[Pagina precedente]... aspri gioghi il mio cammino,
degli uomini vetusti, antelunari.
Nacquero sopra le montagne nere,
che ancor la luna non correa su quelle:
nacque dopo essi, e palpitò per loro
gemiti strani. Era un meriggio estivo:
io sentiva negli occhi arsi il barbaglio
della via bianca, e nell'orecchio un vasto
tintinnìo di cicale ebbre di sole.
Ed ecco io vidi alla mia destra un folto
bosco d'antiche roveri, che al giogo
parea del monte salir su, cantando
a quando a quando con un improvviso
lancio discorde delle mille braccia.
Entrai nel bosco abbrividendo, e molto
con muto labbro venerai le ninfe,
non forse audace violassi il musco
molle, lambito da' lor molli piedi.
E giunsi a un fonte che gemea solingo
sotto un gran leccio, dentro una sonora
conca di scabra pomice, che il pianto
già pianto urgea con grappoli di stille
nuove, caduchi, e ne traeva un canto
dolce, infinito. Io là m'assisi, al rezzo.
Poi, non so come, un dio mi vinse: presi
l'eburnea cetra e lungamente, a prova
col sacro fonte, pizzicai le corde.
Così scoppiò nel tremulo meriggio
il vario squillo d'un'aerea rissa:
e grande lo stupore era de' lecci,
ché grande e chiaro tra la cetra arguta
era l'agone, e la vocal fontana.
Ogni voce del fonte, ogni tintinno,
la cava cetra ripetea com'eco;
e due diceva in cuore suo le polle
forse il pastore che pascea non lungi.
Ma tardo, al fine, m'incantai sul giogo
d'oro, con gli occhi, e su le corde mosse
come da un breve anelito; e li chiusi,
vinto; e sentii come il frusciare in tanto
di mille cetre, che piovea nell'ombra;
e sentii come lontanar tra quello
la meraviglia di dedalee storie,
simili a bianche e lunghe vie, fuggenti
all'ombra d'olmi e di tremuli pioppi:
Allora io vidi, o Delià s, con gli occhi,
l'ultima volta. O Delià s, la dea
vidi, e la cetra della dea: con fila
sottili e lunghe come strie di pioggia
tessuta in cielo; iridescenti al sole.
E mi parlò, grave, e mi disse: Infante!
qual dio nemico a gareggiar ti spinse,
uomo con dea? Chi con gli dei contese,
non s'ode ai piedi il balbettìo dei bimbi,
reduce. Or va, però che mite ho il cuore:
voglio che il male ti germogli un bene.
Sarai felice di sentir tu solo,
tremando in cuore, nella sacra notte,
parole degne de' silenzi opachi.
Sarai felice di veder tu solo,
non ciò che il volgo vìola con gli occhi,
ma delle cose l'ombra lunga, immensa,
nel tuo segreto pallido tramonto.
Disse, e disparve; e, per tentar che feci
le irrequïete palpebre, più nulla
io vidi delle cose altro che l'ombra,
pago, finché non m'apparisti al raggio
della tua voce limpida, o fanciulla
di Delo, o palma del canoro Inopo,
sola tu del mio sogno anche più bella,
maggior dell'ombra che di te serpeggia
nel mio segreto pallido tramonto.
Ora a te sola ridirò le storie
meravigliose, che sentii quel giorno
come vie bianche lontanar tra i pioppi.
E quale il tuo, che non maggior potevi,
tale il mio dono, né potrei maggiore;
ché il bene in te qui lascerò, come ape
che punge, e il male resterà più grave,
grave sol ora, al tuo cantor, cui diede
la Musa un bene e, Delià s, un male!
LA CETRA D'ACHILLE
I
I re, le genti degli Achei vestiti
di bronzo, tutti, sì, dormian domati
dal molle sonno, e i lor cavalli sciolti
dai giogo, avvinti con le briglie ai carri,
pascean, soffiando, il bianco orzo e la spelta.
Dormivano i custodi anche de' fuochi,
abbandonato il capo sugli scudi
lustri, rotondi, presso i fuochi accesi,
al cui guizzare balenava il rame
dell'armi, come nuvolaglia a notte,
prima d'un nembo: Domator di tutto
teneva il sonno i Panachei chiomanti,
mirabilmente, nella notte ch'era
l'ultima notte del Pelide Achille;
e in cuore ognuno lo sapea, nel cielo
e nella terra, e tutti ora sbuffando:
dalle narici il rauco sonno, in sogno
lo vedean fare un grande arco cadendo,
e sollevare un vortice di fumo;
ma in sogno senza altro fragor cadeva,
simile ad ombra; e senza suono, a un tratto,
i cavalli e gli eroi misero un ringhio
acuto, i carri scosser via gli aurighi,
mentre laggiù, sotto Ilio, alta e feroce
la bronzea voce si frangea, d'Achille.
II
Dormian, sì, tutti; e tra il lor muto sonno
giungeva un vasto singhiozzar dal mare.
Piangean le figlie del verace Mare,
nel nero Ponto, l'ancor vivo Achille,
lontane, ch'egli non ne udisse il pianto.
Ed altre, sì, con improvviso scroscio
ululando montavano alla spiaggia,
per dirgli il fato o trarlo a sé; ma in vano:
fuggian con grida e gemiti e singhiozzi
lasciando le lor bianche orme di schiuma.
Ma non le udiva, benché desto, Achille,
desto sol esso; ch'egli empiva intanto
a sé l'orecchio con la cetra arguta,
dedalea cetra, scelta dalle prede
di Thebe sacra ch'egli avea distrutta.
Or, pieno il cuore di quei chiari squilli,
non udiva su lui piangere il mare,
e non udiva il suo vocale Xantho
parlar com'uomo all'inclito fratello,
Folgore, che gli rispondea nitrendo.
L'eroe cantava i morti eroi, cantava
sé, su la cetra già da lui predata.
Avea la spoglia, su le membra ignude,
d'un lion rosso già da lui raggiunto,
irsuta, lunga sino ai pie' veloci.
III
Così le glorie degli eroi consunti
dal rogo, e sé con lor cantava Achille,
desto sol esso degli Achei chiomanti:
ecco, avanti gli stette uno, canuto,
simile in vista a vecchio dio ramingo.
E gli fu presso e gli baciò le mani
terribili. Sbalzò attonito Achille
su, dal suo seggio, e il morto lion rosso
gli raspò con le curve unghie i garretti.
E gli volgeva le parole alate:
Vecchio, chi sei? donde venuto? Sembri,
sì, nell'aspetto Primo re, ma regio
non è il mantello che ti para il vento.
Chi ti fu guida nella notte oscura?
Parla, e per filo il tutto narra, o vecchio.
E gli parlava rispondendo il vecchio:
No, non ti sono io re, splendido Achille;
un dio felice non mi fu l'auriga:
io da me venni. Tutti, anche i custodi
dormono presso il crepitar dei fuochi.
Tu solo vegli; e non udii, venendo,
ch'esili stridi dagli eroi sopiti,
e che un sommesso brulichio dai morti.
E nella sacra notte a me fu guida
un suono, il suono d'una cetra, Achille.
IV
Lo guardò scuro e gli rispose Achille:
Tu non m'hai detto il caro nome, e donde
vieni e perché. Non forse tu notturno
vieni, alle navi degli Achei ricurve,
per dono grande, ad esplorare, o vecchio?
E gli parlava rispondendo il vecchio:
Io sono aedo, o pieveloce Achille,
caro ai guerrieri, non guerriero io stesso.
Io nacqui sotto la selvosa Placo,
in Thebe sacra, già da te distrutta.
Da te non vengo a liberarmi un figlio
cui lecchi il sangue un vigile tuo cane;
il figlio, no; recando qui sul forte
plaustro mulare tripodi e lebeti
e pepli e manti e molto oro nell'arca.
Non a me copia, non a te n'è d'uopo;
ché tu sei già del tuo destino, e tutti
lo sanno, il cielo, l'infinito mare,
la nera terra, e lo sai tu ch'hai dato
ai cari amici le tue prede e i doni
splendidi; ansati tripodi, cavalli,
muli, lustranti buoi, donne ben cinte,
e grigio ferro, e reso Ettore al padre
e la tua vita al suo dovere... Oh! rendi
dunque all'aedo la sua cetra, Achille!
V
Disse, e sporgea la mano alla sua cetra
bella, dedalea, ma l'argenteo giogo
era dai peli del lion coperto.
E il cuor d'Achille, mareggiava, come
il mare in dubbio di spezzar la nave,
piccola, curva. E poi parlava, e disse:
TE'; riporgendo al pio cantor 'la cetra;
non sì che, urtando nel pulito seggio,
non mettesse, tremando, ella uno squillo.
Poi tacque, in mano dell'aedo, anch'ella.
Allora, stando, il pari a un dio Pelide
udì ringhiare i suoi grandi cavalli,
intese Xantho favellar com'uomo,
e parlar della sua morte al fratello,
Folgor, che gli rispondea nitrendo.
Allora udì su lui piangere il mare,
piangere le figlie del verace Mare,
lui, così bello, lui così nel fiore;
e molte con un improvviso scroscio
venir per trarlo via con sé; ma in vano.
E vide nella sacra notte il fato
suo, che aspettava alle Sinistre Porte,
come l'auriga asceso già sul carro,
la sferza in pugno, che all'eroe si volge,
sopragiungente nel fulgor dell'armi.
VI
E il vecchio disse le parole alate:
Lascia ch'io vada senz'indugio, e porti
- meco la cetra, che non forse il cuore
nero t'inviti a piangere, su questa
cetra di glorie, l'ancor vivo Achille.
Lascia che pianga e mare e terra e cielo;
tu no. Non devi inebbriar di canto
tu, divo Achille, l'animo sereno
che sa, non devi a te celare il fato,
non che ti volle ma che tu volesti.
Restaci grande, o Peleiade Achille!
Noi, canteremo. Noi di te diremo
che, sì, piangevi, ma lontano e solo,
e che dicevi il tuo dolore all'onde
del mare ed alle nuvole del cielo.
E noi diremo che una dea non vista
a frenar la tua fosca ira veniva,
e ti prendea per la criniera rossa,
rossa criniera che così sconvolta
poi ti lisciava un'altra dea non vista,
nel tuo dolore; e che obbedivi a voci
dell'infinito o cielo o mare: avanti,
spingendo con un grande urlo d'auriga
verso la morte l'immortal tuo Xantho.
Disse e disparve nell'ambrosia notte.
VII
E stette Achille ad ascoltare i ringhi
de' suoi cavalli, e più lontano il pianto
delle Nereidi, e dentro i lor singhiozzi
sentì più trista, sì ma più sommessa,
la voce della sua cerulea madre.
Anche sentì tra il sonno alto del campo
passar con chiaro tintinnìo la cetra,
di cui tentava il pio cantor le corde;
mentre i cavalli sospendean, fremendo,
di dirompere il bianco orzo e la spelta.
Passava il canto tra la morte e il sogno:
qualche avvoltoio, sorto su dai morti,
gli eroi viventi ventilava in fronte.
Lontanò ella sotto il cielo azzurro,
e poi vanì. Né più la intese Achille.
Né gli restava, oltre i cavalli e il carro
da guerra e le stellanti armi, più nulla,
se non montare sopra i due cavalli,
fulgido, in armi, come Sole, andando
al suo tramonto. Quando udì vicino
un singulto: Briseide su la soglia
stava, e piangeva, la sua dolce schiava.
Ed egli allora si corcò tenendo
lei tra le braccia, con su lor la pelle
del lion rosso; ed aspettò l'aurora.
LE MEMNONIDI
Ecco apparì l'Aurora che la terra
nera toccava con le rosee dita.
I
Disse: - Uccidesti il figlio dell'Aurora:
non rivedrai né la sua madre ancora!
E sì, t'amavo come un suo fratello.
Tu fulvo, ei nero; nero sì, ma bello:
tu come rogo che divampa al vento,
ei come rogo che la pioggia ha spento:
Memnone amato! E tu dovevi amare
lui nato in cielo figlio tu del mare!
L'azzurro mare ama la terra nera;
il giorno ardente ama l'opaca sera;
l'opera, il sonno; ama il dolor la morte...
Va dunque, Achille, alle Sinistre Porte!
II
Io sì t'amava, e ti ricordo, molle
della mia guazza la criniera fulva,
nella lontana Ftia ricca di zolle:
nei boschi, invasi dall'odor di lauro,
del Pelio: lungo lo Sperchèo, tra l'ulva
pesta dall'ugne del tuo gran Centauro.
Io ti mostrava là su l'alte nevi
i foschi lupi che notturni a zonzo
fiutaron l'antro dove tu giacevi:
e tu gettavi contro loro incauto
la voce ch'ora squilla come bronzo,
allor sonava come lidio flauto.
Io ti vedeva predatore impube
correre a piedi, immerso nella tua
anima azzurra come in una nube;
io, rosseggiando, e con la bianca falce
la luna smorta, vedevam laggiù
correre un uomo dietro una grande alce.
III
E meco c'era Memnone, che un urlo
dal ciel mandava ai piedi tuoi veloci.
Tu li credevi di laggiù le voci
forse della palustre oca o del chiurlo.
Perché t'amava anch'esso, il tuo fratello
crepuscolare, che poi te protervo
seduto sopra il boccheggiante cervo,
circondava de' suoi strilli d'uccello.
Or egli è pietra, e ben che nera pietra,
il figlio dell'Aurora ha le sue pene,
ché quando io sorgo, e piango, ei dalle verte
rivibra un pianto come suon di cetra...
forse sospesa a un ramo, quale io credo
d'udite ancora, qui tra i pini e i cedri,
che al primo sbuffo de' miei due polledri
vibrò chiamando il suo perduto aedo.
IV
E quando io sorgo, le Memnonie gralle
fanno lor giochi, quali intorno un rogo,
non come aurighi con Ferèe cavalle
sbalzano in alto sotto il lieve giogo,
con la lucida sferza su le spalle;
e né come unti lottatori ignudi
che si serrano a modo di due travi,
e né come aspri pugili coi crudi
cesti allacciati intorno ai pugni gravi;
ma come eroi, con l'aste e con gli scudi.
Quasi al fuoco d'un rogo, al mio barlume...
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