LA MAESTRINA DEGLI OPERAI, di Edmondo De Amicis - pagina 3
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La Latti, passando poco prima per il paese, aveva inteso un garzone muratore dire al suo compagno, strizzando un occhio: "Di', domani abbiamo la maestrina".
E scherzò con l'amica a quel proposito.
Ma il suo buon umore era un'eccezione alla regola.
La piccola Latti aveva una monomania malinconica, che non lasciavan punto sospettare il suo corpicciolo grassotto e il suo visetto nero e vivo di gitanella: si credeva sempre malata, d'una malattia che cambiava ogni quindici giorni; aveva in camera sua un'intera farmacia, portava sempre in tasca pillole e polveri, sapeva a mente Il medico di se stesso, cercava le ricette nelle quarte pagine dei giornali, teneva corrispondenza epistolare con un clinico di Torino, e, fra gli altri malanni, era tormentata da una tosse perpetua, o meglio da un sospetto perpetuo d'aver la tosse, che le faceva far dei continui sforzi d'esperimento, come un cantante che abbia perduto la voce.
Alle sue alunne dava spesso per tema delle lettere in cui si doveva consolare dei malati lontani o parlare d'una malattia propria.
Ogni tanto, cominciando la lezione, diceva: "Bambine, questa è una delle ultime lezioni che vi dà la vostra povera maestra!".
Passando con le amiche davanti al camposanto, sospirava: "Lì sono aspettata!".
Le scolare astute non avevan che a andarle attorno e dirle: "Cos'ha, stamani, signora maestra, che è così pallida?" e lei, anche stando bene, era presa da un'orribile agitazione.
Del resto, buona come il pane e superiore a tutte le piccole miserie e passioncelle del mondo scolastico, come chi crede d'esser già più di là che di qua.
Era figliuola d'una guardia civica.
La Varetti non rispose ai suoi scherzi.
Allora la confortò la maestra Baroffi.
"Io t'invidio" le disse con la voce grossa, alzando il suo viso paffuto e sbiancato di madre nobile, coronato d'una capigliatura poeticamente scomposta, e guardando sopra il capo all'amica, come se parlasse a una persona ritta dietro di lei.
"Tu potrai studiare il popolo: un bel soggetto di studio, che non fu mai sviscerato.
Potrai fare del gran bene.
Io vorrei essere al tuo posto e credo che ne farei quello che vorrei di quella classe.
La Garallo non li capiva, non sapeva toccare le corde...
Non ha il dono della parola, insomma.
Ma una ragazza d'ingegno e di cuore deve riuscire a dominarli in quattro lezioni."
La Varetti scosse il capo in atto incredulo.
"Tu sei troppo teorica" le disse.
Era così.
Non ostante le sue trent'otto primavere, quella credeva ancora all'operaio dei libri di lettura che canta le gioie della povertà onesta e compiange i ricchi affollati di cure.
Tutta immersa nella letteratura, non aveva alcuna conoscenza pratica della vita, nessun fondamento d'osservazione fatta direttamente sugli uomini e sulle cose; ma solo un emporio disordinato e bizzarro di sentenze di libri, di concetti convenzionali e di frasi coniate, che combinava continuamente in mosaico per le sue conferenze ideali.
La conferenza era in lei un vero furore cefalico, a cagion del quale avendo trascurato la scuola, s'era fatta relegare dalla città a Sant'Antonio, dove soffriva di nostalgia letteraria, con l'animo sempre rivolto a Torino, campo delle sue piccole glorie passate, come a un paradiso perduto.
Giungeva a tal segno la sua passione, ch'essa non poteva vedere un tavolino e una seggiola senza pensar subito a una conferenza; avrebbe tenute delle conferenze agli alberi del viale; faceva degli esperimenti oratori da sé, nella sua camera; non pensava quasi ad altro; tutto quello che le entrava nel capo dalla conversazione o dai libri vi pigliava forzatamente la forma di un discorso accademico, come certe materie pigliano una data forma in una data macchina.
E in questo ella offriva un caso davvero curioso di cleptomania letteraria, poiché per istinto, innocentemente, non faceva che levar la marca ai pensieri altrui e metterci la propria, come la cosa più naturale del mondo: pigliava, per esempio, una conferenza d'un altro, la rovesciava, e la faceva sua, senza metterci altro di suo che una certa tinta uniforme lirico-pedagogica, che soleva dare a ogni cosa, e l'intonazione affannosamente drammatica con cui la leggeva, quando poteva, gesticolando come un naufrago che chieda soccorso.
Aveva, anni addietro, pubblicato un polpettone di libro di lettura che era da capo a fondo un vero e proprio magazzino d'oggetti di furtiva provenienza, sul quale aveva fatto stampare: "diritti di proprietà riservati" ed ora, in quel suo romitaggio, andava accumulando i frutti d'un vasto e infaticato saccheggio, per quando sarebbe ritornata a Torino.
Era soltanto impensierita della pinguedine crescente e del raffittire dei capelli grigi, che, secondo lei, avrebbero nociuto alquanto ai suoi buoni successi avvenire.
L'osservazione della Varetti la punse un poco.
"Non son teorica" rispose.
"Ho più esperienza di te e conosco il popolo meglio di te, e ho osservato che al popolo, agli operai particolarmente, non si sa insegnare.
L'operaio è ingenuo perché è incolto, e buono perché lavora, e per questo è facile a tutti gli entusiasmi.
Bisogna dunque toccarlo nel sentimento patrio, nell'amore del bello e del grande; bisogna fargli brillare alla mente gli ideali della gioventù, col linguaggio della fanciullezza.
Ed è questo che non si sa fare, e che io farei, cara amica."
"Dio mio!" rispose con tristezza la Varetti.
"Quando ti fanno un insulto sul viso, serve di molto rispondere con gli ideali!"
"A me," ribatté l'altra, "l'insulto non lo farebbero."
La discussione, che s'inaspriva un po', fu interrotta in buon punto dalla maestra Latti, la quale dopo aver mangiato come un lupicino, lasciò cadere a un tratto la forchetta esclamando: "Quest'appetito mi sarà fatale!".
Le sue compagne sorrisero.
"A proposito," disse la Baroffi, "m'ha detto il Garallo che s'è venuto a far iscrivere Saltafinestra."
Lo conoscevan tutte di fama.
La Varetti accennò che lo sapeva.
"Eccone uno, per esempio," soggiunse la conferenziera "che io mi sentirei di far piangere come un bambino."
"Ti vorrei vedere" disse la Varetti
"E mi vedresti" rispose quella, scotendo la capigliatura.
"Alle volte, quei demoni scatenati, che fanno paura a tutti, hanno dei cuori di fanciulli.
Non c'è che a trovar la via d'arrivarci, e la parola può tutto.
Guarda come li tiene il Garallo."
Questi faceva la seconda classe della scuola serale.
Ma l'esempio non calzava perché nella seconda non c'erano uomini fatti.
La Varetti, d'altra parte, non credeva punto c'egli tenesse la disciplina come se ne vantava.
Egli soleva dire: "Nella mia classe si sentirebbe il volo d'una mosca," e lei, la sera, dalla sua camera, sentiva un baccano dell'altro mondo.
"È un'altra cosa," entrò a dire la maestra Latti, che aveva ricominciato a mangiare; "il Garallo è repubblicano; gli è più facile di tenerli; il popolo ha simpatia per i repubblicani."
Ma la Mazzara negò.
Il Garallo era repubblicano di principii e di cuore; aveva in casa i ritratti del Mazzini, di Aurelio Saffi e di Alberto Mario; suo padre era stato mazziniano; egli si serbava fedele agli ideali di suo padre; ma in iscuola non faceva propaganda; si asteneva soltanto dalle adulazioni e dalle bugiarderie obbligatorie.
"Già, è un repubblicano silenzioso," osservò la Varetti, "che si guarda bene dal compromettersi.
La propaganda non entra nei suoi conti."
Quel gioco di parole involontario fece ridere le altre due.
Il maestro Garallo e sua moglie eran conosciuti come i due più appassionati computisti del corpo magistrale, facevan calcoli infiniti sugli stipendi e sugli aumenti quinquennali propri e degli altri, erano occupati di continuo in questioni di contenzioso scolastico finanziario, studiano sui bollettini del Monte delle pensioni, su quelli della Cassa Società degl'insegnanti, sulle relazioni della Cassa pensioni del Municipio, meditando proposte e osservazioni da far nelle adunanze, registrando le "liquidazioni" dei loro colleghi, discutendo il bilancio del Ministero d'istruzione pubblica, movendo lamentazioni interminabili, a due voci, sopra ogni aumento di spesa che si facesse sugli altri bilanci dello Stato.
Non uscivan quasi mai dalla loro buca, e si diceva che impiegassero tutte le serate in cómputi e ragionamenti di quella natura, sgranocchiando in mezzo alle cifre i salami e le ricotte che ricevevano in dono dai parenti dei loro scolari.
Le maestre Latti e Baroffi celiarono per un pezzo su quell'argomento e stavano appunto dicendo che i due coniugi sapevano a menadito stipendi, indennità ed incerti di tutti i maestri del mondo, da Pietroburgo alla California, quando la Varetti sentì nel corridoio il passo del Garallo che s'arrestò davanti all'uscio del suo quartierino.
Mentre essa s'alzava per andare da lui, sentirono picchiare invece all'uscio della Baroffi, la quale corse ad aprire e fece entrare il maestro, che aveva un gran foglio tra le mani.
Era una strana figura: poco più che quarantenne; piccolo di statura e tarchiato, una enorme testa con una gran capigliatura nera arruffata, la faccia pallida e seria, con due baffi corti e irsuti, gli occhiali affumicati, una voce di basso.
Non volle sedere.
Veniva, mandato dalla moglie, a portare alla Varetti l'elenco degli iscritti alla sua scuola serale.
La maestra prese il foglio e vi diede un'occhiata: eran quaranta.
Guardò l'ultimo nome.
Ahimè! Era il Muroni, Saltafinestra.
Il Garallo tirò fuori un altro foglio più piccolo, nel quale eran divisi gli alunni in due sezioni: quelli che sapevan già leggere e scrivere alla meglio e quelli che incominciavano.
"Saprà" disse "che c'è un nuovo iscritto."
La maestra rispose che l'aveva visto.
"Non se ne dia pensiero" le disse il maestro con voce burbera, notando il suo viso inquieto; "quello lì e gli altri si fanno rigar dritto tutti a un modo.
Non bisogna far delle frasi, né lasciarsi andare al sentimento.
Ci vuol franchezza e energia, e mostrar di non temer nessuno.
Il popolo ama i caratteri forti e franchi.
Io li tengo tutti nel pugno, i miei, e non rifiatano.
In ogni caso, se succedesse qualche cosa, mi mandi a chiamare: non avrò che a farmi vedere."
La Varetti lo ringraziò, con un leggerissimo sorriso ironico; il maestro augurò la buona sera e s'avviò per uscire.
Arrivato all'uscio, si voltò a dare alle colleghe una buona notizia.
Pareva che, finalmente, il Ministero si fosse deciso ad accordare una riduzione sui biglietti ferroviari agli insegnanti elementari.
"Era tempo," disse, e uscì.
La Varetti e la Latti diedero la buona notte all'amica e rientrarono nelle loro camere nel momento che il cantoniere sprangava l'uscio del cortile; e la casa solitaria rimase in un profondo silenzio.
La mattina dopo, mentre stava per scendere alla scuola dei bimbi, la Varetti ricevette una visita inaspettata: la madre di Saltafinestra.
Questa entrò timidamente nella camera, inchinandosi, come davanti a una gran signora, e, nel girare gli occhi intorno in aria di curiosità rispettosa, parve un momento stupita di vedere appeso a una parete il ritratto d'un ufficiale.
Era una piccola donna tozza, con un fazzoletto giallo sul capo, che lasciava vedere i capelli grigi; vestita da contadina, pulita: un viso d'anima in pena, con una ruga diritta in mezzo alla fronte, e due occhi inquieti e luccicanti, in cui pareva avesse due lacrime fisse, come cristallizzate.
Cominciò con una domanda singolare, a bassa voce, come se parlasse in un confessionale: domandò alla maestra se sapesse per qual motivo il suo figliuolo si fosse deciso ad andar alla scuola serale.
La maestra si maravigliò della domanda.
Che ne poteva saper lei? E il sospetto che la donna supponesse una relazione, anche solo di parole, tra lei ed il giovane, le fece salire il sangue alle guance.
Allora, con voce tremola, parlandole piano, quasi nell'orecchio, la vecchia le raccomandò il figliuolo caso mai non si fosse portato bene e avesse commesso qualche...
imprudenza, pregava la signorina di compatire, fin che poteva, di non prenderlo di punta...
per via del suo carattere.
Con tutte quelle ch'ei le aveva fatto, ella mostrava ancora di credere che fosse piuttosto pervertito dalle cattive compagnie, che tristo di fondo.
Ma la verità le uscì di bocca a malgrado suo, quando vide nella ragazza un'espressione fuggevole di compassione.
"Ah! Signora maestra!" esclamò, giungendo le mani.
"Se sapesse che vita è la mia! Quel figliuolo che gli darei tutto il mio sangue! Santa Maria benedetta! Dire che dai tredici anni in su non s'è più voluto confessare né comunicare!".
E si mise a piangere.
Sì, le sarebbe parso poca cosa tutto il resto, se solamente fosse voluto andare a messa la domenica.
Anzi, era venuta apposta per questo.
Se la signora maestra, facendo lezione, così alla lontana, a poco a poco, gli avesse potuto insinuare un po' di religione, un poco di timor di Dio, con quelle parole che le persone istruite sanno trovare, avrebbe fatto un'opera santa, e lei l'avrebbe benedetta per tutta la vita.
Qui s'interruppe per avvicinarsi alla finestra e guardar sul viale, senza mettere il viso alla vetrata, perché temeva che il figliuolo l'avesse vista entrare o potesse vederla uscire.
E il suo aspetto e ogni suo movimento rivelavano un affanno abituale ed antico, che s'era fatto come una malattia cronica in lei, e lasciava indovinare una storia miseranda di dolori e di stenti, le notti vegliate ad aspettare il figliuolo, col tremacuore di vederselo portar ferito o cadavere, le persecuzioni e le busse toccate dal marito, il terrore continuo della giustizia umana e divina, venticinque anni di vita ch'erano stati un lungo martirio senza conforto e senza requie.
Poi tornò a raccomandare il figliuolo con parole umili, dalle quali trapelava nondimeno una certa alterezza paurosa dell'avvenenza, del coraggio, e perfino della celebrità trista di lui.
Cattivi compagni e cattive donne lo cercavano, lo volevano tutti, lo tiravano a bere e a giuocare, egli era orgoglioso, s'offendeva per una mezza parola, non aveva paura di niente al mondo...
Ma da bambino era stato buono come gli altri.
E questo ricordo la fece dare in pianto un'altra volta.
"Chi me l'avesse detto" esclamò, piangendo nelle mani aperte, "quando lo portavo in collo, che m'avrebbe straziato il cuore in questo modo!" E mentre la maestra le diceva qualche parola di consolazione, essa levò le mani dal viso e stette a guardarla in atto di gratitudine e d'ammirazione, come osservando per la prima volta la sua figura signorile e la sua voce soave.
Espresse poi il suo pensiero nell'andar via, guardandola di nuovo da capo a piedi.
"Ah! poverina!" disse "una signorina così...
dover far la scuola a tutti quegli indemoniati!" E se n'andò, dopo aver lanciato un altro sguardo sospettoso dalla finestra.
La scuola serale doveva incominciare alle otto.
Un quarto d'ora prima la maestra Varetti, guardando traverso alla vetrata, vide giù nella nebbia del viale dei gruppi neri d'operai che con le pipe e coi sigari accesi picchiettavano l'oscurità come di tanti occhi di fuoco.
S'era messa quella sera un vestito di lana color caffè, un po' grande, che le pareva il più adatto a non attirar gli sguardi sulla sua persona.
Dieci minuti avanti l'ora, venne a prenderla il maestro Garallo per presentarla alla scolaresca.
Passando pel corridoio, incontrarono il cantoniere, un vecchietto secco e nasuto, con una faccia petulante.
Il Garallo gli ordinò di tener d'occhio la classe della Varretti...
"Dentro?" domandò quegli, rannuvolandosi.
Il maestro gli rispose: "Di fuori" e l'uomo respirò.
"Dentro o fuori" disse "per me è lo stesso."
La maestra entrò col Garallo nella scuola, ch'era quella dove la Baroffi faceva lezione ai bimbi, di giorno.
Non c'erano ancora, che sei o sette alunni nei banchi in fondo; gli altri venivano entrando.
Il maestro e la maestra salirono sul palco, dov'era il tavolino, e stettero in piedi davanti alla lavagna, sotto la fiammella del gas, assistendo all'entrata.
Entravano a uno a uno, a tre, a cinque in fila, coi libri e coi quaderni in mano, gli uomini pestando i piedi per il freddo, i ragazzi facendo un gran rumore di zoccoli, e tutti, nell'entrare, volgevano uno sguardo di viva curiosità alla nuova maestra; alcuni anche si soffermavano un momento; e via via che s'infilavano nei banchi, esprimevano a bassa voce ai vicini, sorridendo, la loro impressione.
Erano alunni di ogni età, dai dodici ai cinquant'anni: operai della fabbrica di ferramenti e di quella d'acido solforico, operai d'una conceria, muratori, contadini, pastori, di quelli che scendono dalle Alpi a svernare a Torino con le bestie, per vendere latte e formaggi, o spalar la neve: capigliature irte o arruffate, barbe incolte, visi neri, cravatte rosse, camice sudicie, rozze giacchette gonfiate dalle doppie sottovesti e dalle grosse maglie, che uscivan fuor dalle maniche.
Gli uomini maturi, un po' vergognosi di venir a scuola, s'andavano a metter quasi tutti negli ultimi banchi, con le schiene contro la parete, sulla quale si vedevan delle enormi chiazze d'inchiostro, fin quasi alla vôlta.
Quando furon tutti al posto e quieti, il maestro Garallo fece con la sua voce di toro, ma con tono molto garbato, la presentazione: "Vi presento la vostra nuova maestra.
Raccomando l'ubbidienza e il rispetto".
Detto questo, uscì in fretta senz'aggiungere altro, e la maestra rimase un momento immobile, ritta in faccia alla sua scolaresca, che la guardava in silenzio.
Un osservatore estraneo avrebbe indovinato che facevan tutti un paragone mentale della nuova maestra con la precedente, la signora Garallo, una piccola e grassa trentenne, che pareva la sorella di suo marito; e avrebbe capito pure che il paragone tornava tutto a vantaggio della prima.
In quasi tutti gli occhi luccicava un sorriso, che esprimeva dei pensieri difficili ad esprimersi.
La maestra stette un po' confusa, con la vista torbida, non sapendo come principiare.
Poi sedette al suo tavolino.
In quel momento entrò Saltafinestra.
S'udì un lungo mormorio, e tutti gli occhi si rivolsero a guardar lui e la maestra; la quale, argomentando da quell'atto che tutti sapessero ch'egli veniva a scuola per lei, impallidì leggermente.
Il giovane, disinvolto e tranquillo, passò davanti al tavolino, dando alla maestra una rapida occhiata di sbieco, andò dinanzi al primo banco a destra, dov'era un posto vuoto contro il muro, e messavi una mano sopra, con una mossa agilissima vi saltò dentro, e sedette.
Per prima cosa la maestra avrebbe dovuto fare un breve esame al nuovo venuto per accertarsi che potesse stare nella sezione dei più avanzati, dove s'era messo di moto proprio; ma l'aspettazione appunto di quell'esame, che ella vide negli occhi della scolaresca, le tolse il coraggio di farlo.
Incominciò subito la lezione.
La Garallo le aveva accennato il suo metodo e il punto a cui eran rimasti.
Seguitando le sue tracce, essa si mise a scrivere sulla lavagna, con mano malferma, una serie di sillabe semplici, per farle prima leggere e poi scrivere alla sezione di sinistra: mentre questi scrivevano, ella avrebbe fatto leggere agli altri il libro di lettura.
La lezione pareva che cominciasse bene: per un po' di tempo non s'intese alcun mormorio: quelli che non stavano attenti alla lettura, parevano assorti nell'osservazione della sua persona.
Timidamente, mentre leggevano i primi a uno a uno, essa esaminò con sguardi furtivi i suoi scolari.
I più grandi stavan quasi tutti alla sua sinistra, con quelli che eran più addietro.
Le diede nell'occhio avanti gli altri, nel banco più vicino a lei, una specie d'Ercole raccorciato e ingobbito, con una testa smisurata e deforme, dalla fronte bassissima e dalla bocca di bove: una faccia stupida, in cui appariva un'ostinazione di bruto, ma che, nonostante l'espressione torva degli occhi, lasciava trapelare non so che rettitudine d'animo.
Egli prestava una profonda attenzione alle sue parole e alla lettura degli altri.
La maestra osservò che aveva per penna una chiave, con la punta per scrivere confitta nel buco.
Quando venne la sua volta di leggere, gli domandò il nome.
Quegli rispose in modo appena intelligibile: "Carlo Maggia".
Era un garzone macellaio, che aveva trentacinque anni, e ne mostrava dieci di più.
Alle prime sillabe che lesse, con una voce che pareva d'un can mastino, alcuni ragazzi dell'altra sezione cominciavano a ridere; ma a uno sguardo lento ch'egli girò sopra di loro, tacquero.
Attirò l'attenzione della maestra un altro alunno, della sezione di destra, che doveva essere il più attempato di tutti: un uomo sulla cinquantina, alto, con una folta barba brizzolata, un viso benevolo e stanco di onesto lavoratore, che la confortò.
Era un certo Perotti, operaio della conceria, che aveva nella stessa scuola, due banchi più sotto, un suo figliuolo d'undici anni, lavorante nella sua fabbrica, serio e simpatico come lui.
Scendendo con lo sguardo trovò la testa bionda d'un altro operaio, più pulito degli altri, che le fece impressione: un uomo sulla trentina, lunghicrinito e ben pettinato, con un viso signorile dal gran naso aquilino, e cert'occhietti turchini in cui brillava l'intelligenza, mista a una espressione d'orgoglio, che si fece più viva quando i loro sguardi s'incontrarono.
Da quella parte il maggior numero erano ragazzi: dei visi vivaci, irrequieti, sporchi, impertinenti, dai quali si capiva alla prima che venivano alla scuola più per godere il caldo e per fare il chiasso che per imparare.
Fra questi le destò una vera inquietudine un ragazzo sui quattordici anni, seduto all'estremità del secondo banco, un muratorino, pareva, il quale sorrise apertamente, con un'aria di familiarità punto rispettosa, quand'essa lo guardò.
Delle molte grinte di monelli ch'ella aveva visto uscir dalle fabbriche quella era senza dubbio la più invetriata: aveva degli occhi in cui scintillavano tutti i vizi, un mezzo naso voltato in su, che era un'insolenza incarnata, una bocca su cui s'indovinavano le oscenità, senza che parlasse, la pelle cinerea, il corpo lungo e scarnito, un po' curvo, e il sorriso cinico del ragazzo che ha già percorso un gran tratto su tutte le vie che menano allo spedale e alla prigione.
Da costui ella scese con l'occhio al primo banco; ma, veduto appena di sfuggita il Muroni, girò lo sguardo dalla parte opposta, volgendo l'attenzione agli alunni che leggevan tutti insieme le sillabe della lavagna, compitando e cantando come bambini che mettessero la voce in un imbuto.
S'era intanto diffuso per la scuola un odor forte che le cominciava a offender le narici: il puzzo delle pipe e dei mozziconi di sigaro spenti da poco, un tanfo misto di vino, di grasso di macchina, di pelli conce, di stalla, di scarpe fracide.
Nel coro della lettura, ella sentì che alcuni ragazzi forzavan la voce per far la burletta; ma finse di non badarvi.
Quando ebbero finito ordinò che scrivessero le sillabe sui quaderni, e si voltò all'altra sezione.
Ma prima che incominciasse, scesero dai banchi in fondo tre alunni grandi col quaderno in mano, fra i quali il Perotti, e vennero da lei, come facevano con la Garallo, a farsi chiarire dei dubbi sul componimento che quella aveva assegnato.
Un pittore avrebbe potuto fare un quadro nuovo e bellissimo col gruppo che formò per qualche momento il viso gentile di quella maestrina timida e un po' vergognosa, china sui quaderni, in mezzo alle teste rozze e scapigliate dei tre operai, chinati essi pure per osservare le correzioni.
La maestra Garallo aveva dato per lavoro una lettera di commiato d'un operaio al suo capo di fabbrica.
Quando i tre alunni grandi furon tornati al loro posto, essa ne chiamò uno a caso, scorrendo l'elenco, per far leggere un componimento ad alta voce.
Al nome Lamagna Luigi s'alzò l'operaio biondo, dai capelli lunghi.
Tutti fecero silenzio, anche nell'altra sezione, e si voltarono a guardarlo, come se aspettassero ch'egli leggesse qualche cosa di singolare.
Quegli cominciò a leggere con una certa correntezza e con un'aria di trascuranza affettata, quasi che volesse fingere di pensare ad altro.
V'eran nella sua lettera delle frasi che avevan poco che fare col soggetto, e incastratevi quasi per forza, nelle quali si mostrava più aperto l'orgoglio che la maestra gli aveva già letto negli occhi.
Questa gli fece qualche appunto grammaticale, a cui egli oppose delle obbiezioni, non con mal garbo, ma con un tono da far capire che egli voleva esser tenuto in un conto particolare, non messo a mazzo con altri.
La lettera era sottoscritta: "Lamagna Luigi, suo eguale, non servo".
Queste parole, per la maestra, furono un lampo.
Il Lamagna doveva essere certo quell'operaio socialista della fabbrica di ferramenti, del quale essa aveva inteso parlare molte volte, come d'un giovane d'ingegno ardito e bizzarro, tenuto in grande stima dai suoi compagni, a cui predicava il verbo nuovo nei crocchi, terminando ogni discorso col raccomandare l'orgoglio di classe, come principio e fondamento necessario della emancipazione avvenire.
La maestra gli fece ancora un appunto sopra una parola della chiusa, ed egli sedette, mormorando le sue obiezioni al vicino, con un sorriso dignitoso.
Fin qui, salvo qualche leggero bisbiglio, la classe si portava bene, e la maestra prendeva animo.
Fece aprire il libro di lettura, l'Artiere italiano, che tutti gli alunni di destra avevano, e lesse ella prima un periodo.
Leggendo, pensava che avrebbe dovuto a ogni costo far legger dopo di lei il Muroni, sia per rompere il ghiaccio, sia per non destare nella classe il sospetto ch'ella ne avesse paura: d'altra parte, prendendo dalla destra del banco più vicino, egli era il primo.
Fece dunque uno sforzo, appena ebbe finito di leggere, e voltandosi verso di lui, gli disse: "Rilegga".
Tutti tacquero.
Il giovane s'alzò, col libro in mano, sorridendo con l'aria vanitosa di chi sa d'essere oggetto di curiosità e di aspettazione.
Era la prima volta ch'ella fissava gli occhi sopra di lui, e n'ebbe più ripugnanza che non n'avesse mai avuta.
Quella piccola testa coi capelli femminilmente spartiti nel mezzo, quel viso quasi di ragazzo precoce, di una pallidezza livida, con due piccoli occhi neri acutissimi, d'una espressione dura e risoluta, in cui s'indovinava un'ira vendicativa senza pietà, con quella bocca stretta e senza labbra, che pareva una ferita di coltello, non guernita che di due baffetti arricciati a punta, avevan qualche cosa di feroce insieme e di lezioso, che faceva peggior senso della faccia d'un rozzo malfattore abbrutito.
Tutto il suo corpo ben proporzionato e asciutto mostrava d'aver dei muscoli d'acciaio e una sveltezza di saltimbanco.
Alla capigliatura impomatata, alla cravatta col nodo allentato che lasciava scoperto il collo fino alla fontanella della gola, ai calzoni stretti che s'allargavano a campana sul piede, ai larghi polsini di colore che coprivan mezze le mani, si riconosceva il tipo del barabba ambizioso, misto di bellimbusto e di brigante, divorato da mille appetiti e non contenuto da altro freno che da quello della povertà, pronto in qualsiasi ora a qualunque cimento e a ogni più audace birbonata.
L'atteggiamento della sua persona, impostata di sghembo, con una spalla più alta dell'altra, il balenio intermittente degli occhi, l'intonazione della voce rauca manifestavano un orgoglio smodato e selvaggio, che, non trovando altra via, si sfogava in un disprezzo beffardo di tutti e d'ogni cosa; di quei disprezzi di malfattori che vanno di sotto in su, crescendo gradatamente, dalla polvere della via dove nascono fino alla sommità d'ogni grandezza umana.
Leggendo a stento, egli fingeva d'intaccare per capriccio, non per ignoranza, e nell'alzare il viso dal libro, lanciava ogni tanto un'occhiata alla maestra, che non gli vedeva che il bianco degli occhi, e n'aveva un senso di freddo alle vene.
E benché si sforzasse, quando lo doveva correggere, non osava guardarlo nel viso; non guardava che la sua mano destra, con la quale ei teneva il libro, pensando con raccapriccio ch'era quella che aveva immerso il coltello nel fianco d'un amico.
Quando finita la lettura, egli si rimise a sedere, ella si sentì come liberata da un'oppressione del cuore.
Venuta la volta di leggere al ragazzo del secondo banco, che le aveva fatto una così trista impressione, ella capì dal modo come s'alzò e dal movimento di curiosità dei suoi compagni ch'egli doveva esser solito a provocar l'ilarità e lo scandalo nella classe; e avendo letto nell'elenco Pietro Maggia, gli domandò, con la speranza d'ingraziarselo un poco in quella maniera, se fosse parente dell'altro Maggia, quella specie di grosso bruto, ch'era nell'altra sezione.
"A l'è me barba" (è mio zio), rispose il ragazzo, con una smorfia buffa, che fece ridere i vicini.
Lo zio, intento a scrivere con la sua chiave, non si voltò.
E quegli cominciò a leggere con voce contraffatta, ch'era una sua valentia artistica, con cui imitava la voce d'un povero sciancato del sobborgo, che chiedeva l'elemosina.
Tutti i ragazzi si misero a ridere.
Ma tre o quattro degli uomini fecero segno di disapprovazione; fra i quali il Perotti, dal suo banco in fondo, gli disse aspramente: "Finiscila!".
"Perché mi manca di rispetto?" gli domandò la maestra incoraggiata da quegli aiuti.
Il ragazzo sedette, facendo l'atto d'arricciarsi un baffo.
La maestra passò ad un altro.
Quando toccò al Lamagna, avendogli detto: "Faccia sentir meglio la doppia t" quegli rispose con dignità: "Mi par d'averla fatta sentire".
Gli altri si contennero bene.
Allora essa diede il periodo da scrivere e tornò alla prima sezione.
Intanto, furtivamente, guardava di tratto in tratto il Muroni per indovinar dal suo contegno le sue intenzioni.
Egli scriveva; ma guardando lei molto spesso; e i suoi sguardi, pure non palesandole chiaramente il suo pensiero, la confermavan pur troppo nella certezza che con un pensiero egli fosse venuto, o spinto da una simpatia brutale, o per far qualche bravata, forse per una scommessa fatta coi suoi compagni, o col solo proponimento d'impaurirla e di farle dispiacere, per malvagità; o chi sa che altro.
Ogni volta ch'ei la guardava, gli guizzava un sorriso su quella bocca senza labbra, come il luccichìo d'una lama, il sorriso bieco, subdolo, fuggente di chi cova un proposito maligno.
E a ciascuno di quei sorrisi ella si turbava, tanto che doveva fare uno sforzo per non perdere il filo della lezione, e quegli se n'accorgeva, e mandava dagli occhi un lampo di compiacenza trionfante, che la turbava anche peggio.
Egli tenne però per tutta la lezione un contegno corretto, non voltandosi mai a parlar coi vicini, come se fosse tutto assorto nella sua idea.
Quelle due lunghissime ore passarono, come Dio volle.
Essendovi la doppia vacanza del sabato e della domenica, la maestra diede per compito alla sezione più avanzata una lettera a una supposta sorella lontana.
Poi raccomandò timidamente a tutti di uscire in silenzio.
All'ultime sue parole il piccolo Maggia mise un fischio sottile, che, per fortuna, passò inosservato tra il suono della campanella e il rumore che facevan tutti per apparecchiarsi ad uscire.
Uscirono in gran disordine.
Passandole davanti, il Muroni le lanciò uno sguardo, ch'essa sfuggì.
Molti degli uomini la salutarono.
Ma il maggior chiasso scoppiò di fuori.
Uscivano anche gli alunni del Garallo.
Pareva un'uscita d'un teatro popolare una sera di martedì grasso: strilli, salve di fischi, zufolii, urlate, un fracasso di zoccoli, un chiamarsi per nome a squarciagola, uno schiamazzo di domande e di risposte, in cui la maestra sentì più volte il proprio nome e dei commenti sulla sua persona, seguiti da risate clamorose, da canti, da versi d'animali, da esclamazioni buffe e da scaracchi sonori; e da tutte le parti fiammelle di zolfanelli e di carte accese sulle pipe, che offrirono per un momento lo spettacolo d'una luminaria nella nebbia.
Poi il baccano s'allontanò a poco a poco, non si udirono più che grida e canti nel sobborgo, e infine seguì un silenzio profondo.
La Varetti uscì dalla scuola assai tranquillata.
La sua classe era meno peggio di quello che si fosse immaginata; c'eran dei visi di galantuomini, che le parevan disposti a tenere in briglia i ragazzacci; e la confortava sopra tutto l'immagine di quel Perotti, sul cui viso onesto essa aveva visto quasi una promessa di protezione paterna.
Chiese poi notizie di lui al Garallo, che raggiunse per la scala, e le ebbe eccellenti.
Era un buon operaio e un ottimo padre di famiglia, che aveva lavorato da falegname prima d'entrare alla conceria, e fatto due o tre piccoli mobili assai graziosi per il museo pedagogico che il maestro si proponeva di mettere assieme.
Avevan tanta buona volontà d'istruirsi, lui e il suo figliuolo, che appena usciti dalla conceria andavano alla scuola senza mangiare, restando così digiuni per dieci ore; e il piccino, che aveva fatto la seconda elementare, correggeva ancora i lavori al padre, dopo cena.
"Vedrà" concluse il Garallo "che col popolo si sta bene.
Se poi seguiranno dei disordini, lei mi manderà a chiamare dal cantoniere, e non avrò che da affacciarmi all'uscio: tutti rientreranno nel dovere."
La maestra si ripresentò dunque alla scuola, benché turbata sempre dal timore di Saltafinestra, con assai miglior animo che non si fosse presentata tre giorni avanti.
Ma s'accorse pur troppo fin da principio che, non più distratti dalla curiosità ch'essa aveva destata la prima sera, e anche perché avevano indovinato la sua indole timida, i ragazzi non si sarebbero più frenati come l'altra volta.
Ella sentì delle risate represse, e capì che qualcuno doveva far dei gesti sconvenienti alle sue spalle, mentre stava alla lavagna a scriver le sillabe.
I ragazzi cominciarono a parlar forte; alcuni si addormentavano; uno russava, e lo dovette svegliare.
Fu costretta due o tre volte a interrompersi, sgomenta, aspettando che i grandi, stizziti d'esser disturbati, imponessero silenzio.
Il piccolo Maggia distraeva i vicini con una ginnastica continua delle mani e dei piedi, di sotto al banco, e quando essa lo guardava, le fissava gli occhi in viso con una espressione di finto stupore, così impertinente, che le faceva voltare il capo da un'altra parte.
Ammutolirono tutti quando, terminata la lettura della prima sezione, videro Saltafinestra uscir dal suo banco col quaderno in mano per salir sul palco a chiedere spiegazioni sul suo lavoro.
La maestra tremò, presa dal presentimento di qualche atto di audacia.
Il giovane le s'avvicinò perfettamente tranquillo, simulando anzi una grande serietà, e messole davanti il quaderno aperto, le rivolse una domanda intorno a una frase.
Vinta la ripugnanza che sentiva a stargli così vicino, tremando, e quasi restringendosi in sé come per scansare il suo contatto, ella chinò il viso sul quaderno, e lesse le prime righe del componimento: una lettera a una sorella.
Tutt'a un tratto, mossa da uno sdegno più pronto d'ogni timore, afferrò il foglio con due mani, lo fece in due pezzi, e respinse il quaderno da sé.
Aveva letto il principio d'una dichiarazione amorosa.
Il giovane riprese il quaderno e tornò al suo posto, col capo basso, sorridendo sinistramente.
La maestra rimase qualche momento bianca come un cencio.
Poi, con molta fatica, ricominciò la lezione.
Quell'avvenimento misterioso, commentato subito da un vivo mormorio, valse a tenere nella scolaresca un breve silenzio di curiosità e di aspettazione.
Ma verso la fine, mentre la maestra voltava un'altra volta le spalle alla classe per scrivere le sillabe col gessetto, fu riscossa dal colpo d'una grossa palla di carta masticata che batté nel mezzo della lavagna e ricadde ai suoi piedi.
Si voltò con una fiamma nel viso, per cercare il colpevole: il quale non poteva essere il Muroni, poiché la palla era venuta d'in mezzo alla scuola.
Guardò il piccolo Maggia; ma aveva una faccia impassibile.
Guardò gli altri ragazzi; eran tutti come statue.
"Chi è stato?" domandò con voce commossa.
Nessuno rispose.
Cercò il viso dei tre o quattro uomini più attempati, che credeva disposti a proteggerla; quello del Perotti fra gli altri; ma tutti abbassarono il capo.
Allora, scoraggiata, fece uno sforzo per rimandare indietro le lacrime, e continuò la lezione.
Quel nuovo affronto che le era stato fatto in faccia a tutti le stringeva il cuo
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