PRIMI POEMETTI, di Giovanni Pascoli - pagina 4
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meridïano, come un punto d'oro.
E le sue voci pullulano sole
dal cielo azzurro, quando è per tacere
la romanella delle risaiole;
e non più tintinnìo di sonagliere
s'ode passare per le vie lontane;
ché già desina all'ombra il carrettiere.
Né più cicale, né più rauche rane,
non un fil d'aria, non un frullo d'ale:
unica, in tutto il cielo, essa rimane.
Rimane e canta; ed il suo canto è quale
di tutto un bosco, di tutto un mattino;
vario così com'iride d'opale.
Canta; e tu n'odi il lungo mattutino
grido del merlo; e tu senti un odore
acuto di ginepro e di sapino,
senti un odore d'ombra e d'umidore,
di foglie, di corteccia e di rugiada;
un fragrar di corbezzole e di more.
Vai per un bosco e senti, ove tu vada,
quei fischi uscir più liquidi e più ricchi;
poi, come colpi da remota strada
di spaccapietre, il martellar de' picchi.
II
Ma no: dib dib: è il passero.
Ricopre
la nebbia i campi, dove è dall'aurora
de' bovi il muglio e il viavai dell'opre.
Fuma la terra, fuma il cielo; ancora
fuma il camino e, tra le tamerici,
fuma il letame e grave oggi vapora.
Vaniscono laggiù le zappatrici;
di qua l'aratro emerge per incanto,
tra un pigolìo di passeri mendici.
Ma donde viene chiaro e dolce il canto
or della quaglia? È in fior lo spigo; tondo
s'apre nei campi il fior dell'elïanto.
È sera forse? e dentro il ciel profondo
il crepuscolo indugia? e nel sereno
canta la quaglia di tra il grano biondo?
E pieno il prato è già di trilli, e pieno
il grano è già di lucciole, e su l'aie
bianche s'esala il buon odor del fieno.
E no, ch'è l'alba: è sotto le grondaie
tutto un ciarlare.
Sono intorno al nido
le rondinelle garrule massaie.
La casa dorme.
Niuno ancor nel fido
bricco il caffè, nemico al sonno, infuse.
Vola e rivola il mattutino strido
lungo le verdi persïane chiuse.
III
Un torvo strillo di poiana...
muta
solitudine...
roccie irte, malvage...
qualche cesto d'assenzio e di cicuta...
Il cielo sfuma in un rossor di brage.
Solo un torrente urlare odo: russare
d'un ebbro in mezzo una sua muta strage.
E la poiana strilla.
Ecco mi appare
una rovina, una deserta chiesa,
da cui te, solitario, odo cantare.
Canti come una dolce anima presa
da' suoi ricordi, tu, dalla rovina
dove è già la pietosa edera ascesa,
passero azzurro! O donde mai, vicina
cincia, m'inviti in vano a te? Da un orto
rosso, cui cinge il bosso e l'albaspina.
Pendono rosse tra il fogliame smorto
le dolci mele, e ingiallano le pere.
Nel mezzo un fico, nudo già, contorto.
E vi cantano cincie e capinere...
Ma no, sei tu che, immobile nel sole,
canti, o calandra, sopra le brughiere.
E le tue voci pullulano sole
dal cielo azzurro, con virtù segreta,
come veggenti limpide parole,
o grande su le brevi ali poeta!
CONTE UGOLINO
I
Ero all'Ardenza, sopra la rotonda
dei bagni, e so che lunga ora guardai
un correre, nell'acqua, onda su onda,
di lampi d'oro.
E alcuno parlò: «Sai?»
(era il Mare, in un suo grave anelare)
«io vado sempre e non avanzo mai».
E io: «Vecchione,» (ma l'eterno Mare
succhiò lo scoglio e scivolò via, forse
piangendo) «e l'uomo avanza, sì; ti pare?»
E l'occhio, vago qua e là mi corse
alla Meloria...
Di che mai ragiona,
le notti, il tardo guidator dell'Orse
ozïando su l'acqua che risuona
lugubre e frangesi alla rea scogliera?...
E vidi te, cerulea Gorgona;
e più lontana, come tra leggiera
nebbia, accennante verso te, rividi
l'altra.
Io vedeva la Capraia, ch'era
come una nube, e lineavo i lidi
della Maremma, e imaginai sonante
un castello di soli aerei stridi,
in un deserto; e poi te vidi, o Dante.
II
Sedeva sopra un masso di granito
ciclopico.
Pensava.
Il suo pensiero
come il mare infinito era infinito.
Lontani, i falchi sopra il capo austero
roteavano.
Stava la Gorgona,
come nave che aspetti il suo nocchiero.
E la Capraia uscìa d'una corona
di nebbia, appena.
Or Egli dritto stante,
imperïale sopra la persona,
tese le mani al pelago sonante,
sì che un'ondata che suggea le rosse
pomici, all'ombra dileguò di Dante.
Ed ecco, dove il cenno suo percosse,
la Gorgona crollò, vacillò; poi
salpava l'eternale àncora, e mosse.
E la Capraia scricchiolò da' suoi
scogli divelta, e tra un sottil vapore
veniva.
O due rupestri isole, voi
solcavate le bianche acque sonore,
la prua volgendo dove non indarno
voleva il dito del trïonfatore:
alla foce invisibile dell'Arno.
III
Avanzarono come ombra che cresca
all'improvviso...
quando udii, vicino:
«Conte Ugolino della Gherardesca...»
Chi parlava di te, Conte Ugolino?
Uno, fiso nel mare.
Oh! tutto in giro,
sotto il turchino ciel, mare turchino,
su cui tremola appena al tuo sospiro
un velo vago, tenue! O Capraia,
o Gorgona color dello zaffiro,
ferme io vi scòrsi, come plaustri in aia
cerula, immensa.
E a' miei piedi l'onda
battea lo scoglio e risorbìa la ghiaia.
E nella calma lucida e profonda,
nudo sul trampolino, con le braccia
arrotondate su la testa bionda,
era un fanciullo.
«Quello» io chiesi «in faccia
a noi?» «Sì, quello.» «Quel fanciullo? il Conte
che rode il teschio nell'eterna ghiaccia?»
«Foglie d'un ramo, gocciole d'un fonte!»
Egli guardava un tuffolo pescare
stridulo; scosse i ricci della fronte,
e con un grido si tuffò nel mare.
DIGITALE PURPUREA
I
Siedono.
L'una guarda l'altra.
L'una
esile e bionda, semplice di vesti
e di sguardi; ma l'altra, esile e bruna,
l'altra...
I due occhi semplici e modesti
fissano gli altri due ch'ardono.
«E mai
non ci tornasti?» «Mai!» «Non le vedesti
più?» «Non più, cara.» «Io sì: ci ritornai;
e le rividi le mie bianche suore,
e li rivissi i dolci anni che sai;
quei piccoli anni così dolci al cuore...»
L'altra sorrise.
«E di': non lo ricordi
quell'orto chiuso? i rovi con le more?
i ginepri tra cui zirlano i tordi?
i bussi amari? quel segreto canto
misterioso, con quel fiore, fior di...?»
«morte: sì, cara».
«Ed era vero? Tanto
io ci credeva che non mai, Rachele,
sarei passata al triste fiore accanto.
Ché si diceva: il fiore ha come un miele
che inebria l'aria; un suo vapor che bagna
l'anima d'un oblìo dolce e crudele.
Oh! quel convento in mezzo alla montagna
cerulea!» Maria parla: una mano
posa su quella della sua compagna;
e l'una e l'altra guardano lontano.
II
Vedono.
Sorge nell'azzurro intenso
del ciel di maggio il loro monastero,
pieno di litanie, pieno d'incenso.
Vedono; e si profuma il lor pensiero
d'odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d'innocenza e di mistero.
E negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie, dimenticate,
là, da tastiere appena appena tocche...
Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate,
ospite caro? onde più rosse e liete
tornaste alle sonanti camerate
oggi: ed oggi, più alto, Ave, ripete,
Ave Maria, la vostra voce in coro;
e poi d'un tratto (perché mai?) piangete...
Piangono, un poco, nel tramonto d'oro,
senza perché.
Quante fanciulle sono
nell'orto, bianco qua e là di loro!
Bianco e ciarliero.
Ad or ad or, col suono
di vele al vento, vengono.
Rimane
qualcuna, e legge in un suo libro buono.
In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,
l'alito ignoto spande di sua vita.
III
«Maria!» «Rachele!» Un poco più le mani
si premono.
In quell'ora hanno veduto
la fanciullezza, i cari anni lontani.
Memorie (l'una sa dell'altra al muto
premere) dolci, come è tristo e pio
il lontanar d'un ultimo saluto!
«Maria!» «Rachele!» Questa piange, «Addio!»
dice tra sé, poi volta la parola
grave a Maria, ma i neri occhi no: «Io,»
mormora, «sì: sentii quel fiore.
Sola
ero con le cetonie verdi.
Il vento
portava odor di rose e di viole a
ciocche.
Nel cuore, il languido fermento
d'un sogno che notturno arse e che s'era
all'alba, nell'ignara anima, spento.
Maria, ricordo quella grave sera.
L'aria soffiava luce di baleni
silenzïosi.
M'inoltrai leggiera,
cauta, su per i molli terrapieni
erbosi.
I piedi mi tenea la folta
erba.
Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!
Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che, vedi...
(l'altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta
con un suo lungo brivido...) si muore!»
SUOR VIRGINIA
I
Tum tum...
tum tum...
- Ell'era stata in chiesa
a pregar sola, a dir la sua corona
sotto la sola lampadina accesa.
Avea chiesto perdono a chi perdona
tutto, di nulla; simile ad ancella
ch'ha gli occhi in mano della sua padrona;
a una che su l'uscio di sorella
ricca, socchiuso, prega piano, a volo;
ch'altri non oda.
Era tornata in cella.
E ora avanti il Cristo morto solo,
avanti l'agonia di Santa Rita,
si toglieva il suo velo, il suo soggólo.
Il cingolo a tre nodi dalla vita
poi si scioglieva; un giallo teschio d'osso
girò tre volte nelle ceree dita.
Tum tum...
- Chi picchia? Si rimise in dosso
lo scapolare.
Forse alla parete
dell'altra stanza.
L'uscio non s'è mosso.
Forse qualche educanda.
Una ch'ha sete,
ch'ha male...
Aprì soavemente l'uscio.
Entrò.
Niente.
I capelli nella rete,
le braccia in croce, gli occhi nel lor guscio...
II
dormivano, composte, accomodate,
le due bambine.
Aperta la finestra
era a una gran serenità d'estate.
L'avea lasciata aperta la maestra
per via del caldo.
Un alito di vento
recava odor d'acacia e di ginestra.
Ma che frufrù nell'orto del convento!
Passava, ora d'un gufo, ora d'un gatto,
un sordo sgnaulìo subito spento.
Un grillo ora trillava, ora d'un tratto
taceva: come? Come se lì presso
fosse venuto chi sa chi, d'appiatto.
Un fischiettare, un camminar represso,
un raspare, un frugare, uno sfrascare
improvviso su su per il cipresso...
Brillavan qua e là lucciole rare,
come spiando.
Un ululo ogni tanto
veniva da un lontano casolare.
L'urlo d'un cane alla catena, e il canto
più lontano d'un rauco vagabondo,
nell'alta notte, era la gioia e il pianto
che al monastero pervenìa, dal mondo.
III
Dormivano.
Sì: anche la sorella
piccina.
Era composta, era coperta.
Suor Virginia tornò nella sua cella.
Tornò lasciando la finestra aperta
a quel lontano canto, a quel lontano
bau bau di cane ch'era sempre all'erta;
aperta a quello scalpicciar pian piano
d'uomini o foglie, a quel trillar d'un grillo,
che poi taceva sotto un piede umano...
Dormivano.
Il lor cuore era tranquillo
La suora si svestì, così leggiera,
ch'udì per terra il picchio d'uno spillo.
S'addormentava.
- Tum tum tum...
- Che era?
E Suor Virginia si levò seduta
sul letto, mormorando una preghiera.
Ella ascoltò: la piccola battuta
venìa di là.
Si mise anche una volta
lo scapolare.
Entrò.
Riguardò muta.
No.
L'una e l'altra si tenea raccolta
al dolce sonno.
Non avean bisogno
di lei.
La bimba s'era, sì, rivolta
sul cuore; all'altra; a ragionarci in sogno.
IV
Tornò, comprese.
Avea bussato il Santo.
Era venuto il tempo di lasciare
il suo cantuccio in questa Val di pianto.
A quel Santo ogni sera essa all'altare
dicea tre pater.
Egli non ignora
nell'ampia terra il nostro limitare.
Poi ch'egli va, pascendo il gregge ancora,
come allora: e devìa dalla sua strada
per dire a questo o quello ospite: «È l'ora».
Egli è notturno come la rugiada.
E viene, e bussa fin che il sonnolento
pellegrino non s'alza e non gli bada.
Egli era, dunque, entrato nel convento
per rivelarle l'ora del trapasso.
Picchiò.
Poi stava ad aspettare attento.
Ella sentito non ne aveva il passo,
perché va scalzo.
Sulla soglia trita
certo aspettava col cappuccio basso.
Suor Virginia il fardello della vita
doveva fare: il cielo era già rosso:
il suo fardello.
Tra le ceree dita
prese il rosario col suo teschio d'osso.
V
E vennero le morte undicimila
vergini, con le lampade fornite
d'olio odoroso; camminando in fila;
di bianco lino, come lei, vestite;
nelle pallide conche d'alabastro
portando accese le lor dolci vite;
passando, sì che in breve erano un nastro
bianco, ondeggiante, a un alito, pian piano,
nel cielo azzurro tra la terra e un astro;
passando, come gli Ave a grano a grano
d'una corona.
E le dicean parole
di sotto il giglio che teneano in mano.
Aveva ognuna, su le bianche stole,
l'orma di sangue della sua tortura.
Anch'ella, al cuore.
Le dicean: «Non duole».
Era, la prima d'esse, Ursula pura,
lassù, che tuttavia lampade accese
splendeano in fila per la terra oscura.
Le vergini non tutte erano ascese.
Quella picchiò tre volte con lo stelo
del giglio.
E in terra Suor Virginia intese
quei colpettini al grande uscio del cielo.
VI
Tum tum...
- Di là, con tutto quel gran cielo
alla finestra, oh! trema come foglia
secca che prilla intorno a un ragnatelo,
la bimba, e bussa, e par ch'ora, sì, voglia
dirglielo: Madre, c'è uno laggiù:
chiuda! E volge gli aperti occhi alla soglia
dell'uscio: aspetta.
Ella non venne più.
LA QUERCIA CADUTA
Dov'era l'ombra, or sé la quercia spande
morta, né più coi turbini tenzona.
La gente dice: Or vedo: era pur grande!
Pendono qua e là dalla corona
i nidietti della primavera.
Dice la gente: Or vedo: era pur buona!
Ognuno loda, ognuno taglia.
A sera
ognuno col suo grave fascio va.
Nell'aria, un pianto...
d'una capinera
che cerca il nido che non troverà.
L'AQUILONE
C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d'antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.
Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle quercie agita il vento.
Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch'erbose hanno le soglie:
un'aria d'altro luogo e d'altro mese
e d'altra vita: un'aria celestina
che regga molte bianche ali sospese...
sì, gli aquiloni! È questa una mattina
che non c'è scuola.
Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d'albaspina.
Le siepi erano brulle, irte; ma c'era
d'autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera
bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.
Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.
Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza.
S'inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.
S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo
petto del bimbo e l'avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.
Più su, più su: già come un punto brilla
lassù lassù...
Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto...
- Chi strilla?
Sono le voci della camerata
mia: le conosco tutte all'improvviso,
una dolce, una acuta, una velata...
A uno a uno tutti vi ravviso,
o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
su l'omero il pallor muto del viso.
Sì: dissi sopra te l'orazïoni,
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni!
Tu eri tutto bianco, io mi rammento.
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.
Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!
Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi pètali un fiore
ancora in boccia! O morto giovinetto,
anch'io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto...
Meglio venirci ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gara per salire un colle!
Meglio venirci con la testa bionda,
che poi che fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co' bei capelli a onda
tua madre...
adagio, per non farti male.
IL VECCHIO CASTAGNO
E Viola tornò per coglitora,
dopo sementa, dal suo zio d'Albiano.
Ed ecco, i cardi non cadeano ancora.
E dava nel frattempo ella una mano
all'altre donne, e lungo il Rio con esse
facea brocche di càrpino e d'ontano.
Ora sfogliava le seconde mèsse,
dei gelsi, ora segava erba e trifoglio,
che la brinata non gliele cocesse.
Perché la bestia dice all'uomo: «Io voglio
l'ultime frasche, s'altri ebbe le prime.
A me l'avanzo, s'è di te il rigoglio!
Le pigne tu, le pampane io: le cime
io, tu le rappe.
Io do, se tu mi desti.
Fin che c'è verde, non mi dar guaime.
Padrone, c'è del verde, che tu pesti.
Menami alle covette della strada,
menami un poco nella selva ai cesti:
ai cesti ch'ora a tutto ciò che cada,
aprono i lor fioretti color carne;
e cade brina, che attendean rugiada».
Ed ella andava qualche volta a farne
per loro, e qualche volta, ch'era bello,
menava là le vaccherelle scarne.
E con loro godeva il solicello
di fin d'ottobre, tra i castagni, sotto
il re di tutti, un vecchio mondinello.
Sotto il re dei castagni, sur un grotto
pieno di musco, si sedea Viola,
col gomitolo, i ferri e un calzerotto.
E gettava alle bestie una parola,
anco un toffo di terra, anco due ghiare
con le sue mosse di canipaiola.
Ora un giorno che stava a lavorare
sotto il castagno, e che sotto i suoi sguardi
pendean le vacche dalle stipe amare,
dei tonfi udì, come se quei bastardi
fosser lì con sassetti e con pinelle,
chiotti, per darle briga...
Erano i cardi.
Cadeano giù con le castagne belle
e nere in bocca, che sul musco arsito
ruzzolavano fuori della pelle.
Udiva; e il gran castagno ecco sul dito
le picchiò con un cardo, anzi un pallone,
piccolo, giallo, chiuso.
Era un invito:
l'albero volea dir la sua ragione.
Alzò Viola, come se capisse,
gli occhi, poi li voltò: vide un piccone;
vide un'accétta.
E il vecchio re le disse:
le disse il re:
I
...Viola!...
Violetta!...
Non la vedi costì? C'è da stamani.
Ce l'ha lasciata il caro zio.
L'accétta!
La piglia su, domani, oggi, a due mani,
e picchia giù.
Dove ella picchia, guai
a quei frassini! tristi quelli ontani!
e quei castagni! Non credevi mai,
Violetta? Lo credo! Ero il più grande!
Sono il più vecchio.
Ella è per me: vedrai.
Si sa: la quercia deve dar le ghiande,
e il fico i fichi, ed il castagno i cardi.
Vivande, noi; solo il rosaio, ghirlande!
E i cardi son più pochi, ora, e se guardi,
non son più pieni, ch'io non ho più forza.
Io ho la lupa.
Ho messo poco e tardi.
Il vecchio re sente impassir la scorza!
II
E mi ricordo ch'ero il più piccino
del branco, quando venni qua; di tutto
quello d'allora.
Io, sai, nacqui a bacino,
di là del Rio.
Di là crescevo sdutto,
lungo, con molta frasca e molte polle.
All'ombra, messa tanta e poco frutto!
Qui, posto al sole, in cima in cima al colle,
mi dava noia, i primi anni, l'asprura.
Bramavo quel bel fresco, quel bel molle.
Ma poi con gli anni feci tiglia dura,
e il sole amai, che vaporava il fiato
nella florida mia capellatura.
A un fin di verno, un uomo col pennato
mi cuccò tutto per filo e per segno!
E io restai pulito e dicapato,
con due mazzette tra la buccia e il legno.
III
Vedi i due rami dalle mille vette,
anzi il doppio grande albero che porto
sul tronco? Sono quelle due mazzette.
Ché venne aprile, e io sentiva, assòrto,
dalle mie fibre risalire il succhio
cercando in alto ciò che m'era morto:
ciò che non era, là di lì, che un mucchio
di verghe dalla lunga acqua percosse,
cui s'attorceva l'ellera e il vilucchio.
Ma io sognava tuttavia che fosse
sopra il mio fusto, e che mettesse i fiocchi
verdicci dalle sue vermelle rosse.
Io mi spingeva tutto verso gli occhi
che non avevo; io mi gettava verso
il mio passato.
C'era quei due brocchi.
Li empii di me: ma mi sentii diverso.
IV
Più dolce, o bimba, mi sentii: più manso.
Con gli anni feci le castagne.
Alcuna
ce n'è nei cardi.
Cerca.
A te le canso.
Le canso a te, mia pastorella bruna
che vieni qui per cogliere, e due volte
in cielo fare qui vedrai la luna.
Son mondinelle; tu le sai, n'hai colte.
Mòndano bene.
Esce da sé pulita
la carne, il buono, dalle vesti sciolte.
Tu le mondi per gli altri con le dita
svelte, seduta al fuoco, sul pannello.
Gli uomini stanno muti alla partita.
Quei giorni di novembre, che fa bello,
che si colma la botte del buon vino,
che, con indosso mezzo il suo mantello,
mezzo tra freddo e caldo è San Martino!...
V
Da quanti inverni vivo qui sublime!
E vidi tante creature bionde
venir su l'alba a cogliere le prime,
che poi con gli anni, esciti non so donde,
io li vedeva curvi bianchi tristi
ruspare lì, nei mucchi delle fronde,
l'ultime.
All'ultimo, io non li ho rivisti.
Non ne so nulla.
So che i coglitori
vengono e vanno, come tu venisti
e...
Ma quello che sempre, ai dì peggiori,
anche ho veduto, sia che nella bruma
la pioggia scrosci e che la neve sfiori,
è il fiato che nell'aria fredda fuma
dalla lor casa, il caldo alito, quando
il vecchio tramontano anche lui ruma
qua ne' frondai gridando e farfugliando...
VI
O fiamma allegra, che scricchioli e schiocchi,
scaldando i mesti vecchi, i bimbi savi,
da noi li avesti cioccatelle e ciocchi!
O casa buona, messa su dagli avi,
che pari il freddo, e brilli nella notte,
da noi li avesti travicelli e travi!
O mamma, che il laveggio ora o le cotte
metti all'uncino o sopra i capitoni,
da noi li avesti i necci e le ballotte!
O babbo, che nel mezzo al desco poni
il vinetto che sente un po' di rame,
da noi li avesti i pali ed i forconi!
E tu che mugli, mugli tu per fame
o per freddo, vacchina dello stento?
E da noi abbi i vincigli e lo strame...
mentre noi qui rabbrividiamo al vento.
VII
Io ne godeva.
Io amo chi mi coglie.
Ora, capanna casa fuoco vigna,
non do più frutto né legna né foglie.
Ora l'accétta scoprirà maligna
i miei segreti.
Ho dentro me dei bruchi
d'oro, che fanno, come uva, la pigna.
Aveva dentro, qua e là, nei buchi,
altri alati che nero di tra il musco
sporgeano il capo allo svolar dei fuchi.
Oh! da quanti anni sento nel mio rusco
sempre ronzare, e sempre nella state
cantarellare odo tra lusco e brusco!
Oh! scoprirà l'accétta, abbandonate
sopra lane di pioppi e ragnatele,
ovine acquide, avanzi di covate
di cinciallegre, e un gran favo di miele.
VIII
Quanto a me...
Quanto a me, mi schiapperanno
per il metato.
Prima lì nel mezzo
due ciocchi soli col pulacchio d'anno;
poi tutto v'entrerò pezzo per pezzo.
Le castagne seccate col castagno
vengono bianche e sono di più prezzo.
Ecco, il nostro fruttato io l'accompagno
anche in morte, morendo a poco a poco,
e di me l'uomo ha l'ultimo guadagno.
Mi sfarò piano, non sprizzerò fuoco
non farò vampa; adagio, come deve
un buon castagno vecchio che sa il giuoco.
Poi nel dì che si canta che si beve
che si picchia su l'aia del metato,
non sarò più.
Sarò cenere, lieve
cenere, buona per il tuo bucato.
IX
E il ceneraccio, al prato!...
Odimi.
Il fusto
è marcio, e non può darsi che ributti.
Gli dia l'accétta e l'accettino.
È giusto.
Ma vedrai, nella ceppa, che tra tutti
lo zio ralleverà qualche novello
che viva e cresca, che riscoppi e frutti.
Fa che salvi codesto, così snello,
che se tu venga quando avrai marito,
tu dica: È come il padre; anzi più bello!
Codesto, sì, costì, presso il tuo dito,
dove ho picchiato il cardo...
Oh! tuo zio!...
Digli:
Questo novello come cresce ardito!
che speriamo, io e tu, che mi somigli!
che dia su me, non dia su lui, l'accétta!
Ti farà le mondine pe' tuoi figli.
Diglielo!...
su...
Viola! Violetta!
L'ACCESTIRE
L'ALLORO
I
«Ecco l'orbaco:» disse Dore, entrando
con un ramo d'alloro umido in mano:
«prendete: io devo ritornar da Nando».
«A che fare?» la madre gridò.
«Piano
con le mie scarpe! So che il babbo è stanco:
ci vuole mezzo per calzarli il grano:
andranno scalzi! due siete ed un branco
parete!» L'uscio era socchiuso.
Fuori
era per tutto un gran barbaglio bianco.
La neve nascondea tutti i colori.
Su, v'appariva qualche fila nera
delle grandi orme degli agricoltori:
dove scendeva per veder se c'era
la terra più, dal tetto e dalla scala,
il passero: egli che avea messo a sera
tranquillamente il capo sotto l'ala.
II
«L'orbaco...» ripeté Dore, voltando
all'uscio aperto il suo nasetto rosso:
«devo aiutarlo: l'ho promesso, a Nando».
«A che fare? io lo so, mamma, e lo posso
dir io» fece Rosina: «hanno gli archetti
per pigliar qualche cincia e pettirosso!
Povere cincie! poveri uccelletti!
non hanno ove posare le zampine
nude! coperti i campi, alberi, tetti!
Non hanno che beccar, queste mattine:
né un pippolo né un becio: ecco, e costoro
tendono...
Oh! babbo è troppo buono, infine!»
Parlava, ed attendeva al suo lavoro,
stacciando su la conca alta la lieve
cenere.
E Dore le porgea l'alloro
di su l'uscio, tra un gran bianco di neve.
III
«L'orbaco...».
«Dà».
Lei prese il ramoscello,
e lui sparì.
Ma non pensava a loro
più Rosa bionda.
Era il suo giorno, quello.
Poco era il giorno e molto era il lavoro:
la falce è grande, ma più grande il prato.
E su la conca ella sfogliò l'alloro,
perché sapesse odore il suo bucato.
IL BUCATO
I
Viola entrò col secchio su la testa,
e su gli arguti zoccoli ristette
presso la conca, e disse: «Ora sei lesta?»
«Mamma!» Rosa chiamò «non ci si mette
due gusci d'ova?» Rientrava lenta
la madre con un suo fascio di vette.
«Eccoli» disse.
«Quella legna stenta
a prender fuoco, e questa era pel forno;
ma la riposi dopo la sementa:
è asciutta bene.
Il babbo cerca, intorno
casa, quel ciocco (dov'è mai?) del pero
dal vischio.
Oggi ce n'è per tutto il giorno.
E i ragazzi, io mi struggo, io mi dispero,
rincaseranno fradici, se pure...
Ma sento (se Dio vuole, ecco un pensiero
di meno) il babbo lavorar di scure».
II
«Sei lesta, ora?» «Un minuto anche, Viola».
Rosa corse al telaio, ed il cannello
vuoto cavò dalla sua liscia spola.
E Viola dicea: «Mamma, il vitello,
lo venderà? Vedeste come viene!
e, mamma, è così manso, è così bello!
Tra la sua madre e me, vuole più bene,
credete, a me».
Rispose ella: «E le tasse?
Figlia, chi disse pane, disse pene.
Il babbo ha detto: l'acque sono basse...»
E Viola pensava, e la Turella
mugliava di laggiù, come ascoltasse.
Rosa intanto ponea la catinella
sotto il bocciolo, e poi levata in piedi,
vedendo gli occhi della sua sorella,
esclamò: «Meglio non averli, i redi!»
III
«Ora?» «Sì: versa a modo: ecco!» Con molle
gorgoglio su la cenere quell'onda
fredda scorreva tra cerulee bolle;
e poi spariva; e giù per la profonda
conca invadeva i panni...
che parenti
erano anch'essi, e su la stessa sponda
vedevi insieme poi ruzzare ai venti.
LA BOLLITURA
I
Già: sciorinati su la stessa siepe
sono come una greggia che soletta
beva ad un pozzo e mangi ad un presèpe.
Ma non lontana è l'umile casetta
con gli occhi aperti delle sue finestre,
che veglia il dì, che a sera poi li aspetta.
Essi appartati dalle vie maestre,
piccoli e grandi stanno insieme al sole,
empiendo di fruscìo l'angolo alpestre.
Stridono appena, là con loro, sole
le foglie secche, e v'è col bianco odore
della tela l'odor delle viole.
Ma s'imbevono d'acqua, ora, per ore,
tiepida prima, e quindi a poco a poco
più calda, e quindi tolta via col fiore
nel paiolo che brontola sul fuoco.
II
Li coglierete quando il sole sfiora
i monti aguzzi, voi, Rosa e Viola,
e vostra madre.
È dolce assai quell'ora.
Mamma coglie, con qualche sua parola,
i suoi mazzetti, e voi sul greppo liete
stirate le schioccanti ampie lenzuola.
Ripasserete il tutto e riporrete,
troppo per l'ago e poco pel bisogno,
dentro il comune canteral d'abete;
dove poi dorme, e sempre vede in sogno
la soave domenica, piegato
in odore di spigo e di cotogno.
Ma or di ranno imbevesi il bucato;
e il ranno dal paiòl nero, quand'alza
la schiuma, su la conca alta versato,
sgorga dal fondo e scivola e rimbalza.
III
E la cucina tutto il dì fu piena
del casalingo e tacito lavoro,
e il paiolo pendé dalla catena.
E c'era odor di cenere e d'alloro,
e il fuoco ardeva.
Giù la tramontana
scendea mugliando; ed un tin tin sonoro
s'udiva intanto come di fontana.
LA CANZONE DEL BUCATO
I
Quel tintinno diceva: - Era l'estate:
le cicale cantavano sui meli:
bianca famiglia, voi dove eravate?
Certo nei campi: lunghi e verdi steli
col fiore in cima: ondoleggiando allora
non pensavate a diventar dei teli.
Venne l'autunno: usciste d'una gora
umidi e bianchi: bianchi sì, ma canne
dal fiume usciste a riveder l'aurora.
E poi sembraste piccole capanne
là sul greto tra i ciottoli e le ghiaie,
ritte sui piedi delle quattro manne.
Sonava presso voi nelle pescaie
il cadenzato canto delle rane,
pari a quello che poi venne dall'aie,
chiaro gracchiar di gramole lontane.
II
Venne l'inverno; e vennero al camino
l'esili nonne, con una gran ciocca
bianca, e ciascuna con un suo piccino;
un piccino che ronza e che non tocca
mai terra, eppure, non va mai lontano,
frullando giù col filo nella cócca.
Con queste rócche venne poi pian piano
lo stridulo arcolaio; e le sorelle
dietro si corsero corsero invano.
E il telaio sonò tra le procelle:
rumoreggiava tutta la contrada
di battenti, di calcole e girelle.
Dopo tanto rumore; alla rugiada,
sul verde prato, in una rosea sera,
diritta e lunga, simile a una strada,
c'era la tela; ed era primavera.
III
Sopra le margherite e sopra il timo
stava la tela, e si vedea lì presso
un canapaio nero ancor di fimo.
E la luna pendea sopra il cipresso
e tu guardavi quella strada, o Rosa,
lunga, e quel campo, dove a quel riflesso
il tuo corredo già nascea, di sposa.
-
LA VEGLIA
I
Canticchiò la fontana tutto il giorno
tra sé e sé, gemendo dal bocciuolo,
salutando ciascuno al suo ritorno.
Con l'arruffato brivido del volo
vennero i figli, mentre soli i ciocchi
ardean russando a quel ciangottar solo.
Venne il babbo; e, le mani sui ginocchi,
sedea pensando, mentre dal cantone
le monachine rincorrea con gli occhi.
Il piede avea sopra un capitone
del focolare, dove ardean russando
i ciocchi; e lo vincea quella canzone.
Dolce obliar la vanga a quando a quando,
fin ch'è lungi la prima acqua d'aprile...
Egli ascoltava quel gorgoglio blando,
le mani all'asta e il piede sul vangile.
II
Alzava il capo al rientrar sonoro
di frettolosi zoccoli; ed apriva
gli occhi, e lasciava a mezzo il suo lavoro.
La vanga rimanea presso un'oliva.
Ma ecco, a poco a poco e in un momento,
si trovava le mani su la stiva.
E l'aratro strideva col lamento
di legna verde, e per il solco duro
muggìan le vacche a lungo, come il vento
di tramontana.
E poi tra lume e scuro
si ritrovava, uscito alfin di pena,
nel suo cantuccio placido e sicuro.
Si fece buio, e la lucerna, piena
d'olio, brillò; più vivo il focolare
brillò; si cosse e si mangiò la cena;
e poi le rócche vennero a vegliare.
III
E venne Rigo.
E venne il vino arzillo,
e bevve ognuno: il vino aspro, raccolto
quando nei campi già piangeva il grillo.
E allora il babbo ragionò, rivolto
verso le rócche.
E Rigo ancor, per uso,
guardava a quelle, tacito, in ascolto
dell'incessante sibilar d'un fuso.
GRANO E VINO
I
«Oh! il campetto con siepe e con fossetto!
Nel verno io voglio, ch'io non son cicala,
il mio grano con me sotto il mio tetto.
Il buon odor di pane che si esala
da quel brusìo di mille chicchi d'oro,
quando il mio mucchio muovo con la pala!
Caro il mio grano! Quando il mio tesoro
mando al mulino, se ne va, sì, questo;
ma quello nasce sotto il mio lavoro.
Io le mie braccia, Dio ci mette il resto.
Me ne sa male; ed ecco che ogni staio
che mando, dice: - Mandami: fo cesto;
mandami: imboccio.
- Io mando al buon mugnaio.
- Mandami: impongo; mandami: rassodo.
-
Poi, quando nulla resta nel solaio,
l'ultimo dice: - To' la falce: a modo! -
II
Lodo la spiga e lodo ancor la pigna.
Ma la pigna e la spiga hanno gran liti
tra loro.
- Io non vo' grano nella vigna.
Padrone, su le prode io non vo' viti:
se lo bei, non lo mangi.
- Io non do noia:
tanto mi tagli, quando mi mariti! -
È infida...
- Ogni anno ella convien che muoia.
-
Sempre soffietti...
- E ari a capo chino.
-
Io sono la tua vita.
- Io la tua gioia.
-
Tua carne è il pane.
- Ma tuo sangue, il vino.
-
Che odore sa l'odore di pan fresco! -
E che cantare fa cantar di tino! -
Io son di casa.
- Io più, che mai non esco:
tu mi macini in casa co' tuoi piedi.
-
Tu, con me solo, puoi sederti a desco.
-
Ti levi, senza me, come ti siedi.
-
III
Tu pigna dura per insù, tu molle
spiga all'ingiù, vivete dunque in pace!
Per l'una il piano, sia per l'altra il colle.
Io la madia e la botte amo; e il loquace
tino ben canta, e bene odora il forno:
io ridirvi non so quanto mi piace
il vin d'un anno con il pan d'un giorno!»
L'OLIVETA E L'ORTO
I
E come li amo que' miei quattro olivi,
che al potatoio (sono morinelli)
gridano ogni anno: - Buon per te, se arrivi! -
Nonno di nonno li piantò; ma quelli
buttano ancor la mignola, mentr'esso
da un po' non sente cinguettar gli uccelli!
E ne vengono, sì, sopra il cipresso,
là, verso sera! Ed esso è là; ma sento
che verso sera è qui con noi, qui presso.
Tra lusco e brusco, egli entra lento lento,
venendo bianco dalla vita eterna,
e versa l'olio con un viso attento.
È lui, che il nostro lume anco governa
con que' suoi vecchi olivi: e quando l'Ave-
maria rintocca, e splende la lucerna,
- Filate, o donne, - mormora - da brave! -
II
E come l'amo il mio cantuccio d'orto,
col suo radicchio che convien ch'io tagli
via via; che appena morto, ecco è risorto:
o primavera! con quel verde d'agli,
coi papaveri rossi, la cui testa
suona coi chicchi, simile a sonagli;
con le cipolle di cui fo la resta
per San Giovanni; con lo spigo buono,
che sa di bianco e rende odor di festa;
coi riccioluti càvoli, che sono
neri, ma buoni; e quelle mie viole
gialle, ch'hanno un odore...
come il suono
dei vespri, dopo mezzogiorno, al sole
nuovo d'aprile; ed alto, co' suoi capi
rotondi, d'oro, il grande girasole
ch'è sempre pieno del ronzìo dell'api!
III
E amo tutto: i vetrici ed i salci,
che ripulisco ogni anno d'ogni vetta
per farne i torchi da legare i tralci;
quella fila di gattici soletta,
alta e lunga, su cui cantano i chiù;
il canneto che stride e che scoppietta:
ma non sapete quello ch'amo più
LA SIEPE
I
Siepe del mio campetto, utile e pia,
che al campo sei come l'anello al dito,
che dice mia la donna che fu mia
(ch'io pur ti sono florido marito,
o bruna terra ubbidïente, che ami
chi ti piagò col vomero brunito...);
siepe che il passo chiudi co' tuoi rami
irsuti al ladro dormi 'l-dì; ma dài
ricetto ai nidi e pascolo a gli sciami;
siepe che rinforzai, che ripiantai,
quando crebbe famiglia, a mano a mano,
più lieto sempre e non più ricco mai;
d'albaspina, marruche e melograno,
tra cui la madreselva odorerà
io per te vivo libero e sovrano,
verde muraglia della mia città.
II
Oh! tu sei buona! Ha sete il passeggero;
e tu cedi i tuoi chicchi alla sua sete,
ma salvi il frutto pendulo del pero.
Nulla fornisci alle anfore segrete
della massaia: ma per te, felice
ella i ciliegi popolosi miete.
Nulla tu rendi; ma la vite dice;
quando la poto all'orlo della strada,
che si sente il cucùlo alla pendice,
dice: - Il padre tu sei che, se t'aggrada,
sì mi correggi e guidi per il pioppo;
ma la siepe è la madre che mi bada.
-
- Per lei vino ho nel tino, olio nel coppo -
rispondo.
I galli plaudono dall'aia;
e lieto il cane, che non è di troppo,
ch'è la tua voce, o muta siepe, abbaia.
III
E tu pur, siepe, immobile al confine,
tu parli; breve parli tu, ché, fuori,
dici un divieto acuto come spine;
dentro, un assenso bello come fiori;
siepe forte ad altrui, siepe a me pia,
come la fede che donai con gli ori,
che dice mia la donna che fu mia.
ACCESTISCE
I
Egli parlava; e vennero i pisani:
presero Dore, adagio su le braccia:
- Vi si riporterà, gente, domani! -
Nando riprese allora la sua caccia.
Viola lo seguì con la Turella
pascendo i timi giù per la Pianaccia.
Ma gli occhi aperti Rosa, la sorella
bionda, teneva.
Ella tra sé romita
faceva e disfaceva una mannella.
Sembravano un veloce aspo le dita
silenzïose.
Rigo s'era fatto
più presso: «Ed ora, sola è la mia vita!»
S'udiva solo quel parlare.
Un gatto
ronfava.
La lucerna ora dimessa
sfriggeva, ora guizzava alto d'un tratto,
come in un sogno: ché dormiva anch'essa.
II
«...
E fate a modo!» Rigo uscì.
Non c'era
per la campagna bianca che lui solo
e l'ombra sua che lo seguiva nera.
Splendea la luna su quel gran lenzuolo
candido, come, accanto un letto, il lume
dimenticato; e scricchiolava il suolo
sotto i suoi passi; e brontolava il fiume
là là: le giravolte sue lontane
mostrava appena un vago fior di brume.
Pestava un altro su la neve: un cane;
Po: gli strisciò le gambe.
Ecco che intese
un arrochito suono di campane.
Mezzanotte.
Ogni casa, ogni paese
dormiva.
Egli era nella via maestra:
guardava in alto, donde già discese:
c'era un lume, un lumino, alla finestra.
III
E c'era un'ombra.
Egli vedeva.
Ed ella
vedeva.
E fece un segno colla mano.
L'ombra sparì: si spense la fiammella.
E la sua strada seguitò pian piano,
e ripensava dentro sé: che cosa?
Ch'era gennaio...
ch'accestiva il grano...
ch'era già tardi...
ch'eri bella, o Rosa!
I DUE FANCIULLI - I DUE ORFANI
I DUE FANCIULLI
I
Era il tramonto: ai garruli trastulli
erano intenti, nella pace d'oro
dell'ombroso viale, i due fanciulli.
Nel gioco, serio al pari d'un lavoro,
corsero a un tratto, con stupor de' tigli,
tra lor parole grandi più di loro.
A sé videro nuovi occhi, cipigli
non più veduti, e l'uno e l'altro, esangue,
ne' tenui diti si trovò gli artigli,
e in cuore un'acre bramosia di sangue,
e lo videro fuori, essi, i fratelli,
l'uno dell'altro per il volto, il sangue!
Ma tu, pallida (oh! i tuoi cari capelli
strappati e pésti!), o madre pia, venivi
su loro, e li staccavi, i lioncelli,
ed «A letto» intimasti «ora, cattivi!»
II
A letto, il buio li fasciò, gremito
d'ombre più dense; vaghe ombre, che pare
che d'ogni angolo al labbro alzino il dito.
Via via fece più grosse onde e più rare
il lor singhiozzo, per non so che nero
che nel silenzio si sentia passare.
L'uno si volse, e l'altro ancor, leggero:
nel buio udì l'un cuore, non lontano
il calpestìo dell'altro passeggero.
Dopo breve ora, tacita, pian piano,
venne la madre, ed esplorò col lume
velato un poco dalla rosea mano.
Guardò sospesa; e buoni oltre il costume
dormir li vide, l'uno all'altro stretto
con le sue bianche aluccie senza piume;
e rincalzò, con un sorriso, il letto.
III
Uomini, nella truce ora dei lupi,
pensate all'ombra del destino ignoto
che ne circonda, e a' silenzi cupi
che regnano oltre il breve suon del moto
vostro e il fragore della vostra guerra,
ronzio d'un'ape dentro il bugno vuoto.
Uomini, pace! Nella prona terra
troppo è il mistero; e solo chi procaccia
d'aver fratelli in suo timor, non erra.
Pace, fratelli! e fate che le braccia
ch'ora o poi tenderete ai più vicini,
non sappiano la lotta e la minaccia.
E buoni veda voi dormir nei lini
placidi e bianchi, quando non intesa,
quando non vista, sopra voi si chini
la Morte con la sua lampada accesa.
NELLA NEBBIA
E guardai nella valle: era sparito
tutto! sommerso! Era un gran mare piano,
grigio, senz'onde, senza lidi, unito.
E c'era appena, qua e là, lo strano
vocìo di gridi piccoli e selvaggi:
uccelli spersi per quel mondo vano.
E alto, in cielo, scheletri di faggi,
come sospesi, e sogni di rovine
e di silenzïosi eremitaggi.
Ed un cane uggiolava senza fine,
né seppi donde, forse a certe péste
che sentii, né lontane né vicine;
eco di péste né tarde né preste,
alterne, eterne.
E io laggiù guardai:
nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.
Chiesero i sogni di rovine: - Mai
non giungerà? - Gli scheletri di piante
chiesero: - E tu chi sei, che sempre vai? -
Io, forse, un'ombra vidi, un'ombra errante
con sopra il capo un largo fascio.
Vidi,
e più non vidi, nello stesso istante.
Sentii soltanto gl'inquïeti gridi
d'uccelli spersi, l'uggiolar del cane,
e, per il mar senz'onde e senza lidi,
le péste né vicine né lontane.
LA GRANDE ASPIRAZIONE
Un desiderio che non ha parole
v'urge, tra i ceppi della terra nera
e la raggiante libertà del sole.
Voi vi torcete come chi dispera,
alberi schiavi! Dispergendo al cielo
l'ombra de' rami lenta e prigioniera,
e movendo con vane orme lo stelo
dentro la terra, sembra che v'accori
un desiderio senza fine anelo.
- Ali e non rami! piedi e non errori
ciechi di ignave radiche! - poi dite
con improvvisa melodia di fiori.
Lontano io vedo voi chiamar con mite
solco d'odore; vedo voi lontano
cennar con fiamme piccole, infinite.
E l'uomo, alberi, l'uomo, albero strano
che, sì, cammina, altro non può, che vuole;
e schiavi abbiamo, per il sogno vano,
noi nostri fiori, voi vostre parole.
L'IMMORTALITÀ
I
Poeta Omar, pupilla solitaria
che vede e splende, che contempla e crea,
diceva avanti il mausoleo di Caria:
«Non mescerai la polvere all'idea!
Misero te, cui nella rupe piace
scoprir la bianca faretrata dea!
e te che il fosco eroe dalla fornace
susciti vivo sopra il suo cavallo
che ringhia! Il tempo che cammina e tace,
rode il tuo marmo, lima il tuo metallo.
II
Tra mille, tra duemila anni, tra poco,
l'eroe sarà nella volante arena,
sarà la dea ne' grappoli di fuoco!
Misero! Ma quest'opera serena,
fatta d'anima pura e di parole,
beltà dal tempo e dalla morte ha lena:
vive la vita lucida del sole».
III
«Dunque morrà!» rispose Abdul, quïeta
pupilla, su cui getta ombre il fulgore
del cielo immenso: «Il sol morrà, poeta!
Quando? Tu conta i bàttiti al tuo cuore:
secoli sono i palpiti del sole;
ma sono, istanti e secoli, a chi muore,
o poeta, una cosa e due parole!»
IV
Disse.
E al poeta il breve inno non piacque
mai più.
Godé del cielo egli e del suolo,
di brevi rose e brevi trilli; e tacque.
Moriva; e disse, mentre un usignolo
cantava ancora ne' verzieri suoi:
«Giova ciò solo che non muore, e solo
per noi non muore, ciò che muor con noi».
IL LIBRO
I
Sopra il leggìo di quercia è nell'altana,
aperto, il libro.
Quella quercia ancora,
esercitata dalla tramontana,
viveva nella sua selva sonora;
e quel libro era antico.
Eccolo: aperto,
sembra che ascolti il tarlo che lavora.
E sembra ch'uno (donde mai? non, certo,
dal tremulo uscio, cui tentenna il vento
delle montagne e il vento del deserto,
sorti d'un tratto...) sia venuto, e lento
sfogli - se n'ode il crepitar leggiero -
le carte.
E l'uomo non vedo io: lo sento,
invisibile, là, come il pensiero...
II
Un uomo è là, che sfoglia dalla prima
carta all'estrema, rapido, e pian piano
va, dall'estrema, a ritrovar la prima.
E poi nell'ira del cercar suo vano
volta i fragili fogli a venti, a trenta,
a cento, con l'impazïente mano.
E poi li volge a uno a uno, lenta-
mente, esitando; ma via via più forte,
più presto, i fogli contro i fogli avventa.
Sosta...
Trovò? Non gemono le porte
più, tutto oscilla in un silenzio austero.
Legge?...
Un istante; e volta le contorte
pagine, e torna ad inseguire il vero.
III
E sfoglia ancora; al vespro, che da nere
nubi rosseggia; tra un errar di tuoni,
tra un alïare come di chimere.
E sfoglia ancora, mentre i padiglioni
tumidi al vento l'ombra tende, e viene
con le deserte costellazïoni
la sacra notte.
Ancora e sempre: bene
io n'odo il crepito arido tra canti
lunghi nel cielo come di sirene.
Sempre.
Io lo sento, tra le voci erranti,
invisibile, là, come il pensiero,
che sfoglia, avanti indietro, indietro avanti,
sotto le stelle, il libro del mistero.
LA FELICITÀ
«Quella, tu dici, che inseguii, non era
lei...?» «No: era una vana ombra in sembiante
di quella che ciascuno ama e che spera
e che perde.
Virtù di negromante!»
«Ella è qui, nel castello arduo ch'entrai?»
«Forse la tocchi, o cavaliere errante!»
«Forse...
E non la vedrò?» «Non la vedrai».
«Oh!» «Tale è l'arte dell'oscuro Atlante:
non è, la vedi: è, non la vedi».
«E, mai...?»
«Ma sì: se leggi in questo libro tante
rapide righe».
«E dicono...?» «S'ignora:
chi lesse, tacque, o cavaliere errante!»
«Se leggo...» «Sai: l'incanto è rotto».
«Allora?»
«La vedrai».
«Su l'istante?» «In quell'istante!»
«E il castello?» «Nell'ombra esso vapora».
«Ed è?...» «La Vita, o cavaliere errante!»
IL CIECO
I
Chi l'udì prima piangere? Fu l'alba.
Egli piangeva; e, per udirlo, ascese
qualche ramarro per una vitalba.
E stettero, per breve ora, sospese
su quel capo due grandi aquile fosche.
Presso era un cane, con le zampe tese
all'aria, morto: tra un ronzìo di mosche.
II
«Donde venni non so; né dove io vada
saper m'è dato.
Il filo del pensiero
che mi reggeva, per la cieca strada,
da voci a voci, dal dì nero al nero
tacer notturno (m'addormii; sognai:
vedevo in sogno che vedevo il vero:
desto, più non lo so, né saprò mai...);
III
nel chiaro sonno, in mezzo a un rombo d'api,
si ruppe il tenue filo.
E poi che gli occhi
apersi, cerco i due penduli capi
in vano.
Mi levai sopra i ginocchi,
mi levai su' due piedi.
E l'aria in vano
nera palpo, e la terra anche, s'io tocchi
pure il guinzaglio, cui lasciò la mano
IV
addormentata.
Oh! non credo io che dorma
la mia guida, e con lieve squittir segua
nel chiaro sonno il lieve odor d'un'orma!
Egli è fuggito; è vano che l'insegua
per l'ombra il suono delle mie parole!
Oh! la lunga ombra che non mai dilegua
per la sempre aspettata alba d'un sole,
V
che di là brilla! Vano il grido, vano
il pianto.
Io sono il solo dei viventi,
lontano a tutti ed anche a me lontano.
Io so che in alto scivolano i venti,
e vanno e vanno senza trovar l'eco,
a cui frangere alfine i miei lamenti;
a cui portare il murmure del cieco...
VI
Ma forse uno m'ascolta; uno mi vede,
invisibile.
Sé dentro sé cela.
Sogghigni? piangi? m'ami? odii? Siede
in faccia a me.
Chi che tu sia, rivela
chi sei: dimmi se il cuor ti si compiace
o si compiange della mia querela!
Egli mi guarda immobilmente, e tace.
VII
O forse una mi vede, una m'ascolta,
invisibile.
È grande, orrida: il vento
le va fremendo tra la chioma folta.
Siede e mi guarda.
O tu che ignoro e sento,
dimmi se guerra hai tu negli occhi o pace!
dimmi ove sono! Ed essa è là, col mento
sopra la palma, che mi guarda, e tace.
VII
Chi che tu sia, che non vedo io, che vedi
me, parla dunque: dove sono? Io voglio
cansar l'abisso che mi sento ai piedi...
di fronte? a tergo? Parlami.
Il gorgoglio
n'odo incessante; e d'ogni intorno pare
che venga; ed io qui sto, come uno scoglio,
tra un nero immenso fluttuar di mare».
IX
Così piangeva: e l'aurea sera nelle
rughe gli ardea del viso; e la rugiada
sopra il suo capo piovvero le stelle.
Ed egli stava, irresoluto, a bada
del nullo abisso, e gli occhi intorno, pieni
d'oblìo, volgeva; fin ch' - io so la strada -
una, la Morte, gli sussurrò - vieni! -
L'EREMITA
I
Pregava all'alba il pallido eremita:
«Dio, non negare il sale alla mia mensa,
non negare il dolore alla mia vita.
Ma del dolore che quaggiù dispensa
la tua celeste provvidenza buona,
a me risparmia il reo dolor che pensa.
O, s'è destino, per di più mi dona,
con quel che pensa, anche il dolor che grida:
l'afa che opprime, il nuvolo che tuona;
pensier che strugga e folgore che uccida!»
II
E ripregava a mezzodì: «Rimane,
Dio, che tu lasci che il nemico muto
pur mandi a me le nudità sue vane.
Quando al vespro del mio dì combattuto
dilegueranno, io penserò che, vere,
le avrei non meno dileguar veduto.
Nel cuore sono due vanità nere
l'ombra del sogno e l'ombra della cosa;
ma questa è il buio a chi desìa vedere,
e quella il rezzo a chi stanco riposa».
III
A sera, disse: «Il servo, umile e grato,
ti benedice! Tu mi desti, o Dio,
l'aver provato e non aver peccato.
L'anima mia tu percotesti e il mio
corpo di tanto e tal dolor ch'è d'ogni
dolcezza assai più dolce ora l'oblìo.
Infelice cui l'occhio apresi ai sogni,
apresi nella grande ombra che tace,
sia che già tema, sia che sempre agogni!
Piansi, non piango: io dormirò: sia pace!»
IV
E velò gli occhi il pallido eremita.
Ed ecco gli fluìa per i precordi
il dolce sonno della stanca vita;
quando riscosso (egli scendeva a fior di
grandi acque mute su labile nave)
gridò: «Signore, fa ch'io mi ricordi!
Dio, fa che sogni! Nulla è più soave,
Dio, che la fine del dolor; ma molto
duole obliarlo; ché gettare è grave
il fior che solo odora quando è colto».
L'ASINO
I
L'asino...
Parmi adesso: era una sera
d'ottobre, nella strada di Sogliano.
Cigolava per l'erta la corriera.
E io guardavo dietro me, nel piano,
dove San Mauro mio già non appare
- oh! mio nido di lodola tra il grano! -
dove tra il verde luccica, e tra chiare
brecce di ville borghi città, drago
addormentato dal cantar del mare,
la Marecchia argentina.
E quando pago
fui della vista, mi rivolsi e, nero
come uno scoglio per un roseo lago,
nero sopra un trascolorar leggiero
di tutto il cielo, come un'ombra netta,
nero e fermo lassù come un mistero,
...
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