'accétta, abbandonate
sopra lane di pioppi e ragnatele,
ovine acquide, avanzi di covate
di cinciallegre, e un gran favo di miele.
VIII
Quanto a me...
Quanto a me, mi schiapperanno
per il metato.
Prima lì nel mezzo
due ciocchi soli col pulacchio d'anno;
poi tutto v'entrerò pezzo per pezzo.
Le castagne seccate col castagno
vengono bianche e sono di più prezzo.
Ecco, il nostro fruttato io l'accompagno
anche in morte, morendo a poco a poco,
e di me l'uomo ha l'ultimo guadagno.
Mi sfarò piano, non sprizzerò fuoco
non farò vampa; adagio, come deve
un buon castagno vecchio che sa il giuoco.
Poi nel dì che si canta che si beve
che si picchia su l'aia del metato,
non sarò più.
Sarò cenere, lieve
cenere, buona per il tuo bucato.
IX
E il ceneraccio, al prato!...
Odimi.
Il fusto
è marcio, e non può darsi che ributti.
Gli dia l'accétta e l'accettino.
È giusto.
Ma vedrai, nella ceppa, che tra tutti
lo zio ralleverà qualche novello
che viva e cresca, che riscoppi e frutti.
Fa che salvi codesto, così snello,
che se tu venga quando avrai marito,
tu dica: È come il padre; anzi più bello!
Codesto, sì, costì, presso il tuo dito,
dove ho picchiato il cardo...
Oh! tuo zio!...
Digli:
Questo novello come cresce ardito!
che speriamo, io e tu, che mi somigli!
che dia su me, non dia su lui, l'accétta!
Ti farà le mondine pe' tuoi figli.
Diglielo!...
su...
Viola! Violetta!
L'ACCESTIRE
L'ALLORO
I
«Ecco l'orbaco:» disse Dore, entrando
con un ramo d'alloro umido in mano:
«prendete: io devo ritornar da Nando».
«A che fare?» la madre gridò.
«Piano
con le mie scarpe! So che il babbo è stanco:
ci vuole mezzo per calzarli il grano:
andranno scalzi! due siete ed un branco
parete!» L'uscio era socchiuso.
Fuori
era per tutto un gran barbaglio bianco.
La neve nascondea tutti i colori.
Su, v'appariva qualche fila nera
delle grandi orme degli agricoltori:
dove scendeva per veder se c'era
la terra più, dal tetto e dalla scala,
il passero: egli che avea messo a sera
tranquillamente il capo sotto l'ala.
II
«L'orbaco...» ripeté Dore, voltando
all'uscio aperto il suo nasetto rosso:
«devo aiutarlo: l'ho promesso, a Nando».
«A che fare? io lo so, mamma, e lo posso
dir io» fece Rosina: «hanno gli archetti
per pigliar qualche cincia e pettirosso!
Povere cincie! poveri uccelletti!
non hanno ove posare le zampine
nude! coperti i campi, alberi, tetti!
Non hanno che beccar, queste mattine:
né un pippolo né un becio: ecco, e costoro
tendono...
Oh! babbo è troppo buono, infine!»
Parlava, ed attendeva al suo lavoro,
stacciando su la conca alta la lieve
cenere.
E Dore le porgea l'alloro
di su l'uscio, tra un gran bianco di neve.
III
«L'orbaco...».
«Dà».
Lei prese il ramoscello,
e lui sparì.
Ma non pensava a loro
più Rosa bionda.
Era il suo giorno, quello.
Poco era il giorno e molto era il lavoro:
la falce è grande, ma più grande il prato.
E su la conca ella sfogliò l'alloro,
perché sapesse odore il suo bucato.
IL BUCATO
I
Viola entrò col secchio su la testa,
e su gli arguti zoccoli ristette
presso la conca, e disse: «Ora sei lesta?»
«Mamma!» Rosa chiamò «non ci si mette
due gusci d'ova?» Rientrava lenta
la madre con un suo fascio di vette.
«Eccoli» disse.
«Quella legna stenta
a prender fuoco, e questa era pel forno;
ma la riposi dopo la sementa:
è asciutta bene.
Il babbo cerca, intorno
casa, quel ciocco (dov'è mai?) del pero
dal vischio.
Oggi ce n'è per tutto il giorno.
E i ragazzi, io mi struggo, io mi dispero,
rincaseranno fradici, se pure...
Ma sento (se Dio vuole, ecco un pensiero
di meno) il babbo lavorar di scure».
II
«Sei lesta, ora?» «Un minuto anche, Viola».
Rosa corse al telaio, ed il cannello
vuoto cavò dalla sua liscia spola.
E Viola dicea: «Mamma, il vitello,
lo venderà? Vedeste come viene!
e, mamma, è così manso, è così bello!
Tra la sua madre e me, vuole più bene,
credete, a me».
Rispose ella: «E le tasse?
Figlia, chi disse pane, disse pene.
Il babbo ha detto: l'acque sono basse...»
E Viola pensava, e la Turella
mugliava di laggiù, come ascoltasse.
Rosa intanto ponea la catinella
sotto il bocciolo, e poi levata in piedi,
vedendo gli occhi della sua sorella,
esclamò: «Meglio non averli, i redi!»
III
«Ora?» «Sì: versa a modo: ecco!» Con molle
gorgoglio su la cenere quell'onda
fredda scorreva tra cerulee bolle;
e poi spariva; e giù per la profonda
conca invadeva i panni...
che parenti
erano anch'essi, e su la stessa sponda
vedevi insieme poi ruzzare ai venti.
LA BOLLITURA
I
Già: sciorinati su la stessa siepe
sono come una greggia che soletta
beva ad un pozzo e mangi ad un presèpe.
Ma non lontana è l'umile casetta
con gli occhi aperti delle sue finestre,
che veglia il dì, che a sera poi li aspetta.
Essi appartati dalle vie maestre,
piccoli e grandi stanno insieme al sole,
empiendo di fruscìo l'angolo alpestre.
Stridono appena, là con loro, sole
le foglie secche, e v'è col bianco odore
della tela l'odor delle viole.
Ma s'imbevono d'acqua, ora, per ore,
tiepida prima, e quindi a poco a poco
più calda, e quindi tolta via col fiore
nel paiolo che brontola sul fuoco.
II
Li coglierete quando il sole sfiora
i monti aguzzi, voi, Rosa e Viola,
e vostra madre.
È dolce assai quell'ora.
Mamma coglie, con qualche sua parola,
i suoi mazzetti, e voi sul greppo liete
stirate le schioccanti ampie lenzuola.
Ripasserete il tutto e riporrete,
troppo per l'ago e poco pel bisogno,
dentro il comune canteral d'abete;
dove poi dorme, e sempre vede in sogno
la soave domenica, piegato
in odore di spigo e di cotogno.
Ma or di ranno imbevesi il bucato;
e il ranno dal paiòl nero, quand'alza
la schiuma, su la conca alta versato,
sgorga dal fondo e scivola e rimbalza.
III
E la cucina tutto il dì fu piena
del casalingo e tacito lavoro,
e il paiolo pendé dalla catena.
E c'era odor di cenere e d'alloro,
e il fuoco ardeva.
Giù la tramontana
scendea mugliando; ed un tin tin sonoro
s'udiva intanto come di fontana.
LA CANZONE DEL BUCATO
I
Quel tintinno diceva: - Era l'estate:
le cicale cantavano sui meli:
bianca famiglia, voi dove eravate?
Certo nei campi: lunghi e verdi steli
col fiore in cima: ondoleggiando allora
non pensavate a diventar dei teli.
Venne l'autunno: usciste d'una gora
umidi e bianchi: bianchi sì, ma canne
dal fiume usciste a riveder l'aurora.
E poi sembraste piccole capanne
là sul greto tra i ciottoli e le ghiaie,
ritte sui piedi delle quattro manne.
Sonava presso voi nelle pescaie
il cadenzato canto delle rane,
pari a quello che poi venne dall'aie,
chiaro gracchiar di gramole lontane.
II
Venne l'inverno; e vennero al camino
l'esili nonne, con una gran ciocca
bianca, e ciascuna con un suo piccino;
un piccino che ronza e che non tocca
mai terra, eppure, non va mai lontano,
frullando giù col filo nella cócca.
Con queste rócche venne poi pian piano
lo stridulo arcolaio; e le sorelle
dietro si corsero corsero invano.
E il telaio sonò tra le procelle:
rumoreggiava tutta la contrada
di battenti, di calcole e girelle.
Dopo tanto rumore; alla rugiada,
sul verde prato, in una rosea sera,
diritta e lunga, simile a una strada,
c'era la tela; ed era primavera.
III
Sopra le margherite e sopra il timo
stava la tela, e si vedea lì presso
un canapaio nero ancor di fimo.
E la luna pendea sopra il cipresso
e tu guardavi quella strada, o Rosa,
lunga, e quel campo, dove a quel riflesso
il tuo corredo già nascea, di sposa.
-
LA VEGLIA
I
Canticchiò la fontana tutto il giorno
tra sé e sé, gemendo dal bocciuolo,
salutando ciascuno al suo ritorno.
Con l'arruffato brivido del volo
vennero i figli, mentre soli i ciocchi
ardean russando a quel ciangottar solo.
Venne il babbo; e, le mani sui ginocchi,
sedea pensando, mentre dal cantone
le monachine rincorrea con gli occhi.
Il piede avea sopra un capitone
del focolare, dove ardean russando
i ciocchi; e lo vincea quella canzone.
Dolce obliar la vanga a quando a quando,
fin ch'è lungi la prima acqua d'aprile...
Egli ascoltava quel gorgoglio blando,
le mani all'asta e il piede sul vangile.
II
Alzava il capo al rientrar sonoro
di frettolosi zoccoli; ed apriva
gli occhi, e lasciava a mezzo il suo lavoro.
La vanga rimanea presso un'oliva.
Ma ecco, a poco a poco e in un momento,
si trovava le mani su la stiva.
E l'aratro strideva col lamento
di legna verde, e per il solco duro
muggìan le vacche a lungo, come il vento
di tramontana.
E poi tra lume e scuro
si ritrovava, uscito alfin di pena,
nel suo cantuccio placido e sicuro.
Si fece buio, e la lucerna, piena
d'olio, brillò; più vivo il focolare
brillò; si cosse e si mangiò la cena;
e poi le rócche vennero a vegliare.
III
E venne Rigo.
E venne il vino arzillo,
e bevve ognuno: il vino aspro, raccolto
quando nei campi già piangeva il grillo.
E allora il babbo ragionò, rivolto
verso le rócche.
E Rigo ancor, per uso,
guardava a quelle, tacito, in ascolto
dell'incessante sibilar d'un fuso.
GRANO E VINO
I
«Oh! il campetto con siepe e con fossetto!
Nel verno io voglio, ch'io non son cicala,
il mio grano con me sotto il mio tetto.
Il buon odor di pane che si esala
da quel brusìo di mille chicchi d'oro,
quando il mio mucchio muovo con la pala!
Caro il mio grano! Quando il mio tesoro
mando al mulino, se ne va, sì, questo;
ma quello nasce sotto il mio lavoro.
Io le mie braccia, Dio ci mette il resto.
Me ne sa male; ed ecco che ogni staio
che mando, dice: - Mandami: fo cesto;
mandami: imboccio.
- Io mando al buon mugnaio.
- Mandami: impongo; mandami: rassodo.
-
Poi, quando nulla resta nel solaio,
l'ultimo dice: - To' la falce: a modo! -
II
Lodo la spiga e lodo ancor la pigna.
Ma la pigna e la spiga hanno gran liti
tra loro.
- Io non vo' grano nella vigna.
Padrone, su le prode io non vo' viti:
se lo bei, non lo mangi.
- Io non do noia:
tanto mi tagli, quando mi mariti! -
È infida...
- Ogni anno ella convien che muoia.
-
Sempre soffietti...
- E ari a capo chino.
-
Io sono la tua vita.
- Io la tua gioia.
-
Tua carne è il pane.
- Ma tuo sangue, il vino.
-
Che odore sa l'odore di pan fresco! -
E che cantare fa cantar di tino! -
Io son di casa.
- Io più, che mai non esco:
tu mi macini in casa co' tuoi piedi.
-
Tu, con me solo, puoi sederti a desco.
-
Ti levi, senza me, come ti siedi.
-
III
Tu pigna dura per insù, tu molle
spiga all'ingiù, vivete dunque in pace!
Per l'una il piano, sia per l'altra il colle.
Io la madia e la botte amo; e il loquace
tino ben canta, e bene odora il forno:
io ridirvi non so quanto mi piace
il vin d'un anno con il pan d'un giorno!»
L'OLIVETA E L'ORTO
I
E come li amo que' miei quattro olivi,
che al potatoio (sono morinelli)
gridano ogni anno: - Buon per te, se arrivi! -
Nonno di nonno li piantò; ma quelli
buttano ancor la mignola, mentr'esso
da un po' non sente cinguettar gli uccelli!
E ne vengono, sì, sopra il cipresso,
là, verso sera! Ed esso è là; ma sento
che verso sera è qui con noi, qui presso.
Tra lusco e brusco, egli entra lento lento,
venendo bianco dalla vita eterna,
e versa l'olio con un viso attento.
È lui, che il nostro lume anco governa
con que' suoi vecchi olivi: e quando l'Ave-
maria rintocca, e splende la lucerna,
- Filate, o donne, - mormora - da brave! -
II
E come l'amo il mio cantuccio d'orto,
col suo radicchio che convien ch'io tagli
via via; che appena morto, ecco è risorto:
o primavera! con quel verde d'agli,
coi papaveri rossi, la cui testa
suona coi chicchi, simile a sonagli;
con le cipolle di cui fo la resta
per San Giovanni; con lo spigo buono,
che sa di bianco e rende odor di festa;
coi riccioluti càvoli, che sono
neri, ma buoni; e quelle mie viole
gialle, ch'hanno un odore...
come il suono
dei vespri, dopo mezzogiorno, al sole
nuovo d'aprile; ed alto, co' suoi capi
rotondi, d'oro, il grande girasole
ch'è sempre pieno del ronzìo dell'api!
III
E amo tutto: i vetrici ed i salci,
che ripulisco ogni anno d'ogni vetta
per farne i torchi da legare i tralci;
quella fila di gattici soletta,
alta e lunga, su cui cantano i chiù;
il canneto che stride e che scoppietta:
ma non sapete quello ch'amo più
LA SIEPE
I
Siepe del mio campetto, utile e pia,
che al campo sei come l'anello al dito,
che dice mia la donna che fu mia
(ch'io pur ti sono florido marito,
o bruna terra ubbidïente, che ami
chi ti piagò col vomero brunito...);
siepe che il passo chiudi co' tuoi rami
irsuti al ladro dormi 'l-dì; ma dài
ricetto ai nidi e pascolo a gli sciami;
siepe che rinforzai, che ripiantai,
quando crebbe famiglia, a mano a mano,
più lieto sempre e non più ricco mai;
d'albaspina, marruche e melograno,
tra cui la madreselva odorerà
io per te vivo libero e sovrano,
verde muraglia della mia città.
II
Oh! tu sei buona! Ha sete il passeggero;
e tu cedi i tuoi chicchi alla sua sete,
ma salvi il frutto pendulo del pero.
Nulla fornisci alle anfore segrete
della massaia: ma per te, felice
ella i ciliegi popolosi miete.
Nulla tu rendi; ma la vite dice;
quando la poto all'orlo della strada,
che si sente il cucùlo alla pendice,
dice: - Il padre tu sei che, se t'aggrada,
sì mi correggi e guidi per il pioppo;
ma la siepe è la madre che mi bada.
-
- Per lei vino ho nel tino, olio nel coppo -
rispondo.
I galli plaudono dall'aia;
e lieto il cane, che non è di troppo,
ch'è la tua voce, o muta siepe, abbaia.
III
E tu pur, siepe, immobile al confine,
tu parli; breve parli tu, ché, fuori,
dici un divieto acuto come spine;
dentro, un assenso bello come fiori;
siepe forte ad altrui, siepe a me pia,
come la fede che donai con gli ori,
che dice mia la donna che fu mia.
ACCESTISCE
I
Egli parlava; e vennero i pisani:
presero Dore, adagio su le braccia:
- Vi si riporterà, gente, domani! -
Nando riprese allora la sua caccia.
Viola lo seguì con la Turella
pascendo i timi giù per la Pianaccia.
Ma gli occhi aperti Rosa, la sorella
bionda, teneva.
Ella tra sé romita
faceva e disfaceva una mannella.
Sembravano un veloce aspo le dita
silenzïose.
Rigo s'era fatto
più presso: «Ed ora, sola è la mia vita!»
S'udiva solo quel parlare.
Un gatto
ronfava.
La lucerna ora dimessa
sfriggeva, ora guizzava alto d'un tratto,
come in un sogno: ché dormiva anch'essa.
II
«...
E fate a modo!» Rigo uscì.
Non c'era
per la campagna bianca che lui solo
e l'ombra sua che lo seguiva nera.
Splendea la luna su quel gran lenzuolo
candido, come, accanto un letto, il lume
dimenticato; e scricchiolava il suolo
sotto i suoi passi; e brontolava il fiume
là là: le giravolte sue lontane
mostrava appena un vago fior di brume.
Pestava un altro su la neve: un cane;
Po: gli strisciò le gambe.
Ecco che intese
un arrochito suono di campane.
Mezzanotte.
Ogni casa, ogni paese
dormiva.
Egli era nella via maestra:
guardava in alto, donde già discese:
c'era un lume, un lumino, alla finestra.
III
E c'era un'ombra.
Egli vedeva.
Ed ella
vedeva.
E fece un segno colla mano.
L'ombra sparì: si spense la fiammella.
E la sua strada seguitò pian piano,
e ripensava dentro sé: che cosa?
Ch'era gennaio...
ch'accestiva il grano...
ch'era già tardi...
ch'eri bella, o Rosa!
I DUE FANCIULLI - I DUE ORFANI
I DUE FANCIULLI
I
Era il tramonto: ai garruli trastulli
erano intenti, nella pace d'oro
dell'ombroso viale, i due fanciulli.
Nel gioco, serio al pari d'un lavoro,
corsero a un tratto, con stupor de' tigli,
tra lor parole grandi più di loro.
A sé videro nuovi occhi, cipigli
non più veduti, e l'uno e l'altro, esangue,
ne' tenui diti si trovò gli artigli,
e in cuore un'acre bramosia di sangue,
e lo videro fuori, essi, i fratelli,
l'uno dell'altro per il volto, il sangue!
Ma tu, pallida (oh! i tuoi cari capelli
strappati e pésti!), o madre pia, venivi
su loro, e li staccavi, i lioncelli,
ed «A letto» intimasti «ora, cattivi!»
II
A letto, il buio li fasciò, gremito
d'ombre più dense; vaghe ombre, che pare
che d'ogni angolo al labbro alzino il dito.
Via via fece più grosse onde e più rare
il lor singhiozzo, per non so che nero
che nel silenzio si sentia passare.
L'uno si volse, e l'altro ancor, leggero:
nel buio udì l'un cuore, non lontano
il calpestìo dell'altro passeggero.
Dopo breve ora, tacita, pian piano,
venne la madre, ed esplorò col lume
velato un poco dalla rosea mano.
Guardò sospesa; e buoni oltre il costume
dormir li vide, l'uno all'altro stretto
con le sue bianche aluccie senza piume;
e rincalzò, con un sorriso, il letto.
III
Uomini, nella truce ora dei lupi,
pensate all'ombra del destino ignoto
che ne circonda, e a' silenzi cupi
che regnano oltre il breve suon del moto
vostro e il fragore della vostra guerra,
ronzio d'un'ape dentro il bugno vuoto.
Uomini, pace! Nella prona terra
troppo è il mistero; e solo chi procaccia
d'aver fratelli in suo timor, non erra.
Pace, fratelli! e fate che le braccia
ch'ora o poi tenderete ai più vicini,
non sappiano la lotta e la minaccia.
E buoni veda voi dormir nei lini
placidi e bianchi, quando non intesa,
quando non vista, sopra voi si chini
la Morte con la sua lampada accesa.
NELLA NEBBIA
E guardai nella valle: era sparito
tutto! sommerso! Era un gran mare piano,
grigio, senz'onde, senza lidi, unito.
E c'era appena, qua e là, lo strano
vocìo di gridi piccoli e selvaggi:
uccelli spersi per quel mondo vano.
E alto, in cielo, scheletri di faggi,
come sospesi, e sogni di rovine
e di silenzïosi eremitaggi.
Ed un cane uggiolava senza fine,
né seppi donde, forse a certe péste
che sentii, né lontane né vicine;
eco di péste né tarde né preste,
alterne, eterne.
E io laggiù guardai:
nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.
Chiesero i sogni di rovine: - Mai
non giungerà? - Gli scheletri di piante
chiesero: - E tu chi sei, che sempre vai? -
Io, forse, un'ombra vidi, un'ombra errante
con sopra il capo un largo fascio.
Vidi,
e più non vidi, nello stesso istante.
Sentii soltanto gl'inquïeti gridi
d'uccelli spersi, l'uggiolar del cane,
e, per il mar senz'onde e senza lidi,
le péste né vicine né lontane.
LA GRANDE ASPIRAZIONE
Un desiderio che non ha parole
v'urge, tra i ceppi della terra nera
e la raggiante libertà del sole.
Voi vi torcete come chi dispera,
alberi schiavi! Dispergendo al cielo
l'ombra de' rami lenta e prigioniera,
e movendo con vane orme lo stelo
dentro la terra, sembra che v'accori
un desiderio senza fine anelo.
- Ali e non rami! piedi e non errori
ciechi di ignave radiche! - poi dite
con improvvisa melodia di fiori.
Lontano io vedo voi chiamar con mite
solco d'odore; vedo voi lontano
cennar con fiamme piccole, infinite.
E l'uomo, alberi, l'uomo, albero strano
che, sì, cammina, altro non può, che vuole;
e schiavi abbiamo, per il sogno vano,
noi nostri fiori, voi vostre parole.
L'IMMORTALITÀ
I
Poeta Omar, pupilla solitaria
che vede e splende, che contempla e crea,
diceva avanti il mausoleo di Caria:
«Non mescerai la polvere all'idea!
Misero te, cui nella rupe piace
scoprir la bianca faretrata dea!
e te che il fosco eroe dalla fornace
susciti vivo sopra il suo cavallo
che ringhia! Il tempo che cammina e tace,
rode il tuo marmo, lima il tuo metallo.
II
Tra mille, tra duemila anni, tra poco,
l'eroe sarà nella volante arena,
sarà la dea ne' grappoli di fuoco!
Misero! Ma quest'opera serena,
fatta d'anima pura e di parole,
beltà dal tempo e dalla morte ha lena:
vive la vita lucida del sole».
III
«Dunque morrà!» rispose Abdul, quïeta
pupilla, su cui getta ombre il fulgore
del cielo immenso: «Il sol morrà, poeta!
Quando? Tu conta i bàttiti al tuo cuore:
secoli sono i palpiti del sole;
ma sono, istanti e secoli, a chi muore,
o poeta, una cosa e due parole!»
IV
Disse.
E al poeta il breve inno non piacque
mai più.
Godé del cielo egli e del suolo,
di brevi rose e brevi trilli; e tacque.
Moriva; e disse, mentre un usignolo
cantava ancora ne' verzieri suoi:
«Giova ciò solo che non muore, e solo
per noi non muore, ciò che muor con noi».
IL LIBRO
I
Sopra il leggìo di quercia è nell'altana,
aperto, il libro.
Quella quercia ancora,
esercitata dalla tramontana,
viveva nella sua selva sonora;
e quel libro era antico.
Eccolo: aperto,
sembra che ascolti il tarlo che lavora.
E sembra ch'uno (donde mai? non, certo,
dal tremulo uscio, cui tentenna il vento
delle montagne e il vento del deserto,
sorti d'un tratto...) sia venuto, e lento
sfogli - se n'ode il crepitar leggiero -
le carte.
E l'uomo non vedo io: lo sento,
invisibile, là, come il pensiero...
II
Un uomo è là, che sfoglia dalla prima
carta all'estrema, rapido, e pian piano
va, dall'estrema, a ritrovar la prima.
E poi nell'ira del cercar suo vano
volta i fragili fogli a venti, a trenta,
a cento, con l'impazïente mano.
E poi li volge a uno a uno, lenta-
mente, esitando; ma via via più forte,
più presto, i fogli contro i fogli avventa.
Sosta...
Trovò? Non gemono le porte
più, tutto oscilla in un silenzio austero.
Legge?...
Un istante; e volta le contorte
pagine, e torna ad inseguire il vero.
III
E sfoglia ancora; al vespro, che da nere
nubi rosseggia; tra un errar di tuoni,
tra un alïare come di chimere.
E sfoglia ancora, mentre i padiglioni
tumidi al vento l'ombra tende, e viene
con le deserte costellazïoni
la sacra notte.
Ancora e sempre: bene
io n'odo il crepito arido tra canti
lunghi nel cielo come di sirene.
Sempre.
Io lo sento, tra le voci erranti,
invisibile, là, come il pensiero,
che sfoglia, avanti indietro, indietro avanti,
sotto le stelle, il libro del mistero.
LA FELICITÀ
«Quella, tu dici, che inseguii, non era
lei...?» «No: era una vana ombra in sembiante
di quella che ciascuno ama e che spera
e che perde.
Virtù di negromante!»
«Ella è qui, nel castello arduo ch'entrai?»
«Forse la tocchi, o cavaliere errante!»
«Forse...
E non la vedrò?» «Non la vedrai».
«Oh!» «Tale è l'arte dell'oscuro Atlante:
non è, la vedi: è, non la vedi».
«E, mai...?»
«Ma sì: se leggi in questo libro tante
rapide righe».
«E dicono...?» «S'ignora:
chi lesse, tacque, o cavaliere errante!»
«Se leggo...» «Sai: l'incanto è rotto».
«Allora?»
«La vedrai».
«Su l'istante?» «In quell'istante!»
«E il castello?» «Nell'ombra esso vapora».
«Ed è?...» «La Vita, o cavaliere errante!»
IL CIECO
I
Chi l'udì prima piangere? Fu l'alba.
Egli piangeva; e, per udirlo, ascese
qualche ramarro per una vitalba.
E stettero, per breve ora, sospese
su quel capo due grandi aquile fosche.
Presso era un cane, con le zampe tese
all'aria, morto: tra un ronzìo di mosche.
II
«Donde venni non so; né dove io vada
saper m'è dato.
Il filo del pensiero
che mi reggeva, per la cieca strada,
da voci a voci, dal dì nero al nero
tacer notturno (m'addormii; sognai:
vedevo in sogno che vedevo il vero:
desto, più non lo so, né saprò mai...);
III
nel chiaro sonno, in mezzo a un rombo d'api,
si ruppe il tenue filo.
E poi che gli occhi
apersi, cerco i due penduli capi
in vano.
Mi levai sopra i ginocchi,
mi levai su' due piedi.
E l'aria in vano
nera palpo, e la terra anche, s'io tocchi
pure il guinzaglio, cui lasciò la mano
IV
addormentata.
Oh! non credo io che dorma
la mia guida, e con lieve squittir segua
nel chiaro sonno il lieve odor d'un'orma!
Egli è fuggito; è vano che l'insegua
per l'ombra il suono delle mie parole!
Oh! la lunga ombra che non mai dilegua
per la sempre aspettata alba d'un sole,
V
che di là brilla! Vano il grido, vano
il pianto.
Io sono il solo dei viventi,
lontano a tutti ed anche a me lontano.
Io so che in alto scivolano i venti,
e vanno e vanno senza trovar l'eco,
a cui frangere alfine i miei lamenti;
a cui portare il murmure del cieco...
VI
Ma forse uno m'ascolta; uno mi vede,
invisibile.
Sé dentro sé cela.
Sogghigni? piangi? m'ami? odii? Siede
in faccia a me.
Chi che tu sia, rivela
chi sei: dimmi se il cuor ti si compiace
o si compiange della mia querela!
Egli mi guarda immobilmente, e tace.
VII
O forse una mi vede, una m'ascolta,
invisibile.
È grande, orrida: il vento
le va fremendo tra la chioma folta.
Siede e mi guarda.
O tu che ignoro e sento,
dimmi se guerra hai tu negli occhi o pace!
dimmi ove sono! Ed essa è là, col mento
sopra la palma, che mi guarda, e tace.
VII
Chi che tu sia, che non vedo io, che vedi
me, parla dunque: dove sono? Io voglio
cansar l'abisso che mi sento ai piedi...
di fronte? a tergo? Parlami.
Il gorgoglio
n'odo incessante; e d'ogni intorno pare
che venga; ed io qui sto, come uno scoglio,
tra un nero immenso fluttuar di mare».
IX
Così piangeva: e l'aurea sera nelle
rughe gli ardea del viso; e la rugiada
sopra il suo capo piovvero le stelle.
Ed egli stava, irresoluto, a bada
del nullo abisso, e gli occhi intorno, pieni
d'oblìo, volgeva; fin ch' - io so la strada -
una, la Morte, gli sussurrò - vieni! -
L'EREMITA
I
Pregava all'alba il pallido eremita:
«Dio, non negare il sale alla mia mensa,
non negare il dolore alla mia vita.
Ma del dolore che quaggiù dispensa
la tua celeste provvidenza buona,
a me risparmia il reo dolor che pensa.
O, s'è destino, per di più mi dona,
con quel che pensa, anche il dolor che grida:
l'afa che opprime, il nuvolo che tuona;
pensier che strugga e folgore che uccida!»
II
E ripregava a mezzodì: «Rimane,
Dio, che tu lasci che il nemico muto
pur mandi a me le nudità sue vane.
Quando al vespro del mio dì combattuto
dilegueranno, io penserò che, vere,
le avrei non meno dileguar veduto.
Nel cuore sono due vanità nere
l'ombra del sogno e l'ombra della cosa;
ma questa è il buio a chi desìa vedere,
e quella il rezzo a chi stanco riposa».
III
A sera, disse: «Il servo, umile e grato,
ti benedice! Tu mi desti, o Dio,
l'aver provato e non aver peccato.
L'anima mia tu percotesti e il mio
corpo di tanto e tal dolor ch'è d'ogni
dolcezza assai più dolce ora l'oblìo.
Infelice cui l'occhio apresi ai sogni,
apresi nella grande ombra che tace,
sia che già tema, sia che sempre agogni!
Piansi, non piango: io dormirò: sia pace!»
IV
E velò gli occhi il pallido eremita.
Ed ecco gli fluìa per i precordi
il dolce sonno della stanca vita;
quando riscosso (egli scendeva a fior di
grandi acque mute su labile nave)
gridò: «Signore, fa ch'io mi ricordi!
Dio, fa che sogni! Nulla è più soave,
Dio, che la fine del dolor; ma molto
duole obliarlo; ché gettare è grave
il fior che solo odora quando è colto».
L'ASINO
I
L'asino...
Parmi adesso: era una sera
d'ottobre, nella strada di Sogliano.
Cigolava per l'erta la corriera.
E io guardavo dietro me, nel piano,
dove San Mauro mio già non appare
- oh! mio nido di lodola tra il grano! -
dove tra il verde luccica, e tra chiare
brecce di ville borghi città, drago
addormentato dal cantar del mare,
la Marecchia argentina.
E quando pago
fui della vista, mi rivolsi e, nero
come uno scoglio per un roseo lago,
nero sopra un trascolorar leggiero
di tutto il cielo, come un'ombra netta,
nero e fermo lassù come un mistero,
l'asino vidi con la sua carretta.
II
Non altro? No.
Da non so qual pendice
veniva un canto di vendemmiatore,
veniva un canto di vendemmiatrice:
veniva or sì, or no, tra lo stridore
delle ruote.
Sentii queste parole:
- E m'hanno detto ch'è morto l'amore...
-
Io, sole queste; ma non queste sole
l'asino che lassù stava, annerando
dentro il morire fulgido del sole.
Pur non vibrava, vidi, a quando a quando
l'orecchie della lunga ombra per quello
stornellamento così lungo e blando;
sì le volgeva appena a un ritornello
or chiaro come d'anelante piva,
or aspro come d'avido succhiello...
Su la carretta il carrettier dormiva.
III
Russava nella strada solitaria
Schiuma, lo scalzo e rauco pesciaiolo,
tuo figlio, o di marruche irta Bellaria.
Lo prese e vinse il vino di Bagnolo
nel suo ritorno; e l'altro, a poco a poco
per non più fare la sua via da solo
(senza il bastone!), si fermò tra il fuoco
del vespro.
Dietro, delle ondanti gote
egli ascoltava il buffar grande e roco.
L'uno dormiva su le ceste vuote,
vidi passando: e l'asino, St! dorme!
parve accennare alle sonore ruote.
L'un su le ceste, e su le sue quattro orme
l'altro, non meno immobile del primo.
Soltanto l'ombra sua, lunga e deforme,
pasceva al greppo un vago odor di timo.
IV
E l'uomo, con la cara anima invasa
d'oblìo, dormiva nella via maestra;
ma già la moglie l'attendeva in casa.
Fosse andato pur là dove è maestra
gente in far teglie, sotto cui bel bello
scoppietti il pungitopo e la ginestra;
a Montetiffi; o dove, a Montebello,
passero solitario, ancor per uso
torni nel solitario tuo castello;
già l'attendeva; e la capanna al Luso
più non udiva dell'industre moglie
il fremebondo vortice del fuso;
ch'ella destava il fuoco già, con foglie
secche, e stacciava, e poi metteva il piede
fuori, e le donne assise su le soglie
interrogava ad or ad or: Si vede?
V
Ma l'uomo era lassù, lungi dal mare,
sul monte azzurro; e nol sapea: pian piano
credea seguire il suo tranquillo andare.
Anzi, calava d'un buon passo al piano:
già balzellando si sentì di sotto
le tue selci sonanti, o Savignano.
Anzi, a San Mauro s'era già condotto;
e sentiva sonar l'Avemaria,
grave e soave, tra il fragor del trotto.
Anzi, alla Torre: e nella nera ombrìa
del parco udiva un ultimo fringuello,
mentre al galoppo egli svoltò la via.
Anzi, era giunto: urlava: Arri! mio bello.
L'aria marina gli pungea la fronte,
e la rena legava: Arri!...
Ma quello
era là, fermo, su l'azzurro monte.
VI
Schiuma, la rena lega! Uomo, la rena
lega le ruote! Il po' di via che resta,
si farà certo con un po' di pena;
ma è l'ultimo! l'ultimo! ma questa
è la mèta, è il riposo! Odi: col canto
delle mille onde il mare ti fa festa.
Avanti! Si va piano, ora; ma quanto
s'è corso prima! O Schiuma, ecco Bellaria!
Avanti! ecco la gioia, uomo! - Frattanto
l'asino è fermo, e l'uomo sogna.
Svaria
quel gruppo nero sul purpureo cielo.
I pipistrelli sbalzano per l'aria.
Viene un suon di campane dietro un velo
di lontananza; e tutto si scolora.
Laggiù chiede una donna al mare anelo,
all'ombra muta: Non si vede ancora?
IL TRANSITO
Il cigno canta.
In mezzo delle lame
rombano le sue voci lunghe e chiare,
come percossi cembali di rame.
È l'infinita tenebra polare.
Grandi montagne d'un eterno gelo
póntano sopra il lastrico del mare.
Il cigno canta; e lentamente il cielo
sfuma nel buio, e si colora in giallo;
spunta una luce verde a stelo a stelo.
Come arpe qua e là tocche, il metallo
di quella voce tìntina; già sfiora
la verde luce i picchi di cristallo.
E nella notte, che ne trascolora,
un immenso iridato arco sfavilla,
e i portici profondi apre l'aurora.
L'arco verde e vermiglio arde, zampilla,
a frecce, a fasci; e poi palpita, frana
tacitamente, e riascende e brilla.
Col suono d'un rintocco di campana
che squilli ultimo, il cigno agita l'ale:
l'ale grandi grandi apre, e s'allontana
candido, nella luce boreale.
IL FOCOLARE
I
È notte.
Un lampo ad or ad or s'effonde,
e rileva in un gran soffio di neve
gente che va né dove sa né donde.
Vanno.
Via via l'immensa ombra li beve.
E quale è solo e quale tien per mano
un altro sé dal calpestìo più breve.
E chi gira per terra l'occhio vano,
e chi lo volge al dubbio d'una voce,
e chi l'innalza verso il ciel lontano,
e chi piange, e chi va muto e feroce.
II
Piangono i più.
Passano loro grida
inascoltate: niuno sa ch'è pieno,
intorno a lui, d'altro dolor che grida.
Ma vede ognuno, al guizzo d'un baleno,
una capanna sola nel deserto;
e dice ognuno nel suo cuore - Almeno
riposerò! - Dal vagolare incerto
volgono a quella sotto l'aer bruno.
Eccoli tutti avanti l'uscio aperto
della capanna, ove non è nessuno.
III
Sono ignoti tra loro, essi, venuti
dai quattro venti al tacito abituro:
a uno a uno penetrano muti.
- Qui non fa così freddo e così scuro! -
dicono tra un sospiro ed un singulto;
e si assidono mesti intorno al muro.
E dietro il muro palpita il tumulto
di tutto il cielo, sempre più sonoro:
gemono al buio, l'uno all'altro occulto;
tremano...
Un focolare è in mezzo a loro.
IV
Un lampo svela ad or ad or la gente
mesta, seduta, con le braccia in croce,
al focolare in cui non è nïente.
Tremano: in tanto il bàttito veloce
sente l'un cuor dell'altro.
Ognuno al fianco
trova un orecchio, trova anche una voce;
e il roseo bimbo è presso il vecchio bianco,
e la pia donna all'uomo: allo straniero
omero ognuno affida il capo stanco,
povero capo stanco di mistero.
V
Ed ecco parla il buon novellatore,
e la sua fola pendula scintilla,
come un'accesa lampada, lunghe ore
sopra i lor capi.
Ed ecco ogni pupilla
scopre nel vano focolare il fioco
fioco riverberìo d'una favilla.
Intorno al vano focolare a poco
a poco niuno trema più né geme
più: sono al caldo; e non li scalda il fuoco,
ma quel loro soave essere insieme.
VI
Sporgono alcuni, con in cuor la calma,
le mani al fuoco: in gesto di preghiera
sembrano tese l'una e l'altra palma.
I giovinetti con letizia intiera
siedon del vano focolare al canto,
a quella fiamma tiepida e non vera.
Le madri, delle mani una soltanto
tendono; l'altra è lì, sopra una testa
bionda.
C'è dolce ancora un po' di pianto,
nella capanna ch'urta la tempesta.
VII
Oh! dolce è l'ombra del comun destino,
al focolare spento.
Esce dal tetto
alcuno e va per suo strano cammino;
e la tempesta rompe aspro col petto
maledicendo; e qualche sua parola
giunge a quel mondo placido e soletto,
che veglia insieme; e il nero tempo vola
su le loro soavi anime assorte
nel lungo sogno d'una lenta fola;
mentre all'intorno mormora la morte.
I DUE ORFANI
I
«Fratello, ti do noia ora, se parlo?»
«Parla: non posso prender sonno».
«Io sento
rodere, appena...» «Sarà forse un tarlo...»
«Fratello, l'hai sentito ora un lamento
lungo, nel buio?» «Sarà forse un cane...»
«C'è gente all'uscio...» «Sarà forse il vento...»
«Odo due voci piane piane piane...»
«Forse è la pioggia che vien giù bel bello».
«Senti quei tocchi?» «Sono le campane».
«Suonano a morto? suonano a martello?»
«Forse...» «Ho paura...» «Anch'io».
«Credo che tuoni:
come faremo?» «Non lo so, fratello:
stammi vicino: stiamo in pace: buoni».
II
«Io parlo ancora, se tu sei contento.
Ricordi, quando per la serratura
veniva lume?» «Ed ora il lume è spento».
«Anche a que' tempi noi s'aveva paura:
sì, ma non tanta».
«Or nulla ci conforta,
e siamo soli nella notte oscura».
«Essa era là, di là di quella porta;
e se n'udiva un mormorìo fugace,
di quando in quando».
«Ed or la mamma è morta».
«Ricordi? Allora non si stava in pace
tanto, tra noi...» «Noi siamo ora più buoni...»
«ora che non c'è più chi si compiace
di noi...» «che non c'è più chi ci perdoni».
LE ARMI
«Nando!» al su' omo disse il babbo «Nando!
Di tuo tu devi aver già l'armi, nuove,
ben fatte.
Dunque va dove ti mando.
Il ponte sai, della Corsonna, dove
entra nel Serchio.
C'è un fruscìo di polle,
in quel contorno, che fa dir: Qui piove!
fa dire al cieco che vien giù dal colle
col suo canetto, e, fosse il solleone,
sente un frastuono, sente un fresco, un molle...
Già gli par che di dosso il can barbone
sgrolli le grosse gocciole, e la strada
odori forte sotto l'acquazzone.
Basta: se rumor d'acqua odi, che cada
senza nuvole in cielo, ecco Aladino
che farà la tua lancia e la tua spada.
Forse t'aspetta all'ombra d'un gran pino
bevendo vino.
O è forse al lavoro
col suo gran maglio dentro lo stendino.
Tutto vestito d'ellera e d'alloro
è lo stendino.
Dentro, alla catena,
è il gran maglio dal capo come toro
Ed ecco il fabbro che l'avvia, lo frena,
lo sferra, arresta, mentre soffia il vento
e l'acqua stroscia e il focolar balena.
E il maglio picchia, ora veloce, or lento
lento, sul rosso ferro, come pare
all'uomo: un uomo! ma che vale i cento.
E dunque l'armi tu ne avrai, più care,
figlio, più tue: ruvide e nere in prima,
ma è il lavoro che le fa lustrare.
Ma fa, il lavoro, come fa la lima:
pulisce e rode: l'armi e l'uomo...
Ebbene?
Se il calcio è verde, secchi pur la cima!
Fate armi nuove per ognun che viene
nuovo nel mondo.
Ed abbia ognuno in mano
il suo marrello e il suo po' po' di bene».
Così diceva.
E Nando scese al piano
di Castelvecchio.
Nelle porche uguali,
come un velluto verdicava il grano.
Faceva l'unghia già qualcuno ai pali
per le sue viti.
Sui forconi vecchi
cantavano, spiando, i pinzampali.
Altri potava.
Si sentian gli azzecchi,
gli schiocchi delle forbici.
Sui pioppi
dava il pennato fitti colpi secchi.
Oh! quanti olivi sul pendìo! Sin troppi.
Erano un bosco.
E ne cadean già nere
le olive, e l'olio avrebbe empito i coppi.
Castagne, grano, vino, olio...
un podere,
lì, gli garbava.
C'era anche la fonte
a cui menare le sue bestie a bere.
Oh! c'era bello, lì tra piano e monte,
lì tra il fiume il torrente il torrentello,
e con la Pania cerula di fronte!
Bello, sì, ma il suo nido era più bello.
Bevve alla fonte e seguitò la strada,
e vide il fiume e il ponte lungo e snello.
Non lo passò: svoltò per la contrada
dell'Arsenale e di Mologno, dove
si facea la sua lancia e la sua spada.
Era ancora prestino, eran le nove
forse, e il mattino era di rose e d'oro,
quando in suo cuore esclamò Nando: Piove!
E non pioveva; ma s'udìa sonoro
un cader d'acqua.
Un casolare basso
c'era, coperto d'ellera e d'alloro.
Vi scese, udendo ad or ad or fracasso
di ferro in mezzo al murmure incessante
dell'acqua, e il maglio rimbombar sul tasso.
Parea soffiare il vento tra le piante
d'una foresta.
Entrò guardando al fioco
lume.
E rosso gli apparve, ecco, un gigante
tra un improvviso sgretolìo di fuoco.
I
S'appoggiò su l'incudine col mazzo.
Sopra la fronte si strusciò due dita.
Le sgrollò.
Disse: «So chi sei, ragazzo.
E so cosa tu vuoi dall'eremita
fabbro ferraio: l'armi nuove e belle,
l'armi che dànno anche al tuo re la vita.
Sono sei: tre fratelli e tre sorelle.
Tienle con te da quando sorge a quando
cade lo stormo delle Gallinelle».
Disse, e comandò l'acqua.
Essa al comando
rimbombò cupa, e mosse il vento, e il vento
sul rosso fuoco si gettò fischiando.
Nella spelonca il biondo fabbro, attento,
movea, tra l'invisibile acqua e il rosso
fuoco, due braccia che battean per cento.
Ché la Corsonna a lui correa pel fosso
perennemente, ad un suo cenno presta,
quando accennava: Ora da me non posso.
Ella, scendendo come la tempesta,
movea la ruota, essa lo stile, e tu,
maglio, sul ferro e su l'acciaio la testa
alzavi e la lasciavi piombar giù.
II
E prima il fabbro fabbricò la vanga
dalle due ali, l'arma che le zolle
tagli e le franga: ed anche te ti franga;
ma poi t'acconcia, per il ben che volle
a te, che tu volesti a lei, fratello
lavoratore, un letto molle molle...
Bollì ferro ed acciaio, indi il massello
fatto bianco afferrò con le tanaglie;
e lo domò col maglio e col martello.
Nasceva l'arma, tra un raggiar di scaglie
rosse e turchine.
L'acqua, il vento, il fuoco
faceano l'arma delle tue battaglie.
Saldo faggio lo stile sia.
Tra poco
la vangatura ti comincia.
È giunta
la rondinella ed è fiorito il croco.
A tutto ferro! E il ferro poi ripunta,
e tira su la bricia che rimane.
La vanga ha d'oro, come sai, la punta.
Oh! il campo pare un altro, ora.
Stamane
spioviscolava, e riè bello già.
La zolla già lièvita come il pane,
al solicello, e screpola e si sfa.
III
E poi fece il piccone, arma che dure
chiede le braccia, e forte vuole il forte,
d'acciaio, di qua zappa, di là scure.
Con l'una taglia le radici torte,
con l'altra scava.
Ed esso vien secondo
dopo la vanga e fruga anche la morte.
Anche più della vanga esso va fondo,
il buon piccone, e cerca le memorie
che in fondo al cuore ha seppellite il mondo.
Nasceva l'arma tra un raggiar di scorie
azzurre azzurre.
L'acqua, il fuoco, il vento
faceano l'arma delle tue vittorie.
Lavoratore, il manico sia lento
frassino; e forte picchia pur sul vivo
sasso che gli risuona come argento!
E va! Per quella macchia aspra, a solivo,
folta di stipe, fa venir filari
di verde vite o di canuto olivo!
Fa, col piccone, dov'è monte, pari,
dov'acqua, terra, dove notte, dì,
fa vie sotterra, un mare di due mari,
o migratore che il tuo verso è il sì!
IV
Poi fece anche la falce, arma che appare
anche nel cielo, quando l'aria imbruna,
bianca, poi d'oro, sul monte o sul mare.
Guardando la falciola della luna,
la volle anch'esso per le sue figliuole
il primo contadino, una per una.
D'allora in poi son le fanciulle sole
che con la loro falce e la crinella
vanno a far l'erba sul cader del sole.
Vanno, appuntata al fianco la gonnella,
a tagliare una fetta d'erba sulla,
a fare un quadro d'erba lupinella.
E non si vede, nel campetto, nulla,
altro che fiori; ma tra i fiori rossi
è inginocchiata a terra una fanciulla.
Tra i lunghi steli lievemente mossi
stride la falce.
Tra i giunchi e la sala
già qualche rana gracida nei fossi.
E, quando appar la stella, quando cala
l'ombra dei monti, ella si leva su,
cantando, e inzeppa l'erba, onde s'esala
odor di fresco e verde e gioventù.
V
Poi, la frullana: quella che lavora
come quell'altra che disfà le vite:
lavora all'ombra, prima dell'aurora.
Cade la guazza allora, cade il mite
sonno dal cielo.
Un sibilo si sente
correre per le praterie fiorite.
Dormite il sonnellino d'oro! È gente
che falcia; taglia tutto, paleino,
loglio, trifoglio, veccie, timi, mente.
Tre volte il prato parve un altro, insino
che fu segato: tutto rosso a gli occhi
e tutto giallo e tutto gridellino.
Poi mise fuori ciuffi code fiocchi
spighe rappe, la nebbia esile e vana,
pendule nappe, tremuli balocchi.
Ora tutto ha falciato la frullana.
Su la sericcia s'è ammucchiato il fieno,
ché dai fossi chiamava acqua la rana.
E spesso dalle Panie ora un baleno,
come una bocca aperta, alita, e fa
vedere i mucchi: ed ogni volta un treno,
lontano, un po' rotola sordo, e sta.
VI
E poi fece il pennato, arma ch'ha il becco
aguzzo e curvo il petto e il taglio fino
e grave il colpo, per il verde e il secco.
Fuor che di festa, portalo all'uncino
sempre, quando esci; ch'egli t'asseconda
in ogni tua faccenda, o contadino.
Egli pota, egli innesta, egli rimonda;
per le tue viti taglia i torchi al salcio,
per i tuoi bachi al gelso fa la fronda.
Fa sui castagni i bei rami di calcio
pel verno.
Nell'asprure dell'estate,
la falce sciopra, ed esso dice: Io falcio!
E falcia pioppi, gelsi, olmi.
Mangiate,
o vaccherelle! E quando invìa la pioggia,
appezza legna per le tue fiammate.
E fa con te valletti e ceste, o foggia
un giogo, o squadra un erpice d'avorno,
od una scala, sotto la tua loggia.
O crea da un olmo che vedesti un giorno
aver nel tronco una sua gran virtù,
l'aratro che, quando lavora, ha intorno,
piccoli e grandi, tutta la tribù.
VII
E poi fece il marrello, arma che scopre
e che ricopre, zappa e, in un, badile,
buona quant'altra, ma men grave all'opre.
Egli comincia nel piovoso aprile:
ritira il solco sopra il formentone,
ma un poco prima egli zappò le file.
Lo ronca, lo dirada, gli ripone
la terra al calcio, perché faccia il costo,
nel dolce maggio, dopo un acquazzone.
Al sessantino pensa poi d'agosto;
e lo smuove e lo svelge e lo rincalza:
e poi riposa, quando bolle il mosto.
Poi quando il sole pallido s'inalza
sopra la nebbia, e ingiallano le spoglie
del sessantino, e rossa appar la balza,
e grigio il piano, e cadono le foglie,
e viene il freddo, e cupo il vento geme;
ecco, il solco novello esso ricoglie.
Suonano a onde le campane treme-
bonde sopra i villaggi e le città...
ed il marrello seppellisce il seme,
che nasce e poi...
si riseminerà.
E cessò il vento e il fragor d'acqua e il lampo
del fuoco.
Disse ch'era morto il giorno
una campana di San Piero in Campo.
Nando uscì co' suoi ferri.
E gli era intorno
quella campana che soave e piana
gli diceva che tardi era il ritorno!
Via via soave e piana altra campana
gli ripeteva ch'era ancora in basso!
Poi solo udì, nella sua via lontana,
squillargli l'armi sulle spalle al passo.
ITALY
Sacro all'Italia raminga
CANTO PRIMO
I
A Caprona, una sera di febbraio,
gente veniva, ed era già per l'erta,
veniva su da Cincinnati, Ohio.
La strada, con quel tempo, era deserta.
Pioveva, prima adagio, ora a dirotto,
tamburellando su l'ombrella aperta.
La Ghita e Beppe di Taddeo lì sotto
erano, sotto la cerata ombrella
del padre: una ragazza, un giovinotto.
E c'era anche una bimba malatella,
in collo a Beppe, e di su la sua spalla
mesceva giù le bionde lunghe anella.
Figlia d'un altro figlio, era una talla
del ceppo vecchio nata là: Maria:
d'ott'anni: aveva il peso d'una galla.
Ai ritornanti per la lunga via,
già vicini all'antico focolare,
la lor chiesa sonò l'Avemaria.
Erano stanchi! avean passato il mare!
Appena appena tra la pioggia e il vento
l'udiron essi or sì or no sonare.
Maria cullata dall'andar su lento
sembrava quasi abbandonarsi al sonno,
sotto l'ombrella.
Fradicio e contento
veniva piano dietro tutti il nonno.
II
Salivano, ora tutti dietro il nonno,
la scala rotta.
Il vecchio Lupo in basso
non abbaiò; scodinzolò tra il sonno.
E tentennò sotto il lor piede il sasso
davanti l'uscio.
C'era sempre stato
presso la soglia, per aiuto al passo.
E l'uscio, come sempre, era accallato.
Lì dentro, buio come a chiuder gli occhi.
Ed era buia la cucina allato.
La mamma? Forse scesa per due ciocchi...
forse in capanna a mòlgere...
No, era
al focolare sopra i due ginocchi.
Avea pulito greppia e rastrelliera;
ora, accendeva...
Udì sonare fioco:
era in ginocchio, disse la preghiera.
Appariva nel buio a poco a poco.
«Mamma, perché non v'accendete il lume?
Mamma, perché non v'accendete il fuoco?»
«Gesù! che ho fatto tardi col rosume...»
E negli stecchi ella soffiò, mezzo arsi;
e le sue rughe apparvero al barlume.
E raccattava, senza ancor voltarsi,
tutta sgomenta, avanti a sé, la mamma,
brocche, fuscelli, canapugli, sparsi
sul focolare.
E si levò la fiamma.
III
E i figli la rividero alla fiamma
del focolare, curva, sfatta, smunta.
«Ma siete trista! siete trista, o mamma!»
Ed accostando agli occhi, essa, la punta
del pannelletto, con un fil di voce:
«E il Cecco è fiero? E come va l'Assunta?»
«Ma voi! Ma voi!» «Là là, con la mia croce».
I muri grezzi apparvero col banco
vecchio e la vecchia tavola di noce.
Di nuovo, un moro, con non altro bianco
che gli occhi e i denti, era incollato al muro,
la lenza a spalla ed una mano al fianco:
roba di là.
Tutto era vecchio, scuro.
S'udiva il soffio delle vacche, e il sito
della capanna empiva l'abituro.
Beppe sedé col capo indolenzito
tra le due mani.
La bambina bionda
ora ammiccava qua e là col dito.
Parlava, e la sua nonna, tremebonda,
stava a sentire e poi dicea: «Non pare
un luì quando canta tra la fronda?»
Parlava la sua lingua d'oltremare:
«...
a chicken-house» «un piccolo luì...»
«...
for mice and rats» «che goda a cinguettare,
zi zi» «Bad country, Ioe, your Italy!»
IV
Italy, penso, se la prese a male.
Maria, la notte (era la Candelora),
sentì dei tonfi come per le scale...
tre quattro carri rotolarono...
Ora
vedea, la bimba, ciò che n'era scorso!
the snow! la neve, a cui splendea l'aurora.
Un gran lenzuolo ricopriva il torso
dell'Omo-morto.
Nel silenzio intorno
parea che singhiozzasse il Rio dell'Orso.
Parea che un carro, allo sbianchir del giorno,
ridiscendesse l'erta con un lazzo
cigolìo.
Non un carro, era uno storno,
uno stornello in cima del Palazzo
abbandonato, che credea che fosse
marzo, e strideva: marzo, un sole e un guazzo!
Maria guardava.
Due rosette rosse
aveva, aveva lagrime lontane
negli occhi, un colpo ad or ad or di tosse.
La nonna intanto ripetea: «Stamane
fa freddo!» Un bianco borracciol consunto
mettea sul desco ed affettava il pane.
Pane di casa e latte appena munto.
Dicea: «Bambina, state al fuoco: nieva!
nieva!» E qui Beppe soggiungea compunto:
«Poor Molly! qui non trovi il pai con fleva!»
V
Oh! no: non c'era lì né pie né flavour
né tutto il resto.
Ruppe in un gran pianto:
«Ioe, what means nieva? Never? Never? Never?»
Oh! no: starebbe in Italy sin tanto
ch'ella guarisse: one month or two, poor Molly!
E Ioe godrebbe questo po' di scianto!
Mugliava il vento che scendea dai colli
bianchi di neve.
Ella mangiò, poi muta
fissò la fiamma con gli occhioni molli.
Venne, sapendo della lor venuta,
gente, e qualcosa rispondeva a tutti
Ioe, grave: «Oh yes, è fiero...
vi saluta...
molti bisini, oh yes...
No, tiene un frutti-
stendo...
Oh yes, vende checche, candi, scrima...
Conta moneta: può campar coi frutti...
Il baschetto non rende come prima...
Yes, un salone, che ci ha tanti bordi...
Yes, l'ho rivisto nel pigliar la stima...»
Il tramontano discendea con sordi
brontoli.
Ognuno si godeva i cari
ricordi, cari ma perché ricordi:
quando sbarcati dagli ignoti mari
scorrean le terre ignote con un grido
straniero in bocca, a guadagnar danari
per farsi un campo, per rifarsi un nido...
VI
Un campettino da vangare, un nido
da riposare: riposare, e ancora
gettare in sogno quel lontano grido:
Will you buy...
per Chicago e Baltimora,
buy images...
per Troy, Memphis, Atlanta,
con una voce che te stesso accora:
cheap!...
nella notte, solo in mezzo a tanta
gente; cheap! cheap! tra un urlerìo che opprime;
cheap!...
Finalmente un altro odi, che canta...
Tu non sai come, intorno a te le cime
sono dell'Alpi, in cui si arrossa il cielo:
chi canta, è il gallo sopra il tuo concime.
«La mi' Mèrica! Quando entra quel gelo,
ch'uno ritrova quella stufa roggia
per il gran coke, e si rià, poor fellow!
O va per via, battuto dalla pioggia.
Trova un farm.
You want buy? Mostra il baschetto.
Un uomo compra tutto.
Anche, l'alloggia!»
Diceva alcuno; ed assentiano al detto
gli altri seduti entro la casa nera,
più nera sotto il bianco orlo del tetto.
Uno guardò la piccola straniera,
prima non vista, muta, che tossì.
«You like this country...» Ella negò severa:
«Oh no! Bad Italy! Bad Italy!»
VII
Italy allora s'adirò davvero!
Piovve; e la pioggia cancellò dal tetto
quel po' di bianco, e fece tutto nero.
Il cielo, parve che si fosse stretto,
e rovesciava acquate sopra acquate!
O ferraietto, corto e maledetto!
Ghita diceva: «Mamma, a che filate?
Nessuna fila in Mèrica.
Son usi
d'una volta, del tempo delle fate.
Oh yes! filare! Assai mi ci confusi
da bimba.
Or c'è la macchina che scocca
d'un frullo solo centomila fusi.
Oh yes! Ben altro che la vostra rócca!
E fila unito.
E duole poi la vita
e ci si sente prosciugar la bocca!»
La mamma allora con le magre dita
le sue gugliate traea giù più rare,
perché ciascuna fosse bella unita.
Vedea le fate, le vedea scoccare
fusi a migliaia, e s'indugiava a lungo
nel suo cantuccio presso il focolare.
Diceva: «Andate a letto, io vi raggiungo».
Vedea le mille fate nelle grotte
illuminate.
A lei faceva il fungo
la lucernina nell'oscura notte.
VIII
Pioveva sempre.
Forse uscian, la notte,
le stelle, un poco, ad ascoltar per tutto
gemer le doccie e ciangottar le grotte.
Un poco, appena.
Dopo, era più brutto:
piovea più forte dopo la quiete.
O ferraiuzzo, piccolino e putto!
Ghita diceva: «Madre, a che tessete?
Là può comprare, a pochi cents, chi vuole,
cambrì, percalli, lustri come sete.
E poi la vita dite che vi duole!
C'è dei telari in Mèrica, in cui vanno
ogni minuto cent
...
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