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era Ate, Ate la zoppa, Ate la vecchia,
che lo inseguiva con stridente lena,
veloce, infaticabile. E già fuori
correa del bosco, sopra acute roccie;
e d'una in altra egli balzava, pari
allo stambecco, e a ogni lancio udiva
l'urlo e lo sforzo d'un simile lancio,
poi dietro sé picchierellare il passo
eterno con la sùbita eco breve.
Fin che giunse al burrone, alto, infinito,
tale che all'orlo non giungea lo stroscio
d'una fiumana che muggiva al fondo.
Allor si volse per lottar con Ate,
il buono al pugno Mecisteo di Gorgo;
volsesi e scricchiolar fece le braccia
protese, l'aria flagellando, e il destro
piede più dietro ritraeva... e cadde.
Cadde, e, precipitando, Ate vide egli
che all'orlo estremo di tra i caprifichi
mostrò le rughe della fronte, e rise.
II
L'ETÈRA
O quale, un'alba, Myrrhine si spense,
la molto cara, quando ancor si spense
stanca l'insonne lampada lasciva,
conscia di tutto. Ma v'infuse Evèno
ancor rugiada di perenne ulivo;
e su la via dei campi in un tempietto,
chiuso, di marmo, appese la lucerna
che rischiarasse a Myrrhine le notti;
in vano: ch'ella alfin dormiva, e sola.
Ma lievemente a quel chiarore, ardente
nel gran silenzio opaco della strada,
volò, con lo stridìo d'una falena,
l'anima d'essa: ché vagava in cerca
del corpo amato, per vederlo a cora,
bianco, perfetto, il suo bel fior di carne,
fiore che apriva tutta la corolla
tutta la notte, e si chiudea su l'alba
avido ed aspro, senza più profumo.
Or la falena stridula cercava
quel morto fiore, e batté l'ali al lume
della lucerna, che sapea gli amori;
ma il corpo amato ella non vide, chiuso,
coi molti arcani balsami, nell'arca.
Né volle andare al suo cammino ancora
come le aeree anime, cui tarda
prendere il volo, simili all'incenso
il cui destino è d'olezzar vanendo.
E per l'opaca strada ecco sorvenne
un coro allegro, con le faci spente,
da un giovenile florido banchetto.
E Moscho a quella lampada solinga
la teda accese, e lesse nella stele:
MYRRHINE AL LUME DELLA SUA LUCERNA
DORME. È LA PRIMA VOLTA ORA, E PER SEMPRE.
E disse: Amici, buona a noi la sorte!
Myrrhine dorme le sue notti, e sola!
Io ben pregava Amore iddio, che al fine
m'addormentasse Myrrhine nel cuore:
pregai l'Amore e m'ascoltò la Morte.
E Callia disse: Ell'era un'ape, e il miele
stillava, ma pungea col pungiglione.
E disse Agathia: Ella mesceva ai bocci
d'amor le spine, ai dolci fichi i funghi.
E Phaedro il vecchio: Pace ai detti amari!
ella, buona, cambiava oro con rame.
E stettero, ebbri di vin dolce, un poco
lì nel silenzio opaco della strada.
E la lucerna lor blandia sul capo,
tremula, il serto marcido di rose,
e forse tratta da quel morto olezzo
ronzava un'invisibile falena.
Ma poi la face alla lucerna tutti,
l'un dopo l'altro, accesero. Poi voci
alte destò l'auletride col flauto
doppio, di busso, e tra faville il coro
con un sonoro trepestìo si mosse.
L'anima, no. Rimase ancora, e vide
le luci e il canto dileguar lontano.
Era sfuggita al demone che insegna
le vie muffite all'anime dei morti;
gli era sfuggita: or non sapea, da sola,
trovar la strada: e stette ancora ai piedi
del suo sepolcro, al lume vacillante
della sua conscia lampada. E la notte
era al suo colmo, piena d'auree stelle;
quando sentì venire un passo, un pianto
venire acuto, e riconobbe Evèno.
Ché avea perduto il dolce sonno Evèno
da molti giorni, ed or sapea che chiuso
era nell'arca, con la morta etèra.
E singultendo disserrò la porta
del bel tempietto, e presa la lucerna,
entrò. Poi destro, con l'acuta spada,
tentò dell'arca il solido coperchio
e lo mosse, e con ambedue le mani,
puntellando i ginocchi, l'alzò. C'era
con lui, non vista, alle sue spalle, e il lieve
stridìo vaniva nell'anelito aspro
d'Evèno, un'ombra che volea vedere
Myrrhine morta. E questa apparve; e quegli
lasciò d'un urlo ripiombare il marmo
sopra il suo sonno e l'amor suo, per sempre.
E fuggì, fuggì via l'anima, e un gallo
rosso cantò con l'aspro inno la vita:
la vita; ed ella si trovò tra i morti.
Né una a tutti era la via di morte,
ma tante e tante, e si perdean raggiando
nell'infinita opacità del vuoto.
Ed era ignota a lei la sua. Ma molte
ombre nell'ombra ella vedea passare
e dileguare: alcune col lor mite
demone andare per la via serene,
ed altre, in vano, ricusar la mano
del lor destino. Ma sfuggita ell'era
da tanti giorni al demone; ed ignota
l'era la via. Dunque si volse ad una
anima dolce e vergine, che andando
si rivolgeva al dolce mondo ancora;
e chiese a quella la sua via. Ma quella,
l'anima pura, ecco che tremò tutta
come l'ombra di un nuovo esile pioppo:
"Non la so!" disse, e nel pallor del Tutto
vanì. L'etèra si rivolse ad una
anima santa e flebile, seduta
con tra le mani il dolce viso in pianto.
Era una madre che pensava ancora
ai dolci figli; ed anche lei rispose:
"Non la so!"; quindi nel dolor del Tutto
sparì. L'etèra errò tra i morti a lungo
miseramente come già tra i vivi;
ma ora in vano; e molto era il ribrezzo
di là , per l'inquïeta anima nuda
che in faccia a tutti sorgea su nei trivi.
E alfine insonne l'anima d'Evèno
passò veloce, che correva al fiume
arsa di sete, dell'oblìo. Né l'una
l'altra conobbe. Non l'avea mai vista.
Myrrhine corse su dal trivio, e chiese,
a quell'incognita anima veloce,
la strada. Evèno le rispose: "Ho fretta."
E più veloce l'anima d'Evèno
corse, in orrore, e la seguì la trista
anima ignuda. Ma la prima sparve
in lontananza, nella eterna nebbia;
e l'altra, amante, a un nuovo trivio incerto
sostò, l'etèra. E intese là bisbigli,
ma così tenui, come di pulcini
gementi nella cavità dell'uovo.
Era un bisbiglio, quale già l'etèra
s'era ascoltata, con orror, dal fianco
venir su pio, sommessamente... quando
avea, di là , quel suo bel fior di carne,
senza una piega i petali. Ma ora
trasse al sussurro, Myrrhine l'etèra.
Cauta pestava l'erbe alte del prato
l'anima ignuda, e riguardava in terra,
tra gl'infecondi caprifichi, e vide.
Vide lì, tra gli asfòdeli e i narcissi,
starsene, informi tra la vita e il nulla,
ombre ancor più dell'ombra esili, i figli
suoi, che non volle. E nelle mani esangui
aveano i fiori delle ree cicute,
avean dell'empia segala le spighe,
per lor trastullo. E tra la morte ancora
erano e il nulla, presso il limitare.
E venne a loro Myrrhine; e gl'infanti
lattei, rugosi, lei vedendo, un grido
diedero, smorto e gracile, e gettando
i tristi fiori, corsero coi guizzi,
via, delle gambe e delle lunghe braccia,
pendule e flosce; come nella strada
molle di pioggia, al risonar d'un passo,
fuggono ranchi ranchi i piccolini
di qualche bodda: tali i figli morti
avanti ancor di nascere, i cacciati
prima d'uscire a domandar pietà !
Ma la soglia di bronzo era lì presso,
della gran casa. E l'atrio ululò tetro
per le vigili cagne di sotterra.
Pur vi guizzò, la turba infante, dentro,
rabbrividendo, e dietro lor la madre
nell'infinita oscurità s'immerse.
III
LA MADRE
O quale Glauco, ebbro d'oblìo, percosse
la santa madre. E non poté la madre
che pur voleva, sostener nel cuore
quella percossa al volto umile e mesto;
ché da tanti dolori liso il cuore,
ecco, si ruppe; e ne dové morire.
E subito il buon demone sorvenne,
e più veloce d'un pensier di madre
ultimo, la soave anima prese,
la sollevò, la portò via lontano,
e due tre volte la tuffò nel Lete.
E le dicea: "Dimentica per sempre,
anima buona; ché sofferto hai troppo!"
E pose lei nel sommo della terra,
dove è più luce, più beltà ; più Dio:
nel calmo Elisio, donde mai non torna
l'anima al basso, a dolorar la vita.
Ma nel profondo della terra il figlio
precipitò, nel baratro sotterra,
tanto sotterra alla sua tomba, quanto
erano su la tomba alte le stelle.
E là fu, nella oscurità , travolto
dalla massa d'eterna acqua, che sciacqua
pendula in mezzo all'infinito abisso;
che, mentre oscilla il globo della terra,
là dentro flotta, e urta le pareti
solide, e con cupo impeto rimbomba.
E l'anima di Glauco era travolta
nell'acqua eterna, e or lanciata contro
le roccie liscie, or tratta dal risucchio
giù. Né un raggio di luce, ma una romba
senza pensiero, e senza tempo il tempo.
Quando, un flutto sboccò con un singulto
in un crepaccio, e Glauco sgorgò dentro
l'antro sonante, e si trovò su l'onda
d'un nero fiume che correa sotterra
rapacemente. Ed era tutto un pianto,
un pianto occulto, il pianto dopo morte,
oh! così vano, le cui solitarie
lacrime lecca il labile lombrico.
E il fiume cieco del dolor sepolto
portò Glauco vicino alla palude
Acherusìade, ove tra terra e acqua
errano l'ombre a cui la morte insegna,
e che verranno ad altra vita ancora,
quando il destino li rivoglia in terra.
E vide le aspettanti anime Glauco
sul denso limo, a cui l'urtava il flutto,
e gridò Glauco, alto, e chiamò la madre:
"Madre che offesi... madre che percossi...
madre che feci piangere... Ma vengo
sul fiume eterno, o mamma, a te, del pianto!
O mamma che... feci morire! E morto
ti sono anch'io; nato da te! più morto!
Sì: t'ho percossa. Ma non sai con quanta
forza alle scabre roccie mi percuota
l'acqua laggiù, nel baratro; e che buio
laggiù! che grida! Oh! mai non fossi nato!
Mamma... pietà ! perdonami! Se lasci
ch'io salga; e basta che tu voglia, io salgo;
oh! sarò buono! buono, ora per sempre!
non ti batterò più!... Mamma, già l'onda
mi porta via... perdona dunque! Io torno
laggiù... fa presto. Un tempo eri più buona,
o mamma!... O madre, ti mutò la morte!"
Così pregava, il figlio. Ecco, e l'ondata
dal molle limo lo staccò, lo volle
con sé, lo stese, lo portò nel fiume
del pianto vano. E singultendo, il fiume
lo versò nell'abisso; e nell'abisso
se lo riprese il vortice segreto.
E l'anima dell'empio era travolta
dall'acqua eterna, e tratta dal risucchio
giù, poi, nel buio, qua e là percossa.
Ed ella su, nel sommo della terra,
dove è più luce, più beltà , più Dio,
sedea serena; e con la guancia offesa
sopra la palma, si facea cullare
dal grande mare d'etere, dal breve,
lassù, mollissimo, oscillìo del mondo.
Ecco, levò dalla tranquilla palma
la guancia offesa, e riguardava intorno,
inorecchita. E il buon demone accorse
e le diceva: "Vieni al dolce Lete,
a bere ancora: non assai bevesti!"
Ed ella bevve. Ma via via dagli occhi
le usciva il pianto e le cadea nell'onda.
E le premeva il demone, soave-
mente, la nuca, e le diceva: "Ancora!
Ancora! Bevi! Non assai bevesti!"
E docile beveva ella, e nel Lete
le cadea sempre più dirotto il pianto.
Oh! non beveva che l'oblìo del male,
la santa madre, e si levò piangendo,
e disse: "Io sento che il mio figlio piange.
Portami a lui!" Né il demone s'oppose;
ché cuor di madre è d'ogni Dio più forte.
E con lei scese, ed ella andò sotterra
sempre piangendo e giunse alla palude
Acherusìade. Ed ella errò tra l'alga
deforme, ed ella s'aggirò tra il fango,
sempre accorrendo ad ogni sbocco appena
sentia mugghiare una marea sotterra,
e il pianto vano venir su, dei morti,
sui neri fiumi, di su i rossi fiumi.
Ed un flutto, laggiù, con un singulto
gittò Glauco in un antro, e poi su l'onde
del nero fiume che correa sotterra,
del pianto occulto, pianto dopo morte;
e lo portò vicino alla palude:
e gridò Glauco, alto, e chiamò la madre:
"Madre, eri buona, e ti mutò la morte!
mamma, io ti feci piangere; mammina,
io sì ti feci, io figlio tuo, morire..."
Ma ella, prima anche di lui, gridava
dal triste limo, tra il fragor dei flutti:
"Mia creatura, non lo feci apposta
io, a morir così d'un subito, io
io, a non dirti che non era nulla,
ch'era per gioco... Vieni su: perdona!"
E Glauco ascese. E poi la madre e il figlio
vennero ancor dalla palude in terra,
l'una a soffrire, e l'altro a far soffrire.
SILENO
- Figlio di Pan, figlio del dio silvestre
che nei canneti sibila e frascheggia,
là , nell'Asopo, e frange a questa rupe
il lungo soffio della sua zampogna;
tornar nell'ombra io volli a te, Sileno,
ora che tace la diurna rissa
del maglio e della roccia, or che non odo
più lime invide, più trapani ingordi;
or che gli schiavi qua e là sdraiati
sognano fiumi barbari; e la luna
prendendo il monte, il monte di Marpessa,
piove un pallore in cui tremola il sonno.
Sono un fanciullo, sono anch'io di Paro;
Scopas...
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