LE CANZONI DI RE ENZIO, di Giovanni Pascoli - pagina 7
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E il figlio dello imperator di Roma
fa tre battaglie delle sue masnade,
e il nome dà: Soavia cavalieri.
Vanno con la nera aquila ondeggiante.
Cupo rimbomba sotto le lor péste
il ponte presso Benevento.
Enzio non ode rimbombare il ponte
di Benevento, non le tre battaglie
vede schierate e ferme alla Grandella.
Egli la lunga cantilena ascolta,
il re prigione, e vede Roncisvalle,
e vede anco Rollando il prode:
la lancia in pugno, va sul buon cavallo.
La punta al cielo, il gonfalone è bianco,
la frangia d'or gli batte sulla mano.
Dice: «Baroni, andiam soave, al passo!»
AOI
Enzio non vede l'altro re che aringa
le tre battaglie al Prato delle rose,
e il nome dà: Mongioia cavalieri.
Egli la lunga cantilena ascolta,
il re prigione, e vede Roncisvalle,
e vede anco Ulivieri il savio:
Dice Ulivieri: «Io non vuo' dir parola.
Lasciate il corno pendere alla soga:
non verrà Carlo il magno a questa volta.
Dunque, baroni, fate vostra possa,
e cavalcate avanti voi di forza...»
Un grido s'alza intorno a lui: Mongioia!
AOI
IV.
LA MISCHIA
«Tempo vene chi sale e chi discende»:
dice il re delle Torri e di Gallura:
«non più Mongioia è il grido dell'impero».
E dice a lui Rollando de Marano:
«Mongioia è il monte, donde Carlomagno
udì sonare le campane a festa
di Roma santa, udille sonar sole,
sull'alba, a gloria dell'antico impero».
Enzio re siede, e reggesi la fronte
piena di rughe sulla bianca mano.
È quella mano usa alla mazza d'arme,
usa alla spada ch'elmi e bacinelli
fendeva: ora non più, da sedici anni.
Non più tutta oro la capellatura
lunga fluisce.
Oh! come al fresco vento
si svincolava al modo d'una fiamma,
sulla galea, nel mar della Meloria!
Come, in cospetto dell'imperatore,
guidava i cavalieri a Cortenuova
contro il Carroccio di Milano!
Siede re Enzio con la fronte in mano.
O Enzio amico bella gioventù!
Egli non parla, e i sedici custodi
pensano anch'essi a sedici anni addietro.
Salgono in vano fabbri e zavattieri.
Tocca non è la torta del Comune.
Suonano qua e là da' battifredi
or fioche or chiare tutte le campane.
Passa la trecca, passa il pesciaiuolo,
la merce sua cantando ognuno a prova.
Vengono, a frotte, ai portici le donne,
quando si sforna, a comperare il pane.
A quando a quando ora su questa torre
ora su quella tubano i colombi.
E s'ode ancora il canto del giullare
già rauco, e un aspro suono di vivuola.
Ma Enzio sente in cuore una battaglia
lontana.
È come quando ingrossa il fiume,
quasi sognando, per una tempesta
nelle invisibili montagne.
Maravigliosa è la battaglia, e grave.
Rotti gli osberghi, sono l'aste infrante.
Non più le trombe suonano, che rauche;
non, se non rosse, scendono le spade.
Bocconi, in faccia, l'un sull'altro giace,
quali sui sassi, quali tra l'erbe alte.
Quanti belli anni vanno via col sangue!
Quanti non rivedranno la sua madre,
né Carlomagno che non torna, e va...
AOI
Mararavigliosa è la battaglia, e forte.
Per tutto il mondo tanto non si muore!
Scorre tra l'erbe, sgronda dalle foglie,
bulica il sangue, come quando piove.
Vanno cavalli, con le selle vuote,
nel campo, in fuga, e scalciano alla morte.
Quanto bel tempo si fermò col cuore!
Quanti non rivedranno le sue spose!
né Carlomagno che tornar non può...
AOI
Lontan lontano, tutto il ciel si muta.
Tempesta in terra, in alto mar fortuna.
A mezzodì, come di notte, abbuia.
Cielo non v'è, se un lampo non l'alluma.
Tuona con una cupa romba lunga.
La terra trema, crollano le mura.
Dice la gente: Secol si consuma!
la gente dice, eppure non sa nulla.
Eh! buon Rollando bella gioventù!
AOI
V.
IL CONTRASTO
Il re prigione balza in piè d'un lancio.
La chioma grigia sopra il capo ondeggia
come ondeggiava al Ponte Sant'Ambrogio
in mezzo al roseo polverìo di maggio.
Sorgono insieme i sedici custodi
quasi tendendo contro lui le branche.
Un de' più vecchi, il pro' Michel degli Orsi,
dice: «Così gli ardeano gli occhi azzurri
quand'io lo presi».
Al re si volge e dice:
«Messer lo re, pensate al detto vostro:
che voi tenete saggio e canosciente,
quale si sa col tempo comportare».
Ma Enzio sente rinfrescar la pena
che in cor gli abonda, e non sa come.
Enzio non sa; ma forse vede l'ombre
di cavalieri biondi che le spade
alzano lunghe e calano a due mani,
alla Grandella, al Prato delle rose.
Ma i lor nemici gridano: «Agli stocchi!
Date gli stocchi al ventre dei cavalli!»
Cadono i biondi e grandi cavalieri
co' destrier suoi fediti di coltella.
Caduti appena, hanno alla gola anch'essi,
i cavalieri, il ferro dei ribaldi.
Enzio non sa, ma forse l'ombra e' vede
di re Manfredi dritto sur un colle,
che mira in fuga ripassar le schiere
sul ponte presso Benevento.
Rollando mira: vede il grande scempio.
Chiama Ulivieri, e dice questo detto:
«Bel sire amico, al nome del Dio vero,
vedete a terra tutto il fior del regno.
Ben possiam fare il duolo ed il lamento
di tai baroni, che non più vedremo.
O imperatore, qui voi foste almeno!
Come, o fratello, fargli posso un cenno?»
Dice Ulivieri: «Come far, non vedo;
ma soffro io meglio morte che disdegno».
AOI
Dice Rollando: «Che non suono il corno?
Lungi n'udrebbe Carlomagno il suono;
verrebbe qui, prima che ognun sia morto».
«Io meglio soffro morte che disdoro.
Voi nol farete per il mio conforto:
onta sarebbe nel legnaggio vostro.
Di voi non sono né signor né uomo:
se voi sonate, io guardo e non approvo.
Poi, rosso il braccio avete fino al collo...»
«Ben sì» risponde il Conte «picchiai sodo».
AOI
Dice Rollando: «Io suono l'olifante!
Al suon verrà l'imperator e al sangue».
«È d'ogni morte onta per me più grave!
Compagno, noi morremo in questa valle».
Rollando dice: «La vostra ira è grande...»
«Perché non quando vi pregai sonaste?
La virtù vostra a tutti noi fu male.
Morrete e voi: ben questo è peggior male!
Avanti sera ci dovrem lasciare...»
E l'un per l'altro ecco sospira e piange.
AOI
VI.
L'ACCORDO
Anche Enzio re non sa perché, ma piange,
volto alla terra che riluce al sole.
Sul colle ei, forse, vede il suo fratello
il gentil re, tra i raggi dell'occaso.
Dice Anibaldo: «Fuggi in Puglia, e passa
il mare, e trova il Despoto d'Epiro».
Il suo cavallo chiede il re, da guerra.
Dice Anibaldo: «Trova la tua donna;
porta i tuoi figli (Enzo ha due anni) in salvo».
Monta a cavallo e cinge, il re, la spada.
Dice Anibaldo: «Miglior tempo aspetta!
Vano è pugnar contro la rossa croce».
Il re Manfredi prende dalla mano
d'uno scudiero l'elmo, su cui posa
la sua grande aquila d'argento.
Rimira a valle.
Presi o morti i Lancia,
sgozzati a terra i biondi cavalieri,
fuggono in Puglia, fuggono in Abruzzi
gli altri baroni.
Al cielo va Mongioia!
Risuona il ponte presso Benevento
sotto scianguati cavalieri in fuga.
«Mal sia di te, soldano di Lucera!»
Ma egli, il figlio dell'imperatore,
la reda dell'imperator di Roma,
è in cima al colle, sul destrier che raspa.
Egli è lassù che mira la sua rotta,
con l'elmo in mano, e l'aquila d'argento
arde e sfavilla al sole che tramonta.
E il re prigione del Comune ascolta
la voce quale d'un profeta:
Quel che Dio mise in nome suo, vien presso;
dà degli sproni d'oro nel destriero.
«Non ira mala sia tra voi, vi prego.
Per Dio vi prego: è il nostro giorno estremo.
Sire e compagno, qui morire è certo.
Dell'olifante il suono andrà disperso.
N'udrà, sì, forse il suono, n'udrà l'eco,
ma non verrà l'imperatore a tempo».
AOI
«Dategli fiato tuttavia, Rollando,
poi che l'udrà l'imperator lontano.
L'udrà sul capo gemere d'un tratto,
ed, a vendetta far di noi, verranno.
Discenderanno tristi da cavallo,
ci troveranno morti per il campo;
raccatteranno il nostro corpo e il capo,
sopra i somieri li porranno, in pianto».
AOI
«Faranno il pianto con affanno e doglia,
sopra il somier ponendo una tal soma!
Ci deporranno in qualche ombrosa chiostra,
col lume acceso all'arco della soglia.
O qui su noi porranno una gran mora,
non cane o lupo mangi le nostre ossa;
non le nostre ossa bagni qui la pioggia,
non nella fossa il vento qui le muova».
AOI
VII.
L'OLIFANTE
Ormai nessuno è più con te, Manfredi
nepote di Costanza imperatrice!
Sul biondo capo ei pone l'elmo, ei leva,
andando a morte, l'aquila di Roma.
L'aquila cade sull'arcion dinanzi.
Romano e' parla, ed Hoc est signum Dei ,
dice ai suoi cento.
Ma però non lascia:
muove il cavallo verso la battaglia.
Cavalca, quale cavalier valente,
contro i guerrieri della rossa croce,
galoppa al Prato delle rose, sprona
ver la sua rossa Roncisvalle.
Rollando ha messo l'olifante a bocca,
forte lo prieme, a gran virtù vi soffia.
Il sangue sprizza e dalle labbra cola.
Son alti i monti, alta la voce vola.
A trenta leghe l'eco ne rimbomba.
L'imperatore ode la voce lunga.
«Suon di battaglia!» mormora, ed ascolta:
«se non è tuono che tra i monti corra».
Raccoglie a sé le briglie, né più sprona.
Tien alto il capo, e lento, al passo, inoltra...
AOI
«O triste voce!» pensa il re prigione.
«Che non cavalco per le bianche strade
di Lombardia con Ecellino e Buoso?»
Pensa, e il suo cuore è come onda nel mare,
nel mare intorno a Montecristo e il Giglio,
quel tre di maggio...
«Or sono sì distretto!»
Rollando mette ancora le due labbra
all'olifante, e suona con ambascia.
Dal collo gonfio il chiaro sangue salta.
Son alti i monti, passa la voce alta.
A trenta leghe il suono ne rimbalza.
L'imperatore ode la voce chiara.
«Se non è tuono, se non è valanga,
è la mia gente, questa, che ha battaglia».
Ferma il cavallo, sosta in una landa.
Sul capo suo palpita l'orifiamma...
AOI
«Che avviene là?» domanda Enzio.
Nessuno
sa, là nel regno, dei due re, che avvenga.
Il giorno cade, e il sole tinge in rosa
la torre al sommo, che prigione ei prima
vide lanciarsi su nel cielo azzurro,
venendo dal Castel d'Unzola.
Rollando prende tutta la sua lena:
nell'olifante con furor l'avventa.
La fronte crepa, scoppiano le tempia.
Sono alti i monti; ma la voce immensa.
La voce va, nell'alto ciel dilegua,
passa all'imperatore sulla testa.
Non è valanga, è altro che tempesta!
Ei fa sonare tutti i corni a guerra.
Volge il cavallo, volge a lei la schiera.
«Rollando chiama! Uomini, all'arme e in sella!»
AOI
VIII.
IL SACRO IMPERO
E suona la campana del Comune
a tocchi tardi.
Ella è sonata a soga.
Buon artigiano, cessa l'opra: è notte.
Uomo dabbene, torna a casa: è buio.
Il bevitore esca dalla taverna.
Chi giuoca a zara, lasci il tavoliere.
Uscite, o guaite, per veder se alcuno
va per la terra senza lume o fuoco.
Affretta il passo, o peregrino, e trova
qualche uscio aperto, ove tu chieda albergo.
Ora in palagio tuonano le porte,
i catenacci stridono e le chiavi,
serrando il re.
Poi tace ultima anch'essa
la lunga lugubre campana.
Ma Enzio ancora ode sonare il corno
della gran caccia, dalla Valle rossa.
Di sangue tinti sono l'erba e i fiori.
Giacciono i morti, i morti dell'impero,
giacciono, chi sul dorso, chi sul petto,
tra i neri massi, a piè dei neri pini.
Tre volte suona l'olifante, e chiama.
È la vigilia della tua vendetta:
chi ha mal fatto, non lasciar che dorma:
ritorna, imperatore magno!
Oh! egli udì; l'imperator ritorna.
S'ode la vasta e lunga cavalcata.
Viene tra gli alti tenebrosi monti,
per grandi valli e grandi acque correnti.
Avanti e dietro suonano le trombe
a riscontrare in alto l'olifante.
Non ha tra lor chi non si dolga e pianga.
Sul calpestìo risuona e sulle trombe
il pianto, come in mezzo all'acquazzone
le raffiche dell'uragano.
Sono alti i monti, gli alberi molto alti.
La Valle è piena di rosai selvaggi.
La notte è chiara: è chiarità di luna;
tremano i gigli nella rossa Valle.
Presso ogni morto è fitta la sua spada,
la spada sua con l'elsa fatta a croce.
Stanno riversi con le braccia in croce:
è nato un giglio in bocca d'ogni morto.
Ognuno ha il giglio, a ciò tu li conosca:
ritorna, imperatore santo!
Viene.
Non è ancor giorno né più notte.
Splendono già le punte delle lancie,
lucono gli elmi, brillano gli osberghi,
elmi ed osberghi e scudi pinti a fiori.
Si vedono ondeggiare i gonfaloni
appesi all'aste, rossi azzurri e bianchi;
su tutti i gonfaloni è l'orifiamma,
quella che un giorno si chiamò Romana.
Tutti a cavallo i popoli del mondo:
in mezzo a loro è Carlomagno.
L'imperatore! Ha conti e duchi intorno,
vescovi armati, con le mitrie d'oro.
L'imperatore ha gli occhi al sol levante,
l'arcangelo gli dice: Ave! all'orecchio.
È bianco, è vecchio di cinquecento anni;
la barba in fiore ha stesa sull'osbergo.
I centomila, in segno di gran duolo,
fuori dell'elmo hanno la barba bianca.
Va, giungi al campo ove morì Rollando,
imperatore! imperatore!
Va, ma non giunge.
È brusìo d'ombre vane
ch'ode re Enzio, quale in foglie secche
notturna fa la pioggia e il vento.
LIBERTAS
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