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così parlava il tessitor d'inganni,
e non senz'ali era la sua parola.
E poi soletto deviò volgendo
l'astuto viso al fresco alito salso.
Le quercie ai piedi gli spargean le foglie
roggie che scricchiolavano al suo passo.
Gemmava il fico, biancheggiava il pruno,
e il pero avea ne' rosei bocci il fiore.
E di su l'alto Nerito il cuculo
contava arguto il su e giù de l'onde.
E già l'Eroe sentiva sotto i piedi
non più le foglie ma scrosciar la sabbia;
né più pruni fioriti, ma vedeva
i giunchi scabri per i bianchi nicchi;
e infine apparve avanti al mare azzurro
l'Eroe vegliardo col timone in collo
e la bipenne; e l'inquieto mare,
mare infinito, fragoroso mare,
su la duna lassù lo riconobbe
col riso innumerevole dell'onde.
IX
IL PESCATORE
Ma lui vedendo, ecco di subito una
rondine deviò con uno strillo.
Ch'ella tornava. Ora Odisseo con gli occhi
cercava tutto il grigio lido curvo,
s'egli vedesse la sua nave in secco.
Ma non la vide; e vide un uomo, un vecchio
di triti panni, chino su la sabbia
raspare dove boccheggiava il mare
alternamente. A lui fu sopra, e disse:
Abbiamo nulla, o pescator di rena?
Ben vidi, errando su la nave nera,
uomo seduto in uno scoglio aguzzo
reggere un filo pendulo sul flutto;
ma il lungo filo tratto giù dal piombo
porta ai pesci un adunco amo di bronzo
che sì li uncina; e ne schermisce il morso
un liscio cerchio di bovino corno.
Ché l'uomo, quando è roso dalla fame,
mangia anche il sacro pesce che la carne
cruda divora. Io vidi, anzi, mortali
gittar le reti dalle curve navi,
sempre alïando sui pescosi gorghi,
come le folaghe e gli smerghi ombrosi.
E vidi i pesci nella grigia sabbia
avvoltolarsi, per desìo dell'acqua,
versati fuori della rete a molte
maglie; e morire luccicando al sole.
Ma non vidi senz'amo e senza rete
niuno mai fare tali umide prede,
o vecchio, e niuno farsi mai vivanda
di tali scabre chiocciole dell'acqua,
che indosso hanno la nave, oppur dei granchi,
che indosso hanno l'incudine dei fabbri.
E il malvestito al vecchio Eroe rispose:
Tristo il mendico che al convito sdegna
cibo che lo scettrato re gli getta,
sia tibia ossuta od anche pingue ventre.
Ché il Tutto, buono, ha tristo figlio: il Niente.
Prendo ciò che il mio grande ospite m'offre,
che dona, cupo brontolando in cuore,
ma dona: il mare fulgido e canoro,
ch'è sordo in vero, ma più sordo è l'uomo.
Or al mendico il vecchio Eroe rispose:
O non ha la rupestre Itaca un buono
suo re ch'ha in serbo molto bronzo e oro?
che verri impingua, negli stabbi, e capre?
cui molto odora nei canestri il pane?
Non forse il senno d'Odisseo qui regge,
che molto errò, molto in suo cuor sofferse?
e fu pitocco e malvestito anch'esso.
Non sai la casa dal sublime tetto,
del Laertiade fulgido Odisseo?
X
LA CONCHIGLIA
Il malvestito non volgeva il capo
dal mare alterno, ed al ricurvo orecchio
teneva un'aspra tortile conchiglia,
come ascoltasse. Or all'Eroe rispose:
O Laertiade fulgido Odisseo,
so la tua casa. Ma non io pitocco
querulo sono, poi che fui canoro
eroe, maestro io solo a me. Trovai
sparsi nel cuore gl'infiniti canti.
A te cantai, divo Odisseo, da quando
pieno di morti fu l'umbratile atrio,
simili a pesci quali il pescatore
lasciò morire luccicando al sole.
E vedo ancor le schiave moriture
terger con acqua e con porose spugne
il sangue, e molto era il singulto e il grido.
A te cantavo, e tu bevendo il vino
cheto ascoltavi. E poi t'increbbe il detto
minor del fatto. Ascolto or io l'aedo,
solo, in silenzio. Ché gittai la cetra,
io. La raccolse con la mano esperta
solo di scotte un marinaio, un vecchio
dagli occhi rossi. Or chi la tocca? Il vento.
Or all'Aedo il vecchio Eroe rispose:
Terpiade Femio, e me vecchiezza offese
e te: ché tolse ad ambedue piacere
ciò che già piacque. Ma non mai che nuova
non mi paresse la canzon più nuova
di Femio, o Femio; più nuova e più bella:
m'erano vecchie d'Odisseo le gesta.
Sonno è la vita quando è già vissuta:
sonno; ché ciò che non è tutto, è nulla.
Io, desto alfine nella patria terra,
ero com'uomo che nella novella
alba sognò, né sa qual sogno, e pensa
che molto è dolce a ripensar qual era.
Or io mi voglio rituffar nel sonno,
s'io trovi in fondo dell'oblio quel sogno.
Tu verrai meco. Ma mi narra il vero:
qual canto ascolti, di qual dolce aedo?
Ch'io non so, nella scabra isola, che altri
abbia nel cuore inseminati i canti.
E il vecchio Aedo al vecchio Eroe rispose:
Questo, di questo. Un nicchio vile, un lungo
tortile nicchio, aspro di fuori, azzurro
di dentro, e puro, non, Eroe, più grande
del nostro orecchio; e tutto ha dentro il mare,
con le burrasche e le ritrose calme,
coi venti acuti e il ciangottìo dell'acque.
Una conchiglia, breve, perché l'oda
il breve orecchio, ma che il tutto v'oda;
tale è l'Aedo. Pure a te non piacque.
Con un sorriso il vecchio Eroe rispose:
Terpiade Femio, assai più grande è il mare!
XI
LA NAVE IN SECCO
E il vecchio Aedo e il vecchio Eroe movendo
seguian la spiaggia del sonante mare,
molto pensando, e là , sul curvo lido,
piccola e nera, apparve lor la nave.
Vedean la poppa, e n'era lunga l'ombra
sopra la sabbia; né molt'alto il sole.
E sopra lei bianchi tra mare e cielo
galleggiavano striduli gabbiani.
E vide l'occhio dell'Eroe che fresca
era la pece: e vide che le pietre
giaceano in parte, ché placato il vento
già non faceva più brandir la nave;
e vide in giro dagli scalmi acuti
pender gli stroppi di bovino cuoio;
e vide dal righino alto di poppa
sporger le pale di ben fatti remi.
Gli rise il cuore, poi che pronta al corso
era la nave; e le moveva intorno,
come al carro di guerra agile auriga
prima di addurre i due cavalli al giogo.
E venuto alla prua rossa di minio,
sopra la sabbia vide assisi in cerchio
i suoi compagni tutti volti al mare
tacitamente; e si godeano il sole,
e la primaverile brezza arguta
s'udian fischiare nelle bianche barbe.
Sedean come per uso i longiremi
vecchi compagni d'Odisseo sul lido,
e da dieci anni lo attendean sul mare
col tempo bello e con la nuova aurora.
E veduta la rondine, le donne
recavano alla nave alte sul capo
l'anfore piene di fiammante vino
e pieni d'orzo triturato gli otri.
E prima che la nuova alba spargesse
le rose in cielo, essi veniano al mare,
i longiremi d'Odisseo compagni,
reggendo sopra il forte omero i remi,
ognuno il suo. Poi su la rena assisi
stavano, sotto la purpurea prora,
con gli occhi rossi a numerar le ondate,
ad ascoltarsi il vento nelle barbe,
ad ascoltare striduli gabbiani,
cantare in mare marinai lontani.
Poi quando il sole si tuffava e quando
sopra venia l'oscurità , ciascuno
prendeva il remo, ed alle sparse case
tornavan muti per le strade ombrate.
XII
IL TIMONE
Ed ecco, appena il vecchio Eroe comparve
sorsero tutti, fermi in lui con gli occhi.
Come quando nel verno ispido i bovi
giacciono, avvinti, innanzi al lor presepe;
sdraiati a terra ruminano il pasto
povero, mentre frusciano l'acquate;
se con un fascio d'odoroso fieno
viene il bifolco, sorgono, pur lenta-
mente, né gli occhi stolgono dal fascio:
così sorsero i vecchi, ma nessuno
gli andava, stretto da pudor, più presso.
Ed egli, sotto il teschio irto del lupo,
così parlò tra lo sciacquìo del mare:
Compagni, udite ciò che il cuor mi chiede
sino da quando ritornai per sempre.
Per sempre? chiese, e, No, rispose il cuore.
Tornare, ei volle; terminar, non vuole.
Si desse, giunti alla lor selva, ai remi
barbà re in terra e verzicare abeti!
Ma no! Né può la nera nave al fischio
del vento dar la tonda ombra di pino.
E pur non vuole il rosichìo del tarlo,
ma l'ondata, ma il vento e l'uragano.
Anch'io la nube voglio, e non il fumo;
il vento, e non il sibilo del fuso,
non l'odïoso fuoco che sornacchia,
ma il cielo e il mare che risplende e canta.
Compagni, come il nostro mare io sono,
ch'è bianco all'orlo, ma cilestro in fondo.
Io non so che, lasciai, quando alla fune
diedi, lo stolto che pur fui, la scure;
nell'antro a mare ombrato da un gran lauro,
nei prati molli di viola e d'appio,
o dove erano cani d'oro a guardia,
immortalmente, della grande casa,
e dove uomini in forma di leoni
battean le lunghe code in veder noi,
o non so dove. E vi ritorno. Io vedo
che ciò che feci è già minor del vero.
Voi lo sapete, che portaste al lido
negli otri l'orzo triturato, e il vino
color di fiamma nel ben chiuso doglio,
che l'uno è sangue e l'altro a noi midollo.
E spalmaste la pece alla carena,
ch'è come l'olio per l'ignudo atleta;
e portaste le gomene che serpi
dormono in groppo o sibilano ai venti;
e toglieste le pietre, anche portaste
l'aerea vela; alla dormente nave,
che sempre sogna nel giacere in secco,
portaste ognun la vostra ala di remo;
e ora dunque alla ben fatta nave
che manca più, vecchi compagni? Al mare
la vecchia nave: amici, ecco il timone.
Così parlò tra il sussurrìo dell'onde.
XIII
LA PARTENZA
Ed ecco a tutti colorirsi il cuore
dell'azzurro color di lontananza;
e vi scorsero l'ombra del Ciclope
e v'udirono il canto della Maga:
l'uno parava sufolando al monte
pecore tante, quante sono l'onde;
l'altra tessea cantando l'immortale
sua tela così grande come il mare.
E tutti al mare trassero la nave
su travi tonde, come su le ruote;
e avvinsero gli ormeggi ad un lentisco
che verzicava sopra un erto scoglio;
e già salito, il vecchio Eroe nell'occhio
fece passar la barra del timone;
e stette in piedi sopra la pedagna.
Era seduto presso lui l'Aedo.
E con un cenno fece ai remiganti
salir la nave ed impugnare il remo.
Egli tagliò la fune con la scure.
E cantava un cuculo tra le fronde,
cantava nella vigna un potatore,
passava un gregge lungo su la rena
con incessante gemere d'agnelli,
ricciute donne in lavatoi perenni
batteano a gara i panni alto cianciando
e dalle case d'Itaca rupestre
balzava in alto il fumo mattutino.
E i marinai seduti alle scalmiere
facean coi remi biancheggiar il flutto.
E Femio vide sopra un alto groppo
di cavi attorti la vocal sua cetra,
la cetra ch'egli avea gittata, e un vecchio
dagli occhi rossi lieto avea raccolta
e portata alla nave, ai suoi compagni;
ed era a tutti, l'aurea cetra, a cuore,
come a bambino infante un rondinotto
morto, che così morto egli carezza
lieve con dita inabili e gli parla,
e teme e spera che gli prenda il volo.
E Femio prese la sua cetra, e lieve
la toccò, poi, forte intonò la voga
ai remiganti. E quell'arguto squillo
svegliò nel cuore immemore dei vecchi
canti sopiti; e curvi sopra i remi
cantarono con rauche esili voci.
- Ecco la rondine! Ecco la rondine! Apri!
ch'ella ti porta il bel tempo, i belli anni.
È nera sopra, ed il suo petto è bianco.
È venuta da uno che può tanto.
Oh! apriti da te, uscio di casa,
ch'entri costì la pace e l'abbondanza,
e il vino dentro il doglio da sé vada
e il pane d'orzo empia da sé la madia.
Uno anc'a noi, col sesamo, puoi darne!
Presto, ché non siam qui per albergare.
Apri, ché sto su l'uscio a piedi nudi!
Apri, ché non siam vecchi ma fanciulli! -
XIV
IL PITOCCO
Cantavano; e il lor canto era fanciullo,
dei tempi andati; non sapean che quello.
E nella stiva in cui giaceva immerso
nel dolce sonno, si stirò le braccia
e si sfregò le palpebre coi pugni
Iro, il pitocco. E niuno lo sapeva
laggiù, qual grosso baco che si chiude
in un irsuto bozzolo lanoso,
forse a dormire. Ché solea nel verno
lì nella nave d'Odisseo dormire,
se lo cacciava dalla calda stalla
l'uomo bifolco, o s'ei temeva i cani
del pecoraio. Nella buona estate
dormia sotto le stelle alla rugiada.
Ora quivi obliava la vecchiaia trista
e la fame; quando il suono e il canto
lo destò. Dentro gli ondeggiava il cuore:
Non odo il suono della cetra arguta?
Dunque non era sogno il mio, che or ora
portavo ai proci, ai proci morti, un messo:
ed ecco nell'opaco atrio la cetra
udivo, e le lor voci esili e rauche.
Invero udiva il tintinnio tuttora
e il canto fioco tra il fragor dell'onde,
qual di querule querule ranelle
per un'acquata, quando ancor c'è il sole.
E tra sé favellava Iro il pitocco:
O son presso ad un vero atrio di vivi?
e forse alcuno mi tirò pel piede
sino al cortile, poi che la mascella
sotto l'orecchio mi fiaccò col pugno?
Come altra volta, ...
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