LA MAESTRINA DEGLI OPERAI, di Edmondo De Amicis - pagina 4
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Ma la verità le uscì di bocca a malgrado suo, quando vide nella ragazza un'espressione fuggevole di compassione.
"Ah! Signora maestra!" esclamò, giungendo le mani.
"Se sapesse che vita è la mia! Quel figliuolo che gli darei tutto il mio sangue! Santa Maria benedetta! Dire che dai tredici anni in su non s'è più voluto confessare né comunicare!".
E si mise a piangere.
Sì, le sarebbe parso poca cosa tutto il resto, se solamente fosse voluto andare a messa la domenica.
Anzi, era venuta apposta per questo.
Se la signora maestra, facendo lezione, così alla lontana, a poco a poco, gli avesse potuto insinuare un po' di religione, un poco di timor di Dio, con quelle parole che le persone istruite sanno trovare, avrebbe fatto un'opera santa, e lei l'avrebbe benedetta per tutta la vita.
Qui s'interruppe per avvicinarsi alla finestra e guardar sul viale, senza mettere il viso alla vetrata, perché temeva che il figliuolo l'avesse vista entrare o potesse vederla uscire.
E il suo aspetto e ogni suo movimento rivelavano un affanno abituale ed antico, che s'era fatto come una malattia cronica in lei, e lasciava indovinare una storia miseranda di dolori e di stenti, le notti vegliate ad aspettare il figliuolo, col tremacuore di vederselo portar ferito o cadavere, le persecuzioni e le busse toccate dal marito, il terrore continuo della giustizia umana e divina, venticinque anni di vita ch'erano stati un lungo martirio senza conforto e senza requie.
Poi tornò a raccomandare il figliuolo con parole umili, dalle quali trapelava nondimeno una certa alterezza paurosa dell'avvenenza, del coraggio, e perfino della celebrità trista di lui.
Cattivi compagni e cattive donne lo cercavano, lo volevano tutti, lo tiravano a bere e a giuocare, egli era orgoglioso, s'offendeva per una mezza parola, non aveva paura di niente al mondo...
Ma da bambino era stato buono come gli altri.
E questo ricordo la fece dare in pianto un'altra volta.
"Chi me l'avesse detto" esclamò, piangendo nelle mani aperte, "quando lo portavo in collo, che m'avrebbe straziato il cuore in questo modo!" E mentre la maestra le diceva qualche parola di consolazione, essa levò le mani dal viso e stette a guardarla in atto di gratitudine e d'ammirazione, come osservando per la prima volta la sua figura signorile e la sua voce soave.
Espresse poi il suo pensiero nell'andar via, guardandola di nuovo da capo a piedi.
"Ah! poverina!" disse "una signorina così...
dover far la scuola a tutti quegli indemoniati!" E se n'andò, dopo aver lanciato un altro sguardo sospettoso dalla finestra.
La scuola serale doveva incominciare alle otto.
Un quarto d'ora prima la maestra Varetti, guardando traverso alla vetrata, vide giù nella nebbia del viale dei gruppi neri d'operai che con le pipe e coi sigari accesi picchiettavano l'oscurità come di tanti occhi di fuoco.
S'era messa quella sera un vestito di lana color caffè, un po' grande, che le pareva il più adatto a non attirar gli sguardi sulla sua persona.
Dieci minuti avanti l'ora, venne a prenderla il maestro Garallo per presentarla alla scolaresca.
Passando pel corridoio, incontrarono il cantoniere, un vecchietto secco e nasuto, con una faccia petulante.
Il Garallo gli ordinò di tener d'occhio la classe della Varretti...
"Dentro?" domandò quegli, rannuvolandosi.
Il maestro gli rispose: "Di fuori" e l'uomo respirò.
"Dentro o fuori" disse "per me è lo stesso."
La maestra entrò col Garallo nella scuola, ch'era quella dove la Baroffi faceva lezione ai bimbi, di giorno.
Non c'erano ancora, che sei o sette alunni nei banchi in fondo; gli altri venivano entrando.
Il maestro e la maestra salirono sul palco, dov'era il tavolino, e stettero in piedi davanti alla lavagna, sotto la fiammella del gas, assistendo all'entrata.
Entravano a uno a uno, a tre, a cinque in fila, coi libri e coi quaderni in mano, gli uomini pestando i piedi per il freddo, i ragazzi facendo un gran rumore di zoccoli, e tutti, nell'entrare, volgevano uno sguardo di viva curiosità alla nuova maestra; alcuni anche si soffermavano un momento; e via via che s'infilavano nei banchi, esprimevano a bassa voce ai vicini, sorridendo, la loro impressione.
Erano alunni di ogni età, dai dodici ai cinquant'anni: operai della fabbrica di ferramenti e di quella d'acido solforico, operai d'una conceria, muratori, contadini, pastori, di quelli che scendono dalle Alpi a svernare a Torino con le bestie, per vendere latte e formaggi, o spalar la neve: capigliature irte o arruffate, barbe incolte, visi neri, cravatte rosse, camice sudicie, rozze giacchette gonfiate dalle doppie sottovesti e dalle grosse maglie, che uscivan fuor dalle maniche.
Gli uomini maturi, un po' vergognosi di venir a scuola, s'andavano a metter quasi tutti negli ultimi banchi, con le schiene contro la parete, sulla quale si vedevan delle enormi chiazze d'inchiostro, fin quasi alla vôlta.
Quando furon tutti al posto e quieti, il maestro Garallo fece con la sua voce di toro, ma con tono molto garbato, la presentazione: "Vi presento la vostra nuova maestra.
Raccomando l'ubbidienza e il rispetto".
Detto questo, uscì in fretta senz'aggiungere altro, e la maestra rimase un momento immobile, ritta in faccia alla sua scolaresca, che la guardava in silenzio.
Un osservatore estraneo avrebbe indovinato che facevan tutti un paragone mentale della nuova maestra con la precedente, la signora Garallo, una piccola e grassa trentenne, che pareva la sorella di suo marito; e avrebbe capito pure che il paragone tornava tutto a vantaggio della prima.
In quasi tutti gli occhi luccicava un sorriso, che esprimeva dei pensieri difficili ad esprimersi.
La maestra stette un po' confusa, con la vista torbida, non sapendo come principiare.
Poi sedette al suo tavolino.
In quel momento entrò Saltafinestra.
S'udì un lungo mormorio, e tutti gli occhi si rivolsero a guardar lui e la maestra; la quale, argomentando da quell'atto che tutti sapessero ch'egli veniva a scuola per lei, impallidì leggermente.
Il giovane, disinvolto e tranquillo, passò davanti al tavolino, dando alla maestra una rapida occhiata di sbieco, andò dinanzi al primo banco a destra, dov'era un posto vuoto contro il muro, e messavi una mano sopra, con una mossa agilissima vi saltò dentro, e sedette.
Per prima cosa la maestra avrebbe dovuto fare un breve esame al nuovo venuto per accertarsi che potesse stare nella sezione dei più avanzati, dove s'era messo di moto proprio; ma l'aspettazione appunto di quell'esame, che ella vide negli occhi della scolaresca, le tolse il coraggio di farlo.
Incominciò subito la lezione.
La Garallo le aveva accennato il suo metodo e il punto a cui eran rimasti.
Seguitando le sue tracce, essa si mise a scrivere sulla lavagna, con mano malferma, una serie di sillabe semplici, per farle prima leggere e poi scrivere alla sezione di sinistra: mentre questi scrivevano, ella avrebbe fatto leggere agli altri il libro di lettura.
La lezione pareva che cominciasse bene: per un po' di tempo non s'intese alcun mormorio: quelli che non stavano attenti alla lettura, parevano assorti nell'osservazione della sua persona.
Timidamente, mentre leggevano i primi a uno a uno, essa esaminò con sguardi furtivi i suoi scolari.
I più grandi stavan quasi tutti alla sua sinistra, con quelli che eran più addietro.
Le diede nell'occhio avanti gli altri, nel banco più vicino a lei, una specie d'Ercole raccorciato e ingobbito, con una testa smisurata e deforme, dalla fronte bassissima e dalla bocca di bove: una faccia stupida, in cui appariva un'ostinazione di bruto, ma che, nonostante l'espressione torva degli occhi, lasciava trapelare non so che rettitudine d'animo.
Egli prestava una profonda attenzione alle sue parole e alla lettura degli altri.
La maestra osservò che aveva per penna una chiave, con la punta per scrivere confitta nel buco.
Quando venne la sua volta di leggere, gli domandò il nome.
Quegli rispose in modo appena intelligibile: "Carlo Maggia".
Era un garzone macellaio, che aveva trentacinque anni, e ne mostrava dieci di più.
Alle prime sillabe che lesse, con una voce che pareva d'un can mastino, alcuni ragazzi dell'altra sezione cominciavano a ridere; ma a uno sguardo lento ch'egli girò sopra di loro, tacquero.
Attirò l'attenzione della maestra un altro alunno, della sezione di destra, che doveva essere il più attempato di tutti: un uomo sulla cinquantina, alto, con una folta barba brizzolata, un viso benevolo e stanco di onesto lavoratore, che la confortò.
Era un certo Perotti, operaio della conceria, che aveva nella stessa scuola, due banchi più sotto, un suo figliuolo d'undici anni, lavorante nella sua fabbrica, serio e simpatico come lui.
Scendendo con lo sguardo trovò la testa bionda d'un altro operaio, più pulito degli altri, che le fece impressione: un uomo sulla trentina, lunghicrinito e ben pettinato, con un viso signorile dal gran naso aquilino, e cert'occhietti turchini in cui brillava l'intelligenza, mista a una espressione d'orgoglio, che si fece più viva quando i loro sguardi s'incontrarono.
Da quella parte il maggior numero erano ragazzi: dei visi vivaci, irrequieti, sporchi, impertinenti, dai quali si capiva alla prima che venivano alla scuola più per godere il caldo e per fare il chiasso che per imparare.
Fra questi le destò una vera inquietudine un ragazzo sui quattordici anni, seduto all'estremità del secondo banco, un muratorino, pareva, il quale sorrise apertamente, con un'aria di familiarità punto rispettosa, quand'essa lo guardò.
Delle molte grinte di monelli ch'ella aveva visto uscir dalle fabbriche quella era senza dubbio la più invetriata: aveva degli occhi in cui scintillavano tutti i vizi, un mezzo naso voltato in su, che era un'insolenza incarnata, una bocca su cui s'indovinavano le oscenità, senza che parlasse, la pelle cinerea, il corpo lungo e scarnito, un po' curvo, e il sorriso cinico del ragazzo che ha già percorso un gran tratto su tutte le vie che menano allo spedale e alla prigione.
Da costui ella scese con l'occhio al primo banco; ma, veduto appena di sfuggita il Muroni, girò lo sguardo dalla parte opposta, volgendo l'attenzione agli alunni che leggevan tutti insieme le sillabe della lavagna, compitando e cantando come bambini che mettessero la voce in un imbuto.
S'era intanto diffuso per la scuola un odor forte che le cominciava a offender le narici: il puzzo delle pipe e dei mozziconi di sigaro spenti da poco, un tanfo misto di vino, di grasso di macchina, di pelli conce, di stalla, di scarpe fracide.
Nel coro della lettura, ella sentì che alcuni ragazzi forzavan la voce per far la burletta; ma finse di non badarvi.
Quando ebbero finito ordinò che scrivessero le sillabe sui quaderni, e si voltò all'altra sezione.
Ma prima che incominciasse, scesero dai banchi in fondo tre alunni grandi col quaderno in mano, fra i quali il Perotti, e vennero da lei, come facevano con la Garallo, a farsi chiarire dei dubbi sul componimento che quella aveva assegnato.
Un pittore avrebbe potuto fare un quadro nuovo e bellissimo col gruppo che formò per qualche momento il viso gentile di quella maestrina timida e un po' vergognosa, china sui quaderni, in mezzo alle teste rozze e scapigliate dei tre operai, chinati essi pure per osservare le correzioni.
La maestra Garallo aveva dato per lavoro una lettera di commiato d'un operaio al suo capo di fabbrica.
Quando i tre alunni grandi furon tornati al loro posto, essa ne chiamò uno a caso, scorrendo l'elenco, per far leggere un componimento ad alta voce.
Al nome Lamagna Luigi s'alzò l'operaio biondo, dai capelli lunghi.
Tutti fecero silenzio, anche nell'altra sezione, e si voltarono a guardarlo, come se aspettassero ch'egli leggesse qualche cosa di singolare.
Quegli cominciò a leggere con una certa correntezza e con un'aria di trascuranza affettata, quasi che volesse fingere di pensare ad altro.
V'eran nella sua lettera delle frasi che avevan poco che fare col soggetto, e incastratevi quasi per forza, nelle quali si mostrava più aperto l'orgoglio che la maestra gli aveva già letto negli occhi.
Questa gli fece qualche appunto grammaticale, a cui egli oppose delle obbiezioni, non con mal garbo, ma con un tono da far capire che egli voleva esser tenuto in un conto particolare, non messo a mazzo con altri.
La lettera era sottoscritta: "Lamagna Luigi, suo eguale, non servo".
Queste parole, per la maestra, furono un lampo.
Il Lamagna doveva essere certo quell'operaio socialista della fabbrica di ferramenti, del quale essa aveva inteso parlare molte volte, come d'un giovane d'ingegno ardito e bizzarro, tenuto in grande stima dai suoi compagni, a cui predicava il verbo nuovo nei crocchi, terminando ogni discorso col raccomandare l'orgoglio di classe, come principio e fondamento necessario della emancipazione avvenire.
La maestra gli fece ancora un appunto sopra una parola della chiusa, ed egli sedette, mormorando le sue obiezioni al vicino, con un sorriso dignitoso.
Fin qui, salvo qualche leggero bisbiglio, la classe si portava bene, e la maestra prendeva animo.
Fece aprire il libro di lettura, l'Artiere italiano, che tutti gli alunni di destra avevano, e lesse ella prima un periodo.
Leggendo, pensava che avrebbe dovuto a ogni costo far legger dopo di lei il Muroni, sia per rompere il ghiaccio, sia per non destare nella classe il sospetto ch'ella ne avesse paura: d'altra parte, prendendo dalla destra del banco più vicino, egli era il primo.
Fece dunque uno sforzo, appena ebbe finito di leggere, e voltandosi verso di lui, gli disse: "Rilegga".
Tutti tacquero.
Il giovane s'alzò, col libro in mano, sorridendo con l'aria vanitosa di chi sa d'essere oggetto di curiosità e di aspettazione.
Era la prima volta ch'ella fissava gli occhi sopra di lui, e n'ebbe più ripugnanza che non n'avesse mai avuta.
Quella piccola testa coi capelli femminilmente spartiti nel mezzo, quel viso quasi di ragazzo precoce, di una pallidezza livida, con due piccoli occhi neri acutissimi, d'una espressione dura e risoluta, in cui s'indovinava un'ira vendicativa senza pietà, con quella bocca stretta e senza labbra, che pareva una ferita di coltello, non guernita che di due baffetti arricciati a punta, avevan qualche cosa di feroce insieme e di lezioso, che faceva peggior senso della faccia d'un rozzo malfattore abbrutito.
Tutto il suo corpo ben proporzionato e asciutto mostrava d'aver dei muscoli d'acciaio e una sveltezza di saltimbanco.
Alla capigliatura impomatata, alla cravatta col nodo allentato che lasciava scoperto il collo fino alla fontanella della gola, ai calzoni stretti che s'allargavano a campana sul piede, ai larghi polsini di colore che coprivan mezze le mani, si riconosceva il tipo del barabba ambizioso, misto di bellimbusto e di brigante, divorato da mille appetiti e non contenuto da altro freno che da quello della povertà, pronto in qualsiasi ora a qualunque cimento e a ogni più audace birbonata.
L'atteggiamento della sua persona, impostata di sghembo, con una spalla più alta dell'altra, il balenio intermittente degli occhi, l'intonazione della voce rauca manifestavano un orgoglio smodato e selvaggio, che, non trovando altra via, si sfogava in un disprezzo beffardo di tutti e d'ogni cosa; di quei disprezzi di malfattori che vanno di sotto in su, crescendo gradatamente, dalla polvere della via dove nascono fino alla sommità d'ogni grandezza umana.
Leggendo a stento, egli fingeva d'intaccare per capriccio, non per ignoranza, e nell'alzare il viso dal libro, lanciava ogni tanto un'occhiata alla maestra, che non gli vedeva che il bianco degli occhi, e n'aveva un senso di freddo alle vene.
E benché si sforzasse, quando lo doveva correggere, non osava guardarlo nel viso; non guardava che la sua mano destra, con la quale ei teneva il libro, pensando con raccapriccio ch'era quella che aveva immerso il coltello nel fianco d'un amico.
Quando finita la lettura, egli si rimise a sedere, ella si sentì come liberata da un'oppressione del cuore.
Venuta la volta di leggere al ragazzo del secondo banco, che le aveva fatto una così trista impressione, ella capì dal modo come s'alzò e dal movimento di curiosità dei suoi compagni ch'egli doveva esser solito a provocar l'ilarità e lo scandalo nella classe; e avendo letto nell'elenco Pietro Maggia, gli domandò, con la speranza d'ingraziarselo un poco in quella maniera, se fosse parente dell'altro Maggia, quella specie di grosso bruto, ch'era nell'altra sezione.
"A l'è me barba" (è mio zio), rispose il ragazzo, con una smorfia buffa, che fece ridere i vicini.
Lo zio, intento a scrivere con la sua chiave, non si voltò.
E quegli cominciò a leggere con voce contraffatta, ch'era una sua valentia artistica, con cui imitava la voce d'un povero sciancato del sobborgo, che chiedeva l'elemosina.
Tutti i ragazzi si misero a ridere.
Ma tre o quattro degli uomini fecero segno di disapprovazione; fra i quali il Perotti, dal suo banco in fondo, gli disse aspramente: "Finiscila!".
"Perché mi manca di rispetto?" gli domandò la maestra incoraggiata da quegli aiuti.
Il ragazzo sedette, facendo l'atto d'arricciarsi un baffo.
La maestra passò ad un altro.
Quando toccò al Lamagna, avendogli detto: "Faccia sentir meglio la doppia t" quegli rispose con dignità: "Mi par d'averla fatta sentire".
Gli altri si contennero bene.
Allora essa diede il periodo da scrivere e tornò alla prima sezione.
Intanto, furtivamente, guardava di tratto in tratto il Muroni per indovinar dal suo contegno le sue intenzioni.
Egli scriveva; ma guardando lei molto spesso; e i suoi sguardi, pure non palesandole chiaramente il suo pensiero, la confermavan pur troppo nella certezza che con un pensiero egli fosse venuto, o spinto da una simpatia brutale, o per far qualche bravata, forse per una scommessa fatta coi suoi compagni, o col solo proponimento d'impaurirla e di farle dispiacere, per malvagità; o chi sa che altro.
Ogni volta ch'ei la guardava, gli guizzava un sorriso su quella bocca senza labbra, come il luccichìo d'una lama, il sorriso bieco, subdolo, fuggente di chi cova un proposito maligno.
E a ciascuno di quei sorrisi ella si turbava, tanto che doveva fare uno sforzo per non perdere il filo della lezione, e quegli se n'accorgeva, e mandava dagli occhi un lampo di compiacenza trionfante, che la turbava anche peggio.
Egli tenne però per tutta la lezione un contegno corretto, non voltandosi mai a parlar coi vicini, come se fosse tutto assorto nella sua idea.
Quelle due lunghissime ore passarono, come Dio volle.
Essendovi la doppia vacanza del sabato e della domenica, la maestra diede per compito alla sezione più avanzata una lettera a una supposta sorella lontana.
Poi raccomandò timidamente a tutti di uscire in silenzio.
All'ultime sue parole il piccolo Maggia mise un fischio sottile, che, per fortuna, passò inosservato tra il suono della campanella e il rumore che facevan tutti per apparecchiarsi ad uscire.
Uscirono in gran disordine.
Passandole davanti, il Muroni le lanciò uno sguardo, ch'essa sfuggì.
Molti degli uomini la salutarono.
Ma il maggior chiasso scoppiò di fuori.
Uscivano anche gli alunni del Garallo.
Pareva un'uscita d'un teatro popolare una sera di martedì grasso: strilli, salve di fischi, zufolii, urlate, un fracasso di zoccoli, un chiamarsi per nome a squarciagola, uno schiamazzo di domande e di risposte, in cui la maestra sentì più volte il proprio nome e dei commenti sulla sua persona, seguiti da risate clamorose, da canti, da versi d'animali, da esclamazioni buffe e da scaracchi sonori; e da tutte le parti fiammelle di zolfanelli e di carte accese sulle pipe, che offrirono per un momento lo spettacolo d'una luminaria nella nebbia.
Poi il baccano s'allontanò a poco a poco, non si udirono più che grida e canti nel sobborgo, e infine seguì un silenzio profondo.
La Varetti uscì dalla scuola assai tranquillata.
La sua classe era meno peggio di quello che si fosse immaginata; c'eran dei visi di galantuomini, che le parevan disposti a tenere in briglia i ragazzacci; e la confortava sopra tutto l'immagine di quel Perotti, sul cui viso onesto essa aveva visto quasi una promessa di protezione paterna.
Chiese poi notizie di lui al Garallo, che raggiunse per la scala, e le ebbe eccellenti.
Era un buon operaio e un ottimo padre di famiglia, che aveva lavorato da falegname prima d'entrare alla conceria, e fatto due o tre piccoli mobili assai graziosi per il museo pedagogico che il maestro si proponeva di mettere assieme.
Avevan tanta buona volontà d'istruirsi, lui e il suo figliuolo, che appena usciti dalla conceria andavano alla scuola senza mangiare, restando così digiuni per dieci ore; e il piccino, che aveva fatto la seconda elementare, correggeva ancora i lavori al padre, dopo cena.
"Vedrà" concluse il Garallo "che col popolo si sta bene.
Se poi seguiranno dei disordini, lei mi manderà a chiamare dal cantoniere, e non avrò che da affacciarmi all'uscio: tutti rientreranno nel dovere."
La maestra si ripresentò dunque alla scuola, benché turbata sempre dal timore di Saltafinestra, con assai miglior animo che non si fosse presentata tre giorni avanti.
Ma s'accorse pur troppo fin da principio che, non più distratti dalla curiosità ch'essa aveva destata la prima sera, e anche perché avevano indovinato la sua indole timida, i ragazzi non si sarebbero più frenati come l'altra volta.
Ella sentì delle risate represse, e capì che qualcuno doveva far dei gesti sconvenienti alle sue spalle, mentre stava alla lavagna a scriver le sillabe.
I ragazzi cominciarono a parlar forte; alcuni si addormentavano; uno russava, e lo dovette svegliare.
Fu costretta due o tre volte a interrompersi, sgomenta, aspettando che i grandi, stizziti d'esser disturbati, imponessero silenzio.
Il piccolo Maggia distraeva i vicini con una ginnastica continua delle mani e dei piedi, di sotto al banco, e quando essa lo guardava, le fissava gli occhi in viso con una espressione di finto stupore, così impertinente, che le faceva voltare il capo da un'altra parte.
Ammutolirono tutti quando, terminata la lettura della prima sezione, videro Saltafinestra uscir dal suo banco col quaderno in mano per salir sul palco a chiedere spiegazioni sul suo lavoro.
La maestra tremò, presa dal presentimento di qualche atto di audacia.
Il giovane le s'avvicinò perfettamente tranquillo, simulando anzi una grande serietà, e messole davanti il quaderno aperto, le rivolse una domanda intorno a una frase.
Vinta la ripugnanza che sentiva a stargli così vicino, tremando, e quasi restringendosi in sé come per scansare il suo contatto, ella chinò il viso sul quaderno, e lesse le prime righe del componimento: una lettera a una sorella.
Tutt'a un tratto, mossa da uno sdegno più pronto d'ogni timore, afferrò il foglio con due mani, lo fece in due pezzi, e respinse il quaderno da sé.
Aveva letto il principio d'una dichiarazione amorosa.
Il giovane riprese il quaderno e tornò al suo posto, col capo basso, sorridendo sinistramente.
La maestra rimase qualche momento bianca come un cencio.
Poi, con molta fatica, ricominciò la lezione.
Quell'avvenimento misterioso, commentato subito da un vivo mormorio, valse a tenere nella scolaresca un breve silenzio di curiosità e di aspettazione.
Ma verso la fine, mentre la maestra voltava un'altra volta le spalle alla classe per scrivere le sillabe col gessetto, fu riscossa dal colpo d'una grossa palla di carta masticata che batté nel mezzo della lavagna e ricadde ai suoi piedi.
Si voltò con una fiamma nel viso, per cercare il colpevole: il quale non poteva essere il Muroni, poiché la palla era venuta d'in mezzo alla scuola.
Guardò il piccolo Maggia; ma aveva una faccia impassibile.
Guardò gli altri ragazzi; eran tutti come statue.
"Chi è stato?" domandò con voce commossa.
Nessuno rispose.
Cercò il viso dei tre o quattro uomini più attempati, che credeva disposti a proteggerla; quello del Perotti fra gli altri; ma tutti abbassarono il capo.
Allora, scoraggiata, fece uno sforzo per rimandare indietro le lacrime, e continuò la lezione.
Quel nuovo affronto che le era stato fatto in faccia a tutti le stringeva il cuore più di quell'altro, che pure l'aveva offesa più addentro come donna; e la sua commozione visibilissima giovò a tenere in certo riserbo gli alunni, eccetto il piccolo Maggia, che tentò due o tre volte di far rider la classe.
Ma i grandi, indignati, lo zittirono.
Triste, ella seguitò a far leggere, non guardando più il Muroni che verso la fine della lezione.
Ma gli occhi ch'ella gli vide in quel punto, le rimescolarono il sangue: non era più lo sguardo tra curioso e beffardo della prima sera: era uno sguardo acuto e freddo, lampeggiante fra le palpebre socchiuse, nel quale traspariva l'orgoglio offeso, un proponimento risoluto di vendetta, una aperta minaccia.
Sull'atto ella si vide assalita, percossa, ferita, stesa a terra sulla neve, e si sentì correre il sangue caldo giù per il fianco, e le tremaron le ginocchia come per febbre.
All'uscita, vide molti alunni affollarsi nel corridoio intorno al Muroni per domandargli la rivelazione del mistero.
Uno degli ultimi a uscire fu il Perotti.
La maestra lo chiamò.
Quegli le si accostò in atto rispettoso, col cappello in mano.
"Lei ha visto" disse la maestra con la voce ancora tremante "l'affronto che m'hanno fatto, alla lavagna.
Se non faccio punire il colpevole, faranno di peggio.
Perché non mi dice chi è stato, lei che è un galantuomo?"
Il Perotti abbassò il viso, un po' vergognato, senza rispondere.
"Perché non mi denuncia il colpevole?" ripeté la maestra.
"Eh, cara signora" rispose francamente l'operaio "per non buscarmi una coltellata."
La maestra fece un atto di ribrezzo.
"Ma non può essere stato che un ragazzo!" disse.
"Giusto" rispose l'altro "quelli sono peggio dei grandi."
La maestra non disse più nulla, e il Perotti se n'andò col capo basso.
Il suo primo pensiero fu di cessare le lezioni.
Ma poi prevalse in lei il sentimento della dignità.
Sarebbe stata una viltà il ceder così subito all'insolenza d'una piccola parte, ch'era la peggiore, della classe.
E decise di persistere, non solo; ma di tenere chiusi in sé i suoi affanni e le sue paure.
La maestra Baroffi, peraltro, la tirò su quel discorso la mattina dopo, a colazione, lagnandosi con lei che i suoi alunni serali avessero bucato in fondo i calamai fissi nei banchi, in modo che quella mattina era colato tutto l'inchiostro sui vestiti delle ragazze.
Allora la Varetti le parlò delle sue angustie.
Ma quella, con la sua voce grassa di madre nobile, ribatteva sempre lo stesso chiodo: "Ma parla loro una volta! Fa' loro un bel discorso, che li commova! Fin che non ti farai sentire, non farai nulla.
Ti scrivo una parlata io, se ti pare.
Il tuo motto deve essere: Sursum corda! Ah se fossi io al tuo posto! Me li farei venire a baciarmi le mani, come schiavi riconoscenti.
La parola è tutto, mia cara!".
La Varetti, però, non le disse verbo dell'atto del Muroni perché, in fondo, sebbene l'avesse offesa, l'aveva tolta almeno da un'affannosa incertezza, svelandole con che fine era venuto a scuola; e anche il nuovo timore ch'ella aveva ora di una vendetta del suo orgoglio ferito, essendo qualche cosa di determinato, l'angustiava meno della paura misteriosa di prima.
Senonché la terza lezione fu anche più burrascosa della seconda.
Ella s'accorse fin dai primi momenti che ci doveva essere un'intesa per far del chiasso fra i peggiori ragazzi della classe.
Anche il contegno del Muroni le apparve mutato di proposito fin dal principio.
Egli prese nel suo banco un atteggiamento spavaldo, con le mani nelle tasche della sottoveste e una gamba sull'altra, guardando lei con uno sguardo che andava senza posa dal viso ai piedi e dai piedi in su, accompagnato da un dondolio del capo e da un sorriso continuo, come se volesse farle capire il desiderio sensuale che gli faceva accarezzar così con occhio insolente tutta la sua persona.
Ella scoperse un accordo fra lui e il piccolo Maggia, al quale dava delle occhiate per incoraggiarlo alle impertinenze.
Resse non di meno fin che poté, senza far rimproveri.
Ma, senza volerlo, il socialista Lamagna suscitò il disordine.
Quando un alunno di destra lesse ad alta voce una proposizione dell'Artiere italiano che diceva: "Il galantuomo, anche se è povero, è sempre contento e onorato" il Lamagna fece un riso ironico, e disse forte: "Che pastocchie da venir a contare a noi!".
E tutti i ragazzi risero in coro.
Ciò non ostante, ad ogni interruzione o monelleria di costoro, la confortava il veder la maggior parte degli uomini, e in specie i contadini e i pastori, far segno di maraviglia e di riprovazione, e dare anche sulla voce ai disturbatori; e alcuni di essi, dei visi onesti e gravi, mostrare un sincero rammarico.
Questo le diede coraggio fino a minacciare qualcuno di espulsione perpetua; ma la sua voce gentile e tremola dava così poca forza a quelle minacce, che nessuno se ne diede per inteso.
A un certo punto, a un'interruzione chiassosa del piccolo Maggia, s'alzò quella specie di bruto di suo zio, rabbioso come un giumento molestato, e gli mostrò il pugno enorme e gli occhi bianchi; ma la paura di quel pugno non lo racquetò che pochi minuti.
Egli non faceva propriamente nulla da potere esser colto e scacciato; la maestra non riusciva mai a prenderlo sul fatto.
Con una varietà e rapidità maravigliosa di gesti, di smorfie e di lazzi egli eccitava e disturbava vicini e lontani, facendo sempre in tempo a ricomporre la faccia ad un'espressione di stupore buffonesco quando essa lo guardava.
Infine, nacque uno scandalo.
Avendo la maestra chiamato a leggere Saltafinestra, questi, finita la lettura, per rimettersi al sedere fece un giro sopra se stesso, voltando la schiena a lei.
Stando col viso chino sul libro, essa non vide l'atto, ma a una risata di tutta la ragazzaglia sospettò l'ingiuria, e mutò colore.
Scoppiarono varie voci d'indignazione, fra le quali s'udì distinta quella del Perotti, che gridò: "È una vergogna!".
Il Muroni si voltò di scatto verso di lui e gli fissò in viso due occhi terribili, in cui balenava la risoluzione d'una vendetta.
Poi disse fra i denti: "A più tardi!".
Alla maestra s'agghiacciò il sangue: le parve di veder per aria un coltello, tutto le si oscurò dinanzi, non ebbe più la forza di pronunciare una parola di rimprovero.
L'aspettazione d'una rissa tenne la classe in silenzio.
La povera ragazza avrebbe voluto che la lezione non finisse mai.
Quando fu alla fine, ebbe ancora tanta forza da dire con un filo di voce: "Escano in silenzio, mi raccomando; vadano subito a casa: non mi diano dei dispiaceri".
Saltafinestra aspettò il Perotti sul viale, davanti alla scuola.
Tremando come una foglia, la maestra mise il viso allo spiraglio dell'uscio, dopo aver esortato inutilmente il cantoniere a correr fuori a intromettersi: questi diceva che sarebbe accorso, quando fossero venuti alle mani, e non si muoveva di dietro a lei.
Essa vide gli alunni disporsi in cerchio come per assistere ad una lotta.
Il Perotti ed il Muroni si misero l'uno di fronte all'altro, al lume del lampione, coi visi alti, che quasi si toccavano.
Nel silenzio della folla, udì le loro voci.
"Torni un po' a dire quello che ha detto!" disse il Muroni.
In quel momento si udì la voce piangente del figliuolo del Perotti che supplicava il padre d'andarsene, e pareva che si sforzasse di tirarlo via.
La maestra si sentì un sudore freddo alla fronte.
Ma alle prime parole del Perotti, capì ch'egli dava indietro.
Gl'intese dire confusamente: "...tra camerati...
non val la pena...
quando uno dice il suo sentimento...".
Tutta la ragazzaglia mise fuori quell'ah! prolungato, con cui si piglia atto d'una ritrattazione.
Il Muroni disse forte, fra il mormorìo: "A me non si fanno osservazioni" e continuò, senza che la maestra capisse, in tono risentito, fischiando quasi le parole.
La voce del Perotti rispose anche più blanda di prima.
La rissa era scansata.
I due contendenti e la folla si cominciarono a movere.
La ragazza respirò.
Ma capì che non avrebbe più avuto nessun protettore coraggioso contro chi l'insultava.
Ora, come poteva continuare a far la scuola senza ristabilir la disciplina? E in qual modo ristabilirla? Pensò a chiedere aiuto al Garallo; ma lo conosceva: egli l'avrebbe esortata a pazientare ancora, ripetendole la promessa di farsi vedere quando le cose fossero andate più in là.
Poteva ricorrere al soprintendente, il cavalier Sanis, proprietario della grande fabbrica di ferramenti; ma era un benedett'uomo irreperibile, sempre a Torino quando lo cercavano a Sant'Antonio, sempre qui quando lo volevano là; oltreché s'era fatta una legge comoda, di non mai immischiarsi con operai fuori della fabbrica.
La maestra era ancora in quest'incertezza la sera dopo, quando vennero a pregarla di dare una corsa al sobborgo, a visitare uno dei suoi piccoli alunni, gravemente malato.
Non c'era che a percorrere il viale della chiesa e fare un altro centinaio di passi nel paese, e poiché, essendo ancor giorno, non aveva nulla da temere dal Muroni, andò subito.
Ma fu trattenuta in casa del malato più che non s'aspettasse, e quando uscì, imbruniva.
Ebbe l'idea di cercar qualcuno che l'accompagnasse; ma si vergognò: avrebbero riso di lei.
Tirò dunque innanzi a rapidi passi.
Quando fu all'imboccatura del viale, vedendo che era deserto, s'arrestò.
Poi riprese risolutamente il cammino per un piccolo sentiero aperto tra la neve gelata, volgendo lo sguardo sospettoso a destra e a sinistra.
Non aveva mai trovato il viale così lungo e le pareva di non arrivar mai alla metà, ch'era segnata da un sedile di pietra.
E c'era appena arrivata quando vide un uomo uscire improvvisamente di dietro al tronco d'uno dei grandi alberi del lato sinistro, e piantarsele davanti a cinque passi.
Le corse un brivido per le vene.
Aveva riconosciuto ai contorni Saltafinestra.
S'arrestò come paralizzata.
Quegli fece un passo avanti; essa, inchiodata a terra, non si poté movere.
Il giovane domandò con voce rauca e bassa: "Perché mi ha stracciato il quaderno?".
La maestra non rispose.
"Non si fa una figura così ad un uomo" disse quegli.
Ella tacque ancora, tremando da capo a piedi.
"Io la potrei far pentire" soggiunse lui.
Ella tremava così forte che il giovane se n'accorse.
"Perché ha tanta paura?..." domandò guardandosi intorno.
"Non c'è nessuno...
Mi dia un bacio."
E allungò una mano.
La maestra diede in uno scoppio di pianto.
In quel momento comparve un'ombra in fondo al viale.
"Ho detto per ridere" disse il giovane.
E soggiunse con accento di minaccia: "Non parli!".
La maestra si diresse a passi precipitosi verso la scuola.
Rientrò in casa così spaventata che non pensò neppure un momento a denunciare il fatto all'autorità, e quando si fu un poco ricomposta, al pensiero d'essere scampata da quell'incontro con null'altro di peggio che un grande spavento, le parve di dover ringraziare Iddio come d'una buona fortuna.
E decise fermamente di non uscir mai più di sera che accompagnata; ma cercò insieme di confortarsi pensando che quegli non avrebbe più osato di affrontarla una seconda volta in quel modo, che il suo terrore e il suo pianto gli avevano forse destato un po' di pietà, o eran bastati, se non altro, alla soddisfazione del suo rancore.
E infatti essa notò in lui, alla lezione di quella stessa sera, un cambiamento: non provocò più disordini, non fece più alcun atto di scherno.
Ma v'era nel suo contegno qualche cosa, che quasi le faceva desiderare che non si fosse mutato: pareva ch'egli avesse fatto un ritorno ai pensieri di prima, quando non aveva ancora cominciato a tormentarla, e che in quelli fosse più raccolto e risoluto d'allora.
Il suo sguardo non correva più sulla sua persona con quell'espressione di curiosità sensuale e insolente; ma, lungi dall'esprimere benevolenza, sembrava che spirasse un odio che prima non aveva.
Egli la guardava e pensava, rodendosi le unghie.
Pareva che macchinasse qualche cosa, una serie di cose, col dispetto di non trovarne alcuna che lo soddisfacesse.
E così fece altre sere, ma sempre più pensieroso e accigliato.
Quel suo aspetto era intollerabile alla maestra.
Avrebbe voluto qualche volta rivolgersi a lui arditamente, e interrogarlo, ordinargli di spiegarsi, supplicarlo anche, perché la liberasse dall'oppressione di quella perpetua minaccia muta, parendole che qualunque cosa egli fosse per minacciarle, dovesse essere meno peggio di quello che le passava confusamente nell'immaginazione.
E quand'era sola, ragionando, cercava di penetrare nei suoi pensieri con l'aiuto di quella scarsa e vaga cognizione dello spirito della sua classe ch'ella aveva di seconda mano.
Per esempio, egli doveva ad un tempo desiderarla per brutalità, come un'altra qualsiasi, e odiarla per l'avversione ch'essa gli dimostrava; doveva odiare in lei la classe signorile, a cui stimava che appartenesse, e del cui abborrimento pei giovani suoi pari essa era certo la più manifesta e viva espressione ch'egli avesse mai veduto; doveva desiderare di vendicarsi di quell'abborrimento facendole sfregio o violenza, ed essere eccitato in quel desiderio dalla sua stessa paura, che gli solleticava orgoglio della malvagità e della prepotenza; doveva esser tormentato da una curiosità feroce di vedere come si sarebbe dibattuta, come avrebbe supplicato, chiesto grazia, gridato, singhiozzato, sofferto, inorridito sotto le sue mani.
Egli doveva insieme desiderarla e insultarla in cuor suo, cercar di disonorarla nel proprio concetto, dandole i più sconci nomi del suo orribile linguaggio, godere a immaginarsi di percoterla e di avvilirla in presenza di tutti.
Questo si vedeva nei suoi occhi biechi, che divampavano alle volte, biancheggiando come gli occhi d'una fiera, e dal modo con cui ribeveva l'aria, di tratto in tratto, con quella sua bocca senza labbra, come per rattenere uno scoppio - credeva lei - di dispetto e di rabbia.
E a questo pensiero rabbrividiva, e lo scacciava, ma vi ricadeva, suo malgrado.
Però, non essendo più aizzati da lui, i ragazzi si contennero un po' meglio per alcune lezioni.
La pietra dello scandalo era sempre il piccolo Maggia.
Una sera la maestra lo dovette cacciar dalla scuola perché aveva messo un'assicella a traverso alla corsia, per far inciampare i ragazzi che andavano alla lavagna, ed uno, inciampandovi, era stramazzato malamente.
I grandi seguitavano a non darle fastidio, se non in quanto s'irritavano delle canzonature dei piccoli, quando facevano grossi errori di lettura o di scrittura, ed essa temeva che li picchiassero fuori.
Ma questo non avvenne.
Il grosso Maggia continuava a studiare con una ostinazione mulesca.
I pastori si mostravano molto diligenti.
Essa ebbe una volta sola una breve discussione col Lamagna; il quale, peraltro, non le mancava mai di rispetto: voleva solo farle comprendere che non riconosceva in lei alcuna superiorità sociale, che la considerava, per esempio, come una popolana sua pari, che invece di spacciar derrate da un banco, spacciava cognizioni da un tavolino.
Essa fu molto maravigliata di un'idea espressa da lui in un componimento sul lavoro ricompensato dalla coscienza: a modo suo, egli aveva voluto dire che nella società, secondo giustizia, chi ha più ingegno d'un altro non dovrebbe per questo guadagnar di più, anzi dovrebbe di meno, perché l'ingegno agevola il lavoro ed è ricompensa a se stesso.
La maestra, pure comprendendo che quella non doveva essere un'idea del suo capo, gli fece con bel modo qualche obiezione, a cui egli rispose asciuttamente: "È la mia maniera di pensare".
Ma non ci fu altro.
E la ragazza credette incominciato un periodo di quiete durevole.
Senonché, man mano che la classe pigliava con lei familiarità, essa notava, specialmente nei grandi, un cambiamento.
Pareva che, a poco a poco, sentissero l'influsso sessuale della sua persona, e che questo s'andasse comunicando dai più giovani ai più attempati.
Cominciava a veder negli sguardi delle fissità prolungate, dei bagliori di simpatia, delle espressioni di rispetto e di sollecitudine, in cui si capiva l'intenzione di cattivarsi la sua benevolenza, e anche dei lampeggiamenti di pensieri amorosi o lubrici, che alcuni si esprimevano l'un l'altro nell'orecchio, sogghignando.
Osservò in alcuni grandi il manifesto proposito di entrarle in grazia fingendo di prestarle una profonda attenzione, acconsentendo col capo alle sue parole, facendo i lavori con grande diligenza; parecchi venivano a chiederle spiegazioni al tavolino, senza sapere bene quello che si volessero; molti, che l'avevan guardata da principio con tutta indifferenza, la guardavano ora da capo a piedi, arrestando l'occhio su tutte le parti della sua persona, come per prenderle la misura d'un vestito; altri, dei più maturi, assumevano con lei un fare di protezione benigna, disapprovando ostentatamente i disturbatori, ed ella vedeva passare come un chiarore sul loro viso a certe inflessioni dolci della sua voce, e indovinava, più che non vedesse in loro, qualche cosa d'insolito, un movimento, quasi la scossa d'un pensiero improvviso, quando s'avvicinava al banco per veder la scrittura.
E tutti questi segni la inquietavano: titubava ad entrar nella corsia, doveva misurare i gesti e gli atteggiamenti, esitava con una timidità di bambina a dare una lode dovuta, a pronunciar certe frasi che potevano presentare un doppio senso, a leggere certi passi del libro che richiedevano un'intonazione di affetto.
E non di meno, in quella medesima espressione di pensieri e di desideri che la turbavano, vedeva come luccicare in molti delle qualità buone dell'animo, certe delicatezze che non aveva mai immaginate, quasi un rimescolio lento e confuso di sentimenti gentili, nascosti abitualmente dalla rozzezza dei modi, dall'uso del linguaggio grossolano, da una volgarità più voluta che naturale.
I soli incorreggibili erano la più parte dei ragazzi, e il Muroni l'unico dei grandi che le destasse una repugnanza che non poteva vincere.
Questa le fu anche accresciuta da un fatto.
Una sera di domenica le arrivò fin nella camera un suono di grida lontane che uscivano dall'osteria della Gallina.
Corse alla finestra e vide folla in fondo al viale: era una rissa.
Da quella massa nera si spiccò un uomo, come un'ombra, e prese pel viale con la rapidità di una freccia; un altro gli si lanciò dietro.
Quando il primo passò davanti alla scuola, la maestra sentì un grido acutissimo: "Aiuto! Aiuto!" che le suonò nel più profondo dell'anima: l'uomo svoltò dietro la chiesa, e l'altro, velocissimo, sulle sue tracce.
Il cantoniere, che guardava di dietro all'uscio, riconobbe nell'insecutore Saltafinestra.
La ragazza rimase col sangue sossopra, aspettando la notizia d'un delitto.
Non accadde nulla; l'inseguito non era stato raggiunto.
Ma quel grido di aiuto, in cui essa aveva sentito il terrore disperato della morte, le lasciò nell'animo un nuovo e violento orrore per il suo nemico.
Le durava ancor vivo questo sentimento quando il giorno dopo, attraversando il campo coperto di neve dietro alla scuola, per andar in paese a far delle compere, mentre pensava appunto ch'era impossibile che il Muroni la fermasse lì di pieno giorno, a pochi passi dalle case, se lo vide venir incontro dall'angolo opposto del campo.
Atterrita, si guardò intorno: non vide che una fila di bambini che facevan gli sdruccioloni lungo il viale, a un cento passi da lei.
Non era più in tempo a tornare indietro se non correndo; ma le parve una viltà disonorante.
Fu presa allora da un coraggio disperato, nato dall'eccesso della paura, e andò diritta verso di lui, a passi malfermi, ma col capo alto.
Dovevano incontrarsi sopra lo stretto sentiero tracciato sulla neve.
A tre passi l'un dall'altro si fermarono tutti e due.
Egli si levò la pipa di bocca e se la mise in una tasca della giacchetta, tenendovi il pollice su, e la guardò con un sorriso che la fece fremere.
Pareva che cercasse una frase per incominciare.
La maestra ebbe uno slancio d'indignazione...
"Che cosa vuole, insomma? Perché mi ferma? Che cosa le ho fatto?"
Il giovane guardò rapidamente intorno al campo: essa temette una violenza.
"Perché non mi rispetta?" gridò con voce di pianto, dando un passo indietro...
"Perché offende una donna che non si può vendicare?...
Rispetti almeno la memoria di mio padre!...
Io sono figliuola d'un soldato, morto sul campo di battaglia!"
E in quel momento, sul suo viso contratto da un singhiozzo, disparve il terrore sotto l'espressione dello sdegno altero e della santa memoria invocata.
Il Muroni la guardò attentamente; poi disse a bassa voce, con un tono che pareva tranquillissimo: "Non voglio mica farle del male."
Quella risposta le scemò la paura, e le sue lacrime poterono uscire.
Quegli continuava a guardarla, come stupito.
"Non voglio esser fermata!" disse la maestra.
"Io non l'ho fermata" rispose lui, guardandosi intorno.
"Allora mi lasci passare!"
Il giovane si fece in là nella neve, e mentre ella passava, con accento più di lagnanza, che di rancore, disse piano, come tra sé: "Non son mica un assassino."
Temendo che il silenzio gli potesse parere un'ingiuria, ella si voltò, e con una voce che aveva ancora il tremito del pianto, e che suonò, suo malgrado, quasi supplichevole: "No" disse...
"ma non mi fermi mai più!".
E nel dir questo fu stupita di non incontrare il suo sguardo, che la sfuggì.
Ella tirò innanzi a passi lesti, e quando fu in fondo al campo, involontariamente, si girò indietro.
Il giovane voltava allora le spalle.
Non s'era più mosso fino a quel punto.
Insomma, tornò a casa spaurita ancora e tremante, ma quasi confortata dalla coscienza d'una vittoria, e più dal pensiero d'aver mostrato un coraggio, che non credeva d'avere.
Il fatto ch'egli avesse sfuggito il suo sguardo, quando s'era voltata, le parve sulle prime un segno di ravvedimento e di vergogna, che desse a sperar bene per l'avvenire; e si ricordò dei consigli del Garallo, che diceva che col popolo ci voleva ardimento e vigore, e delle idee della maestra Baroffi, secondo la quale bastava una parola nobile e appassionata ad aprire i cuori più duri.
Ma rinvenne ben presto da queste illusioni ripensando il passato orrendo del giovane, la sua crudeltà con la madre, la sua cinica scostumatezza, quell'indimenticabile grido di aiuto di quel disgraziato che, essendo inseguito da lui, si sentiva alle calcagna la morte, e non vide più nel suo contegno di poc'anzi che il timore d'una resistenza vigorosa di lei, che avrebbe dato luogo a una lotta e chiamato gente.
E nondimeno andò quella sera a far scuola con minor trepidazione che curiosità di vedere in qual nuovo atteggiamento egli se le sarebbe presentato.
L'atteggiamento fu nuovo, infatti; ma non per l'appunto quale essa lo immaginava.
Egli non mostrava più odio, né pareva che rimuginasse più dei propositi tristi; mostrava, come se la vedesse per la prima volta, una certa curiosità attenta, nella quale appariva smorzato il risentimento del suo orgoglio per la ripugnanza ch'ella gli manifestava.
E s'ella avesse potuto penetrar nel cervello di lui, avrebbe scoperto ch'erano appunto la sua indignazione di poche ore prima, il suo pianto strozzato, la sua altera invocazione della memoria paterna, che l'avevano mutato in quel modo.
Non perché l'aspetto e le parole di lei gli avessero toccato il cuore; ma perché eran stati per lui una cosa nuova, una rivelazione di sentimenti e di forze sconosciute, ch'egli non aveva mai visto, né immaginato nell'animo di una donna.
Egli la guardava con curiosità come una creatura al tutto diversa da quella che s'era raffigurata, e oscura in parte alla sua intelligenza; la guardava come se capisse per la prima volta che sotto alle ragioni, ch'egli poteva spiegarsi, della sua avversione per lui, ce ne fosse una più profonda, più delicata, più forte, radicata più addentro nell'anima, che non gli riusciva bene di comprendere.
Oltreché egli pure, sebbene più tardi degli altri, cominciava a sentire 1'influsso della presenza, ch'era quasi una compagnia, di quella donna, tanto diversa d'aspetto, d'animo e di modi da tutte le donne ch'egli aveva conosciuto fino allora.
Signore, egli non ne aveva mai viste che passare per la strada e non gli era anche occorso di esperimentare ch'esse fossero diverse dal concetto che egli e i suoi pari, secondo la propria natura, se ne formavano: che
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