[Pagina precedente]...riamente convincano la mia opinione di falsità . E dico contro al mio desiderio, perché non vorrei che anco questa nota, benché piccola, macchiasse il suo, in tutto il resto, così puro e candido trattato; che nelli scritti miei, che poco di peregrino e di apprezzabile si contiene, poco di pregiudizio è l'aggiugnere a tante altre mie fallacie questa qui ancora; ché bene in un panno rozo e vile manco noiano la vista molte grandi ed oscure macchie che in un drappo vago e per la moltitudine de' fiori riguardevole non farebbe una benché minima.
Proporrò dunque quelle risposte che al presente paiono sollevarmi con speranza di dover poi, con mio util particolare, esser dalle sue dottissime repliche tolto di errore e condotto nel possesso del vero, qualunque volta queste mie risposte gli venissero agli orecchi. Ma prima che io descenda a esaminar la forza delle sue obiezzioni, voglio, per mia satisfazione, raccontare all'Altezza Vostra Serenissima i miei primi moti, dai quali io fui indotto a credere che di questo tenue lume secondario, che nella parte del disco lunare non tocco dal Sole si scorge (il quale, per brevità , con una sola parola nel progresso chiamerò candore), sola ed originaria cagione ne fusse il reflesso dei raggi solari nella superficie del globo terrestre. Avendo ed una e due volte osservato il detto candore, mosso dal natural desiderio d'intender le cause delli effetti di natura, il primo concetto che mi cadde in mente fu, che tal candore potesse essere proprio dell'istessa sustanzia e materia del globo lunare e per certificarmi se ciò potesse essere, aspettai curiosamente il tempo della prima eclisse totale di essa Luna, sicuro che quando ella per sé stessa ritenesse tal lume, molto e molto più splendido ci si mostrerebbe nelle tenebre della notte profonda, che nella chiarezza del crepuscolo; in quel modo che incomparabilmente lo splendore della medesima Luna, conferitole dal Sole, più bello e grande ci si rappresenta nella notte oscura, che non solo nel mezo giorno, ma nell'ora del crepuscolo ancora. Venne l'eclisse; e restando ella talmente oscura, che del tutto restò inconspicua, fui reso certo, il candore non esser nativo suo, e però necessariamente doverle esser conferito ab extra. E perché ad illuminare un corpo opaco ed oscuro vi è necessario il beneficio di un altro ben risplendente, né trovandosi al mondo altri che le stelle erranti e fisse, il Sole e la Terra, in quanto dal Sole è illustrata, venivo di necessità tratto a ricorrere e a far capo ad alcuno di questi. E cominciando dal Sole, essendo manifesto quanto grande sia l'illuminazione che esso le manda e che nello emisferio lunare ad esso esposto si deve, giudicai, il candore che nell'altro emisferio, non visto dal Sole, si diffonde, non potere essere opera dei raggi solari. Né meno potersi attribuire al resto dei lumi celesti, cioè delle stelle: imperochè la vista loro non vien tolta alla Luna posta nelle tenebre dell'eclisse; onde quelle pure illustrandola sempre egualmente, molto più lucida ci si rappresenterebbe nell'oscuro campo della notte, che nel crepuscolo; di che accade tutto l'opposito. E perché manifestamente si osserva, il candore farsi di grande mediocre, e di mediocre minore e minimo, tal effetto in conto veruno dalle stelle non può derivare. Restavami sola la Terra, atta a poter satisfare a tutte le particolarità , col non fare ella verso la Luna altro che puntualissimamente quello che la Luna fa verso la Terra, illuminando la sua parte oscura nelle tenebre della notte col reflesso de' raggi solari, or più, or meno, or pochissimo, or niente. E meco medesimo più arditamente discorrendo, dissi: Sono la Luna e la Terra due corpi opachi e tenebrosi egualmente; vi è il Sole, che di pari illustra continuamente un emisferio di ciascheduno lasciando l'altro oscuro; e di questi, la Luna è potente a illuminare l'oscuro della Terra: oh perché si dovrà metter in dubbio che il luminoso della Terra non incandisca l'oscuro della Luna? Parvemi questo discorso talmente ragionevole, che io presi ardire di palesarlo, stimando che dovesse esser ricevuto come concludente; né è restato il mio creder vano, poiché niuno de i comuni ingegni speculativi l'ha impugnato, sinché il discorso dell'eccellentissimo signor Liceti, sopra tutti gli altri eminente, ha con grand'acutezza penetrato, tal mio pensiero ed opinione essere stata manchevole. Tuttavia, o sia per mia debolezza ed incapacità , o pure che le impugnazioni non siano di quella strettissima necessità che nella assoluta demostrativa scienza si richiede, non mi conosco ancora per al tutto convinto; e perché in me non cessa il desiderio di sapere, bramando di esser tolto del dubbio e posto nel certo, communicherò a lei tutto quello che mi occorre potersi dire in risposta alle sue contradizzioni, per mantenimento della mia opinione.
E facendo principio dal titolo del capitolo 50, che è: De Lunæ subobscura luce, prope coniunctiones et in deliquiis observata; digressio physico-mathematica, già che egli medesimo le dà titolo di digressione, è manifesto segno di averla esso stimata considerazione non necessaria nel suo trattato, ma solo avervela interposta per magnificarlo; conforme a quel che di sopra ho detto, che la nobiltà e magnificenzia consiste più negli ornamenti non necessarii, che in quelle cose che di necessità devono esser portate. E sin qui approvo e laudo il suo instituto, se non in quanto seco porta indizio del mio non ben saldo discorso. E perché egli procede come matematico e fisico, andrò esaminando come filosofo, qualunque io mi sia, e come matematico le sue opposizioni; facendo anco qualche poco di considerazione intorno alla forma dell'argumentare che egli tal volta tiene, quanto ella sia conforme a i dialettici precetti posti da Aristotele.
Piglio dunque la sua prima instanza, contenuta dal principio del capitolo sino a «Dein vero, quum in plenilunio Terra» etc. Mentre io vo con attenzione esaminando questo primo discorso, lo trovo veramente con bello artifizio tessuto; e l'artifizio mi si rappresenta tale. Due parti si contengono in esso conteste: l'una è nella quale ei vuol dimostrare, il candor della Luna non potersi in modo alcuno riconoscere dalla Terra; l'altra è il concludere, tal effetto procedere dall'etere ambiente essa Luna. Quanto alla prima, molto probabilmente cammina il suo discorso, dicendo, il candor della Luna non poter derivare se non da quel corpo dal quale provengono le differenze di esso candore, le quali differenze sono il farsi tal candore or più ed or meno lucido: e questo non può provenire dalla Terra, avvengaché la sua lontananza dalla Luna non si muta: e però il reflesso della Terra deve esser sempre uniforme, ed in conseguenza impotente a produr differenze in esso candore; adunque, né meno il candor medesimo. Il discorso, pigliandolo a tutto rigore, patisce non leggier mancamento: il quale è, che nel raccorre la conclusione dalle premesse, s'introduce un quarto termine, non toccato nelle premesse, il quale è la Terra. Sono le premesse: «Un effetto mutabile non può provenire da causa immutabile: il candore è effetto mutabile; ma la distanza tra la Terra e la Luna è immutabile; adunque il candore non può provenir dalla Terra». Ora questo termine «Terra» non è posto nelle premesse, ma vi è in suo luogo «distanza tra la Terra e la Luna»; onde, a voler che l'argumento cammini in buona forma, bisognava, avendo detto nelle premesse «Un effetto mutabile non può provenire da causa immutabile; ma la distanza tra la Terra e la Luna è immutabile», bisognava, dico, dir nella conclusione «Adunque il candore non procede dalla distanza tra la Terra e la Luna»: ed il silogismo, raddrizzato così, quanto alla forma procedeva bene, ma non concludeva niente contro di me. Ho detto che a tutto rigore ne seguirebbe questo inconveniente; ma avendo riguardo a quello che, per mio credere, il signor Liceti aveva in intenzione, figuriamo l'argumento in miglior forma, dicendo: «Un effetto mutabile non può derivare da causa immutabile: ma la distanza tra la Luna e la Terra è immutabile, ed immutabile parimente è lo splendor della Terra; adunque il candore non può provenire né dalla distanza tra la Luna e la Terra, né dallo splendore della Terra; ed in conseguenza non può provenire dalla Terra». Non si può negare che il discorso in questa maniera raddrizzato apparisce tanto concludente, che facilmente potrebbe essere ammesso per sincero e libero da ogni fallacia da qualsivoglia filosofo; e tanto più ciò mi persuado, quanto che l'istesso signor Liceti, da me stimato per filosofo a nissun altro secondo, per niente manchevole lo ha creduto: e pure tra poco spero di esser per dimostrarlo manchevole. In tanto per ora, ammessolo per concludente, dico che egli non fa punto contro di me, il quale non ho mai detto né scritto che alla produzzione del candore si ricerchi la mutazione della distanza tra la Terra e la Luna o la mutazione dello splendore della Terra. È stato pensiero del signor Liceti; il quale, immaginandosi che di tal mutazione non possa esser causa altro che il variarsi la distanza o il mutarsi lo splendore, si è persuaso che escludendo queste due cause venga distrutta la mia opinione. Se io avessi detto che la Terra cagionasse il candore nella Luna con l'appressarsele o discostarsele, o col farsi ella or più splendida ed or meno, egli mi averebbe convinto di errore col mostrare che la Terra né si avvicina o discosta dalla Luna, né diviene una volta più vivamente splendida che un'altra. Resto io pertanto sin qui illeso dalla sua prima impugnazione, nella quale è bene ora che veggiamo se vi sia ascosa dentro alcuna fallacia, sì come, ingenuamente parlando, credo che ascosa vi sia: e per farla palese, prima mostrerò in generale che ella vi è; dipoi tenterò di additare, dove e quale ella sia in particolare
Che fallacia assolutamente vi sia, lo provo col tessere un argumento formato su le vestigie del suo, senza slargarmene pure un capello, deducendone poi una conclusione falsa; la quale vera doverebbe esser riuscita, quando nella forma dell'argumento non fusse stata fallacia. Formando dunque l'argumento su le sue pedate, proverò che quel lume che la notte si scorge in Terra, mentre che la Luna splendida si trova sopra l'orizonte, e che communemente si chiama lume di Luna, non è altrimenti effetto che, come da causa, dependa dal reflesso de' raggi solari nella superficie della Luna, dicendo così. Questo che noi chiamiamo lume di Luna è effetto mutabile, e però non può derivare se non da causa mutabile. Ma le cause mutabili, atte a produrre una tal mutabilità , sono dal signor Liceti ridotte a due capi: l'uno è l'avvicinare o discostare il corpo illuminante da quello che deve essere illuminato; e l'altro è il crescere o il diminuire lo splendore del corpo illuminante. Il primo di questi due capi non ha luogo: nella presente operazione, avvengachè, per concessione pur del medesimo signor Filosofo, la Luna mantiene sempre la medesima distanza dalla Terra; e l'altro capo molto meno ci ha luogo il che è manifesto; imperochè l'effetto che seguir si vede procede tutto al contrario di quel che proceder dovrebbe quando pur lo splendor della Luna si facesse ora più vivo e potente ed ora meno. Imperciochè, essendo lo splendor della Luna effetto dei raggi solari che la illustrano, chiara cosa è che ei sarà più vivo quando ella è men lontana dal Sole, e più debile nella sua maggior lontananza e però, posta la Luna in congiunzione col Sole, lo splendore che ella da lui riceve, più efficace sarà che quando ella li è posta all'opposizione, trovandosi in questo luogo più lontana dal Sole, che in quello, tanto quanto importa il diametro del dragone, cerchio massimo deil'orbe nel quale la Luna si rivolge; ed è manifesto, che partendosi ella dalla congiunzione e venendo verso il sestile e di lì al quadrato, ella si va continuamente discostando dal Sole, continuando pure il discostamento nell'aspetto trino, e finalmente conducendosi alla massima lontananz...
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