LA MAESTRINA DEGLI OPERAI, di Edmondo De Amicis - pagina 5
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Questa gli fece qualche appunto grammaticale, a cui egli oppose delle obbiezioni, non con mal garbo, ma con un tono da far capire che egli voleva esser tenuto in un conto particolare, non messo a mazzo con altri.
La lettera era sottoscritta: "Lamagna Luigi, suo eguale, non servo".
Queste parole, per la maestra, furono un lampo.
Il Lamagna doveva essere certo quell'operaio socialista della fabbrica di ferramenti, del quale essa aveva inteso parlare molte volte, come d'un giovane d'ingegno ardito e bizzarro, tenuto in grande stima dai suoi compagni, a cui predicava il verbo nuovo nei crocchi, terminando ogni discorso col raccomandare l'orgoglio di classe, come principio e fondamento necessario della emancipazione avvenire.
La maestra gli fece ancora un appunto sopra una parola della chiusa, ed egli sedette, mormorando le sue obiezioni al vicino, con un sorriso dignitoso.
Fin qui, salvo qualche leggero bisbiglio, la classe si portava bene, e la maestra prendeva animo.
Fece aprire il libro di lettura, l'Artiere italiano, che tutti gli alunni di destra avevano, e lesse ella prima un periodo.
Leggendo, pensava che avrebbe dovuto a ogni costo far legger dopo di lei il Muroni, sia per rompere il ghiaccio, sia per non destare nella classe il sospetto ch'ella ne avesse paura: d'altra parte, prendendo dalla destra del banco più vicino, egli era il primo.
Fece dunque uno sforzo, appena ebbe finito di leggere, e voltandosi verso di lui, gli disse: "Rilegga".
Tutti tacquero.
Il giovane s'alzò, col libro in mano, sorridendo con l'aria vanitosa di chi sa d'essere oggetto di curiosità e di aspettazione.
Era la prima volta ch'ella fissava gli occhi sopra di lui, e n'ebbe più ripugnanza che non n'avesse mai avuta.
Quella piccola testa coi capelli femminilmente spartiti nel mezzo, quel viso quasi di ragazzo precoce, di una pallidezza livida, con due piccoli occhi neri acutissimi, d'una espressione dura e risoluta, in cui s'indovinava un'ira vendicativa senza pietà, con quella bocca stretta e senza labbra, che pareva una ferita di coltello, non guernita che di due baffetti arricciati a punta, avevan qualche cosa di feroce insieme e di lezioso, che faceva peggior senso della faccia d'un rozzo malfattore abbrutito.
Tutto il suo corpo ben proporzionato e asciutto mostrava d'aver dei muscoli d'acciaio e una sveltezza di saltimbanco.
Alla capigliatura impomatata, alla cravatta col nodo allentato che lasciava scoperto il collo fino alla fontanella della gola, ai calzoni stretti che s'allargavano a campana sul piede, ai larghi polsini di colore che coprivan mezze le mani, si riconosceva il tipo del barabba ambizioso, misto di bellimbusto e di brigante, divorato da mille appetiti e non contenuto da altro freno che da quello della povertà, pronto in qualsiasi ora a qualunque cimento e a ogni più audace birbonata.
L'atteggiamento della sua persona, impostata di sghembo, con una spalla più alta dell'altra, il balenio intermittente degli occhi, l'intonazione della voce rauca manifestavano un orgoglio smodato e selvaggio, che, non trovando altra via, si sfogava in un disprezzo beffardo di tutti e d'ogni cosa; di quei disprezzi di malfattori che vanno di sotto in su, crescendo gradatamente, dalla polvere della via dove nascono fino alla sommità d'ogni grandezza umana.
Leggendo a stento, egli fingeva d'intaccare per capriccio, non per ignoranza, e nell'alzare il viso dal libro, lanciava ogni tanto un'occhiata alla maestra, che non gli vedeva che il bianco degli occhi, e n'aveva un senso di freddo alle vene.
E benché si sforzasse, quando lo doveva correggere, non osava guardarlo nel viso; non guardava che la sua mano destra, con la quale ei teneva il libro, pensando con raccapriccio ch'era quella che aveva immerso il coltello nel fianco d'un amico.
Quando finita la lettura, egli si rimise a sedere, ella si sentì come liberata da un'oppressione del cuore.
Venuta la volta di leggere al ragazzo del secondo banco, che le aveva fatto una così trista impressione, ella capì dal modo come s'alzò e dal movimento di curiosità dei suoi compagni ch'egli doveva esser solito a provocar l'ilarità e lo scandalo nella classe; e avendo letto nell'elenco Pietro Maggia, gli domandò, con la speranza d'ingraziarselo un poco in quella maniera, se fosse parente dell'altro Maggia, quella specie di grosso bruto, ch'era nell'altra sezione.
"A l'è me barba" (è mio zio), rispose il ragazzo, con una smorfia buffa, che fece ridere i vicini.
Lo zio, intento a scrivere con la sua chiave, non si voltò.
E quegli cominciò a leggere con voce contraffatta, ch'era una sua valentia artistica, con cui imitava la voce d'un povero sciancato del sobborgo, che chiedeva l'elemosina.
Tutti i ragazzi si misero a ridere.
Ma tre o quattro degli uomini fecero segno di disapprovazione; fra i quali il Perotti, dal suo banco in fondo, gli disse aspramente: "Finiscila!".
"Perché mi manca di rispetto?" gli domandò la maestra incoraggiata da quegli aiuti.
Il ragazzo sedette, facendo l'atto d'arricciarsi un baffo.
La maestra passò ad un altro.
Quando toccò al Lamagna, avendogli detto: "Faccia sentir meglio la doppia t" quegli rispose con dignità: "Mi par d'averla fatta sentire".
Gli altri si contennero bene.
Allora essa diede il periodo da scrivere e tornò alla prima sezione.
Intanto, furtivamente, guardava di tratto in tratto il Muroni per indovinar dal suo contegno le sue intenzioni.
Egli scriveva; ma guardando lei molto spesso; e i suoi sguardi, pure non palesandole chiaramente il suo pensiero, la confermavan pur troppo nella certezza che con un pensiero egli fosse venuto, o spinto da una simpatia brutale, o per far qualche bravata, forse per una scommessa fatta coi suoi compagni, o col solo proponimento d'impaurirla e di farle dispiacere, per malvagità; o chi sa che altro.
Ogni volta ch'ei la guardava, gli guizzava un sorriso su quella bocca senza labbra, come il luccichìo d'una lama, il sorriso bieco, subdolo, fuggente di chi cova un proposito maligno.
E a ciascuno di quei sorrisi ella si turbava, tanto che doveva fare uno sforzo per non perdere il filo della lezione, e quegli se n'accorgeva, e mandava dagli occhi un lampo di compiacenza trionfante, che la turbava anche peggio.
Egli tenne però per tutta la lezione un contegno corretto, non voltandosi mai a parlar coi vicini, come se fosse tutto assorto nella sua idea.
Quelle due lunghissime ore passarono, come Dio volle.
Essendovi la doppia vacanza del sabato e della domenica, la maestra diede per compito alla sezione più avanzata una lettera a una supposta sorella lontana.
Poi raccomandò timidamente a tutti di uscire in silenzio.
All'ultime sue parole il piccolo Maggia mise un fischio sottile, che, per fortuna, passò inosservato tra il suono della campanella e il rumore che facevan tutti per apparecchiarsi ad uscire.
Uscirono in gran disordine.
Passandole davanti, il Muroni le lanciò uno sguardo, ch'essa sfuggì.
Molti degli uomini la salutarono.
Ma il maggior chiasso scoppiò di fuori.
Uscivano anche gli alunni del Garallo.
Pareva un'uscita d'un teatro popolare una sera di martedì grasso: strilli, salve di fischi, zufolii, urlate, un fracasso di zoccoli, un chiamarsi per nome a squarciagola, uno schiamazzo di domande e di risposte, in cui la maestra sentì più volte il proprio nome e dei commenti sulla sua persona, seguiti da risate clamorose, da canti, da versi d'animali, da esclamazioni buffe e da scaracchi sonori; e da tutte le parti fiammelle di zolfanelli e di carte accese sulle pipe, che offrirono per un momento lo spettacolo d'una luminaria nella nebbia.
Poi il baccano s'allontanò a poco a poco, non si udirono più che grida e canti nel sobborgo, e infine seguì un silenzio profondo.
La Varetti uscì dalla scuola assai tranquillata.
La sua classe era meno peggio di quello che si fosse immaginata; c'eran dei visi di galantuomini, che le parevan disposti a tenere in briglia i ragazzacci; e la confortava sopra tutto l'immagine di quel Perotti, sul cui viso onesto essa aveva visto quasi una promessa di protezione paterna.
Chiese poi notizie di lui al Garallo, che raggiunse per la scala, e le ebbe eccellenti.
Era un buon operaio e un ottimo padre di famiglia, che aveva lavorato da falegname prima d'entrare alla conceria, e fatto due o tre piccoli mobili assai graziosi per il museo pedagogico che il maestro si proponeva di mettere assieme.
Avevan tanta buona volontà d'istruirsi, lui e il suo figliuolo, che appena usciti dalla conceria andavano alla scuola senza mangiare, restando così digiuni per dieci ore; e il piccino, che aveva fatto la seconda elementare, correggeva ancora i lavori al padre, dopo cena.
"Vedrà" concluse il Garallo "che col popolo si sta bene.
Se poi seguiranno dei disordini, lei mi manderà a chiamare dal cantoniere, e non avrò che da affacciarmi all'uscio: tutti rientreranno nel dovere."
La maestra si ripresentò dunque alla scuola, benché turbata sempre dal timore di Saltafinestra, con assai miglior animo che non si fosse presentata tre giorni avanti.
Ma s'accorse pur troppo fin da principio che, non più distratti dalla curiosità ch'essa aveva destata la prima sera, e anche perché avevano indovinato la sua indole timida, i ragazzi non si sarebbero più frenati come l'altra volta.
Ella sentì delle risate represse, e capì che qualcuno doveva far dei gesti sconvenienti alle sue spalle, mentre stava alla lavagna a scriver le sillabe.
I ragazzi cominciarono a parlar forte; alcuni si addormentavano; uno russava, e lo dovette svegliare.
Fu costretta due o tre volte a interrompersi, sgomenta, aspettando che i grandi, stizziti d'esser disturbati, imponessero silenzio.
Il piccolo Maggia distraeva i vicini con una ginnastica continua delle mani e dei piedi, di sotto al banco, e quando essa lo guardava, le fissava gli occhi in viso con una espressione di finto stupore, così impertinente, che le faceva voltare il capo da un'altra parte.
Ammutolirono tutti quando, terminata la lettura della prima sezione, videro Saltafinestra uscir dal suo banco col quaderno in mano per salir sul palco a chiedere spiegazioni sul suo lavoro.
La maestra tremò, presa dal presentimento di qualche atto di audacia.
Il giovane le s'avvicinò perfettamente tranquillo, simulando anzi una grande serietà, e messole davanti il quaderno aperto, le rivolse una domanda intorno a una frase.
Vinta la ripugnanza che sentiva a stargli così vicino, tremando, e quasi restringendosi in sé come per scansare il suo contatto, ella chinò il viso sul quaderno, e lesse le prime righe del componimento: una lettera a una sorella.
Tutt'a un tratto, mossa da uno sdegno più pronto d'ogni timore, afferrò il foglio con due mani, lo fece in due pezzi, e respinse il quaderno da sé.
Aveva letto il principio d'una dichiarazione amorosa.
Il giovane riprese il quaderno e tornò al suo posto, col capo basso, sorridendo sinistramente.
La maestra rimase qualche momento bianca come un cencio.
Poi, con molta fatica, ricominciò la lezione.
Quell'avvenimento misterioso, commentato subito da un vivo mormorio, valse a tenere nella scolaresca un breve silenzio di curiosità e di aspettazione.
Ma verso la fine, mentre la maestra voltava un'altra volta le spalle alla classe per scrivere le sillabe col gessetto, fu riscossa dal colpo d'una grossa palla di carta masticata che batté nel mezzo della lavagna e ricadde ai suoi piedi.
Si voltò con una fiamma nel viso, per cercare il colpevole: il quale non poteva essere il Muroni, poiché la palla era venuta d'in mezzo alla scuola.
Guardò il piccolo Maggia; ma aveva una faccia impassibile.
Guardò gli altri ragazzi; eran tutti come statue.
"Chi è stato?" domandò con voce commossa.
Nessuno rispose.
Cercò il viso dei tre o quattro uomini più attempati, che credeva disposti a proteggerla; quello del Perotti fra gli altri; ma tutti abbassarono il capo.
Allora, scoraggiata, fece uno sforzo per rimandare indietro le lacrime, e continuò la lezione.
Quel nuovo affronto che le era stato fatto in faccia a tutti le stringeva il cuore più di quell'altro, che pure l'aveva offesa più addentro come donna; e la sua commozione visibilissima giovò a tenere in certo riserbo gli alunni, eccetto il piccolo Maggia, che tentò due o tre volte di far rider la classe.
Ma i grandi, indignati, lo zittirono.
Triste, ella seguitò a far leggere, non guardando più il Muroni che verso la fine della lezione.
Ma gli occhi ch'ella gli vide in quel punto, le rimescolarono il sangue: non era più lo sguardo tra curioso e beffardo della prima sera: era uno sguardo acuto e freddo, lampeggiante fra le palpebre socchiuse, nel quale traspariva l'orgoglio offeso, un proponimento risoluto di vendetta, una aperta minaccia.
Sull'atto ella si vide assalita, percossa, ferita, stesa a terra sulla neve, e si sentì correre il sangue caldo giù per il fianco, e le tremaron le ginocchia come per febbre.
All'uscita, vide molti alunni affollarsi nel corridoio intorno al Muroni per domandargli la rivelazione del mistero.
Uno degli ultimi a uscire fu il Perotti.
La maestra lo chiamò.
Quegli le si accostò in atto rispettoso, col cappello in mano.
"Lei ha visto" disse la maestra con la voce ancora tremante "l'affronto che m'hanno fatto, alla lavagna.
Se non faccio punire il colpevole, faranno di peggio.
Perché non mi dice chi è stato, lei che è un galantuomo?"
Il Perotti abbassò il viso, un po' vergognato, senza rispondere.
"Perché non mi denuncia il colpevole?" ripeté la maestra.
"Eh, cara signora" rispose francamente l'operaio "per non buscarmi una coltellata."
La maestra fece un atto di ribrezzo.
"Ma non può essere stato che un ragazzo!" disse.
"Giusto" rispose l'altro "quelli sono peggio dei grandi."
La maestra non disse più nulla, e il Perotti se n'andò col capo basso.
Il suo primo pensiero fu di cessare le lezioni.
Ma poi prevalse in lei il sentimento della dignità.
Sarebbe stata una viltà il ceder così subito all'insolenza d'una piccola parte, ch'era la peggiore, della classe.
E decise di persistere, non solo; ma di tenere chiusi in sé i suoi affanni e le sue paure.
La maestra Baroffi, peraltro, la tirò su quel discorso la mattina dopo, a colazione, lagnandosi con lei che i suoi alunni serali avessero bucato in fondo i calamai fissi nei banchi, in modo che quella mattina era colato tutto l'inchiostro sui vestiti delle ragazze.
Allora la Varetti le parlò delle sue angustie.
Ma quella, con la sua voce grassa di madre nobile, ribatteva sempre lo stesso chiodo: "Ma parla loro una volta! Fa' loro un bel discorso, che li commova! Fin che non ti farai sentire, non farai nulla.
Ti scrivo una parlata io, se ti pare.
Il tuo motto deve essere: Sursum corda! Ah se fossi io al tuo posto! Me li farei venire a baciarmi le mani, come schiavi riconoscenti.
La parola è tutto, mia cara!".
La Varetti, però, non le disse verbo dell'atto del Muroni perché, in fondo, sebbene l'avesse offesa, l'aveva tolta almeno da un'affannosa incertezza, svelandole con che fine era venuto a scuola; e anche il nuovo timore ch'ella aveva ora di una vendetta del suo orgoglio ferito, essendo qualche cosa di determinato, l'angustiava meno della paura misteriosa di prima.
Senonché la terza lezione fu anche più burrascosa della seconda.
Ella s'accorse fin dai primi momenti che ci doveva essere un'intesa per far del chiasso fra i peggiori ragazzi della classe.
Anche il contegno del Muroni le apparve mutato di proposito fin dal principio.
Egli prese nel suo banco un atteggiamento spavaldo, con le mani nelle tasche della sottoveste e una gamba sull'altra, guardando lei con uno sguardo che andava senza posa dal viso ai piedi e dai piedi in su, accompagnato da un dondolio del capo e da un sorriso continuo, come se volesse farle capire il desiderio sensuale che gli faceva accarezzar così con occhio insolente tutta la sua persona.
Ella scoperse un accordo fra lui e il piccolo Maggia, al quale dava delle occhiate per incoraggiarlo alle impertinenze.
Resse non di meno fin che poté, senza far rimproveri.
Ma, senza volerlo, il socialista Lamagna suscitò il disordine.
Quando un alunno di destra lesse ad alta voce una proposizione dell'Artiere italiano che diceva: "Il galantuomo, anche se è povero, è sempre contento e onorato" il Lamagna fece un riso ironico, e disse forte: "Che pastocchie da venir a contare a noi!".
E tutti i ragazzi risero in coro.
Ciò non ostante, ad ogni interruzione o monelleria di costoro, la confortava il veder la maggior parte degli uomini, e in specie i contadini e i pastori, far segno di maraviglia e di riprovazione, e dare anche sulla voce ai disturbatori; e alcuni di essi, dei visi onesti e gravi, mostrare un sincero rammarico.
Questo le diede coraggio fino a minacciare qualcuno di espulsione perpetua; ma la sua voce gentile e tremola dava così poca forza a quelle minacce, che nessuno se ne diede per inteso.
A un certo punto, a un'interruzione chiassosa del piccolo Maggia, s'alzò quella specie di bruto di suo zio, rabbioso come un giumento molestato, e gli mostrò il pugno enorme e gli occhi bianchi; ma la paura di quel pugno non lo racquetò che pochi minuti.
Egli non faceva propriamente nulla da potere esser colto e scacciato; la maestra non riusciva mai a prenderlo sul fatto.
Con una varietà e rapidità maravigliosa di gesti, di smorfie e di lazzi egli eccitava e disturbava vicini e lontani, facendo sempre in tempo a ricomporre la faccia ad un'espressione di stupore buffonesco quando essa lo guardava.
Infine, nacque uno scandalo.
Avendo la maestra chiamato a leggere Saltafinestra, questi, finita la lettura, per rimettersi al sedere fece un giro sopra se stesso, voltando la schiena a lei.
Stando col viso chino sul libro, essa non vide l'atto, ma a una risata di tutta la ragazzaglia sospettò l'ingiuria, e mutò colore.
Scoppiarono varie voci d'indignazione, fra le quali s'udì distinta quella del Perotti, che gridò: "È una vergogna!".
Il Muroni si voltò di scatto verso di lui e gli fissò in viso due occhi terribili, in cui balenava la risoluzione d'una vendetta.
Poi disse fra i denti: "A più tardi!".
Alla maestra s'agghiacciò il sangue: le parve di veder per aria un coltello, tutto le si oscurò dinanzi, non ebbe più la forza di pronunciare una parola di rimprovero.
L'aspettazione d'una rissa tenne la classe in silenzio.
La povera ragazza avrebbe voluto che la lezione non finisse mai.
Quando fu alla fine, ebbe ancora tanta forza da dire con un filo di voce: "Escano in silenzio, mi raccomando; vadano subito a casa: non mi diano dei dispiaceri".
Saltafinestra aspettò il Perotti sul viale, davanti alla scuola.
Tremando come una foglia, la maestra mise il viso allo spiraglio dell'uscio, dopo aver esortato inutilmente il cantoniere a correr fuori a intromettersi: questi diceva che sarebbe accorso, quando fossero venuti alle mani, e non si muoveva di dietro a lei.
Essa vide gli alunni disporsi in cerchio come per assistere ad una lotta.
Il Perotti ed il Muroni si misero l'uno di fronte all'altro, al lume del lampione, coi visi alti, che quasi si toccavano.
Nel silenzio della folla, udì le loro voci.
"Torni un po' a dire quello che ha detto!" disse il Muroni.
In quel momento si udì la voce piangente del figliuolo del Perotti che supplicava il padre d'andarsene, e pareva che si sforzasse di tirarlo via.
La maestra si sentì un sudore freddo alla fronte.
Ma alle prime parole del Perotti, capì ch'egli dava indietro.
Gl'intese dire confusamente: "...tra camerati...
non val la pena...
quando uno dice il suo sentimento...".
Tutta la ragazzaglia mise fuori quell'ah! prolungato, con cui si piglia atto d'una ritrattazione.
Il Muroni disse forte, fra il mormorìo: "A me non si fanno osservazioni" e continuò, senza che la maestra capisse, in tono risentito, fischiando quasi le parole.
La voce del Perotti rispose anche più blanda di prima.
La rissa era scansata.
I due contendenti e la folla si cominciarono a movere.
La ragazza respirò.
Ma capì che non avrebbe più avuto nessun protettore coraggioso contro chi l'insultava.
Ora, come poteva continuare a far la scuola senza ristabilir la disciplina? E in qual modo ristabilirla? Pensò a chiedere aiuto al Garallo; ma lo conosceva: egli l'avrebbe esortata a pazientare ancora, ripetendole la promessa di farsi vedere quando le cose fossero andate più in là.
Poteva ricorrere al soprintendente, il cavalier Sanis, proprietario della grande fabbrica di ferramenti; ma era un benedett'uomo irreperibile, sempre a Torino quando lo cercavano a Sant'Antonio, sempre qui quando lo volevano là; oltreché s'era fatta una legge comoda, di non mai immischiarsi con operai fuori della fabbrica.
La maestra era ancora in quest'incertezza la sera dopo, quando vennero a pregarla di dare una corsa al sobborgo, a visitare uno dei suoi piccoli alunni, gravemente malato.
Non c'era che a percorrere il viale della chiesa e fare un altro centinaio di passi nel paese, e poiché, essendo ancor giorno, non aveva nulla da temere dal Muroni, andò subito.
Ma fu trattenuta in casa del malato più che non s'aspettasse, e quando uscì, imbruniva.
Ebbe l'idea di cercar qualcuno che l'accompagnasse; ma si vergognò: avrebbero riso di lei.
Tirò dunque innanzi a rapidi passi.
Quando fu all'imboccatura del viale, vedendo che era deserto, s'arrestò.
Poi riprese risolutamente il cammino per un piccolo sentiero aperto tra la neve gelata, volgendo lo sguardo sospettoso a destra e a sinistra.
Non aveva mai trovato il viale così lungo e le pareva di non arrivar mai alla metà, ch'era segnata da un sedile di pietra.
E c'era appena arrivata quando vide un uomo uscire improvvisamente di dietro al tronco d'uno dei grandi alberi del lato sinistro, e piantarsele davanti a cinque passi.
Le corse un brivido per le vene.
Aveva riconosciuto ai contorni Saltafinestra.
S'arrestò come paralizzata.
Quegli fece un passo avanti; essa, inchiodata a terra, non si poté movere.
Il giovane domandò con voce rauca e bassa: "Perché mi ha stracciato il quaderno?".
La maestra non rispose.
"Non si fa una figura così ad un uomo" disse quegli.
Ella tacque ancora, tremando da capo a piedi.
"Io la potrei far pentire" soggiunse lui.
Ella tremava così forte che il giovane se n'accorse.
"Perché ha tanta paura?..." domandò guardandosi intorno.
"Non c'è nessuno...
Mi dia un bacio."
E allungò una mano.
La maestra diede in uno scoppio di pianto.
In quel momento comparve un'ombra in fondo al viale.
"Ho detto per ridere" disse il giovane.
E soggiunse con accento di minaccia: "Non parli!".
La maestra si diresse a passi precipitosi verso la scuola.
Rientrò in casa così spaventata che non pensò neppure un momento a denunciare il fatto all'autorità, e quando si fu un poco ricomposta, al pensiero d'essere scampata da quell'incontro con null'altro di peggio che un grande spavento, le parve di dover ringraziare Iddio come d'una buona fortuna.
E decise fermamente di non uscir mai più di sera che accompagnata; ma cercò insieme di confortarsi pensando che quegli non avrebbe più osato di affrontarla una seconda volta in quel modo, che il suo terrore e il suo pianto gli avevano forse destato un po' di pietà, o eran bastati, se non altro, alla soddisfazione del suo rancore.
E infatti essa notò in lui, alla lezione di quella stessa sera, un cambiamento: non provocò più disordini, non fece più alcun atto di scherno.
Ma v'era nel suo contegno qualche cosa, che quasi le faceva desiderare che non si fosse mutato: pareva ch'egli avesse fatto un ritorno ai pensieri di prima, quando non aveva ancora cominciato a tormentarla, e che in quelli fosse più raccolto e risoluto d'allora.
Il suo sguardo non correva più sulla sua persona con quell'espressione di curiosità sensuale e insolente; ma, lungi dall'esprimere benevolenza, sembrava che spirasse un odio che prima non aveva.
Egli la guardava e pensava, rodendosi le unghie.
Pareva che macchinasse qualche cosa, una serie di cose, col dispetto di non trovarne alcuna che lo soddisfacesse.
E così fece altre sere, ma sempre più pensieroso e accigliato.
Quel suo aspetto era intollerabile alla maestra.
Avrebbe voluto qualche volta rivolgersi a lui arditamente, e interrogarlo, ordinargli di spiegarsi, supplicarlo anche, perché la liberasse dall'oppressione di quella perpetua minaccia muta, parendole che qualunque cosa egli fosse per minacciarle, dovesse essere meno peggio di quello che le passava confusamente nell'immaginazione.
E quand'era sola, ragionando, cercava di penetrare nei suoi pensieri con l'aiuto di quella scarsa e vaga cognizione dello spirito della sua classe ch'ella aveva di seconda mano.
Per esempio, egli doveva ad un tempo desiderarla per brutalità, come un'altra qualsiasi, e odiarla per l'avversione ch'essa gli dimostrava; doveva odiare in lei la classe signorile, a cui stimava che appartenesse, e del cui abborrimento pei giovani suoi pari essa era certo la più manifesta e viva espressione ch'egli avesse mai veduto; doveva desiderare di vendicarsi di quell'abborrimento facendole sfregio o violenza, ed essere eccitato in quel desiderio dalla sua stessa paura, che gli solleticava orgoglio della malvagità e della prepotenza; doveva esser tormentato da una curiosità feroce di vedere come si sarebbe dibattuta, come avrebbe supplicato, chiesto grazia, gridato, singhiozzato, sofferto, inorridito sotto le sue mani.
Egli doveva insieme desiderarla e insultarla in cuor suo, cercar di disonorarla nel proprio concetto, dandole i più sconci nomi del suo orribile linguaggio, godere a immaginarsi di percoterla e di avvilirla in presenza di tutti.
Questo si vedeva nei suoi occhi biechi, che divampavano alle volte, biancheggiando come gli occhi d'una fiera, e dal modo con cui ribeveva l'aria, di tratto in tratto, con quella sua bocca senza labbra, come per rattenere uno scoppio - credeva lei - di dispetto e di rabbia.
E a questo pensiero rabbrividiva, e lo scacciava, ma vi ricadeva, suo malgrado.
Però, non essendo più aizzati da lui, i ragazzi si contennero un po' meglio per alcune lezioni.
La pietra dello scandalo era sempre il piccolo Maggia.
Una sera la maestra lo dovette cacciar dalla scuola perché aveva messo un'assicella a traverso alla corsia, per far inciampare i ragazzi che andavano alla lavagna, ed uno, inciampandovi, era stramazzato malamente.
I grandi seguitavano a non darle fastidio, se non in quanto s'irritavano delle canzonature dei piccoli, quando facevano grossi errori di lettura o di scrittura, ed essa temeva che li picchiassero fuori.
Ma questo non avvenne.
Il grosso Maggia continuava a studiare con una ostinazione mulesca.
I pastori si mostravano molto diligenti.
Essa ebbe una volta sola una breve discussione col Lamagna; il quale, peraltro, non le mancava mai di rispetto: voleva solo farle comprendere che non riconosceva in lei alcuna superiorità sociale, che la considerava, per esempio, come una popolana sua pari, che invece di spacciar derrate da un banco, spacciava cognizioni da un tavolino.
Essa fu molto maravigliata di un'idea espressa da lui in un componimento sul lavoro ricompensato dalla coscienza: a modo suo, egli aveva voluto dire che nella società, secondo giustizia, chi ha più ingegno d'un altro non dovrebbe per questo guadagnar di più, anzi dovrebbe di meno, perché l'ingegno agevola il lavoro ed è ricompensa a se stesso.
La maestra, pure comprendendo che quella non doveva essere un'idea del suo capo, gli fece con bel modo qualche obiezione, a cui egli rispose asciuttamente: "È la mia maniera di pensare".
Ma non ci fu altro.
E la ragazza credette incominciato un periodo di quiete durevole.
Senonché, man mano che la classe pigliava con lei familiarità, essa notava, specialmente nei grandi, un cambiamento.
Pareva che, a poco a poco, sentissero l'influsso sessuale della sua persona, e che questo s'andasse comunicando dai più giovani ai più attempati.
Cominciava a veder negli sguardi delle fissità prolungate, dei bagliori di simpatia, delle espressioni di rispetto e di sollecitudine, in cui si capiva l'intenzione di cattivarsi la sua benevolenza, e anche dei lampeggiamenti di pensieri amorosi o lubrici, che alcuni si esprimevano l'un l'altro nell'orecchio, sogghignando.
Osservò in alcuni grandi il manifesto proposito di entrarle in grazia fingendo di prestarle una profonda attenzione, acconsentendo col capo alle sue parole, facendo i lavori con grande diligenza; parecchi venivano a chiederle spiegazioni al tavolino, senza sapere bene quello che si volessero; molti, che l'avevan guardata da principio con tutta indifferenza, la guardavano ora da capo a piedi, arrestando l'occhio su tutte le parti della sua persona, come per prenderle la misura d'un vestito; altri, dei più maturi, assumevano con lei un fare di protezione benigna, disapprovando ostentatamente i disturbatori, ed ella vedeva passare come un chiarore sul loro viso a certe inflessioni dolci della sua voce, e indovinava, più che non vedesse in loro, qualche cosa d'insolito, un movimento, quasi la scossa d'un pensiero improvviso, quando s'avvicinava al banco per veder la scrittura.
E tutti questi segni la inquietavano: titubava ad entrar nella corsia, doveva misurare i gesti e gli atteggiamenti, esitava con una timidità di bambina a dare una lode dovuta, a pronunciar certe frasi che potevano presentare un doppio senso, a leggere certi passi del libro che richiedevano un'intonazione di affetto.
E non di meno, in quella medesima espressione di pensieri e di desideri che la turbavano, vedeva come luccicare in molti delle qualità buone dell'animo, certe delicatezze che non aveva mai immaginate, quasi un rimescolio lento e confuso di sentimenti gentili, nascosti abitualmente dalla rozzezza dei modi, dall'uso del linguaggio grossolano, da una volgarità più voluta che naturale.
I soli incorreggibili erano la più parte dei ragazzi, e il Muroni l'unico dei grandi che le destasse una repugnanza che non poteva vincere.
Questa le fu anche accresciuta da un fatto.
Una sera di domenica le arrivò fin nella camera un suono di grida lontane che uscivano dall'osteria della Gallina.
Corse alla finestra e vide folla in fondo al viale: era una rissa.
Da quella massa nera si spiccò un uomo, come un'ombra, e prese pel viale con la rapidità di una freccia; un altro gli si lanciò dietro.
Quando il primo passò davanti alla scuola, la maestra sentì un grido acutissimo: "Aiuto! Aiuto!" che le suonò nel più profondo dell'anima: l'uomo svoltò dietro la chiesa, e l'altro, velocissimo, sulle sue tracce.
Il cantoniere, che guardava di dietro all'uscio, riconobbe nell'insecutore Saltafinestra.
La ragazza rimase col sangue sossopra, aspettando la notizia d'un delitto.
Non accadde nulla; l'inseguito non era stato raggiunto.
Ma quel grido di aiuto, in cui essa aveva sentito il terrore disperato della morte, le lasciò nell'animo un nuovo e violento orrore per il suo nemico.
Le durava ancor vivo questo sentimento quando il giorno dopo, attraversando il campo coperto di neve dietro alla scuola, per andar in paese a far delle compere, mentre pensava appunto ch'era impossibile che il Muroni la fermasse lì di pieno giorno, a pochi passi dalle case, se lo vide venir incontro dall'angolo opposto del campo.
Atterrita, si guardò intorno: non vide che una fila di bambini che facevan gli sdruccioloni lungo il viale, a un cento passi da lei.
Non era più in tempo a tornare indietro se non correndo; ma le parve una viltà disonorante.
Fu presa allora da un coraggio disperato, nato dall'eccesso della paura, e andò diritta verso di lui, a passi malfermi, ma col capo alto.
Dovevano incontrarsi sopra lo stretto sentiero tracciato sulla neve.
A tre passi l'un dall'altro si fermarono tutti e due.
Egli si levò la pipa di bocca e se la mise in una tasca della giacchetta, tenendovi il pollice su, e la guardò con un sorriso che la fece fremere.
Pareva che cercasse una frase per incominciare.
La maestra ebbe uno slancio d'indignazione...
"Che cosa vuole, insomma? Perché mi ferma? Che cosa le ho fatto?"
Il giovane guardò rapidamente intorno al campo: essa temette una violenza.
"Perché non mi rispetta?" gridò con voce di pianto, dando un passo indietro...
"Perché offende una donna che non si può vendicare?...
Rispetti almeno la memoria di mio padre!...
Io sono figliuola d'un soldato, morto sul campo di battaglia!"
E in quel momento, sul suo viso contratto da un singhiozzo, disparve il terrore sotto l'espressione dello sdegno altero e della santa memoria invocata.
Il Muroni la guardò attentamente; poi disse a bassa voce, con un tono che pareva tranquillissimo: "Non voglio mica farle del male."
Quella risposta le scemò la paura, e le sue lacrime poterono uscire.
Quegli continuava a guardarla, come stupito.
"Non voglio esser fermata!" disse la maestra.
"Io non l'ho fermata" rispose lui, guardandosi intorno.
"Allora mi lasci passare!"
Il giovane si fece in là nella neve, e mentre ella passava, con accento più di lagnanza, che di rancore, disse piano, come tra sé: "Non son mica un assassino."
Temendo che il silenzio gli potesse parere un'ingiuria, ella si voltò, e con una voce che aveva ancora il tremito del pianto, e che suonò, suo malgrado, quasi supplichevole: "No" disse...
"ma non mi fermi mai più!".
E nel dir questo fu stupita di non incontrare il suo sguardo, che la sfuggì.
Ella tirò innanzi a passi lesti, e quando fu in fondo al campo, involontariamente, si girò indietro.
Il giovane voltava allora le spalle.
Non s'era più mosso fino a quel punto.
Insomma, tornò a casa spaurita ancora e tremante, ma quasi confortata dalla coscienza d'una vittoria, e più dal pensiero d'aver mostrato un coraggio, che non credeva d'avere.
Il fatto ch'egli avesse sfuggito il suo sguardo, quando s'era voltata, le parve sulle prime un segno di ravvedimento e di vergogna, che desse a sperar bene per l'avvenire; e si ricordò dei consigli del Garallo, che diceva che col popolo ci voleva ardimento e vigore, e delle idee della maestra Baroffi, secondo la quale bastava una parola nobile e appassionata ad aprire i cuori più duri.
Ma rinvenne ben presto da queste illusioni ripensando il passato orrendo del giovane, la sua crudeltà con la madre, la sua cinica scostumatezza, quell'indimenticabile grido di aiuto di quel disgraziato che, essendo inseguito da lui, si sentiva alle calcagna la morte, e non vide più nel suo contegno di poc'anzi che il timore d'una resistenza vigorosa di lei, che avrebbe dato luogo a una lotta e chiamato gente.
E nondimeno andò quella sera a far scuola con minor trepidazione che curiosità di vedere in qual nuovo atteggiamento egli se le sarebbe presentato.
L'atteggiamento fu nuovo, infatti; ma non per l'appunto quale essa lo immaginava.
Egli non mostrava più odio, né pareva che rimuginasse più dei propositi tristi; mostrava, come se la vedesse per la prima volta, una certa curiosità attenta, nella quale appariva smorzato il risentimento del suo orgoglio per la ripugnanza ch'ella gli manifestava.
E s'ella avesse potuto penetrar nel cervello di lui, avrebbe scoperto ch'erano appunto la sua indignazione di poche ore prima, il suo pianto strozzato, la sua altera invocazione della memoria paterna, che l'avevano mutato in quel modo.
Non perché l'aspetto e le parole di lei gli avessero toccato il cuore; ma perché eran stati per lui una cosa nuova, una rivelazione di sentimenti e di forze sconosciute, ch'egli non aveva mai visto, né immaginato nell'animo di una donna.
Egli la guardava con curiosità come una creatura al tutto diversa da quella che s'era raffigurata, e oscura in parte alla sua intelligenza; la guardava come se capisse per la prima volta che sotto alle ragioni, ch'egli poteva spiegarsi, della sua avversione per lui, ce ne fosse una più profonda, più delicata, più forte, radicata più addentro nell'anima, che non gli riusciva bene di comprendere.
Oltreché egli pure, sebbene più tardi degli altri, cominciava a sentire 1'influsso della presenza, ch'era quasi una compagnia, di quella donna, tanto diversa d'aspetto, d'animo e di modi da tutte le donne ch'egli aveva conosciuto fino allora.
Signore, egli non ne aveva mai viste che passare per la strada e non gli era anche occorso di esperimentare ch'esse fossero diverse dal concetto che egli e i suoi pari, secondo la propria natura, se ne formavano: che è quanto dire di creature fra le quali e quelle praticate da loro, non ci fosse che la differenza del vestito e delle maniere; ché se un'altra ce ne fosse stata, doveva essere nelle prime un più raffinato pervertimento, una, benché nascosta, più sfacciata corruzione dell'anima e della carne, prodotta dalla mollezza e dalla facilità maggiore della vita.
Ma questa che aveva davanti correggeva alquanto le sue idee.
Era la prima signora ch'egli vedeva da vicino e a suo agio, tutte le sere; la prima che gli discorresse sovente e che, in un certo senso, si curasse di lui; la prima di cui egli sentiva, per dir così, il soffio e il calore, e di cui poteva notare a suo agio, come in casa sua, per due lunghe ore tutti i giorni, ogni gesto, ogni moto del viso, ogni inflessione di voce.
Egli cominciò a notar tutto questo, non appena l'orgoglio quetato gli lasciò un po' libera la facoltà dell'osservazione, e tutto questo gli riusciva singolare e gli cominciava a far pensare che tutta quella gentilezza non fosse soltanto vernice o artifizio d'educazione, come prima credeva.
Era veramente una creatura d'una nuova specie per lui.
Nonostante il suo orgoglio selvaggio, nato come quello dei pochi compagni della sua tempra, da una prepotente e indeterminata ambizione, e da una coscienza confusa di facoltà non comuni, soffocate dalla povertà e dall'ignoranza, egli principiava a riconoscere vagamente in lei qualche cosa di superiore a sé, che lo umiliava senza inasprirlo.
Egli prese a seguitare attentamente, con l'occhio e col pensiero, tutti gli atti di lei, e le espressioni del viso, e gli accenti, quasi cercando il perché dell'effetto che gli facevano, come si cerca ciò che vuol dire una musica.
E gli accadeva spesso di ribellarsi a quell'effetto con lo scherno, ritornando al sospetto abituale d'un'arte finissima di civetteria; ma non si poteva arrestar più a lungo in questo sospetto.
Provava anche a ribellarsi a se medesimo, suscitandosi nella mente delle immagini oscene, mettendo l'immagine di lei in luoghi e scene vive nella sua memoria, fra le quali essa le apparisse come trasformata e tinta del loro sozzo colore, cercando con la fantasia quanto ci potesse essere in lei di meno lontano dalla natura propria, i pensieri più occulti, delle debolezze, delle aberrazioni, delle vergogne.
Ma per quanto facesse, la sua figura finiva sempre con sollevarsi dall'ombra e dalla mota in cui si sforzava di immergerla e gli si ripresentava sempre così, come appariva dietro a quel tavolino, con quella fronte bianca, con quella grazia fanciullesca, con quella timidità dignitosa, con quel non so che di strano e soggiogante, di cui non poteva comprendere la vera essenza, e che insieme gli piaceva e lo stizziva, lo maravigliava, lo avviliva, lo ammansava, gli faceva, all'uscita, sputar delle bestemmie più grosse e delle oscenità più brutali, come per rieccitare la forza della sua natura contro l'ammollimento che si sentiva entrare nel sangue.
Quest'effetto fu lento, e la maestra non se n'accorse da prima, anche perché pareva che di tanto in tanto egli mirasse a tener viva tra la scolaresca la sua reputazione di rompicollo senza riguardi e senza paure con qualche bravata che desse scandalo o suscitasse baccano.
Ma faceva questo in una nuova maniera, più per chiamar l'attenzione sopra di sé, che per recare offesa alla maestra; la quale, trapelando il suo pensiero, non si adontava di quegli atti come per l'addietro.
A capo di pochi giorni, peraltro, notò in lui altre novità: una certa diligenza calligrafica nei lavori di casa, un leggero mutamento d'intonazione nella lettura, come s'egli si sforzasse di vincere la sua raucedine e di modular meglio la voce, e un modo d'ascoltare e d'accettare le sue correzioni che non era più quello di prima; oltreché cercava quasi di prolungarle, con obbiezioni e domande monosillabiche, come avrebbe fatto d'una conversazione gradita.
Una sera, essendo caduta alla maestra la penna, che rotolò fino a piè del primo banco, egli passò di sotto con un movimento rapidissimo, la raccolse e gliela porse; e questo destò nella classe un mormorio di stupore.
Le rese un altro servigio anche più cortese.
Si affacciavano qualche volta alla buca del calorifero dei topi enormi, che venivano dalla vicina concerìa, passando per i condotti d'acqua; e la scolaresca, senza che si movesse nessuno a cacciarli, si divertiva degli atti di ribrezzo che faceva la maestra a sentirli strepitare contro la reticella di ferro.
Una sera, essendo i topi ricomparsi, e mostrando la maestra il ribrezzo solito in mezzo alle risate dei ragazzi, egli guizzò di sotto il banco e andò a dare un calcio nella reticella; dopo di che, per mascherare la cortesia dell'atto, tornò al suo posto lanciando alla classe una facezia in gergaccio, che provocò nuove risa.
Ciò non di meno, anche quell'atto fu notato e, messo insieme con gli altri indizi, cominciò a destare un certo sospetto negli scolari più astuti.
Uno dei primi a darne segno fu il piccolo Maggia.
Egli prese a vigilare la maestra e il giovane, correndo continuamente coi suoi occhi di faina, con una rapidità fulminea, dall'uno all'altra, tossendo leggermente quando essa interrogava lui, dando del gomito al vicino e ammiccando agli altri quando gli pareva che il Muroni stesse in troppa attenta contemplazione della signorina: con le debite cautele, però, perché conosceva l'amico, e non c'era da scherzare.
Ma la Varetti se n'accorse, e sebbene, per istinto, ora che lo vedeva mutato, fosse disposta a guardare il giovane con minor diffidenza e a interrogarlo più spesso, pure faceva l'una e l'altra cosa il più raramente possibile, intimidita, tormentata dalla continua vigilanza di quei due occhi sorridenti e maligni del ragazzo, che le frugavan nell'anima.
Ma, insomma, dal peggior tormento era liberata e viveva più tranquilla.
Viveva più tranquilla perché, non conoscendo l'indole dei giovani di quella classe e di quella fibra, pensava che il suo mutamento si sarebbe arrestato lì.
Ma quando egli s'accorse che, cessando in lei, per effetto del suo nuovo contegno, la paura e la ripugnanza antica, non vi sottentrava già la simpatia, ma una indifferenza eguale a quella che essa mostrava per gli altri, allora fu come colpito da una delusione, che lo accese meglio.
Nell'avversione paurosa ch'ella aveva prima per lui, egli trovava almeno una certa soddisfazione d'amor proprio, poiché gli pareva un effetto della sua trista celebrità, della sua reputazione d'uomo capace di ogni audacia; allora, se non altro, non andava confuso con gli altri; aveva, anche nella scuola, davanti ad essa, la supremazia di cui si gloriava di fuori; infine, godeva di produrre in lei una impressione forte, qualunque fosse.
Ora, cessato quel suo potere, egli si trovava come disarmato, senz'alcun mezzo di attirare la sua attenzione e di toccarle l'animo, e nella sua crescente simpatia, sentiva più rabbiosamente la diversità di condizione sociale, l'inferiorità della cultura, la differenza d'educazione, di maniere, d'ogni cosa, che gli toglievano di sperare una corrispondenza.
E così si veniva insinuando in lui, a poco a poco, un nuovo e più acre fastidio del suo stato, una nuova e confusa ambizione, volta a tutt'altre mire che a quelle di prima, quando cercava la gloria nelle birbonate, nella prepotenza, nelle vittorie delle risse.
Ma l'ambizione nuova non avendo sfogo possibile, divampava in lui come una fiamma chiusa, raddoppiando l'ardore dell'altra passione Nondimeno, per istinto, cercava d'avvicinarsi a lei in qualche maniera, quasi senza pensarvi.
Un occhio attento avrebbe osservato in lui, da un giorno all'altro, il ciuffo rimosso dalla fronte, la faccia e le mani più pulite, una nettezza più accurata dei panni, qualche cosa nei suoi atteggiamenti in scuola, e perfino certe singolarità in mezzo alle grosse scorrezioni dei suoi lavori, che annunziavano un'intenzione di raffinamento della persona e della mente, e quasi l'imitazione d'un modello ideale.
Di tutto questo non s'avvide la maestra quanto d'un cambiamento nel suo modo di guardarla, per il quale essa avrebbe quasi sospettato in lui dei sentimenti opposti a quelli che l'animavano.
Era una guardatura accigliata, insistente, ma più rivolta a tutta la sua persona, che ai suoi occhi, ch'egli pareva sfuggire; un'attenzione dissimulata, ma fissa e indagatrice, che si appuntava anche sul più piccolo dei suoi movimenti, come se ciascuno avesse avuto per lui il significato d'una parola scritta, non bene intelligibile, di qualche lingua straniera; una visibile meditazione di tutte le frasi, ch'ella dicesse, che uscissero per poco dal giro del consueto linguaggio didattico, come se fossero altrettanti spiragli, per cui egli le potesse penetrar col pensiero nell'animo, e guardar che cosa vi fosse di nuovo e di strano, che mandasse fuori quei suoni, ch'ei non aveva mai intesi.
Ma non crescevan punto da parte sua le manifestazioni della cortesia e del rispetto: era ancora tanto calmo da badare a non farsi scorgere apertamente.
All'uscita e all'entrata, però, nei momenti in cui egli credeva di poterla guardare senz'esser visto, la maestra incontrava il suo sguardo acuto, scintillante, non più audace, ma severo, inquieto, avido, scontento, velato da un'ombra di vergogna; la quale non era la vergogna delle insolenze passate, ma della passione nascente.
Ma la maestra credeva la prima cosa, e non sospettando altro, si rassicurava.
Eran le cose a questo punto quando una mattina, mentre passeggiava al sole del cortile, durante la ricreazione dei suoi bambini, la Varetti vide affacciasi all'uscio la madre del Muroni, che cercava di lei.
Essa fece un atto di rincrescimento come se la soverchia familiarità di quella donna mettesse qualche cosa di comune fra lei e il suo figliuolo.
La povera vecchia venne innanzi con le mani sotto il grembiule, girando in atto guardingo i suoi dolci occhi di vittima, in cui pareva che fossero congelate due lagrime, s'avvicinò alla signorina con un sorriso, come se fosse già avviata fra loro una buona amicizia, e le disse a bassa voce, in aria di mistero, con accento di timida soddisfazione: "Va meglio, sa.
Va un poco meglio da un po' di tempo.
Pare che si sia quetato un po'.
Non mi tratta più male, non va più alla Gallina.
Mi par di sognare, in verità.
La sera sta al lavoro.
Io ringrazio il buon Dio giorno e notte!".
E guardò con sospetto verso l'uscio.
Essa attribuiva quel mutamento alla scuola, e veniva appunto per ringraziar la maestra, e anche per farle una preghiera.
"Sarebbe," le disse "mi perdoni tanto la libertà, signorina; ma sarebbe di approfittare del buon momento, che par disposto così bene, per tentare quello che le ho detto il primo giorno, di fargli entrare in cuore un po' di religione, che si decidesse una buona volta a fare i suoi doveri, che son dieci anni che non si avvicina ai Sacramenti, Dio di misericordia, dieci anni, lei m'intende! E dire che gli devo dare di tanto in tanto i miei ultimi soldi, per fargli recitare un pater e un ave, che non vada a letto come un cane, e ho ancora nell'idea che dica tutt'altre cose, dal modo che fa con la bocca! Se lei volesse far quest'opera di carità, signora maestra, già che gl'insegna tante altre belle cose, di fargli ben capire che la prima cosa è di salvar l'anima, e che io avessi questa consolazione, prima di chiuder gli occhi, di vederlo riconciliato col Signore! Perché se non si prende questo momento, creda, un altro così non ritorna più; io non l'ho visto mai così buono, dopo che il buon Dio me l'ha mandato, in fede dell'anima mia!"
La maestra guardò da un'altra parte per non mostrare la soddisfazione d'amor proprio che le davan le ultime parole.
E rispose che avrebbe fatto quello che poteva, ma che poteva fare ben poco.
"In ogni modo" disse la donna, dando un'altra occhiata all'uscio socchiuso "bisogna dire che è una gran benedizione la scuola, se fa del bene anche al mio figliuolo.
Perché è la scuola, non c'è che dire."
Qui, come colta da un'idea nuova, stette un po' pensierosa, guardando a terra; poi disse piano, rialzando gli occhi: "Salvo il caso...".
La maestra la guardò.
"Salvo il caso" continuò la donna, guardando a terra da capo, "che sia qualche simpatia di sentimento...
come l'anno scorso, per la macellarina."
La maestra ebbe un sospetto, ma istantaneo: si vedeva che il pensiero della madre era a mille miglia da lei.
"Eppure," soggiunse questa, riflettendo "per quanto io abbia cercato e domandato, non mi son potuta accorger di nessuna."
Poi tornò tutt'a un tratto alla religione.
La maestra le domandò perché non ricorresse al parroco.
Signore Iddio benedetto, quel buon vecchino, alto così, tanto alla mano con tutti, era un sant'uomo; ma non se ne voleva immischiare.
Ella sospettava che avesse un po' di "suggezione" del suo figliuolo.
E quella "suggezione" che voleva dir paura, era una parola di ripiego, in cui l'amor materno metteva pure un'ombra di vanità.
Ed era lo stesso degli altri: il cavalier Sanis, padrone della fabbrica, il dottore, che gli avrebbero potuto far delle ammonizioni e dar dei consigli, tutti quanti pareva ne avessero un po' di "suggezione"; scherzavano perfin con lui, incontrandolo; nessuno lo voleva urtare.
"In fine" disse "Nostro Signore mi continuerà ad aiutare, poiché ha cominciato."
E andandosene, mentre ringraziava la maestra con una espressione umile e affettuosa d'ammirazione, il suo sguardo s'arrestò e s'avviò un momento sopra di lei, come al sorgere d'un pensiero...
Ma il pensiero passò.
"Vado a pregar per lei, signorina" le disse di sull'uscio, e voltandole la sua povera schiena corta e incurvata di vecchia martire, s'avviò verso la chiesa.
"Insomma, è domato!" disse in cuor suo la maestra.
Non aveva più da temere né insulti né violenze, poteva girar tranquillamente per il paese, era libera, era contenta, ed anche un poco altera dell'opera sua.
E con questi pensieri non titubò un momento a uscir di casa sola il giorno dopo sull'imbrunire, quando venne un ragazzo con le chiavi del quartierino della maestra Latti e con un biglietto, scritto a matita, col quale la sua amica la pregava di prender nella camera certi medicinali e di portarglieli subito in paese, in casa del fornaio, dov'era ricoverata, essendole preso male per la strada.
Ella si ficcò in tasca le boccette, si mise il cappellino e il mantello, e se n'andò a passi lesti, sotto una neve che veniva giù a larghe falde, e aveva già imbiancato ogni cosa.
Trovò la maestra Latti distesa sopra un sofà, assistita dalla moglie del fornaio e dalle sue figliuole, che sorridevano a fior di labbra.
"Ah Enrica!" esclamò quella, tendendole languidamente la mano.
"Ti vedo ancora!"
Il suo viso, però, non giustificava la tristezza mortale di quel saluto.
Avendo mal di capo, ed essendo scivolata per la strada per aver messo un piede in falso, essa credeva d'esser caduta per una portata di sangue al cervello, con la quale le si fossero scatenati addosso, cogliendo l'occasione, tutti gli altri suoi mali.
Trasportata su, s'era indispettita col medico - un grosso biondo burlone - che, per tutta cura, le aveva consigliata l'aria di Massaua, e poi era ricaduta in un grande abbattimento...
"Va" disse con voce fioca alla Varetti, dopo aver inghiottito in furia le medicine, "non ho più bisogno di te.
Questa buona gente mi porterà a casa più tardi...
viva o morta."
Quando la Varetti, nascondendo un sorriso, s'accomiatò da lei, era quasi notte.
Continuava a nevicare.
Sul viale c'era già un palmo di neve.
Ella indugiò un momento prima d'entrarvi, poi affrettò il passo.
I due lampioni del gas, velati dalla nevicata, rompevano appena l'oscurità con due dischi di luce pallida; lo strepito delle macchine degli opifici vicini arrivava là affiacchito, come se uscisse di sotterra, e il suon dell'incudine del fabbro ferraio, ch'era all'entrata del paese, pareva che venisse da una gran lontananza.
Arrivata a un terzo del viale, parve alla maestra di veder muovere un'ombra dietro a un albero; si soffermò, col respiro oppresso; poi si fece animo e prese la corsa.
A due passi dall'albero le si parò davanti il Muroni.
Ella stava per gittare un grido, ma lo rattenne vedendo ch'egli si levava il cappello.
"Ancora lei!" esclamò, sdegnata.
"Cosa vuole?...
Mi lasci passare."
Quegli rispose con la sua voce rauca, ma in tuono rispettoso:
"C'è la neve, io le faccio la strada...
se permette".
"Non voglio!" rispose la maestra.
"Si faccia in là, o grido aiuto."
"Perché?..." domandò lui, a voce bassa.
"Mi crede proprio...
Crede che non abbia anch'io un po' di cuore?...
Non ha mica da lamentarsi di me, da un po' di giorni."
E senza darle tempo a rispondere, saltò a cinque passi davanti a lei, e si mise in cammino verso la scuola, col corpo chino, strisciando rapidamente i piedi l'uno stretto all'altro, per aprirle un sentiero in mezzo alla neve.
La maestra, rassicurata un po', gli tenne dietro per un tratto, senza perderlo d'occhio; ma poi, ripresa da una paura improvvisa, slanciandosi avanti per fuggire, in un momento ch'egli rallentava il passo, l'urtò col ginocchio.
Quegli perdette i lumi, e mettendo un ah! soffocato, voltatosi bruscamente, l'afferrò a due mani per la vita e cercò il suo viso con la bocca.
La maestra si dibatté furiosamente sotto il suo alito acceso, che sentiva l'acquavite e la pipa.
"Mi dia un bacio" disse lui, con voce arrantolata, "un bacio e la lascio andare...
un bacio e la lascio andare..."
Dicendo questo, furioso, le levò le mani dalla vita per afferrarle il capo: essa gli sfuggì dalle braccia con un guizzo e si diede a correre disperatamente verso la scuola gridando: "Aiuto! Aiuto!" ma con voce così fioca, che nessuno l'avrebbe intesa.
Egli la inseguì, anelando, pronunciando parole incomprensibili, con voce sibilante.
Nel terrore che la levava di senno, le parve di sentir dire: "Ca scüsa! ca scüsa!" (Mi scusi, mi scusi).
Poi non udì più nulla, nemmeno il suo passo.
Arrivò trafelata alla scuola, entrò barcollando nel corridoio, e incontrando la bidella col lume, si lasciò andare con la spalla al muro, smorta, quasi svenuta.
"Cosa c'è?" domandò la donna, spaventata.
"Un ladro!" rispose lei.
Il cantoniere accorse.
"Un ladro? un ladro?" E, afferrato un randello, si slanciò fuori, attraversò il cortile...
e chiuse l'uscio.
La povera maestra passò la notte con la febbre, cercando quale fosse la miglior via per ricorrere alla giustizia, poiché vedeva oramai la cosa necessaria: se riferire il fatto al maestro Garallo, come direttore, perché scacciasse il Muroni dalla scuola e lo denunciasse ai carabinieri, o andar senz'altro dal cavalier Sanis, ch'era il personaggio più autorevole del sobborgo, perché provvedesse lui nel modo che avrebbe stimato più opportuno.
A fare un passo, comunque fosse, era risoluta, non reggendole l'animo all'idea che le potesse toccare un'altra volta un affronto e uno spavento come quelli che aveva avuti, e al cui pensiero tremava ancora.
Si levò la mattina dopo, decisa d'andar dal soprintendente, dopo averne avvertito, per dovere di delicatezza, il maestro.
Era domenica: essa contava d'andar prima alla messa e poi alla fabbrica del cavalier Sanis.
Ma mentre stava terminando di vestirsi, eccoti lì la maestra Mazzara, ansante e affaccendata, come sempre, col sorriso sulla bocca e un pacco di carte fra le mani.
Era già stata dalla Baroffi a chiedere un articolo per una Strenna che volevan pubblicare varie maestre a benefizio d'una loro collega, vedova d'una guardia daziaria.
Non poteva trattenersi che pochi minuti.
Aveva da galoppare tutto il giorno a Torino per preparare una recita di dilettanti al teatro Scribe, per la fondazione d'un asilo infantile alla Crocetta; doveva fare una visita alla scuola d'Orticoltura in via Garibaldi, dove una sua compagna insegnava a scrivere a quaranta giardinieri; voleva andare ancora all'istituto del Buon Pastore a vedere che cosa ci fosse di vero in una voce messa in giro da un giornale, che le maestre monache facessero apparire il diavolo di notte per spaventare le ragazze riottose.
Quand'ebbe detto tutto questo, riprese fiato; poi domandò notizie della scuola serale all'amica, e si mostrò addolorata di vederla triste.
"Cos'hai? Che c'è stato? Perché sei pallida? Che t'hanno fatto?".
Veramente, essa non pareva alla Varetti la confidente più opportuna per le cose che le aveva da dire; ma non avendone altra, raccontò tutto a lei, fino alla scena della sera avanti.
"Ma dunque l'hai innamorato!" esclamò quella con grande vivacità.
"...
Per questo non s'è più visto alle scuole festive!"
E stette un po' pensando, come per gustare quello che vi era di romanzesco nell'avventura.
"E cos'hai deciso di fare?" domandò poi.
La Varetti le disse risolutamente la sua intenzione.
L'amica rimase assorta qualche momento.
Poi rispose con gravità, tentennando il capo: "Io non ti darei questo consiglio".
E richiesta del perché, spiegò il suo pensiero.
"Perché tu non conosci l'animo di quella gente.
Tu provocherai una vendetta."
"Ma che vendetta vuoi ch'io provochi?" domandò la Varetti, scrollando una spalla.
"Che cosa mi può far di peggio di quello che ha fatto?...
Ammazzarmi?"
"Eh, a te non farà nulla" rispose l'altra "si capisce.
Ma se non si vendicherà su di te, si vendicherà su quelli che lo puniranno, di questo puoi star sicura, come se fosse già fatto.
No, non ti metter sulla coscienza questo rimorso."
"Ma dunque" esclamò la Varetti con risentimento "io devo ingoiarmi l'affronto e starne ad aspettare degli altri?"
L'amica tacque un mezzo minuto.
"Ma, insomma" disse "non t'ha neppure baciata!"
La Varetti fece un atto di maraviglia e di sdegno.
Ma quella non la lasciò parlare.
"Capisco, l'affronto c'è stato egualmente.
Però...
dici che t'ha chiesto scusa...
Infine, devi anche considerare che uomo è, od era, piuttosto.
È già una bella vittoria d'averlo ridotto a quel modo, d'avergli ispirato un sentimento...
Che t'ho da dire? Nei tuoi piedi, io starei ancora a vedere.
Vorrei compir l'opera, finire di convertirlo...
È un caso raro, davvero." E dopo aver fissato un po' la sua amica: "Ah! la mia povera Enrichetta" le disse sorridendo e pigliandole il mento con due dita "con quel visetto di principessina!".
La Varetti si asciugò due lacrime.
"Segui il mio consiglio" riprese l'altra "perdona ancora una volta.
Io son certa che non accadrà più nulla.
Tu non conosci questi giovani del popolo.
Basta non irritarli o avvilirli, se ne fa quello che si vuole, anche dei peggiori.
Quello lì, vedrai, diventerà un agnello! T'ha fatto la strada coi piedi, te la farà coi ginocchi."
La Varetti rimase perplessa.
"Ah! il popolo!" continuò l'amica.
"Credi, il popolo è mal conosciuto.
Per questo non è amato.
E se par malvagio qualche volta, è appunto perché non è amato.
Basta.
Ti verrò presto a rivedere.
Son curiosa di sapere come andrà a finire.
Cos'hai deciso?"
"Non so" rispose la Varetti, fissando per la finestra i camini delle fabbriche, come se fossero un dato del problema che la teneva in dubbio.
La Mazzara, andandosene, le diede ancora in fretta in fretta un sacco di notizie torinesi: c'era un matrimonio nella scuola Sclopis; la contessa Di Rosa aveva invitato a uno dei suoi magnifici balli le due maestre delle sue figliuole: nel ritiro della Visitazione aveva tentato di avvelenarsi una ragazza perché le era stata sequestrata una lettera amorosa; a San Filippo, nella prossima quaresima, avrebbe predicato don Calandra.
E glien'aggiunse ancor una sull'uscio: Il Malon, quel famoso socialista francese, doveva tenere una conferenza agli operai di Torino: essa sperava di potervi andare.
"Animo" le disse infine sulla via, con un sorriso adulatorio "bella domatrice!"
Dopo molta esitazione, la Varetti si decise ad aspettare ancora, e ritornò alla scuola serale, il lunedì sera, un po' turbata dentro, ma tranquilla di fuori, come se nulla fosse accaduto.
Seduta appena a tavolino, essa s'accorse, senza guardare il Muroni, che questi stava in un atteggiamento in cui non l'aveva ma
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