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Ospite, dimmi. Io venni di lontano,
molto lontano; eppur io già, dal canto
d'erranti aedi, conoscea quest'antro.
Io sapea d'un enorme uomo gigante
che vivea tra infinite greggie bianche,
selvaggiamente, qui su i monti, solo
come un gran picco; con un occhio tondo...
Ed il pastore al vecchio Eroe rispose:
Venni di dentro terra, io, da molt'anni;
e nulla seppi d'uomini giganti.
E l'Eroe riprendeva, ed i fanciulli
gli erano attorno, del pastore, attenti:
che aveva solo un occhio tondo, in fronte,
come uno scudo bronzeo, come il sole,
acceso, vuoto. Verga un pino gli era,
e gli era il sommo d'un gran monte, pietra
da fionda, e in mare li scagliava, e tutto
bombiva il mare al loro piombar giù...
Ed il pastore, tra i suoi pastorelli,
pensava, e disse all'altocinta moglie:
Non forse è questo che dicea tuo padre?
Che un savio c'era, uomo assai buono e grande
per qui, Telemo Eurymide, che vecchio
dicea che in mare piovea pietre, un tempo,
sì, da quel monte, che tra gli altri monti
era più grande; e che s'udian rimbombi
nell'alta notte, e che appariva un occhio
nella sua cima, un tondo occhio di fuoco...
Ed al pastore chiese il moltaccorto:
E l'occhio a lui chi trivellò notturno?
Ed il pastore ad Odisseo rispose:
Al monte? l'occhio? trivellò? Nessuno.
Ma nulla io vidi, e niente udii. Per nave
ci vien talvolta, e non altronde, il male.
Disse: e dal fondo Iro avanzò, che disse:
Tu non hai che fanciulli per aiuto.
Prendi me, ben sì vecchio, ma nessuno
veloce ha il piede più di me, se debbo
cercar l'agnello o rintracciare il becco.
Per chi non ebbe un tetto mai, pastore,
quest'antro è buono. Io ti sarò garzone.
XXI
LE SIRENE
Indi più lungi navigò, più triste.
E stando a poppa il vecchio Eroe guardava
scuro verso la terra de' Ciclopi,
e vide dal cocuzzolo selvaggio
del monte, che in disparte era degli altri,
levarsi su nel roseo cielo un fumo,
tenue, leggiero, quale esce su l'alba
dal fuoco che al pastore arse la notte.
Ma i remiganti curvi sopra i remi
vedeano, sì, nel violaceo mare
lunghe tremare l'ombre dei Ciclopi
fermi sul lido come ispidi monti.
E il cuore intanto ad Odisseo vegliardo
squittiva dentro, come cane in sogno:
Il mio sogno non era altro che sogno;
e vento e fumo. Ma sol buono è il vero.
E gli sovvenne delle due Sirene.
C'era un prato di fiori in mezzo al mare.
Nella gran calma le ascoltò cantare:
Ferma la nave! Odi le due Sirene
ch'hanno la voce come è dolce il miele;
ché niuno passa su la nave nera
che non si fermi ad ascoltarci appena,
e non ci ascolta, che non goda al canto,
né se ne va senza saper più tanto:
ché noi sappiamo tutto quanto avviene
sopra la terra dove è tanta gente!
Gli sovveniva, e ripensò che Circe
gl'invidiasse ciò che solo è bello:
saper le cose. E ciò dovea la Maga
dalle molt'erbe, in mezzo alle sue belve.
Ma l'uomo eretto, ch'ha il pensier dal cielo,
dovea fermarsi, udire, anche se l'ossa
aveano poi da biancheggiar nel prato,
e raggrinzarsi intorno lor la pelle.
Passare ei non doveva oltre, se anco
gli si vietava riveder la moglie
e il caro figlio e la sua patria terra.
E ai vecchi curvi il vecchio Eroe parlò:
Uomini, andiamo a ciò che solo è bene:
a udire il canto delle due Sirene.
lo voglio udirlo, eretto su la nave,
né già legato con le funi ignave:
libero! alzando su la ciurma anela
la testa bianca come bianca vela;
e tutto quanto nella terra avviene
saper dal labbro delle due Sirene.
Disse, e ne punse ai remiganti il cuore,
che seduti coi remi battean l'acqua,
saper volendo ciò che avviene in terra:
se avea fruttato la sassosa vigna,
se la vacca avea fatto, se il vicino
aveva d'orzo più raccolto o meno,
e che facea la fida moglie allora,
se andava al fonte, se filava in casa.
XXII
IN CAMMINO
Ed ecco giunse all'isola dei loti.
E sedean sulla riva uomini e donne,
sazi di loto, in dolce oblìo composti.
E sorsero, ai canuti remiganti
offrendo pii la floreal vivanda.
O così vecchi erranti per il mare,
mangiate il miele dell'oblìo ch'è tempo!
Passò la nave, e lento per il cielo
il sonnolento lor grido vanì.
E quindi venne all'isola dei sassi.
E su le rupi stavano i giganti,
come in vedetta, e su la nave urlando
piovean pietre da carico con alto
fracasso. A stento si salvò la nave.
E quindi giunse all'isola dei morti.
E giacean lungo il fiume uomini e donne,
sazi di vita, sotto i salci e i pioppi.
Volsero il capo; e videro quei vecchi;
e alcuno il figlio ravvisò fra loro,
più di lui vecchio, e per pietà di loro
gemean: Venite a riposare: è tempo!
Passò la nave, ed esile sul mare
il loro morto mormorio vanì.
E di lì venne all'isola del sole.
E pascean per i prati le giovenche
candide e nere, con le dee custodi.
Essi udiano mugliare nella luce
dorata. A stento lontanò la nave.
E di lì giunse all'isola del vento.
E sopra il muro d'infrangibil bronzo
vide i sei figli e le sei figlie a guardia.
E videro la nave, essi, e nel bianco
suo timoniere, parso in prima un cigno
o una cicogna, uno Odisseo conobbe,
che così vecchio anco sfidava i venti;
e con un solo sibilo sul vecchio
scesero insieme di sul liscio masso.
Ed ora l'ira li portò, dei venti,
per giorni e notti, e li sospinse verso
le rupi erranti, ma così veloce,
che a mezzo un cozzo delle rupi dure
come uno strale scivolò la nave.
E allora l'aspra raffica discorde
portava lei contro Cariddi e Scilla.
E già l'Eroe sentì Scilla abbaiare,
come inquïeto cucciolo alla luna,
sentì Cariddi brontolar bollendo,
come il lebete ad una molta fiamma;
e le dodici branche avventò Scilla,
ed assorbì la salsa acqua Cariddi:
invano. Era passata oltre la nave.
E tornarono i venti alla lor casa
cinta di bronzo, mormorando cupi
tra loro, in rissa. E venne un'alta calma
senza il più lieve soffio, e sopra il mare
un dio forse era, che addormentò l'onde.
XXIII
IL VERO
Ed il prato fiorito era nel mare,
nel mare liscio come un cielo; e il canto
non risonava delle due Sirene,
ancora, perché il prato era lontano.
E il vecchio Eroe sentì che una sommessa
forza, corrente sotto il mare calmo,
spingea la nave verso le Sirene
e disse agli altri d'inalzare i remi:
La nave corre ora da sé, compagni!
Non turbi il rombo del remeggio i canti
delle Sirene. Ormai le udremo. Il canto
placidi udite, il braccio su lo scalmo.
E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il divino Odisseo vide alla punta
dell'isola fiorita le Sirene,
stese tra i fiori, con il capo eretto
su gli ozïosi cubiti, guardando
il mare calmo avanti sé, guardando
il roseo sole che sorgea di contro;
guardando immote; e la lor ombra lunga
dietro rigava l'isola dei fiori.
Dormite? L'alba già passò. Già gli occhi
vi cerca il sole tra le ciglia molli.
Sirene, io sono ancora quel mortale
che v'ascoltò, ma non poté sostare.
E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il vecchio vide che le due Sirene,
le ciglia alzate su le due pupille,
avanti sé miravano, nel sole
fisse, od in lui, nella sua nave nera.
E su la calma immobile del mare,
alta e sicura egli inalzò la voce.
Son io! Son io, che torno per sapere!
Ché molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch'io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il Vecchio vide un grande mucchio d'ossa
d'uomini, e pelli raggrinzate intorno,
presso le due Sirene, immobilmente
stese sul lido, simili a due scogli.
Vedo. Sia pure. Questo duro ossame
cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch'io muoia, a ciò ch'io sia vissuto!
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E s'ergean su la nave alte le fronti,
con gli occhi fissi, delle due Sirene.
Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi almeno chi sono io! chi ero!
E tra i due scogli si spezzò la nave.
XXIV
CALYPSO
E il mare azzurro che l'amò, più oltre
spinse Odisseo, per nove giorni e notti,
e lo sospinse all'isola lontana,
alla spelonca, cui fioriva all'orlo
carica d'uve la pampinea vite.
E fosca intorno le crescea la selva
d'ontani e d'odoriferi cipressi;
e falchi e gufi e garrule cornacchie
v'aveano il nido. E non dei vivi alcuno,
né dio né uomo, vi poneva il piede.
Or tra le foglie della selva i falchi
battean le rumorose ale, e dai buchi
soffiavano, dei vecchi alberi, i gufi,
e dai rami le garrule cornacchie
garrian di cosa che avvenia nel mare.
Ed ella che tessea dentro cantando,
presso la vampa d'olezzante cedro,
stupì, frastuono udendo nella selva,
e in cuore disse: Ahimè, ch'udii la voce
delle cornacchie e il rifiatar dei gufi!
E tra le dense foglie aliano i falchi.
Non forse hanno veduto a fior dell'onda
un qualche dio, che come un grande smergo
viene sui gorghi sterili del mare?
O muove già senz'orma come il vento,
sui prati molli di viola e d'appio?
Ma mi sia lungi dall'orecchio il detto!
In odio hanno gli dei la solitaria
Nasconditrice. E ben lo so, da quando
l'uomo che amavo, rimandai sul mare
al suo dolore. O che vedete, o gufi
dagli occhi tondi, e garrule cornacchie?
Ed ecco usciva con la spola in mano,
d'oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori
del mare, al piè della spelonca, un uomo,
sommosso ancor dall'ultima onda: e il bianco
capo accennava di saper quell'antro,
tremando un poco; e sopra l'uomo un tralcio
pendea con lunghi grappoli dell'uve.
Era Odisseo: lo riportava il mare
alla sua dea: lo riportava morto
alla Nasconditrice solitaria,
all'isola deserta che frondeggia
nell'ombelico dell'eterno mare.
Nudo tornava chi rigò di pianto
le vesti eterne che la dea gli dava;
bianco e tremante nella morte ancora,
chi l'immortale gioventù non volle.
Ed ella avvolse l'uomo nella nube
dei suoi capelli; ed ululò sul flutto
sterile, dove non l'udia nessuno:
- Non esser mai! non esser mai! più nulla,
ma meno morte, che non esser più! -
IL POETA DEGLI ILOTI
I
IL GIORNO
Figlio di Dio, molto giocondo in cuore
prendesti terra in Aulide pietrosa!
Tornavi tu dal suolo degli Abanti
ricco di vigne, dalla popolata
di belle donne Calcide; né prima
d'allora avevi traversato il mare.
Ma il largo mare traversasti allora;
ché il re, più re degli uomini mortali,
era là morto, ed una gara indetta
e di lotte e di corse era, e di canto.
E tu nel canto ogni cantor vincesti,
anche il vecchio di Chio cieco e divino,
col tuo ben congegnato inno di guerra.
Ed ora sceso dalla nera nave
movevi ad Ascra, assai giocondo in cuore;
ché per la via ti camminava a paro
un curvo schiavo, che reggea sul dorso
il premio illustre: un tripode di bronzo.
Ché l'orecchiuto tripode di bronzo
gravava in prima al buon Ascreo le spalle;
e prima l'una, e l'altra poi; ché grave
era, di bronzo; e poi l'avea, per l'anse,
sospeso al ramo ch'era suo, d'alloro;
e lo portava: ma venuto a un grande
platano, donde chiara acqua sgorgava,
sostò, già stanco. Ed era quello il fonte
dove il segno gli Achei videro, d'otto
passeri implumi, e nove con la madre.
E di passeri il platano sul fonte
garriva ancora, e il buon Ascreo li udiva,
pensando in cuore un nuovo inno di guerra.
E riprendeva già la via, col caro
tripode, in dosso, che brillava al sole,
quando sorvenne un viator che bevve;
e seguitò. Ma poco dopo "O vecchio."
disse, "ch'io porti il tuo laveggio: è peso."
E tolse prima il tripode, che l'altro
gli rispondesse: dopo, gli rispose:
"Grave era, è grave. Ed anche tu sei vecchio."
"Ma sono schiavo" gli rispose il vecchio:
"schiavo; e dal monte Citerone io venni
menando al mare, ad una curva nave,
due bei vitelli, nati schiavi anch'essi.
Torno al padrone. Ma tu dove, o babbo?"
"Ad Ascra: ad Ascra, misero villaggio,
tristo al freddo, aspro al caldo, e non mai buono."
E non addimandato altro gli disse:
"Venni per mare, ad Aulide: ho passato
l'Euripo. Indetta a Calcide una gara
e di lotte e di corse era, e di canto.
Vinsi codesto tripode di bronzo
cantando gesta degli eroi..." "Sei dunque
rapsodo errante, e sai le false cose
far come vere, ma non dir le vere."
Non rispondeva il vecchio Ascreo, ché tutto
era in pensar le mille navi in porto,
mentre sul curvo lido la procella
scotea le chiome degli Achei c...
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