LA MAESTRINA DEGLI OPERAI, di Edmondo De Amicis - pagina 9
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"In ogni modo" disse la donna, dando un'altra occhiata all'uscio socchiuso "bisogna dire che è una gran benedizione la scuola, se fa del bene anche al mio figliuolo.
Perché è la scuola, non c'è che dire."
Qui, come colta da un'idea nuova, stette un po' pensierosa, guardando a terra; poi disse piano, rialzando gli occhi: "Salvo il caso...".
La maestra la guardò.
"Salvo il caso" continuò la donna, guardando a terra da capo, "che sia qualche simpatia di sentimento...
come l'anno scorso, per la macellarina."
La maestra ebbe un sospetto, ma istantaneo: si vedeva che il pensiero della madre era a mille miglia da lei.
"Eppure," soggiunse questa, riflettendo "per quanto io abbia cercato e domandato, non mi son potuta accorger di nessuna."
Poi tornò tutt'a un tratto alla religione.
La maestra le domandò perché non ricorresse al parroco.
Signore Iddio benedetto, quel buon vecchino, alto così, tanto alla mano con tutti, era un sant'uomo; ma non se ne voleva immischiare.
Ella sospettava che avesse un po' di "suggezione" del suo figliuolo.
E quella "suggezione" che voleva dir paura, era una parola di ripiego, in cui l'amor materno metteva pure un'ombra di vanità.
Ed era lo stesso degli altri: il cavalier Sanis, padrone della fabbrica, il dottore, che gli avrebbero potuto far delle ammonizioni e dar dei consigli, tutti quanti pareva ne avessero un po' di "suggezione"; scherzavano perfin con lui, incontrandolo; nessuno lo voleva urtare.
"In fine" disse "Nostro Signore mi continuerà ad aiutare, poiché ha cominciato."
E andandosene, mentre ringraziava la maestra con una espressione umile e affettuosa d'ammirazione, il suo sguardo s'arrestò e s'avviò un momento sopra di lei, come al sorgere d'un pensiero...
Ma il pensiero passò.
"Vado a pregar per lei, signorina" le disse di sull'uscio, e voltandole la sua povera schiena corta e incurvata di vecchia martire, s'avviò verso la chiesa.
"Insomma, è domato!" disse in cuor suo la maestra.
Non aveva più da temere né insulti né violenze, poteva girar tranquillamente per il paese, era libera, era contenta, ed anche un poco altera dell'opera sua.
E con questi pensieri non titubò un momento a uscir di casa sola il giorno dopo sull'imbrunire, quando venne un ragazzo con le chiavi del quartierino della maestra Latti e con un biglietto, scritto a matita, col quale la sua amica la pregava di prender nella camera certi medicinali e di portarglieli subito in paese, in casa del fornaio, dov'era ricoverata, essendole preso male per la strada.
Ella si ficcò in tasca le boccette, si mise il cappellino e il mantello, e se n'andò a passi lesti, sotto una neve che veniva giù a larghe falde, e aveva già imbiancato ogni cosa.
Trovò la maestra Latti distesa sopra un sofà, assistita dalla moglie del fornaio e dalle sue figliuole, che sorridevano a fior di labbra.
"Ah Enrica!" esclamò quella, tendendole languidamente la mano.
"Ti vedo ancora!"
Il suo viso, però, non giustificava la tristezza mortale di quel saluto.
Avendo mal di capo, ed essendo scivolata per la strada per aver messo un piede in falso, essa credeva d'esser caduta per una portata di sangue al cervello, con la quale le si fossero scatenati addosso, cogliendo l'occasione, tutti gli altri suoi mali.
Trasportata su, s'era indispettita col medico - un grosso biondo burlone - che, per tutta cura, le aveva consigliata l'aria di Massaua, e poi era ricaduta in un grande abbattimento...
"Va" disse con voce fioca alla Varetti, dopo aver inghiottito in furia le medicine, "non ho più bisogno di te.
Questa buona gente mi porterà a casa più tardi...
viva o morta."
Quando la Varetti, nascondendo un sorriso, s'accomiatò da lei, era quasi notte.
Continuava a nevicare.
Sul viale c'era già un palmo di neve.
Ella indugiò un momento prima d'entrarvi, poi affrettò il passo.
I due lampioni del gas, velati dalla nevicata, rompevano appena l'oscurità con due dischi di luce pallida; lo strepito delle macchine degli opifici vicini arrivava là affiacchito, come se uscisse di sotterra, e il suon dell'incudine del fabbro ferraio, ch'era all'entrata del paese, pareva che venisse da una gran lontananza.
Arrivata a un terzo del viale, parve alla maestra di veder muovere un'ombra dietro a un albero; si soffermò, col respiro oppresso; poi si fece animo e prese la corsa.
A due passi dall'albero le si parò davanti il Muroni.
Ella stava per gittare un grido, ma lo rattenne vedendo ch'egli si levava il cappello.
"Ancora lei!" esclamò, sdegnata.
"Cosa vuole?...
Mi lasci passare."
Quegli rispose con la sua voce rauca, ma in tuono rispettoso:
"C'è la neve, io le faccio la strada...
se permette".
"Non voglio!" rispose la maestra.
"Si faccia in là, o grido aiuto."
"Perché?..." domandò lui, a voce bassa.
"Mi crede proprio...
Crede che non abbia anch'io un po' di cuore?...
Non ha mica da lamentarsi di me, da un po' di giorni."
E senza darle tempo a rispondere, saltò a cinque passi davanti a lei, e si mise in cammino verso la scuola, col corpo chino, strisciando rapidamente i piedi l'uno stretto all'altro, per aprirle un sentiero in mezzo alla neve.
La maestra, rassicurata un po', gli tenne dietro per un tratto, senza perderlo d'occhio; ma poi, ripresa da una paura improvvisa, slanciandosi avanti per fuggire, in un momento ch'egli rallentava il passo, l'urtò col ginocchio.
Quegli perdette i lumi, e mettendo un ah! soffocato, voltatosi bruscamente, l'afferrò a due mani per la vita e cercò il suo viso con la bocca.
La maestra si dibatté furiosamente sotto il suo alito acceso, che sentiva l'acquavite e la pipa.
"Mi dia un bacio" disse lui, con voce arrantolata, "un bacio e la lascio andare...
un bacio e la lascio andare..."
Dicendo questo, furioso, le levò le mani dalla vita per afferrarle il capo: essa gli sfuggì dalle braccia con un guizzo e si diede a correre disperatamente verso la scuola gridando: "Aiuto! Aiuto!" ma con voce così fioca, che nessuno l'avrebbe intesa.
Egli la inseguì, anelando, pronunciando parole incomprensibili, con voce sibilante.
Nel terrore che la levava di senno, le parve di sentir dire: "Ca scüsa! ca scüsa!" (Mi scusi, mi scusi).
Poi non udì più nulla, nemmeno il suo passo.
Arrivò trafelata alla scuola, entrò barcollando nel corridoio, e incontrando la bidella col lume, si lasciò andare con la spalla al muro, smorta, quasi svenuta.
"Cosa c'è?" domandò la donna, spaventata.
"Un ladro!" rispose lei.
Il cantoniere accorse.
"Un ladro? un ladro?" E, afferrato un randello, si slanciò fuori, attraversò il cortile...
e chiuse l'uscio.
La povera maestra passò la notte con la febbre, cercando quale fosse la miglior via per ricorrere alla giustizia, poiché vedeva oramai la cosa necessaria: se riferire il fatto al maestro Garallo, come direttore, perché scacciasse il Muroni dalla scuola e lo denunciasse ai carabinieri, o andar senz'altro dal cavalier Sanis, ch'era il personaggio più autorevole del sobborgo, perché provvedesse lui nel modo che avrebbe stimato più opportuno.
A fare un passo, comunque fosse, era risoluta, non reggendole l'animo all'idea che le potesse toccare un'altra volta un affronto e uno spavento come quelli che aveva avuti, e al cui pensiero tremava ancora.
Si levò la mattina dopo, decisa d'andar dal soprintendente, dopo averne avvertito, per dovere di delicatezza, il maestro.
Era domenica: essa contava d'andar prima alla messa e poi alla fabbrica del cavalier Sanis.
Ma mentre stava terminando di vestirsi, eccoti lì la maestra Mazzara, ansante e affaccendata, come sempre, col sorriso sulla bocca e un pacco di carte fra le mani.
Era già stata dalla Baroffi a chiedere un articolo per una Strenna che volevan pubblicare varie maestre a benefizio d'una loro collega, vedova d'una guardia daziaria.
Non poteva trattenersi che pochi minuti.
Aveva da galoppare tutto il giorno a Torino per preparare una recita di dilettanti al teatro Scribe, per la fondazione d'un asilo infantile alla Crocetta; doveva fare una visita alla scuola d'Orticoltura in via Garibaldi, dove una sua compagna insegnava a scrivere a quaranta giardinieri; voleva andare ancora all'istituto del Buon Pastore a vedere che cosa ci fosse di vero in una voce messa in giro da un giornale, che le maestre monache facessero apparire il diavolo di notte per spaventare le ragazze riottose.
Quand'ebbe detto tutto questo, riprese fiato; poi domandò notizie della scuola serale all'amica, e si mostrò addolorata di vederla triste.
"Cos'hai? Che c'è stato? Perché sei pallida? Che t'hanno fatto?".
Veramente, essa non pareva alla Varetti la confidente più opportuna per le cose che le aveva da dire; ma non avendone altra, raccontò tutto a lei, fino alla scena della sera avanti.
"Ma dunque l'hai innamorato!" esclamò quella con grande vivacità.
"...
Per questo non s'è più visto alle scuole festive!"
E stette un po' pensando, come per gustare quello che vi era di romanzesco nell'avventura.
"E cos'hai deciso di fare?" domandò poi.
La Varetti le disse risolutamente la sua intenzione.
L'amica rimase assorta qualche momento.
Poi rispose con gravità, tentennando il capo: "Io non ti darei questo consiglio".
E richiesta del perché, spiegò il suo pensiero.
"Perché tu non conosci l'animo di quella gente.
Tu provocherai una vendetta."
"Ma che vendetta vuoi ch'io provochi?" domandò la Varetti, scrollando una spalla.
"Che cosa mi può far di peggio di quello che ha fatto?...
Ammazzarmi?"
"Eh, a te non farà nulla" rispose l'altra "si capisce.
Ma se non si vendicherà su di te, si vendicherà su quelli che lo puniranno, di questo puoi star sicura, come se fosse già fatto.
No, non ti metter sulla coscienza questo rimorso."
"Ma dunque" esclamò la Varetti con risentimento "io devo ingoiarmi l'affronto e starne ad aspettare degli altri?"
L'amica tacque un mezzo minuto.
"Ma, insomma" disse "non t'ha neppure baciata!"
La Varetti fece un atto di maraviglia e di sdegno.
Ma quella non la lasciò parlare.
"Capisco, l'affronto c'è stato egualmente.
Però...
dici che t'ha chiesto scusa...
Infine, devi anche considerare che uomo è, od era, piuttosto.
È già una bella vittoria d'averlo ridotto a quel modo, d'avergli ispirato un sentimento...
Che t'ho da dire? Nei tuoi piedi, io starei ancora a vedere.
Vorrei compir l'opera, finire di convertirlo...
È un caso raro, davvero." E dopo aver fissato un po' la sua amica: "Ah! la mia povera Enrichetta" le disse sorridendo e pigliandole il mento con due dita "con quel visetto di principessina!".
La Varetti si asciugò due lacrime.
"Segui il mio consiglio" riprese l'altra "perdona ancora una volta.
Io son certa che non accadrà più nulla.
Tu non conosci questi giovani del popolo.
Basta non irritarli o avvilirli, se ne fa quello che si vuole, anche dei peggiori.
Quello lì, vedrai, diventerà un agnello! T'ha fatto la strada coi piedi, te la farà coi ginocchi."
La Varetti rimase perplessa.
"Ah! il popolo!" continuò l'amica.
"Credi, il popolo è mal conosciuto.
Per questo non è amato.
E se par malvagio qualche volta, è appunto perché non è amato.
Basta.
Ti verrò presto a rivedere.
Son curiosa di sapere come andrà a finire.
Cos'hai deciso?"
"Non so" rispose la Varetti, fissando per la finestra i camini delle fabbriche, come se fossero un dato del problema che la teneva in dubbio.
La Mazzara, andandosene, le diede ancora in fretta in fretta un sacco di notizie torinesi: c'era un matrimonio nella scuola Sclopis; la contessa Di Rosa aveva invitato a uno dei suoi magnifici balli le due maestre delle sue figliuole: nel ritiro della Visitazione aveva tentato di avvelenarsi una ragazza perché le era stata sequestrata una lettera amorosa; a San Filippo, nella prossima quaresima, avrebbe predicato don Calandra.
E glien'aggiunse ancor una sull'uscio: Il Malon, quel famoso socialista francese, doveva tenere una conferenza agli operai di Torino: essa sperava di potervi andare.
"Animo" le disse infine sulla via, con un sorriso adulatorio "bella domatrice!"
Dopo molta esitazione, la Varetti si decise ad aspettare ancora, e ritornò alla scuola serale, il lunedì sera, un po' turbata dentro, ma tranquilla di fuori, come se nulla fosse accaduto.
Seduta appena a tavolino, essa s'accorse, senza guardare il Muroni, che questi stava in un atteggiamento in cui non l'aveva mai veduto, coi pugni appoggiati sul banco e il mento sui pugni; e le bastò, un minuto dopo, dargli uno sguardo di sfuggita, per riconoscere che aveva bevuto.
Aveva daccapo il ciuffo in mezzo alla fronte, gli occhi imbambolati e sonnolenti, la cravatta scomposta, e parve alla maestra di rivedergli a traverso al velo denso dell'ebbrezza l'espressione trista e bieca dei primi giorni, come se fosse tornato al proposito di schernirla e di farle paura.
Ma non fece alcun disordine quella sera, né mutò nemmeno l'atteggiamento, ed essa non lo interrogò né lo fece leggere.
La sera dopo venne a scuola intieramente in sé, col viso consueto, e d'allora in poi lo rivide stare attento, guardarla, ascoltarla con quell'aria d'ammirazione meditabonda e quasi cupa, ch'egli aveva mostrato prima dell'ultimo incontro sul viale.
Soltanto non appariva più alcun segno d'ambizione o di vanità nella sua condotta, né sulla sua persona: tornava a mostrare il viso e le mani poco puliti, leggeva con trascuranza, faceva il lavoro alla diavola, o non lo faceva, e pareva che desiderasse di non essere interrogato, di esser lasciato tranquillo nel suo canto, a guardarla in silenzio, come un cane da caccia.
Ma questa sua contemplazione, così prolungata alle volte che egli non seguitava più sul libro la lettura degli altri, e metteva le spalle al muro, voltandosi in pieno verso destra, per meglio vederla, quando lei era dalla parte della prima sezione, finì con dar nell'occhio anche agli alunni meno osservatori.
Grandi e piccoli, di tanto in tanto, se lo accennavan l'un l'altro col capo, e se ne parlavan negli orecchi.
Toh! Era dunque proprio vero: Saltafinestra era innamorato della maestrina.
Era un bel caso! Questa volta, però, l'avrebbe avuta a far con la voglia.
S'aveva bell'avere il muso di Saltafinestra, ci voleva una buona dose di pretensione.
Nessuno avrebbe mai pensato che quel lestofante lì, che n'aveva già fatte e provate di tutte le tinte, avrebbe dato un tuffo nella bambinaggine a quella maniera.
E gli uomini pei primi gli avrebbero dato la berta, se non avesser saputo che con lui c'era da correr dei rischi.
Ma i ragazzi, più maligni e meno prudenti, non si moderavano tanto.
Nondimeno, grazie al timore che incuteva, non sarebbe nato nessun scandalo, s'egli non si fosse lasciato andare a provocarlo.
Il Muroni che, nei primi giorni, aveva eccitato la classe alle risa e al disordine in odio alla maestra, vedeva male ora che altri le desse noia o le facesse offesa.
Cominciò a guardare a traverso quelli che facevan del chiasso, prima quasi involontariamente, come un uomo frastornato in un pensiero fisso; poi col proposito manifesto di farli smettere, fissando l'un dopo l'altro i disturbatori.
Quando costoro se ne accorsero, incoraggiandosi a poco a poco al vedersi concordi, presero a far peggio; e allora, alla stizza di prima, s'aggiunse in lui il risentimento dell'ingiuria a lui diretta.
La cosa, per alcune sere, non passò i termini; ma poi egli s'inasprì.
I disturbatori ostinati non eran che i ragazzi, ma tanto più egli si sentiva ferito nell'orgoglio, che non riusciva a farsi temere da un pugno di monelli, lui che aveva fatto tremare degli uomini.
Principiò, quando s'arrischiavano a qualche monelleria più sfacciata, a dire delle impertinenze fuor dei denti, a minacciare di saldare i conti all'uscita.
E proprio sul viso nessuno osava di rispondergli; ma rispondevan tutti insieme facendo la voce sorda del cane rugliante o il rantolo dei gatti che fan le fusa; il che lo metteva fuor dei gangheri.
Il più accanito era il piccolo Maggia, una buona stoffa di Saltafinestra futuro, capace d'affrontare anche un uomo.
Doveva essere opera sua una strofetta in dialetto, che la Varetti gli udì cantare una sera coi suoi compagni, nella quale rimavano maestra e Saltafinestra a capo di due versi che la fecero arrossire.
Ella si trovava in un impiccio penoso e difficile, non potendo accettare in nessun modo né sapendo con qual mezzo far cessare quella troppo aperta protezione di chi era in più mala fama fra i suoi scolari.
Ma c'era anche di peggio.
Quella aperta passione del Muroni per lei, quella sua continua ammirazione avida e muta, venivan ravvivando negli altri, per virtù di simpatia, quella fiammella mista di sensualità e di sentimento, di cui s'era accorta dopo i primi giorni.
Ella si vedeva ora, anche da vari degli uomini più seri, guardata con occhi più intenti e più arditi; indovinava dei commenti più liberi sulla sua persona; coglieva a volo delle piccole manifestazioni di gelosia, perfin sulla faccia di bronzo di quel piccolo Maggia; dal quale, passando una sera in mezzo ai banchi, le parve di sentirsi strisciar la veste con la mano.
I soli che rimanessero immutabili erano il Perotti, con la sua onesta barba di buon padre di famiglia, che trattava sempre la maestra col rispetto d'un vecchio servitore; quella specie di bruto dello zio Maggia, sempre ostinato a studiare, e curvo sul banco come un animale affamato alla greppia, e il socialista Lamagna.
Questi, senza dimostrare alcun ossequio alla maestra, che considerava come una compagna di officina, pareva che fosse infastidito della mala condotta dei suoi condiscepoli, e dava dei segni di disgusto alle loro escandescenze più grossolane; perché, secondo lui, l'operaio avrebbe dovuto insegnar l'educazione ai signori, e invece di farsi disprezzare da loro con la villania, farli arrossire con la sua dignità.
Finalmente, il disordine andò tant'oltre una sera che la maestra decise di ricorrere al maestro Garallo.
Dieci minuti dopo la lezione, mentre si sentivano ancora sul viale i fischi e i canti sgangherati degli alunni, piena di tristezza e fremente di collera, andò a picchiare all'uscio del suo quartierino.
Le risposero insieme: "Avanti!" due voci gravi.
Ella trovò marito e moglie seduti dalle due parti d'una tavola coperta di fogli, tutti e due con le grosse teste arruffate, piccoli e corpulenti, che parevan fratello e sorella.
Il salottino, repubblicanamente austero, non aveva altro ornamento che i ritratti in stampa del Mazzini, del Saffi e di Alberto Mario, appesi a una parete; dall'altra pendeva un gran quadro calligrafico, diviso in scompartimenti colorati, nei quali erano segnati gli stipendi dei maestri elementari di tutti gli Stati civili; la tavola era rischiarata da un lumino da cucina, posto sopra una scatola di zucchero, vuota.
"Ah! lei è qui!" disse il maestro, ed entrò senz'altro nel suo discorso prediletto, a proposito d'un memoriale che stava scrivendo, perché il municipio di Torino accettasse come validi, pei diritti alla pensione, gli anni di servizio prestati dai maestri negli altri comuni.
"Perché è una sacrosanta giustizia!" esclamò.
Ma la Varetti lo interruppe e, con voce concitata, gli espose i casi suoi.
Aveva pazientato fin allora, per non dargli noia; ma non poteva più andare avanti con quella classe indisciplinata, che le mancava di rispetto in tutte le maniere, e faceva della scuola un mercato.
Era assolutamente necessario che il maestro andasse la sera dopo a dare un ammonimento solenne a tutti, e una lezione particolare ai più tristi.
Il maestro si grattò un orecchio; parve seccato da quella domanda.
"Verrò" rispose; "ma...
gliel'avevo detto che in quella scuola ci vuole energia."
"Ma che energia vuol che abbia una ragazza sola davanti a quaranta uomini?" domandò la Varetti.
"Io li tenevo" disse con una nota di trombone la signora Garallo.
"Io non ho la sua virtù" rispose piccata la signorina.
"Lei ne imponeva di più, anche con l'aspetto..."
La Garallo la fissò.
"Io non riesco a farmi temere" continuò l'altra "non so come fare, ai miei rimproveri non badano, faccio tutto quello che posso, mi riducono alla disperazione.
È un supplizio a cui non posso più reggere."
"È inutile" disse il maestro, impazientito "il popolo vuol esser trattato in un modo particolare, bisogna saperlo prendere...
Non bisogna presentarglisi, con maniere, non dico aristocratiche, non è il caso, ma nemmeno, che so io? troppo signorili; non bisogna lasciargli vedere che si ha quasi...
orrore di lui."
La Varetti si scosse a quelle parole.
"Chi le ha detto che io usi dei modi aristocratici?" domandò con risentimento.
"Chi le ha detto che io abbia orrore del popolo?"
"Il popolo vuol essere amato!" sentenziò la maestra Garallo.
"E io l'amo!" esclamò la ragazza, con uno slancio vigoroso d'affetto e di sdegno.
"Che cosa le può far pensare il contrario?"
"Andiamo" concluse il Garallo, in tuono conciliante "faremo così.
Per ora darò ordine al cantoniere di assistere alle lezioni.
La sua presenza basterà a tenere a segno i ragazzi.
Lei, dal canto suo, mi darà sera per sera i nomi dei disturbatori.
Se poi seguirà qualche cosa di grave, il cantoniere mi verrà a chiamare, e allora...
non avrò che da farmi vedere.
Intanto, si faccia coraggio."
La maestra, indispettita, stava per rispondergli: "Se lo faccia lei" ma rattenne la parola sulla punta delle labbra.
Si contentò di fare un saluto asciutto e se n'andò.
Uscendo, udì la voce del maestro che diceva piano:
"Non capisce il popolo; non sa star col popolo" e la curiosità la ritenne un momento con l'orecchio teso.
Ma quegli parlava già dei maestri del Brasile i quali, oltre alla casa e al giardino, hanno un tanto di guadagno per ciascun alunno promosso.
Rassegnata, tornò la sera dopo alla scuola.
Nevicava fitto da varie ore; gli alunni arrivavano coi cappelli e con le spalle coperti di neve, scotendosi i panni e pestando i piedi con grande strepito.
A metà del corridoio, la maestra fu fermata dal cantoniere che le domandò il permesso di dirle una parola in confidenza.
Il maestro Garallo gli aveva ordinato di assistere alle lezioni per mantenere il buon ordine; ma egli aveva una proposta da fare: gli pareva più politico di star nel corridoio, con l'orecchio all'uscio, e d'entrar poi all'improvviso, quando avesse inteso rumore, perché, in quella maniera, avrebbe potuto cogliere in flagrante i colpevoli.
E dicendo questo strizzò un occhio, per far comprender meglio la sua furberia.
Ancora un altro che aveva paura! La maestra gli diede uno sguardo di pietà, dicendogli che facesse quel che voleva, ed egli, dissimulando la sua soddisfazione, prese un'impostatura risoluta accanto all'uscio.
Mancavano quella sera più d'una dozzina d'alunni.
La maestra ne domandò conto e seppe che erano andati con molta altra gente a passar la serata in una stalla, dove un vecchio contadino reduce dall'America, uno spirito faceto e bizzarro, aveva invitato mezzo il sobborgo a sentir la storia delle sue avventure.
Era un po' di sollievo per lei; ma della ragazzaglia, pur troppo, non mancava un solo.
Fin dai primi momenti ella s'avvide che il Muroni era più cupo del solito: dovevano esser corse parole fra lui e gli altri prima dell'entrata.
E vide anche su quei dieci o quindici visi degli alunni più audaci come un pensiero comune, l'apparenza d'un accordo che avessero fatto fra di loro; forse per sostenersi a vicenda quando uno di essi, dopo la scuola, fosse stato assalito da Saltafinestra, che avevano deciso di provocare.
Infatti, non appena ella si voltò alla lavagna per scrivere, si sentì dietro alle spalle un fremito di risa e di mormorii più impertinente dell'usato; ed ebbe una stretta al cuore, indovinando dal suono particolare di quel riso le smorfie laide e gli atti e le parole licenziose che dovevan correre pei banchi.
A un certo punto, facendosi più alto il rumore, il cantoniere mise il viso allo spiraglio dell'uscio e disse: "Silenzio! Non è la maniera!" ma disparve con una così comica rapidità, che mezza la classe fece una risata.
Pochi momenti dopo, mentre essa scriveva ancora, le cadde una freccia di carta ai piedi, poi una buccia di castagna.
Ma quegli affronti non la ferirono più.
Non sentiva più sdegno oramai, ma una profonda tristezza, e insieme non so che forza nuova nell'animo, che la teneva là ferma e intrepida, quasi a una mortificazione meritata, ad un'espiazione volontaria, come una monaca al letto d'un infermo di malattia ributtante.
Voleva resistere e soffrir fino all'ultimo, vedere fino a che segno sarebbero giunti, e se la sua pazienza di santa non avrebbe finito con farli vergognare della loro condotta.
Ma a un tratto sentì un Ooooh! forte e prolungato di molte voci, in suono di scherno e di sfida, e, voltandosi, vide il Muroni ritto sul banco, con gli occhi fiammeggianti e i denti stretti, che mostrava il pugno alla classe.
Ella aprì la bocca per gettare un grido al cantoniere...
In quel momento si spalancò l'uscio, e un personaggio sconosciuto entrò nella scuola.
Seguì un profondo silenzio.
Era il nuovo ispettore generale di Torino, che la maestra non aveva mai visto.
Egli faceva spesso quella prodezza, d'andar a visitare le scuole dei suburbi nelle serate peggiori dell'inverno, quando meno era aspettato.
La sua carrozza s'era avvicinata senza rumore, a cagion della neve; egli era entrato bruscamente nel corridoio facendo cenno al cantoniere spaurito di non annunziarlo, e, appeso il mantello incerato ad un gancio, dopo esser stato un po' all'uscio a sentire il chiasso smodato, aveva fatto quell'entrata da palcoscenico.
La sua alta figura di vecchio ufficiale, coi baffi e col pizzo bianco, vestito, di scuro, coi panni stretti come un'uniforme, ispirava simpatia e imponeva rispetto.
In una tasca sporgente del suo fianco si disegnavano le forme d'una rivoltella.
Era indignato.
"Che luogo è questo?" domandò, rivolto alla scolaresca, dopo aver detto chi era.
"In questo modo rispettate la vostra scuola e chi v'insegna? Siete onesti operai voialtri, o che cosa siete? Non posso credere che siano gli uomini che facciano questo baccano; ma mi fa maraviglia, mi fa sdegno che lo sopportino senza arrossir di vergogna, che lascino insultare in così indegna maniera la scuola del popolo." Poi, voltandosi alla maestra, con accento severo, senza abbassare abbastanza la voce: "E lei, signorina, in che modo tollera una condotta simile? Come tiene la disciplina? Ma per dignità sua, quando non fosse per dovere d'ufficio, ella non dovrebbe permettere che le si manchi di rispetto fino a questo punto! Mi dica: è così tutte le sere?".
La povera ragazza, ritta davanti al suo giudice, pallidissima, mosse le labbra per discolparsi; ma la mente le si turbò, la voce non le venne: le venne invece un'onda di lagrime, che non poté trattenere: tirò fuori il fazzoletto e si mise a piangere come una bambina.
"Si ricomponga" le disse con voce un po' più mite l'ispettore; "questo non giova a ridarle l'autorità che ha perduta." Poi rivolse daccapo alla scolaresca alcune vigorose parole, che tutti ascoltarono in silenzio, con quell'attenzione fissa e stupita che il popolo presta agli attori; eccettuato il socialista Lamagna, che guardava per la finestra, con simulata distrazione, un albero carico di neve, rischiarato dal lampione della scuola.
Finita l'intemerata, l'ispettore fece un cenno alla maestra, la quale, con gli occhi rossi e con voce tremante, riprese il filo della lezione, mentre egli vigilava gli alunni con occhi severi.
Tutto a un tratto le domandò: "Quali sono i suoi disturbatori abituali?".
La maestra li conosceva tutti; ma per pura bontà d'animo, non per paura, non parendole nobile di far castigare da altri quelli ch'essa non aveva saputo contenere, rispose con voce dolce, che pareva sincera:
"Nessuno, signor ispettore.
Il disordine di questa sera è stato un caso".
Mentre ella diceva questo, lo sguardo dell'ispettore si fissò sul Muroni, attratto dal contrasto della dura fierezza di quel viso col sentimento che v'era dipinto in quel punto, e che pareva ispirato dalla risposta generosa della maestra, della quale egli aveva compreso il pensiero gentile.
"Sta bene, signorina!" disse.
"L'aspetto dopo la scuola" e dato un ultimo avvertimento agli alunni, uscì a passi di soldato.
La scolaresca, frenata dal sospetto d'una riapparizione improvvisa del personaggio, si contenne decentemente fino alla fine, e uscì con ordine insolito, non facendo che un sordo mormorio.
Ma mentre assisteva all'uscita degli ultimi alunni dal cortile, prima d'andar a prendere il monito dall'ispettore, la maestra sentì sul viale la voce rauca e furiosa del Muroni, che gridò: "Vigliacchi!" e altre voci, smorzate dal nevischio fitto, che gli risposero degli insulti, di lontano.
Dopo quella sera parve che nel Muroni crescessero insieme la passione per lei e l'odio contro i suoi nemici, e che meditasse di sfogar questo, non potendo quella.
Ma la passione si manifestava in maniera tutta sua.
La maestra non vide mai sul suo viso l'espressione propria dell'amore o della benevolenza: il suo viso non faceva che intorbidarsi sempre più, e il suo sguardo diventava più fisso e più sinistro, come se col sentimento ch'essa gl'ispirava maturasse gradatamente in lui il proposito di un delitto.
Un gran tumulto di idee e di sentimenti seguiva nel suo piccolo cranio e nel suo cuore esasperato di ribelle al mondo: un fastidio crescente di sé; un disprezzo sempre più iroso dei propri eguali; un'acre ambizione d'essere educato, istruito, ben vestito, ricco per effetto di un colpo di fortuna o d'audacia, o d'un miracolo; un mostruoso avvicendarsi, quand'era davanti a lei, di concupiscenze violente, di impulsi di pietà, di fantasie affettuose o feroci o lascive, di subitanei rivolgimenti dell'animo, per cui ora l'avrebbe insultata e percossa come una donna da trivio, ora si sarebbe umiliato, avrebbe baciato, forbito con la lingua la suola dei suoi stivaletti.
Egli aveva l'aria d'un uomo a volte stupito, a volte rabbioso e vergognoso di quello che accadeva dentro di sé.
Ma qualunque cosa passasse nell'animo suo, manteneva inalterate le forme del rispetto per lei.
Pareva anzi che le rendesse più visibili per far nascere il sospetto d'una corrispondenza dissimulata, che avrebbe dato almeno un pascolo apparente al suo amor proprio.
E infatti, il sospetto nacque nella scolaresca, che li osservava assiduamente tutti e due.
Quello studio che poneva la maestra a non guardarlo quasi mai, a mostrar di non accorgersi dello zelo iracondo con cui la proteggeva, non pareva naturale a molti, i quali cominciavano a pensare che fosse uno sforzo fatto per velare la simpatia.
Del resto, egli era un bel giovane, noto per le sue conquiste amorose nel proprio ceto; né i suoi compagni potevan capire che ciò che principalmente attirava a lui le donne sue pari, la sua trista fama, dovesse essere per la signorina una cagione fortissima di repugnanza, e neppure erano in grado di comprender bene quale distanza mettesse fra di loro la diversità dell'educazione.
La maestra s'avvide chiaramente di questo sospetto dall'atto improvviso e ostentato con cui tutti si voltavano verso di lei e di lui, ogni volta ch'essa lo interrogava, e dal tossire affettato, dai sogghigni, dalle mezze parole che si lasciavano sfuggire, guardandola con occhi ridenti, anche i più savi; e questo la turbò a segno, che doveva far violenza sopra di sé prima di chiamarlo a leggere, e preparar quasi l'animo e i nervi a ricacciare il rossore che le sarebbe salito alla fronte, s'egli le avesse rivolto una domanda all'improvviso.
E stava in continua ansietà che non le riuscisse una volta di nascondere il suo turbamento, perché, senza dubbio, la scolaresca non l'avrebbe creduto effetto di timidità o di vergogna dei suoi sospetti, ma rivelazione d'amore.
Per sua fortuna, una sera che essa più temeva egli non venne, e non si fece più vedere a scuola per vari giorni.
Lo vide una mattina dalla finestra gironzolare nel prato di là dal viale, col capo basso e con le mani in tasca, come chiuso nei suoi pensieri.
Alcune ore dopo lo rivide ancora là, seduto sopra un mucchio di ghiaia, coi gomiti sulle ginocchia e i pugni sotto il mento, rivolto verso la scuola; ma così lontano che non gli poté distinguere il viso.
La sera stessa, verso notte, passando davanti all'osteria della Gallina, sentì la sua voce roca e avvinazzata in mezzo a un gridìo assordante di giocatori di morra, e riseppe la mattina dopo dal cantoniere che s'eran picchiati ferocemente dopo la mezzanotte, lui e certi barabba di Torino, mettendo per aria l'osteria, donde perfino l'oste era fuggito; e si vedevano ancora per la strada dei brandelli di cravatte e delle ciocche di cappelli, sparsi sulla neve.
Si diceva anzi che il Muroni fosse a letto per una randellata.
Infine, la mattina del terzo giorno, scendendo per la strada maestra, la Varetti lo vide ad una cantonata, seduto sopra un paracarro, col cappello rovesciato indietro, col ciuffo tra gli occhi, con le mani nelle tasche dei calzoni, immobile e smorto, col mento insudiciato dal sugo nero d'un mozzicone di sigaro, che gli pendeva dalle labbra, e spettorato come in piena state.
Guardandolo di sfuggita prima d'esser vista, gli lesse scritti sulla faccia tre giorni e tre notti d'ozio, d'alterchi, di gioco e d'ubbriacature, un abbrutimento che le strinse l'anima e la fece rabbrividire al solo pensiero di dover incontrare il suo sguardo.
Non potendo tornare indietro, pensò di passar oltre senza voltare il capo; ma quando s'accorse ch'ei l'aveva veduta e che s'alzava lentamente, senza osare di avvicinarsi, fu vinta da un senso di compassione, e lo guardò.
Era briaco; a stento poté levar la mano al cappello, che non trovò subito, e scoprendosi, senza riuscire ad alzare il viso, le diede uno sguardo lungo e profondo, accompagnato da un sorriso strano, triste, stupido, tenero, orribile, che le fece ribrezzo e pietà, e la lasciò tutta sconvolta.
La sera del dì seguente tornò alla scuola, sbriacato e pulito, e al primo riveder la maestra e più al risentir la sua voce, come se tutti i sentimenti che aveva addormentati per tre giorni gli si ravvivassero a un tratto con maggior vigore, riprese l'antico atteggiamento di contemplazione immobile e cupa; con la quale ricominciarono gli scherzi e i disordini della ragazzaglia.
Ma questa volta pareva ch'egli avesse mutato idea.
Non minacciava più: si voltava soltanto a guardar ora l'uno ora l'altro, come per fissarsi nella memoria i nomi e gl'insulti, e in quel momento la sua faccia fredda e tranquilla era più sinistra e più inquietante di quando minacciava.
E così fece per due o tre sere.
Poi mancò alla scuola altre due volte.
Alla maestra giunse notizia d'una nuova rissa seguita la notte in un'osteria in fondo al paese, tra lui e certi contadini della borgata vicina: s'eran viste la mattina delle tracce di sangue sullo scalino esterno d'una cappella.
Una notte ella riconobbe la sua voce in mezzo a quelle di vari altri, che passarono cantando nel campo dietro la scuola, e s'allontanarono nell'aperta campagna; e la mattina dopo, appena levata, fu tutta stupita di vederlo seduto nel fosso del viale, sotto la sua finestra, con la schiena appoggiata all'albero e il mento sul petto, che dormiva, in mezzo al ghiaccio.
Poi tornò a scuola una sera, ubbriaco e insonnolito, e stette per due ore immobile, con gli occhi lustri, in una specie d'ammirazione stupida e infantile d'un suo nuovo vestito color cinerino.
Si riscosse verso la fine, furibondo contro un ragazzo che aveva lanciato una pelle di topo sul palco, ai piedi della maestra.
Questa, all'uscita, sentì un gran tumulto, e riseppe la mattina dopo ch'egli aveva preso a schiaffi e a calci il ragazzo.
Poi disparve per altri due giorni, e le dissero ch'era stato arrestato.
Non era vero; ma non lo vedevano da un giorno e una notte: qualcuno diceva che fosse a Torino.
La Varetti lo seppe una mattina da sua madre, che la venne a trovare tutta piangente, in uno stato d'agitazione febbrile, con un viso che pareva l'immagine dello spavento.
"Ah! signora maestra" esclamò, entrando, nella camera "dove sarà il mio figliuolo che non si vede più! Cosa gli sarà accaduto! Come posso io durar questa vita, Dio di misericordia, quel figliuolo che pareva già rinsavito!" E si mise le mani nei capelli, dicendo che le pareva che diventasse matto, che non c'era più modo di averne bene, che l'aveva minacciata con un martello.
"Mi dica un po', signora maestra" le domandò con voce affannosa "son nati dei guai coi compagni della scuola, non è vero? Cos'è successo? Cos'hanno con lui?"
La povera donna veniva la sera di nascosto, all'ora dell'uscita degli alunni, ad appostarsi dietro gli alberi del viale, e varie volte, dai gruppi che passavano, aveva sentito delle minacce, dei propositi di vendetta contro il suo figliolo.
La maestra, per compassione, credette di doverle dire che non sapeva nulla, e cercò di rassicurarla; ma non trovava le parole, essendo distratta da una certa espressione che vedea negli occhi della donna, supplichevole e scrutatrice insieme, che non le aveva mai visto.
Questa ricominciò ad esclamare: "Ah! signorina, il cuore mi dice che deve seguir qualche disgrazia! Signore Iddio, se me lo avessi a veder portare una notte con una coltellata, mi fa sangue l'anima, mi va via la ragione a pensarci!".
E nello schianto di dolore che risentì a quel pensiero trovò il coraggio d'aprir tutto l'animo suo.
"L'avevo bene avuto io il sospetto" disse a bassa voce, prendendo una mano alla maestra, senza osare di guardarla in viso "l'avevo ben pensato io che tutto fosse per motivo d'una simpatia; non m'ero ingannata..."
E tutt'a un tratto, giungendo le mani, con un accento d'ardente supplicazione: "Oh signorina" mormorò, fissandola negli occhi "se lei volesse far la carità di dirgli qualche buona parola, una sola buona parola...".
Ma s'interruppe, come interdetta, a uno sguardo di lei.
"Che discorsi son questi?" le domandò la ragazza, arrossendo.
"Che parte è quella che fate?"
La donna diede in uno scoppio di pianto.
"Ah! è vero" disse poi "mi perdoni, signorina...
perdoni a una povera mamma che non sa più quello che si dica!" e le prese e le baciò le mani con uno slancio di affetto così umile e così doloroso, che la maestra, improvvisamente commossa, svincolò la destra e glie la mise in atto di carezza pietosa sul capo bianco, da cui era caduto il fazzoletto, dicendole: "Fatevi animo, povera donna, fatevi animo; vedrete che non seguirà nulla...
E poi...
io vedrò...
gli dirò qualche cosa...".
"Dio la benedica!" rispose la vecchia rialzando il viso "Dio la benedica! Anche una sola parola...
alle volte...
che non faccia morir di disperazione sua madre, che ha già penato tanto, che non si metta a nessun brutto rischio, per compassione dei miei ultimi giorni, che salvi l'anima sua!"
Ma nell'andarsene fu ripresa dal suo terribile presentimento.
"Ho paura che me lo ammazzino!" esclamò, rimettendosi a piangere.
"Mi dice il cuore che ha da finir male, ho paura che me lo ammazzino! Che Dio ci tenga le sue sante mani sul capo!"
Ed era già sull'uscio, quando tornò indietro con impeto a baciar la mano alla ragazza.
Poi se n'andò, con le mani sul viso.
La Varetti, per pietà di quella povera vecchia, decise di farsi forza e di mantener la sua promessa, di dare qualche ammonimento amorevole al giovane, per indurlo, se non altro, a non incrudelire contro sua madre.
Ma non sapeva quando né dove parlargli, non passandole neppur per la mente, con gli umori di quella scolaresca, di chiamarlo in disparte all'entrata o all'uscita.
Questa incertezza le durò tutto quel giorno.
La sera Saltafinestra venne a scuola.
Aveva il viso più livido degli altri giorni e un'alterazione di lineamenti che annunziavano un'ubbriacatura d'acquavite non ancor svaporata.
La sua entrata fu accolta con un mormorìo, che egli fece cessar subito, soffermandosi in mezzo alla scuola, e girando lo sguardo sui banchi.
Poi andò al suo posto, dove prese l'atteggiamento solito, ma con un viso torvo, chiuso, fermo, come se avesse risoluto di far qualche colpo la sera stessa.
La pietà di sua madre, il timore ch'egli trascendesse a qualche atroce provocazione e la speranza di prevenirla, indussero la maestra a tentare una prova, che a lei parve arditissima.
Dopo averci pensato un pezzo, col batticuore, colto il momento in cui le parve che tutta la classe fosse raccolta e non badasse a lei, ella si voltò verso il Muroni, del quale era certa d'incontrar sempre lo sguardo, e lo fissò per qualche secondo, come non aveva fatto mai, con una espressione velata di indulgenza, di bontà, di preghiera.
Il giovine restò un momento col viso immobile, nell'atteggiamento di chi senta all'improvviso la voce d'una persona invisibile, da cui gli paia d'udir pronunziare il suo nome; poi guardò intorno e tornò a guardar la maestra, che non lo guardava più; e si passò una mano sulla fronte.
E da quel punto parve che si destasse in lui un'agitazione nuova, un nuovo ordine di pensieri.
I ragazzi ricominciarono a fare il chiasso e gli scherni soliti alla maestra, per offender lui.
Egli non vi badò per un po' di tempo.
Ma tutt'a un tratto, avendo udito mormorare dal piccolo Maggia una sconcia parola diretta a lei, che non l'intese, si voltò di slancio come una tigre, e gli disse: "Maggia, ti taglierò la gola".
Varie voci risposero: "Un momento!" "Troppa furia!" "Vedremo!" e un vocione dall'altra parte della scuola muggì: "Ci sono io!".
Era lo zio Maggia, che s'era alzato col suo testone deforme, tutto infiammato.
Pur non avendo alcun affetto per il ragazzo, che lo infastidiva con le sue monellerie, egli sorgeva in difesa del parente minacciato, senza sapere il perché della minaccia, senza domandare né riflettere, come un bruto, perché aveva inteso il suo nome.
"Bucherò anche te!" gli rispose il Muroni.
La maestra gli fece un cenno di comando.
"Sapete chi sono" disse ancora il giovane a tutta la classe, e risedette, mandando dei baleni lividi dagli occhi.
La maestra, stentando a raccoglier la voce, impose silenzio, e tutti si quetarono, non per rispetto a lei, ma pel presentimento di qualche cosa di grave, che annunziavano la risolutezza dei visi e l'entrata in lizza dello zio Maggia, conosciuto per la sua forza e pei suoi furori di toro.
La Varetti stette col cuore sollevato fino alla fine, facendo lezione con un fil di voce.
Tutti uscirono in silenzio.
Essa corse nel cortile, dove cercò invano il cantoniere, e s'avvicinò all'uscio, tutta tremante, in aspettazione d'una rissa terribile.
Udì infatti varie voci che dicevano: "Largo! Largo!" per fare spazio per la lotta; poi la voce del Muroni: "A noi!" e quella dello zio Maggia: "Son qui!" E s'appoggiò al muro per non cadere.
Ma invece dei colpi e delle grida che s'aspettava, sentì un bisbiglio improvviso, come un avvertimento che corresse di bocca in bocca, e poi lo stropiccìo dei piedi della folla, che si sparpagliava in silenzio.
In quel silenzio udì ancora la voce del Muroni, già lontana: "A rivederci domani".
Varie voci ripeterono: "A domani".
Ed altre, più vicine, in tono d'ammonimento: "A casa, giovanotti, a casa".
Era la pattuglia dei carabinieri che faceva sgombrare la via.
La Varetti non s'era mai risentita così vicina come quella sera al terrore che l'aveva messa a rischio di morire nella sua fanciullezza, quando era stata spettatrice di quella rissa sanguinosa degli operai minatori.
Essa aveva sentito passar nell'aria il soffio d'un delitto.
E le durò per tutta la notte un ribrezzo, un affanno angoscioso, che accumulò nei suoi sogni tutte le più spaventevoli immagini che l'avevano oppressa nel corso della vita, e si svegliò accasciata, piena di neri presentimenti, cercando ansiosamente, senza trovarlo, un mezzo d'impedire quello che stava per accadere.
Tirò un gran respiro di consolazione vedendo apparir sull'uscio la maestra Mazzara.
Essa veniva così entusiasmata dei propri disegni che dimenticò lì per lì di chieder notizie della scuola serale e di Saltafinestra, ch'era ciò che l'aveva spinta fin là, nonostante il freddo intenso e la nebbia.
Voleva far scrivere alla Baroffi un articolo sul cattivo nutrimento dei bambini degli Asili, dove si faceva un abuso di fagioli intollerabile; stava cercando aderenti per invocare una riforma dell'insegnamento del canto nelle scuole elementari, dove, con la illusione che i ragazzi imparassero la musica, li ammaestravano faticosamente a cantar dei cori senza ispirazione e senza vita, delle nenie funebri, che addormentavano cantori e uditori; voleva promuovere una sottoscrizione per fare un dono d'onore a una maestra cieca, bellissima, dell'Istituto d'Azeglio, un angelo di grazia e di bontà...
Infine, quando si fu sfogata, interrogò e stette a sentire con grande attenzione l'amica, che le disse minutamente tutto quello che era accaduto e che essa temeva.
Ma, ahimè! fosse per una cattiva disposizione segreta di lei, o per la natura pericolosa dell'argomento, la conversazione doveva durar poco e finir male.
Quand'ebbe inteso tutto, ella mise fuori un consiglio, che la Varetti sospettò fosse preparato, da tanto che le venne pronto.
"Mia cara" le disse, in tono di sorella maggiore "il mio parere è questo: che la cosa si deve far finire a ogni costo, e che il farla finita sta in te.
Tu non devi permettere che si commetta un delitto per causa tua.
E c'è un mezzo solo.
Tu devi valerti dell'"ascendente" che hai su di lui, pigliarlo in disparte e ordinargli ri-so-lu-tamente di desistere da qualunque reazione o provocazione, di fare sacrifizio del suo orgoglio, di cedere e di rassegnarsi, per l'interesse tuo.
In questo modo non accadrà nulla ed egli si muterà.
Se gliel'ordini tu, t'obbedirà.
Non c'è altra via.
Tu lo devi far per coscienza.
Questo è il mio sentimento.
"Ma perché credi che m'obbedirà?" domandò la Varetti, non comprendendo ancora il suo pensiero.
La Mazzara esitò.
Poi rispose con franchezza: "Sta a te farlo obbedire, alla fin dei conti".
"Oh mia cara!" esclamò l'amica con un sorriso altero, levandosi in piedi "per evitare una disgrazia son disposta a fare qualunque sacrifizio, fuor che quello d'avvilirmi."
La Mazzara fu punta, e sentì il suo sangue popolano rimescolarsi, pensando che la Varetti avrebbe dato la stessa risposta anche per uno dei suoi fratelli.
E, frenando il dispetto, rispose con un sorriso forzato: "Pregiudizi sociali".
"Pregiudizi sociali?" ribatté l'altra con vivacità "Ma sono i pregiudizi della dignità e dell'onore! Arrossirei davanti al ritratto di mio padre se mi venisse solo il pensiero di mancarvi."
"Oh Dio mio!" esclamò la Mazzara, fremendo senza farsi scorgere.
"Gli uomini di tutte le classi sociali si valgono, salvo che i loro vizi e le loro colpe hanno un diverso colore: i signori bevon del vino più fino, frequentano delle male donne meglio vestite, e danno dei colpi di sciabola invece che dei colpi di coltello."
La Varetti frenò un impeto d'indignazione, e le disse con alterezza: "Tu non sei in te.
Mio padre s'è battuto in duello, e tu lo metteresti a paro con gli accoltellatori delle taverne?...
È un obbrobrio!".
"Un obbrobrio?..." rispose quella, con la voce soffocata dalla collera "un obbrobrio?...
Ebbene, io ti dico che mi vanto d'esser figliuola del popolo, che sono altera della mia famiglia, e che disprezzo i fumi dell'aristocrazia e non so che farmi delle amiche aristocratiche!"
E detto questo, con le lacrime agli occhi, uscì a grandi passi.
La Varetti le corse dietro, chiamandola per nome, pregandola di rientrare.
Ma quella si voltò irritata, e le rispose: "Verrò un'altra volta: oggi non è aria!".
E disparve.
La ragazza si lasciò andare sopra una seggiola, profondamente scoraggita.
Anche la sua amica l'abbandonava quel giorno in cui aveva tanto bisogno di distrazione e di conforto.
Non potendo regger sola, andò a cercar la compagnia della maestra Baroffi.
La trovò a tavolino coi capelli scomposti, col suo largo viso scialbo di vecchia attrice, curva sopra una diecina ai quaderni aperti, dov'ella trascriveva frasi e sentenze di letterati, di giornalisti e di conferenzieri, le quali, dopo un mese di stagionatura nel suo magazzino, diventavan sue, e le teneva così coscienziosamente per sue che, se le avveniva di rileggerle altrove, le credeva roba rubata a lei.
La Varetti le disse le sue tristezze e le sue paure.
"Ah benedetta creatura" le rispose quella con la voce grossa ed enfatica "che t'ostini a non darmi retta! Ma parla dunque, commovili.
Leggi loro qualche bel brano commovente del Thouar o del Lambruschini, e te li vedrai mutare sott'occhio da così a così! Ah se ci fossi io!" Ma non ostante la tristezza della sua amica, non si trattenne in quel discorso.
Era tutta eccitata dalla descrizione d'una solennità seguìta all'Università di Londra, dove, nell'aula magna, in presenza del cancelliere, di tutto il corpo dei professori e d'una gran folla di studenti e d'altri cittadini, una giovine signora era stata insignita del grado di dottore in scienze.
Quello sarebbe stato il sogno supremo della sua ambizione.
"Figurati, mia cara" esclamò con entusiasmo "quella bella signora con l'assisa rossa e dorata di dottore, in quel luogo, davanti a tutta quella gente, in mezzo a quegli applausi, e Londra intera che ne parla! Io vorrei aver quella gloria e morire un'ora dopo!"
La Varetti la lasciò ai suoi sogni, più triste di prima, e andò a cercare la Latti.
La trovò che scriveva, davanti a una specie di altarino di ampolle e di scatolette di spezieria, e le cadevan le lacrime sul foglio.
Essa non fece misteri.
Sentiva da due giorni dei sintomi così sicuri della sua fine che s'era decisa a scrivere le sue disposizioni testamentarie.
La Varetti sorrise allora per la prima volta nella giornata.
Ma se il testamento era comico, la testatrice era spaventata e afflitta davvero, e la sua compagnia non le poteva giovare.
Essa la lasciò e tornò nella propria camera, a contare il tempo quarto d'ora per quarto d'ora, ai rintocchi dell'orologio della chiesa.
Si riscosse verso le quattro e andò dal maestro Garallo per esporgli lo stato delle cose e domandargli se non credesse opportuno d'avvertire i carabinieri che passassero anche quella sera davanti alla scuola.
Lo trovò che trincava tutto solo, un po' eccitato, forse meno dal vino che da qualche buona notizia finanziaria del mondo scolastico.
Egli non si mostrò del suo avviso.
"Se noi" disse "diamo alla scolaresca l'abitudine di vedere i reali carabinieri alla porta, faremo indubbiamente seguire un disordine la prima volta che non verranno.
E poi ne andrebbe del prestigio della scuola.
Non bisogna mostrar diffidenza del popolo."
Però, non disconosceva la gravità delle cose.
E dopo cinque minuti d'incertezza, prese una risoluzione eroica.
"Questa sera" disse alzandosi, e piantandosi l'indice al petto "comparirò io."
E la maestra se n'andò, alquanto riconfortata.
Ma sul far della notte le rinacquero l'ansietà, la tristezza e la paura.
Non poteva staccarsi dalla finestra, di dove guardava quel viale solitario, come per domandargli che cosa sarebbe accaduto quella sera sotto i suoi alberi, e le pareva di mal augurio quella nebbia folta che copriva ogni cosa, non lasciando che veder confusamente l'albero più vicino alla scuola.
I rintocchi della campana che suonava le ore, lo strepito cupo delle macchine degli opifici, il suono lontano dell'officina del fabbro, la lanterna rossa della Gallina che ardeva in fondo come un occhio sanguigno, tutto le pareva tetro e minaccioso, e le rammentava quei paesaggi sinistri dei cartelloni dei mercati, dove son dipinte scene d'assassinio, che le facevano una così profonda impressione quand'era bambina.
A una cert'ora sentì il bisogno d'andar a pregare.
Non si mise che un cappuccio, attraversò il viale a passi furtivi, entrò nella chiesa e s'inginocchiò accanto a un pilastro.
La chiesa era oscura: non luccicava che una lampada davanti all'altar maggiore: alcune donne erano inginocchiate qua e là: si sentiva in fondo il passo sonoro del sacrestano.
Essa pregò, ricordò sua madre, invocò suo padre che le desse animo, e le parve che egli l'esaudisse.
Pensò dopo ai tanti esempi di fortezza e di coraggio, tolti dalla religione e dalla storia, che ella aveva tante volte raccontati o letti ai suoi piccoli alunni, con l'ardore di chi si sente capace di imitarli, e si vergognò, pensando che era una così misera cosa appetto a quelle la virtù che a lei occorreva; che non aveva se non da tener con dignità il posto suo; che non correva nessun pericolo nella sua persona, e che, infine, la paura era viltà in un insegnante quanto in un soldato.
"Coraggio!" disse risolutamente rialzandosi, e rinfrancata, impaziente d'affrontar la paura, s'avviò per uscire.
Arrivata alla bussola, mentre alzava la cortina pesante di quella specie di camerino ch'era tra lei e la porta, si vide davanti un uomo.
Riconobbe subito il Muroni e tremò all'idea d'esser sola con lui in quel luogo chiuso ed oscuro.
Ma si rincorò sull'atto, pensando ch'era impossibile ch'egli tentasse una violenza lì, nella chiesa.
E andò innanzi.
"Signora maestra" disse il giovane con voce triste e ferma ad un tempo "preghi per me."
Essa voleva rispondere; ma non le venne la voce.
Nello stesso punto si sentì prendere una mano, con riguardo, come da chi non vuol altro che dare un saluto; ma nel fare uno sforzo per svincolarla, ella ebbe una contrazione alle dita, che strinsero quelle di lui, e le rimase ancora tanta chiarezza di mente da comprendere che l'atto ch'egli fece subito dopo non era premeditato, ma imposto da un improvviso ribollimento del sangue, suscitatogli dalla sua stretta.
In un baleno, si sentì serrata alla vita, poi alle braccia, poi alle spalle, e respirò l'alito di quella bocca che cercava il suo viso: resisté con tutte le sue forze puntandogli le mani sul petto, si contorse, si dibatté, cercò di sfuggirgli inginocchiandosi, udì la sua voce rauca: "Un bacio...
un bacio...
un bacio, nel nome di Cristo!" La lotta durò qualche momento disperata, in quel buio odorato d'incenso, rotta da aneliti ardenti e da singhiozzi strozzati...
Quando sonò un passo vicino, dentro la chiesa: egli la lasciò, ella si lanciò fuori.
Aveva appena infilato il viale, raggiustandosi il cappuccio con le mani convulse, che risentì la voce di lui nella nebbia, dietro di sé, una voce angosciata e supplichevole: "Mi perdoni.
Sono stato un vigliacco.
Non lo farò mai più; lo giuro sull'anima mia!".
Ma essa non si voltò, corse alla scuola, salì in furia nella sua camera, cadde in ginocchio davanti al ritratto di suo padre, e scoppiò in singhiozzi.
Ma un presentimento confuso che quello dovesse essere il loro ultimo incontro, e che ci fosse per aria qualche cosa di più grave di quella nuova violenza fatta a lei, la distolsero anche questa volta dal fare qualunque passo.
Non solo, ma al momento di presentarsi alla scuola, ella si ritrovò assai più coraggio che non avesse sperato, forse per effetto appunto di quel presentimento, che le annunziava una fine, qualunque fosse, dei suoi affanni.
Nel corridoio, mentre gli alunni entravano, il cantoniere la fermò, e le disse con la faccia inquieta: "Si riguardi, signora maestra, perché...
ho sentito certi discorsi: ha da essere una serataccia".
Entrò: la classe era completa, nonostante il freddo e la nebbia fittissima che copriva la campagna come un'immensa nuvola di fumo.
Ella sentì un tanfo più forte del solito di pipa, di grasso di macchina e di liquori.
Quando salì sul palco e si voltò verso la scolaresca, si fece un silenzio inusitato, e tutti la guardarono con un'espressione nuova di curiosità.
E in fatti, il turbamento di tutta quella giornata, il pianto di poco prima, la stanchezza che da vari giorni l'opprimeva avevano affinato e ingentilito ancora il suo bel viso di grande bambina, del quale faceva apparir più pura la bianchezza delicatissima un vestito di lana nera; e v'era nella sua persona alta ed esile come una grazia languida di malata, che la rendeva più bella delle altre sere.
Girando uno sguardo rapido sulla scolaresca, vide che non mancava nessuno dei suoi tormentatori, compreso il Muroni.
Era appena seduta quando s'aperse l'uscio e si presentò il maestro Garallo.
La maestra, che disperava già ch'ei mantenesse la sua promessa, si rallegrò.
Al modo com'egli entrò scotendo la grossa testa chiomata, pestando i piedi e fulminando occhiate sui banchi, c'era da prevedere che avrebbe fatto alla scolaresca un'ammonizione terribile.
Salito sul palco, infatti, parve per qualche momento quasi soffocato dallo sdegno e dal peso delle parole solenni che doveva dire.
Poi disse col tono della più affabile familiarità: "Cosa ho inteso dire, figliuoli, che ci sono dei malumori fra voialtri? Questo mi dispiace...
e non dev'essere.
Che diavolo! Chi ha da esser d'accordo a questo mondo, se non sono d'accordo gli operai? E poi, pare che non vi portiate abbastanza bene.
Non capisco perché.
Nella mia classe stanno che è un incanto.
(In quel momento si sentiva il baccano dei suoi scolari.) Tanto meglio vi dovreste portar voi per rispetto e per riguardo alla signora maestra.
Andiamo dunque, state buoni e non ci date dei dispiaceri...
se non ne volete avere anche voialtri.
E ricordatevi bene" concluse con uno sguardo molto espressivo "che soltanto con la concordia e con l'istruzione la classe operaia potrà maturare i suoi destini".
Lanciata questa frase che nessuno capì, egli se n'andò con quattro salti.
Qualcuno dei ragazzi rise; i grandi rimasero muti e indifferenti.
La maestra, un po' delusa, incominciò la lezione.
Con suo stupore, la classe stette in un silenzio insolito e da principio essa ne fu contenta.
Ma poco dopo s'inquietò appunto di quel silenzio.
Vide su molti visi come un'aspettazione meditabonda di qualche cosa che dovesse accadere tra poco, e che fosse immancabile, il pensiero fisso d'un'azione concertata da un certo numero di alunni; fra i quali e il Muroni, più stravolto dell'usato, s'incrociavano continui sguardi indagatori.
Perfino quel bruto di zio Maggia, così cocciutamente attento alla lezione tutte le altre sere, le pareva divagato e inquieto.
Pur troppo, dunque, i suoi presentimenti non l'avevano ingannata.
Ma quello che le dava più pensiero era la faccia di bronzo del piccolo Maggia, sulla quale appariva un'aria di sfida, il riso spavaldo e tristo del discolo senza coscienza e senza cuore, che si sente spalleggiato e aizzato a commettere una cattiva azione, e che ne pregusta la gioia velenosa e la gloria infame.
Per la prima volta egli scansava il suo sguardo, abbassando gli occhi diabolici quando ella lo fissava, e nascondendo il sorriso malvagio dietro la mano sporca, con cui si tormentava la lanugine del labbro di sopra.
Passò per la mente alla maestra che la combriccola avesse incaricato lui di farle a un certo momento un'offesa grave, per provocare Saltafinestra.
Nondimeno, una gran parte della lezione passò senza disordini.
Avevan forse fissato di fare il colpo verso la fine, perché il conflitto inevitabile potesse seguire quasi immediatamente la provocazione.
Non ci fu che un incidente notevole, una breve discussione letteraria fra la maestra e il Lamagna, a proposito d'una parola che quei aveva usato nel componimento.
Aveva scritto: ""Entrò in quel momento un altro sfruttato"." Alla maestra, digiuna del linguaggio socialistico, quel participio buttato là come sostantivo, per esprimere il concetto di "operaio salariato, sfruttato dal padrone" non riusciva intelligibile; e alla spiegazione che il Lamagna le diede, ella fece qualche obbiezione, puramente grammaticale, che quegli accolse con un sorriso di compatimento rispettoso.
Infine, quando non mancava più che un quarto d'ora all'uscita, visto che da vari banchi si facevano dei cenni d'incitamento al piccolo Maggia, presa da timore, ebbe l'idea di prevenire quel che doveva succedere, scendendo coraggiosamente tra i banchi e avvicinandosi in aria benevola al ragazzo, per guardare il suo quaderno.
Pensava che quell'atto cortese l'avrebbe forse distolto dal suo proposito.
Riuscì infatti a impedire quello che era stato disegnato, ch'era di gettare un oggetto indecente sul suo tavolino; ma avvenne di peggio.
Mentre essa stava china sul banco, toccando quasi col capo il capo di lui, questi le passò un braccio intorno alla vita.
Sonò una gran risata su vari banchi.
Ella si svincolò, mettendo un leggiero grido; il Muroni balzò ritto sul banco per avventarsi sul ragazzo.
"Muroni!" gridò la maestra con tutta la forza che poté raccogliere.
"Stia al suo posto!"
Il Muroni si rimise a sedere, addentandosi un pugno.
La maestra ordinò al ragazzo d'uscir dalla scuola.
Questi prese i suoi libri, e se n'andò dimenando le spalle: ma si voltò ancora sull'uscio a lanciare uno sguardo di scherno al Muroni che, digrignando i denti, gli fece un cenno con la mano tesa: "Aspetta".
La maestra tornò al suo posto, senza sangue nelle vene, e presa da un violento tremito, non tanto per l'affronto ricevuto, quanto per le conseguenze immediate che ne prevedeva.
Un silenzio profondo, che la impaurì, succedette nella classe.
Tutti i visi s'eran fatti seri.
Il Muroni aveva un'espressione d'odio e di risoluzione, da cui si capiva che nessuna parola umana l'avrebbe potuto rimuovere.
Il rimanente della lezione passò per lei come un sogno angoscioso.
Sentì sul viale lo zufolìo canzonatorio del piccolo Maggia, che doveva esser poco lontano dall'uscio.
Avrebbe voluto mandare il cantoniere a chiamare i carabinieri, avrebbe voluto mandare a chiamare il maestro, avrebbe voluto ordinare al Muroni di rimanere nella scuola; ma non poté far nessuna di queste cose: il suo male organico, quella terribile debolezza della spina che le toglieva la volontà, il movimento, la voce, l'aveva presa dalla nuca alle reni e la paralizzava e la istupidiva e le dava il senso d'un'agonia.
Il tintinnio della campanella che annunciò la fine le fece l'effetto d'una squilla che annunciasse il momento della sua morte.
Si lasciò cader sulla seggiola e appoggiò il capo sopra una mano.
Il Muroni fu il primo ad uscire o piuttosto a sparire, attraversando la scuola come un fulmine.
Tutti gli altri si precipitarono fuori in gran disordine, gli uni per andar a difendere il Maggia, gli altri per andar a vedere, i più prudenti per non trovarsi sul terreno della lotta.
La maestra vide passar fra questi, come un'ombra, il Perotti e il suo figliuolo, ed ebbe la forza di chiamarlo: "Perotti!" per raccomandargli che s'intromettesse; ma quegli scappò senza rispondere, tirandosi dietro il ragazzo spaventato.
In quel punto sentì delle grida acute sul viale, e un momento dopo vide entrare nella scuola già vuota il cantoniere, col viso bianco, forse per rifugiarsi.
"Cos'è stato?" domandò la maestra.
"Saltafinestra ha rotto la faccia al piccolo Maggia" rispose lui, e scappò via per non ricevere l'ordine d'accorrere fuori.
Si sentiva intanto sul viale un frastuono confuso di grida e di passi concitati.
La maestra uscì dalla scuola, tenendosi ai muri, e salì nella sua camera, dove udì le voci di spavento della Baroffi e della Latti dalla camera vicina.
Le grida e i passi di fuori pareva che s'allontanassero.
Riprendendo animo, corse ad aprir la finestra e s'affacciò.
La nebbia fittissima nascondeva ogni cosa.
Essa vide per terra, davanti alla scuola, al chiarore del lampione, dei cappelli sparsi e un randello.
Più in là era un'oscurità densa e misteriosa, da cui uscivano delle grida come spente, che ora parevan lontane ora vicine, come di gente che s'inseguisse girando "Di qui!" "Piglia di là!" "Addosso!" "Boia!" "Avanti!" "Bucatelo!" Tre o quattro ombre passarono correndo davanti alla scuola e disparvero dietro la chiesa.
La maestra sentì dei colpi secchi e sinistri come di randellate sopra un cranio; poi un grido altissimo, lamentoso, furibondo come il ruggito d'una belva trafitta: "Assassini!" poi altre grida affannose: "Via!" "Alla larga!" e vide altre ombre passar di volo nella nebbia, sotto la sua finestra, ed altre un momento dopo, in cui le parve di distinguere i cappelli dei carabinieri.
Poi non vide più nulla, e seguì un silenzio di morte.
Allora si spiccò dal davanzale, senza pensare a chiudere i vetri, e barcollando e premendosi una mano sul cuore, corse al suo letto e vi si lasciò cadere, sfinita.
Un momento dopo sentì entrare la Baroffi, affannata, che le fece con accento drammatico molte domande, a cui essa non rispose.
Quella l'aiutò ad alzarsi, e andarono insieme all'altra finestra, che dava sul cortile, dove suonavano varie voci: apersero: udirono il maestro Garallo che incoraggiava il cantoniere ad andar a prender notizie, ripetendogli che tutto era finito.
Ma quegli ricalcitrava, rispondendo: "Eh sì, mi possono ancora prendere...
come testimonio." Il maestro bestemmiava, dandogli ogni specie di titoli, ma non il buon esempio.
Tornarono all'altra finestra.
Sul viale, nella nebbia, si vedeva un andare e venire di lumi, si sentiva il mormorio di molta gente.
A un tratto scoppiarono le grida e i singhiozzi disperati d'una donna.
La Varetti riconobbe quella voce e s'abbandonò fra le braccia della sua amica che la portò quasi sul letto.
Di lì a pochi minuti si rifece un gran silenzio.
La maestra Baroffi tornò alle sue domande: dovevano aver ferito o ammazzato qualcuno.
"È accaduto qualche cosa nella scuola? Come è cominciata la lite? Chi è stato?..."
"Non so nulla" rispose la Varetti tremando; "non posso parlare, non mi dir nulla!"
La sua amica tornò ad affacciarsi alla finestra del viale ed esclamò: "Oh Dio mio!...
Hanno mandato a chiamare il parroco!".
La Varetti si mise a piangere.
In quel punto picchiarono all'uscio.
Erano il maestro e la maestra Garallo che domandavano il permesso d'entrare per dare e chieder notizie.
La Baroffi li avvertì che tacessero, accennando la sua amica curva sul letto.
Ma il maestro disse con la sua voce di basso: "Hanno ferito Saltafinestra.
Ci son vari feriti".
Però, udendo pianger la Varetti, si ritirarono tutti e due per andare ad assister la Latti che s'era messa in letto, dicendo che era venuta la sua ora.
Le due maestre rimasero un po' di tempo in silenzio.
Tre colpi vigorosi battuti sull'uscio del cortile le riscossero tutte e due.
Sentirono la voce del cantoniere che parlamentava di dentro prima di decidersi ad aprire.
"Presto!" gridò una voce di donna impaziente.
"Una missione del signor parroco!"
La Varetti sentì per istinto che la commissione era per lei, e indovinò quale fosse, e per uno di quei rivolgimenti istantanei che seguono nelle anime buone e nobili alla voce d'un grande dovere, si sentì fuggire tutt'a un tratto debolezza, paura, ribrezzo, e con uno slancio generoso gridò: "Vado!" e afferrato il suo cappuccio, discese correndo, seguita a fatica dalla sua compagna.
Era quello che aveva pensato.
La donna veniva da parte del parroco e della madre del Muroni a supplicarla d'andare al letto del ferito.
"Son qui!" rispose la ragazza, e lasciando il cantoniere stupito del suo coraggio, senza rispondere alla Baroffi che le raccomandava di dir qualche bella parola, si slanciò sul viale, con la donna.
Essa correva tanto, che la donna, con la lanterna alla mano, stentava a tenerle il passo.
Correvano senza parlare.
Passarono nella nebbia vicino a vari gruppi di curiosi, che giravano qua e là per il viale, guardando in terra, in cerca delle traccie di sangue, e commentando l'avvenimento.
Arrivate in fondo, videro una folla davanti all'osteria della Gallina, e svoltando nella strada, capannelli alle cantonate e davanti agli usci aperti e rischiarati.
Di fronte alla macelleria incontrarono due carabinieri che conducevano uno ammanettato, accompagnati da molta gente, che faceva un gran mormorio.
La Varetti voltò il viso da un'altra parte; la nebbia impedì alla donna di riconoscere l'arrestato.
"Ah! ne hanno preso un altro!" esclamò.
"Assassini! Dieci contro uno si son messi!" La casa del Muroni era accanto alla tabaccheria.
La maestra la riconobbe, prima di vederla, dalla molta gente che v'era aggruppata davanti, e che s'aperse in due ali, guardandola con viva curiosità, per lasciarle il passaggio.
Passando, udì alcune parole che la fecero rabbrividire.
"La punta del coltello" diceva una voce "ha intaccato il midollo della spina, capisci; non c'è più niente da fare." Messo appena il piede sulla scaletta, essa intese su al primo piano i singhiozzi della vecchia, e fu per mancarle l'animo; ma vinse quel momento di debolezza.
Salì affrettatamente, vide un uscio aperto ed un lume, entrò difilata.
La vecchia le corse incontro come una pazza, agitando le mani, singhiozzando: "Mi muore! Mi muore! Dio di misericordia! Provi lei! Ha buttato via il crocifisso! Mi muore come un disperato! Gli salvi l'anima lei, per l'amore di Gesù, per l'amore dei suoi morti, gli salvi l'anima lei se la riconosce ancora!".
La maestra si slanciò in una piccola camera nuda e bassa, e vide il ferito sul letto, stravolto e bianco, coi segni della morte nel viso, coi capelli scarmigliati, con la camicia macchiata di sangue; il quale si dibatteva, furioso, sacrando, arrotando i denti, respingendo da sé il parroco che gli porgeva il crocifisso, vibrando i pugni per aria, trafelato, già preso dalla paralisi che gli levava il respiro.
In un angolo, il grosso medico biondo si lavava tranquillamente le mani in un secchiolino.
Per tutta la camera v'era un orribile disordine di coperte e di cenci sanguinosi.
Il piccolo vecchio prete, con un'aria rassegnata, fra un tentativo e l'altro di far baciare la croce al morente, l'andava ripulendo con una mano dalla polvere che le si era attaccata sull'ammattonato, dove quegli l'aveva sbattuta con un manrovescio.
La maestra s'avvicinò arditamente al capezzale.
Appena la vide, il giovane si quetò tutt'a un tratto e le fissò in viso gli occhi già velati come da una sottilissima foglia di vetro inumidito, e stette a guardarla con un'espressione di profondo stupore.
La madre, ritta accanto a lei, disse singhiozzando: "Figliuol mio! Guarda, figliuol mio: è la tua maestra.
Non la riconosci?".
Il parroco colse quel momento per riavvicinare il crocifisso al suo viso; ma egli lo respinse con un atto iroso della mano, senza staccar gli occhi dalla maestra.
Un leggerissimo sorriso gli brillò negli occhi e sulla bocca, e, ansando, tendendo una mano incerta verso di lei, pronunciò qualche parola confusa.
"Mio Dio!" esclamò la madre giungendo le mani.
"Ha detto mio Dio!"
Non aveva detto mio Dio.
La maestra sola aveva capito le sue parole perché, con tutt'altra voce, in tutt'altri momenti, gliele aveva già udite dire più volte.
"Mi dia un bacio" aveva voluto dire.
E in quel momento la prese una immensa pietà e una tenerezza infinita pensando ch'egli moriva per lei.
Essa pigliò con una mano la sua mano sinistra, e posandogli l'altra sulla fronte, si chinò, e lo baciò sulla bocca.
Quando rialzò il capo, lo vide mutato.
Egli aveva sul viso una espressione quieta e buona di riconoscenza.
Lentamente, senza lasciar la mano della maestra, né cessar di guardarla, stese l'altra mano verso il prete, prese il crocifisso, se lo avvicinò alla bocca, e lo baciò; poi se lo strinse al petto.
La madre gettò un grido di gratitudine a Dio e cadde in ginocchio, abbandonando il capo sul fianco della ragazza.
E il ferito, continuò a tener la mano di lei nella sua e a fissarle gli occhi negli occhi, fin che spirò.
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