LE CANZONI DI RE ENZIO, di Giovanni Pascoli - pagina 1
LE CANZONI DI RE ENZIO
I°
A MILANO
CHE PRIMA SU TE POSE LA SUA BANDIERA,
VA, O CARROCCIO,
VA O POESIA DEL MEDIO EVO ITALICO,
RITORNA DALLA MINORE ALLA MAGGIOR SORELLA
DAL COMUNE CHE VINSE A FOSSALTA
AL COMUNE CHE AVEVA VINTO A LEGNANO,
DALLA CITTÀ CHE L'VIII AGOSTO RIBUTTÒ,
ALLA CITTÀ CHE NEI V DÌ DI MARZO AVEA CACCIATO
LO STESSO PERPETUO EVERSORE DI TERMINI
INVASORE DI CONFINI VIOLATORE DI DIRITTI
ETERNI.
VIII OTTOBRE DEL MCMVIII
LA CANZONE DEL CARROCCIO
I.
I BOVI
Mugliano i bovi appiedi dell'Arengo.
Sull'alba il muglio nella città fosca
sparge l'odor del sole e della terra.
L'aratro appare che ricopre il seme,
appare il plaustro che riporta il grano.
Torri Bologna più non ha, che pioppi:
tra i suoi due fiumi, tremoli alti pioppi.
Più non ha case, che tra il verde, rare,
con le ben fatte cupole di strame;
più non ha piazze, che grandi aie bianche
su cui vapora un polverìo di pula.
Vi son gli stabbi sotto i tamarischi;
le cavedagne all'ombra dei vecchi olmi;
e il sonnolento macero, che pare
quasi ronfare il canto delle rane.
Il muglio parla d'opere e ricolti,
parla di solitudine e di pace
e d'abbondanza.
Il muglio desta i falchi
lassù, prigioni: ch'empiono la muda
d'un loro squittir rauco.
I falchi d'Eristallo e Solimburgo,
vedeano in sogno brighe zuffe stormi.
Narrano desti l'uno all'altro il sogno.
Sognava Buoso d'essere a Dovara,
nel suo castello, e di sognar l'inferno...
Quieti a basso ruminano i bovi.
L'anno è finito delle lor fatiche.
Finita è l'ansia di tirare il plaustro
per l'ampia via del console romano.
Traean pur ieri alla città turrita
le castellate dal lucente usciolo;
fasci traean di canapa e di stoppa,
a cui nel verno esercitar le ancelle;
e bianche sacca turgide di grano,
e scabri ciocchi e fragili sarmenti:
hanno provvisto il pane, il vino, il fuoco,
e il saldo filo onde si tesse il drappo
rude e sincero.
E ruminano gravi
di maraviglia, ad or ad or mugliando
nella città che dorme.
Il bianco e il rosso stanno sotto un giogo:
i due colori della tua bandiera,
forte Bologna.
I rossi magri bovi,
dalle ampie corna e dai garretti duri,
fendean gemendo la saturnia terra,
allor che madre grande era di biade,
grande d'eroi.
Rapidi aravano.
Era
forse alla bure un dittator di Roma.
Rapidi vanno: ne' pelosi orecchi
risuona ancora il grido dell'impero.
Ma poi dall'Alpe scesero, tranando
le case erranti d'Eruli e di Goti,
i bovi bianchi, a cui restò negli occhi
lo stupor primo della Terra sacra,
i monti, i laghi, i prati, i campi, i fiumi.
Ella giacea sotto la mano stesa
del condottiere; e i piccoli e le donne
gli occhi celesti confondean nel cielo.
Stendea la mano il Barbaro esclamando:
Italia! Italia! Italia!
Ed ora i pigri bovi bianchi a terra
piegan le gambe e sdraiano le membra.
Ma resta in piedi il fulvo lor compagno,
così ch'è il giogo a tutti e due più grave.
L'un capo e l'altro appressa torvi il giogo
comune, e gli umidi aliti stranieri.
Ma il rosso alfine le ginocchia ponta
e piega a terra: e in pace, a paro, entrambi
girano poi la macina dei denti.
Comincia l'anno delle lor fatiche:
a paro, in pace, romperanno il campo:
tra poco al campo porteranno il concio
tiepido e nero; e poi faranno i solchi,
i lunghi solchi per la pia sementa,
per grano e lino, canapa orzo spelta.
L'aratro è fondo, ma il biolco preme
la stiva più.
«Là, Bianco!» urla; «Qua, Rosso!»
Fumano insieme il fiato della terra
rotta e dei bovi e del nebbioso cielo
e del seminatore.
II.
IL CUSTODE DELL'ARENGO
Sul limitare siedono i biolchi,
mangiano pane.
E quali son manenti,
quali arimanni, del contado, astretti
al suolo altrui come le quercie e gli olmi.
Ma dietro loro stridono le chiavi
e i chiavistelli, ed apparisce il vecchio
ch'ha in sua balìa le porte delle stalle:
Zuam Toso.
Il lume ha grave ormai degli occhi
traguarda e dice: «Uomini, dove siete?»
Cala il cappuccio, stringe a sé la cappa
con pelli agnine, ch'ebbe dal Comune
ad Ognissanti per il suo lavoro.
Zuam Toso trema, abben che sia d'ottobre.
Guarda a' suoi piedi, sulla soglia, e dice:
«Traete dentro, uomini, i bovi: è l'ora.
Già Bonifazio monta al bitifredo».
Dice il custode dell'Arengo; e i servi
taciti in piedi s'alzano, e del piede
tentano i lombi a gl'indolenti bovi
che s'alzano soffiando.
E parla il Toso, volto a gli arimanni,
volto ai manenti: «Io vedo ormai più poco.
Ben converrà che il frate mio m'aiuti,
buon uomo e savio: ch'io non son quel ch'ero
quando il passaggio feci in Terra Santa.
Oh! mi ricordo Orso Cazanimici,
Pietro Asinelli, Scappa Garisendi,
pro' cavalieri: io, piccolo ragazzo.
Io, sì, tornai: niuno tornò, di loro,
sì che in Bologna ne fu poi gran pianto.
Poi l'altra volta mi crociai.
Ricordo
il Lambertazzo e il Geremeo seduti
placidi all'ombra, all'ombra d'una palma.
Era in Soria.
Tenevo io per le briglie
i due cavalli: si mordean rignando...»
Quivi un biolco avanti trae la coppia
prima de' bovi, e dice: «Misèr Toso...»
E quei dà luogo, ed esce nella piazza.
Sotto l'Arengo vi son già fanciulli
con gli occhi aperti al cielo.
Vogliono il re.
Dice Zuam Toso: «Andate!
Quando ero putto come voi, ben altro
io vidi! Vidi, grande, alto a cavallo,
l'imperatore dalla barba rossa.
Lì!» Gli occhi tondi vanno dietro al dito.
«Egli solcava col suo grande aratro
le piazze e vie delle città romane:
seguiano il solco nugoli di corvi».
Più lungi è un crocchio di donzelle e donne;
chinano gli occhi all'appressar del Toso.
E il Toso dice: «E quale di voi, donne,
quello ch'io vidi, poté qui vedere?
Santo Francesco.
Trito, macilento,
piccolo; in veste disusata e vile.
Ma e' parlò così soavemente,
che tutti quanti furono in Dio ratti.
- Niuno è sì grande, che gli sia promesso -
diceva - uno palagio pieno d'oro,
che non portasse un sacco di letame
per un aver sì grande! -»
Poi Zuam aggiunge: «Ed era quello il tempo
che Dio sgrollava la città partita,
piena d'invidia.
Ed e' parlò di pace,
Santo Francesco, e non facea guadagno.
Ecco e d'un soffio scosse Dio le torri.
tra lor nimiche, e ignuna versò fuori
le sue colombe; e stettero sull'alie,
e poi scesero al frate poverello,
quali sul capo, quali sulle spalle,
alquante in grembio, alquante sulle braccia.
Allor sì venne la divina grazia,
in veder quelle l'alie aprire e i becchi,
semplici e caste, sotto la sua mano!»
Ma quivi il Toso muove inver l'Arengo,
ché alcun lo chiama; e le donzelle e donne
levano gli occhi verso le finestre.
Cercano il re.
Vanno da torre a torre,
da torri guelfe a torri ghibelline,
e sopra i merli e sopra le baltresche
tubano le colombe.
III.
I BIOLCHI
Sotto le grandi volte dell'Arengo
ora i biolchi hanno attaccato al carro
il primo paio, hanno fermato il giogo
con lo statoio dal sonante anello.
Hanno al timone l'altre paia aggiunte
con lunghe zerle e lucide catene.
Sono addobbati a bianco ed a scarlatto
ora i biolchi, gli otto bovi e il carro.
Giace su questo un albero da nave,
alto, ferrato.
Attendono nell'ombra
uomini e bovi il cenno della squilla.
Guardano in tanto.
Attorno lor non sono,
nella rimessa, acute vanghe e zappe,
falci e frullane, non il curvo aratro,
né coreggiati né pennati appesi
alle pareti o flessili crinelle:
sì lancie e scudi e selle e cervelliere,
balestre grosse e loro saettame,
guanti di ferro, elmi di ferro, e trulli,
trabucchi e manganelle.
Dice Zuam Toso: «Il carro, non di concio
credo vi sappia, non di grano e mosto.
Non uve frante egli portò; sì morti,
grandi e bei morti, e sente forse il sangue.
Io l'amo, o genti, ch'io nell'anno nacqui
ch'egli fu fatto.
Ahimè! com'egli ha salde
le membra sue di rovere e di faggio!
Io sono invece canna di palude...
Ma non fui sempre.
Non tremiamo al vento
noi! Come ha scritto il savio Rolandino.
Dicea mio padre, che Dio l'abbia in gloria,
che Barbarossa minacciò Bologna.
E noi facemmo questo greve carro
per uscir fuori, lenti lenti, al lento
passo dei bovi; e c'era un grande abeto
in cime all'Alpe, vecchio come Roma:
noi ne facemmo questa lunga antenna,
ch'ei la vedesse; e suvvi la campana;
che pur lontana egli la udisse chiara
tra il trotto dei cavalli».
Tacciono, all'armi guardano i biolchi.
Chi guarda è un altro che in lor è: l'Antico.
Fermo sul suo pungetto, uno è un astato
che avea seguito l'aquile di Druso.
Ei campeggiò sul Reno e sul Visurgi.
Franse i giganti Cauchi e Langobardi.
Portò, trent'anni, l'armi il vallo e il vitto.
Cenò la pulte con l'aceto e il sale.
Ebbe ferite e un ramuscel di quercia.
Poi vecchio arò due iugeri di terra.
Le glebe allora ei debellava, e gli era
pilo la vanga e gladio la gombiera.
Spiò nel volo degli uccelli il tempo
della sementa e della mietitura.
Piantò gli alberi a file di coorte.
Non trombe all'alba altre sentì, che il gallo.
Non fu nel campo altro ronzìo, che d'api.
Poi, di quel campo, in un de' suoi nepoti,
servo rimase.
E portò lino al Duddo
e vino allo Scafardo.
L'altro a cavallo dietro il suo Sculdascio
giunto era qui con la selvaggia fara:
rasa la nuca, la capellatura
attorno al viso mista alla gran barba.
Vide i gasindi dar la lancia a Clefi,
vide ferir nella colonna Autari.
Quindi nel nome del suo Dio, nel nome
della sua spada, ebbe una casa e il bosco.
Tenne il cavallo, serbò scudo e lancia,
se lo chiamasse all'eribanno il Duca.
Ed avventò contro le sacre quercie
la vecchia scure delle sue battaglie.
Ed allevò gli utili porci, e trasse
ai fòri antichi le grugnenti greggi.
Poi si trovò, ne' suoi nepoti, schiavo,
esso arimanno! Né più v'era attorno,
chi la saetta gli ponesse in mano,
chi lo adducesse al libero quadrivio.
Ora, egli ammira l'armi del Comune,
fermo sul suo pungetto.
IV.
L'INSEGNA DEL COMUNE
E suona la campana del Comune.
La Patria intima il breve suo decreto,
di bronzo.
Tutta la città ne ondeggia.
S'odono cozzar armi,
squillar trombe.
Póntano i piedi, e il duro collo i bovi
stirano, e sbalza sulle selci il carro.
Tuonano le alte volte dell'Arengo.
E il re si desta.
Il re sognava danze
di Saracine del color d'ulivo...
Scoteano lieve il cimbalo sonoro.
Sognava il re di falconar nel greto
d'un grande fiume, sul suo bel ginnetto...
Seguia lassù la ruota dell'astore.
Sognava le foreste di Gallura:
era nel folto, al guato del cignale...
Udia sonare alla lontana il corno.
Sognava guerra, e colpi e sangue e morte,
su vivi e morti alto l'imperatore...
Vedeva...
Il sogno ecco gli rompe il cupo
strepito del Carroccio.
Esce il Carroccio e sta sotto l'Arengo.
Par che si levi un pianto dalle donne.
- Quando tu parti, nulla qui rimane:
restano solo i morti nelle chiese.
Tu rechi gli altri a non sappiam che terre:
felici i morti presso il loro altare!
Tu vai per via coi lenti bovi al passo:
ecco i ladroni sopra gran cavalli.
Forse hai le ruote prese dentro il fango:
scagliano frecce con le gran balestre.
O forse è afa, polvere, sudore...
Che fresco sotto gli archi di San Pietro!
Non più consigli nella bella chiesa,
vicino ai morti ed alle pie reliquie:
dove son più le compagnie dell'arti?
dove son più le compagnie dell'armi?
Non ci son più, che donne inginocchioni;
chi sa, se mogli, se ancor madri, o nulla?
e fanciulletti; e fanno male al cuore,
ché giocano al Carroccio! -
Resta il Carroccio all'ombra dell'Arengo.
Ora s'adorna dei suoi scudi in giro:
l'Aquila, il Pardo, il Grifo, il Toro, il Cervo
ed il Leone; Spade, Schize, Sbarre.
Fiorisce il carro di color di cielo,
di sangue e d'oro.
Fascie bianche e nere
paion da un canto ricordare un lutto.
Guardano i vecchi, rissano i fanciulli,
ché in cuore ognuno ha una di quelle arme,
forse la Branca, oppur la Stella d'oro.
Anche i Lioni, senza più criniera,
lioni vecchi, odiano il Grifo alato,
o chiusi nel turrito lor Castello,
sdegnano i Vari e schifano i Balzani.
Uomini in tanto drizzano l'antenna
sopra il suo piede, e funi tese e nervi
tengono fermo l'albero sul carro.
Un lieve tocco dà la Martinella,
e bianca e rossa ondeggia in alto al vento
l'insegna del Comune.
Guardano, or sì, vecchi e fanciulli, in alto.
Le donne in cuore hanno finito il pianto.
- Quando tu parti, teco viene il tutto:
poniam su te tutte le vite nostre.
Le nostre vite porti uguali unite:
carico vai di grappoli e di spighe.
...
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