LA MAESTRINA DEGLI OPERAI, di Edmondo De Amicis - pagina 2
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E poi, un amor proprio! Le donne d'età non vogliono che io corregga i componimenti a voce alta, e rispondono impertinenze se le rimprovero; le giovani ridono quando faccio la morale; questa non vuol che imparare a far dei conti per la sua osteria, quella non vorrebbe che scriver lettere, per esercitarsi alle corrispondenze amorose; una vuole uscir prima perché ha la cucina che l'aspetta, un'altra s'addormenta perché ha passato la notte a cucire, o chi sa come.
Credi, Enrica, che è molto meglio aver che fare coi baffi."
Mentre essa discorreva, l'amica osservò un bel vestito di lana bigia finissima, che non le aveva mai visto, un po' troppo appariscente per lei; e le domandò quanto le costasse.
Quella arrossì un poco, e rispose di sfuggita: "Roba vecchia".
Ma alla Varetti passò per la mente un sospetto spiacevole: che anche quello, come già un altro dell'estate scorsa, fosse un vestito smesso d'una bella ragazza che aveva fatto fortuna senza maritarsi, e che prendeva lezioni private d'ortografia dalla Mazzara, per "mettersi all'onore del mondo".
La maestra riprese il suo discorso.
"Bisogna vederle uscire, poi.
Al suono della campanella scappan tutte con tanta furia, che alle volte cadono l'una addosso all'altra, ed è un miracolo se non seguon disgrazie.
Nella strada si tiran delle palle di neve, si rincorrono.
È uno scandalo, se tu vedessi.
Ma non è il peggio.
C'è sempre un branco d'uomini alla porta.
A sentirle, son tutti fratelli e cugini.
C'è anche dei caporali.
E si pigliano a braccetto senza complimenti, in faccia alla direttrice.
Ce n'è una, fra l'altre, una servetta, un serpente, che bisognerà finire con cacciarla, da tanto che ci fa disperare.
Non s'è mai visto un'impudenza simile.
Ha anche lei un cugino, come l'altre.
Tu vedessi che bel giovane! Uno che viene di fuori di Torino apposta per aspettarla, un'anima persa, uno di questi barabba, tu sai, che non han paura di nulla e che ti freddano un uomo per una parola.
E il bello è che mentre fa all'amore con lei, è geloso anche delle altre.
Lui le vorrebbe tutte.
Ha già attaccato lite con mezzo mondo.
Ma tutti lo temono perché è già stato un anno in prigione per una coltellata.
Bisogna veder che faccia: degli occhi che mettono i brividi.
E quella sfrontata se ne vanta, capisci, vorrebbe imporne alle compagne come una regina, e minaccia di far bucare la pelle ai loro fratelli e amorosi.
Domenica scorsa egli tirò uno schiaffo a uno, ci fu un parapiglia, accorsero le guardie.
Un giorno o l'altro l'ammazzano.
Ma di' pure un bel giovane.
L'anno passato andava a far le gare di lotta all'Arena torinese e dicono che buttava giù tutti.
Non tanto alto, ma forte e svelto, dei bei capelli neri, con un ciuffo sulla fronte, una bella vita.
Quand'è impostato là alla cantonata, durante la lezione, c'è una dozzina d'alunne, tutte quelle vicine alle finestre, che non c'è più verso di tenerle.
Non capisco...
A me farebbe paura."
Ma dicendo questo, rise, e quel riso spiacque alla Varetti, la quale ci vedeva sotto un sentimento discordante dalle parole, e ne comprendeva il perché.
Figliuola d'un brentatore tristo soggetto, cresciuta in mezzo a tre fratelli discoli, legati con la peggior bordaglia di Torino e stati in carcere più volte per disordini e risse, la Mazzara s'era levata al di sopra della propria famiglia a forza di studio, e in grazia di una naturale bontà d'animo e di certe aderenze signorili; ma le era rimasta per quella gente una specie di simpatia di razza; la quale, pur non osando di esprimersi apertamente, si lasciava indovinare in una certa indulgenza sorridente, spinta talvolta fino ad un'ammirazione volgare delle loro gesta, che offendeva la delicatezza della sua amica.
Questa dimenticò in quel momento la loro buona amicizia di tre anni, e un servigio importante che le aveva reso la Mazzara in una congiuntura dolorosa, e s'alzò, impazientita da quei discorsi.
L'amica le domandò se aveva da uscire.
Essa rispose di sì, che andava alla "benedizione" come tutti i giorni.
Allora quella cambiò tutt'a un tratto viso ed accento, e le disse con dolcezza di divota: "Fai bene, bimba mia.
Anch'io sento il bisogno d'andar in chiesa ogni giorno, a dedicare un pensiero a Dio.
Dopo, mi sento meglio".
D'altra parte doveva lei pure tornare a Torino.
Doveva ancora far visita a un'amica, parente d'una maestra che era stata istitutrice in casa del principe di Carignano, doveva fare una commissione al parroco della Consolata, un monte di cose.
"Dunque" le disse, prendendole il mento con due dita "va' di buon animo a far la scuola serale.
Son sicura che ci troverai della gente di cuore, rozza, ma schietta, e anche rispettosa.
Basta trattarli senza sussiego, semplicemente, alla loro maniera.
Tu vedrai.
Fra un mese t'adoreranno."
La Varetti tentennò il capo.
"Ho dei cattivi presentimenti" rispose.
"Fantasie!" disse l'altra.
"Il popolo è come il diavolo; molto, ma molto meno brutto di quello che si dipinge."
Poi le espresse una sua idea: per le prime sere, avrebbe potuto far assistere alle lezioni il cantoniere.
Ma la Varetti sorrise.
Il cantoniere era un povero vecchietto, che faceva il coraggioso, ma ch'era pien di paura, tanto che quando si sentivano le grida d'un alterco sul viale, non c'era più modo di trovarlo: pareva che sparisse a traverso ai muri come uno spettro.
"Insomma" concluse la Mazzara "tutto andrà per il meglio, te lo assicuro io.
Tornerò presto a vederti e tu mi dirai che sei contenta."
La Varetti uscì con lei per accompagnarla fin sul viale, e quella, mentre scendevano, parlando a precipizio, le diede ancora notizie d'una diecina di amiche.
Arrivate sull'uscio del cortile, incontrarono un giovanotto col cappello a cencio e con la pipa in bocca, il quale, fissatele tutte e due, si scansò per lasciarle passare, e poi entrò nella scuola voltandosi a guardar la Varetti.
La Mazzara fece un segno di gran maraviglia, ed esclamò: "È lui!".
"Chi, lui?" domandò la sua amica, turbata.
"Lui, quello di cui t'ho parlato poco fa, che viene ogni domenica a aspettar la cugina.
Non sapevo che stesse a Sant'Antonio.
Tu lo devi conoscere".
La Varetti, balbettando, rispose che lo conosceva di vista.
"Sarà alunno della scuola serale" disse l'altra.
Ma la Varetti sapeva di certo che non era.
"Allora" disse la sua amica "è certo che è venuto per farsi iscrivere.
Che vuoi che venga a far qui?"
La Varetti impallidì.
Ma l'amica non se n'accorse, e le disse allegramente: "Toccherà dunque a te a convertirlo.
Non trattenerti a pigliare il freddo.
Addio, Enrica!".
E datole un bacio, scappò per la neve.
La Varetti rientrò in casa col batticuore.
Era veramente venuto a farsi iscrivere per la scuola serale? E perché aveva aspettato che vi fosse destinata lei? Ebbe subito l'idea d'andare ad accertarsi della cosa dal maestro Garallo, che, facendo da direttore, riceveva le iscrizioni; ma la rattenne il timore ch'egli indovinasse la sua inquietudine, e la tacciasse di pusillanime.
Perdette ogni dubbio un minuto dopo vedendo dalla finestra del cortile il giovane che discorreva col maestro, il quale l'accomiatò con un cenno delle dita aperte, che le parve volesse dire:"Alle otto." Essa conosceva colui più che di vista, poiché nel sobborgo tutti ne parlavano.
Era un tal Muroni, soprannominato Saltafinestra, perché, da ragazzo, per sfuggire a una furia di suo padre che lo voleva ammazzare, era saltato giù dalla finestra di casa sua, rompendosi una gamba sul ciottolato della strada.
Suo padre, operaio in una delle fabbriche di Sant'Antonio, era morto d'un colpo ricevuto da una correggia di trasmissione, a cui s'era cacciato sotto, essendo briaco; dopo aver fatto per dieci anni patir morte e passione a sua moglie, una povera donna tutta chiesa, che lavorava a una conceria.
Il figliuolo lavorava da un fabbro ferraio, quando n'aveva voglia; passava delle giornate intere a Torino; era stato un anno in carcere per ferimento, e aveva fatto ammattire per un mese i carabinieri, sguisciando loro di mano dieci volte; praticava la feccia dei malviventi della città e dei dintorni; giocatore, briacone, accattabrighe, prepotente; spietato con sua madre, a cui strappava fino all'ultimo centesimo minacciando d'andare a far delle scenate in chiesa o di sfregiare le immagini sacre che avevano in casa; infine, accusato dalla voce pubblica di tutte le birbonate e di tutte le violenze che si commettevan la notte in Sant'Antonio, delle quali non fossero scoperti i colpevoli.
La maestra Varetti aveva sempre avuto orrore di lui, e n'aveva anche di più da qualche tempo, perché, fosse per simpatia, fosse per il piacere di intimorirla e di confonderla col suo sguardo, egli aveva preso a fissarla ogni volta che la incontrava, e a soffermarsi per guardarla ancora, dopo ch'era passata; e infatti sotto lo sguardo dei suoi occhi neri e lampeggianti di luce sinistra, ella mutava colore e perdeva il fiato.
Perché era venuto a farsi iscrivere alla scuola serale? si domandava la maestra.
Non per istruirsi, certamente.
E le passavan pel capo le più tristi idee: che, offeso dall'avversione ch'essa gli dimostra a malgrado suo, volesse venire alla scuola per vendicarsene, o che, prendendo per commozione di simpatia il suo turbamento, le si volesse avvicinare per conquistarla; e i due sospetti la sgomentavano in egual maniera.
Le pareva ora irragionevole d'essersi tanto inquietata prima, quando pure sapeva che colui non faceva parte della scolaresca.
Ora sì, aveva ragione davvero d'essere in affanno.
Dio mio, che cosa sarebbe accaduto? Come ne sarebbe uscita? E agitata da questi pensieri, prese a girar per la camera.
Si soffermò un momento davanti a un ritratto di suo padre in divisa, appeso alla parete, come per prender consiglio e coraggio dalla sua immagine.
Poi si arrestò davanti allo specchio, quasi per interrogar la propria persona, se avrebbe imposto rispetto o incoraggiato l'impertinenza, o frenata questa con una ispirazione di simpatia, o anche di pietà.
Ma lo specchio non le diceva nulla che la confortasse.
Sui ventiquattro anni, benché alta di statura, ne dimostrava diciotto; era esile; aveva un corpo gentile di fanciulla adolescente, il viso d'una bianchezza lattea e d'una minutezza di lineamenti da bambina, e una piccola bocca scolorita, da cui usciva una voce debole e dolce di malata.
Che autorevolezza avrebbe potuto avere? Perfino quel difetto leggerissimo di strabismo che dava allo sguardo dei suoi occhi celesti una indeterminatezza fantastica, la quale a molti riusciva seducente, le pareva che si dovesse prestare a scherzi e a dileggi, come la sua carnagione delicata e la sua grazia signorile, che facevano troppo vivo contrasto con l'aspetto della scolaresca.
E stette un po' di tempo davanti allo specchio, lisciandosi distrattamente con la mano lunga e bianca i capelli castagni che le scendevan sulle tempie, e cercando con quale atteggiamento del viso avrebbe dovuto presentarsi alla classe la sera dopo, per guadagnarsi alla prima un po' di benevolenza.
Ma si levò di là tutt'a un tratto, più inquieta che mai, e si avvicinò alla finestra, a fissar l'occhio indagatore in fondo al viale, dove a traverso alla nebbia della sera splendeva già la lanterna rossa di quella terribile osteria, che la faceva tanto fantasticare e tremare.
Due colpi che sentì nel muro, dall'altra parte della camera, la riscossero dai suoi pensieri.
Era la maestra Baroffi che la chiamava a desinare in camera sua.
Da un mese desinavano insieme, loro due e la maestra Latti, contentandosi della cucina agreste della cantoniera, la quale le serviva qualche volta anche a tavola, tra una scopata e l'altra.
La Varetti, desiderosa di distrazione, corse subito, e trovò le sue commensali già sedute a una piccola tavola rotonda, dove la zuppiera e il lume a petrolio si contendevan lo spazio, fumando insieme.
Ma, con suo rammarico, la conversazione cadde immediatamente sulla scuola serale.
La Latti, passando poco prima per il paese, aveva inteso un garzone muratore dire al suo compagno, strizzando un occhio: "Di', domani abbiamo la maestrina".
E scherzò con l'amica a quel proposito.
Ma il suo buon umore era un'eccezione alla regola.
La piccola Latti aveva una monomania malinconica, che non lasciavan punto sospettare il suo corpicciolo grassotto e il suo visetto nero e vivo di gitanella: si credeva sempre malata, d'una malattia che cambiava ogni quindici giorni; aveva in camera sua un'intera farmacia, portava sempre in tasca pillole e polveri, sapeva a mente Il medico di se stesso, cercava le ricette nelle quarte pagine dei giornali, teneva corrispondenza epistolare con un clinico di Torino, e, fra gli altri malanni, era tormentata da una tosse perpetua, o meglio da un sospetto perpetuo d'aver la tosse, che le faceva far dei continui sforzi d'esperimento, come un cantante che abbia perduto la voce.
Alle sue alunne dava spesso per tema delle lettere in cui si doveva consolare dei malati lontani o parlare d'una malattia propria.
Ogni tanto, cominciando la lezione, diceva: "Bambine, questa è una delle ultime lezioni che vi dà la vostra povera maestra!".
Passando con le amiche davanti al camposanto, sospirava: "Lì sono aspettata!".
Le scolare astute non avevan che a andarle attorno e dirle: "Cos'ha, stamani, signora maestra, che è così pallida?" e lei, anche stando bene, era presa da un'orribile agitazione.
Del resto, buona come il pane e superiore a tutte le piccole miserie e passioncelle del mondo scolastico, come chi crede d'esser già più di là che di qua.
Era figliuola d'una guardia civica.
La Varetti non rispose ai suoi scherzi.
Allora la confortò la maestra Baroffi.
"Io t'invidio" le disse con la voce grossa, alzando il suo viso paffuto e sbiancato di madre nobile, coronato d'una capigliatura poeticamente scomposta, e guardando sopra il capo all'amica, come se parlasse a una persona ritta dietro di lei.
"Tu potrai studiare il popolo: un bel soggetto di studio, che non fu mai sviscerato.
Potrai fare del gran bene.
Io vorrei essere al tuo posto e credo che ne farei quello che vorrei di quella classe.
La Garallo non li capiva, non sapeva toccare le corde...
Non ha il dono della parola, insomma.
Ma una ragazza d'ingegno e di cuore deve riuscire a dominarli in quattro lezioni."
La Varetti scosse il capo in atto incredulo.
"Tu sei troppo teorica" le disse.
Era così.
Non ostante le sue trent'otto primavere, quella credeva ancora all'operaio dei libri di lettura che canta le gioie della povertà onesta e compiange i ricchi affollati di cure.
Tutta immersa nella letteratura, non aveva alcuna conoscenza pratica della vita, nessun fondamento d'osservazione fatta direttamente sugli uomini e sulle cose; ma solo un emporio disordinato e bizzarro di sentenze di libri, di concetti convenzionali e di frasi coniate, che combinava continuamente in mosaico per le sue conferenze ideali.
La conferenza era in lei un vero furore cefalico, a cagion del quale avendo trascurato la scuola, s'era fatta relegare dalla città a Sant'Antonio, dove soffriva di nostalgia letteraria, con l'animo sempre rivolto a Torino, campo delle sue piccole glorie passate, come a un paradiso perduto.
Giungeva a tal segno la sua passione, ch'essa non poteva vedere un tavolino e una seggiola senza pensar subito a una conferenza; avrebbe tenute delle conferenze agli alberi del viale; faceva degli esperimenti oratori da sé, nella sua camera; non pensava quasi ad altro; tutto quello che le entrava nel capo dalla conversazione o dai libri vi pigliava forzatamente la forma di un discorso accademico, come certe materie pigliano una data forma in una data macchina.
E in questo ella offriva un caso davvero curioso di cleptomania letteraria, poiché per istinto, innocentemente, non faceva che levar la marca ai pensieri altrui e metterci la propria, come la cosa più naturale del mondo: pigliava, per esempio, una conferenza d'un altro, la rovesciava, e la faceva sua, senza metterci altro di suo che una certa tinta uniforme lirico-pedagogica, che soleva dare a ogni cosa, e l'intonazione affannosamente drammatica con cui la leggeva, quando poteva, gesticolando come un naufrago che chieda soccorso.
Aveva, anni addietro, pubblicato un polpettone di libro di lettura che era da capo a fondo un vero e proprio magazzino d'oggetti di furtiva provenienza, sul quale aveva fatto stampare: "diritti di proprietà riservati" ed ora, in quel suo romitaggio, andava accumulando i frutti d'un vasto e infaticato saccheggio, per quando sarebbe ritornata a Torino.
Era soltanto impensierita della pinguedine crescente e del raffittire dei capelli grigi, che, secondo lei, avrebbero nociuto alquanto ai suoi buoni successi avvenire.
L'osservazione della Varetti la punse un poco.
"Non son teorica" rispose.
"Ho più esperienza di te e conosco il popolo meglio di te, e ho osservato che al popolo, agli operai particolarmente, non si sa insegnare.
L'operaio è ingenuo perché è incolto, e buono perché lavora, e per questo è facile a tutti gli entusiasmi.
Bisogna dunque toccarlo nel sentimento patrio, nell'amore del bello e del grande; bisogna fargli brillare alla mente gli ideali della gioventù, col linguaggio della fanciullezza.
Ed è questo che non si sa fare, e che io farei, cara amica."
"Dio mio!" rispose con tristezza la Varetti.
"Quando ti fanno un insulto sul viso, serve di molto rispondere con gli ideali!"
"A me," ribatté l'altra, "l'insulto non lo farebbero."
La discussione, che s'inaspriva un po', fu interrotta in buon punto dalla maestra Latti, la quale dopo aver mangiato come un lupicino, lasciò cadere a un tratto la forchetta esclamando: "Quest'appetito mi sarà fatale!".
Le sue compagne sorrisero.
"A proposito," disse la Baroffi, "m'ha detto il Garallo che s'è venuto a far iscrivere Saltafinestra."
Lo conoscevan tutte di fama.
La Varetti accennò che lo sapeva.
"Eccone uno, per esempio," soggiunse la conferenziera "che io mi sentirei di far piangere come un bambino."
"Ti vorrei vedere" disse la Varetti
"E mi vedresti" rispose quella, scotendo la capigliatura.
"Alle volte, quei demoni scatenati, che fanno paura a tutti, hanno dei cuori di fanciulli.
Non c'è che a trovar la via d'arrivarci, e la parola può tutto.
Guarda come li tiene il Garallo."
Questi faceva la seconda classe della scuola serale.
Ma l'esempio non calzava perché nella seconda non c'erano uomini fatti.
La Varetti, d'altra parte, non credeva punto c'egli tenesse la disciplina come se ne vantava.
Egli soleva dire: "Nella mia classe si sentirebbe il volo d'una mosca," e lei, la sera, dalla sua camera, sentiva un baccano dell'altro mondo.
"È un'altra cosa," entrò a dire la maestra Latti, che aveva ricominciato a mangiare; "il Garallo è repubblicano; gli è più facile di tenerli; il popolo ha simpatia per i repubblicani."
Ma la Mazzara negò.
Il Garallo era repubblicano di principii e di cuore; aveva in casa i ritratti del Mazzini, di Aurelio Saffi e di Alberto Mario; suo padre era stato mazziniano; egli si serbava fedele agli ideali di suo padre; ma in iscuola non faceva propaganda; si asteneva soltanto dalle adulazioni e dalle bugiarderie obbligatorie.
"Già, è un repubblicano silenzioso," osservò la Varetti, "che si guarda bene dal compromettersi.
La propaganda non entra nei suoi conti."
Quel gioco di parole involontario fece ridere le altre due.
Il maestro Garallo e sua moglie eran conosciuti come i due più appassionati computisti del corpo magistrale, facevan calcoli infiniti sugli stipendi e sugli aumenti quinquennali propri e degli altri, erano occupati di continuo in questioni di contenzioso scolastico finanziario, studiano sui bollettini del Monte delle pensioni, su quelli della Cassa Società degl'insegnanti, sulle relazioni della Cassa pensioni del Municipio, meditando proposte e osservazioni da far nelle adunanze, registrando le "liquidazioni" dei loro colleghi, discutendo il bilancio del Ministero d'istruzione pubblica, movendo lamentazioni interminabili, a due voci, sopra ogni aumento di spesa che si facesse sugli altri bilanci dello Stato.
Non uscivan quasi mai dalla loro buca, e si diceva che impiegassero tutte le serate in cómputi e ragionamenti di quella natura, sgranocchiando in mezzo alle cifre i salami e le ricotte che ricevevano in dono dai parenti dei loro scolari.
Le maestre Latti e Baroffi celiarono per un pezzo su quell'argomento e stavano appunto dicendo che i due coniugi sapevano a menadito stipendi, indennità ed incerti di tutti i maestri del mondo, da Pietroburgo alla California, quando la Varetti sentì nel corridoio il passo del Garallo che s'arrestò davanti all'uscio del suo quartierino.
Mentre essa s'alzava per andare da lui, sentirono picchiare invece all'uscio della Baroffi, la quale corse ad aprire e fece entrare il maestro, che aveva un gran foglio tra le mani.
Era una strana figura: poco più che quarantenne; piccolo di statura e tarchiato, una enorme testa con una gran capigliatura nera arruffata, la faccia pallida e seria, con due baffi corti e irsuti, gli occhiali affumicati, una voce di basso.
Non volle sedere.
Veniva, mandato dalla moglie, a portare alla Varetti l'elenco degli iscritti alla sua scuola serale.
La maestra prese il foglio e vi diede un'occhiata: eran quaranta.
Guardò l'ultimo nome.
Ahimè! Era il Muroni, Saltafinestra.
Il Garallo tirò fuori un altro foglio più piccolo, nel quale eran divisi gli alunni in due sezioni: quelli che sapevan già leggere e scrivere alla meglio e quelli che incominciavano.
"Saprà" disse "che c'è un nuovo iscritto."
La maestra rispose che l'aveva visto.
"Non se ne dia pensiero" le disse il maestro con voce burbera, notando il suo viso inquieto; "quello lì e gli altri si fanno rigar dritto tutti a un modo.
Non bisogna far delle frasi, né lasciarsi andare al sentimento.
Ci vuol franchezza e energia, e mostrar di non temer nessuno.
Il popolo ama i caratteri forti e franchi.
Io li tengo tutti nel pugno, i miei, e non rifiatano.
In ogni caso, se succedesse qualche cosa, mi mandi a chiamare: non avrò che a farmi vedere."
La Varetti lo ringraziò, con un leggerissimo sorriso ironico; il maestro augurò la buona sera e s'avviò per uscire.
Arrivato all'uscio, si voltò a dare alle colleghe una buona notizia.
Pareva che, finalmente, il Ministero si fosse deciso ad accordare una riduzione sui biglietti ferroviari agli insegnanti elementari.
"Era tempo," disse, e uscì.
La Varetti e la Latti diedero la buona notte all'amica e rientrarono nelle loro camere nel momento che il cantoniere sprangava l'uscio del cortile; e la casa solitaria rimase in un profondo silenzio.
La mattina dopo, mentre stava per scendere alla scuola dei bimbi, la Varetti ricevette una visita inaspettata: la madre di Saltafinestra.
Questa entrò timidamente nella camera, inchinandosi, come davanti a una gran signora, e, nel girare gli occhi intorno in aria di curiosità rispettosa, parve un momento stupita di vedere appeso a una parete il ritratto d'un ufficiale.
Era una piccola donna tozza, con un fazzoletto giallo sul capo, che lasciava vedere i capelli grigi; vestita da contadina, pulita: un viso d'anima in pena, con una ruga diritta in mezzo alla fronte, e due occhi inquieti e luccicanti, in cui pareva avesse due lacrime fisse, come cristallizzate.
Cominciò con una domanda singolare, a bassa voce, come se parlasse in un confessionale: domandò alla maestra se sapesse per qual motivo il suo figliuolo si fosse deciso ad andar alla scuola serale.
La maestra si maravigliò della domanda.
Che ne poteva saper lei? E il sospetto che la donna supponesse una relazione, anche solo di parole, tra lei ed il giovane, le fece salire il sangue alle guance.
Allora, con voce tremola, parlandole piano, quasi nell'orecchio, la vecchia le raccomandò il figliuolo caso mai non si fosse portato bene e avesse commesso qualche...
imprudenza, pregava la signorina di compatire, fin che poteva, di non prenderlo di punta...
per via del suo carattere.
Con tutte quelle ch'ei le aveva fatto, ella mostrava ancora di credere che fosse piuttosto pervertito dalle cattive compagnie, che tristo di fondo.
Ma la verità le uscì di bocca a
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