LA COSCIENZA DI ZENO, di Italo Svevo - pagina 15
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Lasciandomi dirigere dalla risoluzione presa prima ch'io avessi veduta la signora Malfenti e, sentite le cose sorprendenti ch'essa m'aveva dette, tacqui.
Pensavo intensamente, ma perciò con un po' di confusione.
Volevo intendere, volevo indovinare e presto.
Si vedono meno bene le cose quando si spalancano troppo gli occhi.
Intravvidi la possibilità che volessero buttarmi fuori di casa.
Mi parve di poter escluderla.
Io ero innocente, visto che non facevo la corte ad Augusta ch'essi volevano proteggere.
Ma forse m'attribuivano delle intenzioni su Augusta per non compromettere Ada.
E perché proteggere a quel modo Ada, che non era piú una fanciullina? Io ero certo di non averla afferrata per le chiome che in sogno.
In realtà non avevo che sfiorata la sua mano con le mie labbra.
Non volevo mi si interdicesse l'accesso a quella casa, perché prima di abbandonarla volevo parlare con Ada.
Perciò con voce tremante domandai:
- Mi dica Lei, signora, quello che debbo fare per non spiacere a nessuno.
Essa esitò.
Io avrei preferito di aver da fare con Giovanni che pensava urlando.
Poi, risoluta, ma con uno sforzo di apparire cortese che si manifestava evidente nel suono della voce, disse:
- Dovrebbe per qualche tempo venir meno frequentemente da noi; dunque non ogni giorno, ma due o tre volte alla settimana.
È certo che se mi avesse detto rudemente di andarmene e di non ritornare piú, io, sempre diretto dal mio proposito, avrei supplicato che mi si tollerasse in quella casa, almeno per uno o due giorni ancora, per chiarire i miei rapporti con Ada.
Invece le sue parole, piú miti di quanto avessi temuto, mi diedero il coraggio di manifestare il mio risentimento:
- Ma se lei lo desidera, io in questa casa non riporrò piú piede!
Venne quello che avevo sperato.
Essa protestò, riparlò della stima di tutti loro e mi supplicò di non essere adirato con lei.
Ed io mi dimostrai magnanimo, le promisi tutto quello ch'essa volle e cioè di astenermi dal venire in quella casa per un quattro o cinque giorni, di ritornarvi poi con una certa regolarità ogni settimana due o tre volte e, sopra tutto, di non tenerle rancore.
Fatte tali promesse, volli dar segno di tenerle e mi levai per allontanarmi.
La signora protestò ridendo:
- Con me non c'è poi compromissione di sorta e può rimanere.
E poiché io pregavo di lasciarmi andare per un impegno di cui solo allora m'ero ricordato, mentre era vero che non vedevo l'ora di essere solo per riflettere meglio alla straordinaria avventura che mi toccava, la signora mi pregò addirittura di rimanere dicendo che cosí le avrei data la prova di non essere adirato con lei.
Perciò rimasi, sottoposto continuamente alla tortura di ascoltare il vuoto cicaleccio cui la signora ora s'abbandonava sulle mode femminili ch'essa non voleva seguire, sul teatro e anche sul tempo tanto secco con cui la primavera s'annunziava.
Poco dopo fui contento d'essere rimasto perché m'avvidi che avevo bisogno di un ulteriore chiarimento.
Senz'alcun riguardo interruppi la signora, di cui non sentivo piú le parole, per domandarle:
- E tutti in famiglia sapranno che lei m'ha invitato a tenermi lontano da questa casa?
Parve dapprima ch'essa neppure avesse ricordato il nostro patto.
Poi protestò:
- Lontano da questa casa? Ma solo per qualche giorno, intendiamoci.
Io non ne dirò a nessuno, neppure a mio marito ed anzi le sarei grata se anche lei volesse usare la stessa discrezione.
Anche questo promisi, promisi anche che se mi fosse stata chiesta una spiegazione perché non mi si vedesse piú tanto di spesso, avrei addotti dei pretesti varii.
Per il momento prestai fede alle parole della signora e mi figurai che Ada potesse essere stupita e addolorata dalla mia improvvisa assenza.
Un'immagine gradevolissima!
Poi rimasi ancora, sempre aspettando che qualche altra ispirazione venisse a dirigermi ulteriormente, mentre la signora parlava dei prezzi dei commestibili nell'ultimo tempo divenuti onerosissimi.
Invece di altre ispirazioni, capitò la zia Rosina, una sorella di Giovanni, piú vecchia di lui, ma di lui molto meno intelligente.
Aveva però qualche tratto della sua fisonomia morale bastevole a caratterizzarla quale sua sorella.
Prima di tutto la stessa coscienza dei proprii diritti e dei doveri altrui alquanto comica, perché priva di qualsiasi arma per imporsi, eppoi anche il vizio di alzare presto la voce.
Essa credeva di aver tanti diritti nella casa del fratello che - come appresi poi - per lungo tempo considerò la signora Malfenti quale un'intrusa.
Era nubile e viveva con un'unica serva di cui parlava sempre come della sua piú grande nemica.
Quando morí raccomandò a mia moglie di sorvegliare la casa finché la serva che l'aveva assistita non se ne fosse andata.
Tutti in casa di Giovanni la sopportavano temendo la sua aggressività.
Ancora non me ne andai.
Zia Rosina prediligeva Ada fra le nipoti.
Mi venne il desiderio di conquistarmene l'amicizia anch'io e cercai una frase amabile a indirizzarle.
Mi ricordai oscuramente che l'ultima volta in cui l'avevo vista (cioè intravvista, perché allora non avevo sentito il bisogno di guardarla) le nipoti, non appena essa se ne era andata, avevano osservato che non aveva una buona cera.
Anzi una di esse aveva detto:
- Si sarà guastato il sangue per qualche rabbia con la serva!
Trovai quello che cercavo.
Guardando affettuosamente il faccione grinzoso della vecchia signora, le dissi:
- La trovo molto rimessa, signora.
Non avessi mai detta quella frase.
Mi guardò stupita e protestò:
- Io sono sempre uguale.
Da quando mi sarei rimessa?
Voleva sapere quando l'avessi vista l'ultima volta.
Non ricordavo esattamente quella data e dovetti ricordarle che avevamo passato un intero pomeriggio insieme, seduti in quello stesso salotto con le tre signorine, ma non dalla parte dove eravamo allora, dall'altra.
Io m'ero proposto di dimostrarle dell'interessamento, ma le spiegazioni ch'essa esigeva lo facevano durare troppo a lungo.
La mia falsità mi pesava producendomi un vero dolore.
La signora Malfenti intervenne sorridendo:
- Ma lei non voleva mica dire che zia Rosina è ingrassata?
Diavolo! Là stava la ragione del risentimento di zia Rosina ch'era molto grossa come il fratello e sperava tuttavia di dimagrire.
- Ingrassata! Mai piú! Io volevo parlare solo della cera migliore della signora.
Tentavo di conservare un aspetto affettuoso e dovevo invece trattenermi per non dire un'insolenza.
Zia Rosina non parve soddisfatta neppur allora.
Essa non era mai stata male nell'ultimo tempo e non capiva perché avesse dovuto apparire malata.
E la signora Malfenti le diede ragione:
- Anzi, è una sua caratteristica di non mutare di cera - disse rivolta a me.
- Non le pare?
A me pareva.
Era anzi evidente.
Me ne andai subito.
Porsi con grande cordialità la mano a zia Rosina sperando di rabbonirla, ma essa mi concedette la sua guardando altrove.
Non appena ebbi varcata la soglia di quella casa il mio stato d'animo mutò.
Che liberazione! Non avevo piú da studiare le intenzioni della signora Malfenti né di forzarmi di piacere alla zia Rosina.
Credo in verità che se non ci fosse stato il rude intervento di zia Rosina, quella politicona della signora Malfenti avrebbe raggiunto perfettamente il suo scopo ed io mi sarei allontanato da quella casa tutto contento di essere stato trattato bene.
Corsi saltellando giú per le scale.
Zia Rosina era stata quasi un commento della signora Malfenti.
La signora Malfenti m'aveva proposto di restar lontano dalla sua casa per qualche giorno.
Troppo buona la cara signora! Io l'avrei compiaciuta al di là delle sue aspettative e non m'avrebbe rivisto mai piú! M'avevano torturato, lei, la zia ed anche Ada! Con quale diritto? Perché avevo voluto sposarmi? Ma io non ci pensavo piú! Com'era bella la libertà!
Per un buon quarto d'ora corsi per le vie accompagnato da tanto sentimento.
Poi sentii il bisogno di una libertà ancora maggiore.
Dovevo trovare il modo di segnare in modo definitivo la mia volontà di non rimettere piú il piede in quella casa.
Scartai l'idea di scrivere una lettera con la quale mi sarei congedato.
L'abbandono diveniva piú sdegnoso ancora se non ne comunicavo l'intenzione.
Avrei semplicemente dimenticato di vedere Giovanni e tutta la sua famiglia.
Trovai l'atto discreto e gentile e perciò un po' ironico col quale avrei segnata la mia volontà.
Corsi da un fioraio e scelsi un magnifico mazzo di fiori che indirizzai alla signora Malfenti accompagnato dal mio biglietto da visita sul quale non scrissi altro che la data.
Non occorreva altro.
Era una data che non avrei dimenticata piú e non l'avrebbero dimenticata forse neppure Ada e sua madre: 5 Maggio, anniversario della morte di Napoleone.
Provvidi in fretta a quell'invio.
Era importantissimo che giungesse il giorno stesso.
Ma poi? Tutto era fatto, tutto, perché non c'era piú nulla da fare! Ada restava segregata da me con tutta la sua famiglia ed io dovevo vivere senza fare piú nulla, in attesa che qualcuno di loro fosse venuto a cercarmi e darmi l'occasione di fare o dire qualche cosa d'altro.
Corsi al mio studio per riflettere e per rinchiudermi.
Se avessi ceduto alla mia dolorosa impazienza, subito sarei ritornato di corsa a quella casa a rischio di arrivarvi prima del mio mazzo di fiori.
I pretesti non potevano mancare.
Potevo anche averci dimenticato il mio ombrello!
Non volli fare una cosa simile.
Con l'invio di quel mazzo di fiori io avevo assunta una bellissima attitudine che bisognava conservare.
Dovevo ora stare fermo, perché la prossima mossa toccava a loro.
Il raccoglimento ch'io mi procurai nel mio studiolo e da cui m'aspettavo un sollievo, chiarí solo le ragioni della mia disperazione che s'esasperò fino alle lagrime.
Io amavo Ada! Non sapevo ancora se quel verbo fosse proprio e continuai l'analisi.
Io la volevo non solo mia, ma anche mia moglie.
Lei, con quella sua faccia marmorea sul corpo acerbo, eppoi ancora lei con la sua serietà, tale da non intendere il mio spirito che non le avrei insegnato, ma cui avrei rinunziato per sempre, lei che m'avrebbe insegnata una vita d'intelligenza e di lavoro.
Io la volevo tutta e tutto volevo da lei.
Finii col conchiudere che il verbo fosse proprio quello: Io amavo Ada.
Mi parve di aver pensata una cosa molto importante che poteva guidarmi.
Via le esitazioni! Non m'importava piú di sapere se ella mi amasse.
Bisognava tentare di ottenerla e non occorreva piú parlare con lei se Giovanni poteva disporne.
Prontamente bisognava chiarire tutto per arrivare subito alla felicità o altrimenti dimenticare tutto e guarire.
Perché avevo da soffrire tanto nell'attesa? Quando avessi saputo - e potevo saperlo solo da Giovanni - che io definitivamente avevo perduta Ada, almeno non avrei piú dovuto lottare col tempo che sarebbe continuato a trascorrere lentamente senza ch'io sentissi il bisogno di sospingerlo.
Una cosa definitiva è sempre calma perché staccata dal tempo.
Corsi subito in cerca di Giovanni.
Furono due le corse.
Una verso il suo ufficio situato in quella via che noi continuiamo a dire delle Case Nuove, perché cosí facevano i nostri antenati.
Alte vecchie case che offuscano una via tanto vicina alla riva del mare poco frequentata all'ora del tramonto, e dove potei procedere rapido.
Non pensai, camminando, che a preparare piú brevemente che fosse possibile la frase che dovevo dirigergli.
Bastava dirgli la mia determinazione di sposare sua figlia.
Non avevo né da conquiderlo né da convincerlo.
Quell'uomo d'affari avrebbe saputa la risposta da darmi non appena intesa la mia domanda.
Mi preoccupava tuttavia la quistione se in un'occasione simile avrei dovuto parlare in lingua o in dialetto.
Ma Giovanni aveva già abbandonato l'ufficio e s'era recato al Tergesteo.
Mi vi avviai.
Piú lentamente perché sapevo che alla Borsa dovevo attendere piú tempo per potergli parlare da solo a solo.
Poi, giunto in via Cavana, dovetti rallentare per la folla che ostruiva la stretta via.
E fu proprio battendomi per passare traverso a quella folla, che ebbi finalmente come in una visione la chiarezza che da tante ore cercavo.
I Malfenti volevano ch'io sposassi Augusta e non volevano ch'io sposassi Ada e ciò per la semplice ragione che Augusta era innamorata di me e Ada niente affatto.
Niente affatto perché altrimenti non sarebbero intervenuti a dividerci.
M'avevano detto ch'io compromettevo Augusta, ma era invece lei che si comprometteva amandomi.
Compresi tutto in quel momento, con viva chiarezza, come se qualcuno della famiglia me l'avesse detto.
E indovinai anche che Ada era d'accordo ch'io fossi allontanato da quella casa.
Essa non m'amava e non m'avrebbe amato almeno finché la sorella sua m'avesse amato.
Nell'affollata via Cavana avevo dunque pensato piú dirittamente che nel mio studio solitario.
Oggidí, quando ritorno al ricordo di quei cinque giorni memorandi che mi condussero al matrimonio, mi stupisce il fatto che il mio animo non si sia mitigato all'apprendere che la povera Augusta mi amava.
Io, ormai scacciato da casa Malfenti, amavo Ada irosamente.
Perché non mi diede alcuna soddisfazione la visione chiara che la signora Malfenti m'aveva allontanato invano, perché io in quella casa rimanevo, e vicinissimo ad Ada, cioè nel cuore di Augusta? A me pareva invece una nuova offesa l'invito della signora Malfenti di non compromettere Augusta e cioè di sposarla.
Per la brutta fanciulla che m'amava, avevo tutto il disdegno che non ammettevo avesse per me la sua bella sorella, che io amavo.
Accelerai ancora il passo, ma deviai e mi diressi verso casa mia.
Non avevo piú bisogno di parlare con Giovanni perché sapevo ormai chiaramente come condurmi; con un'evidenza tanto disperante che forse finalmente m'avrebbe data la pace staccandomi dal tempo troppo lento.
Era anche pericoloso parlarne con quel maleducato di Giovanni.
La signora Malfenti aveva parlato in modo ch'io non l'avevo intesa che là in via Cavana.
Il marito era capace di comportarsi altrimenti.
Forse m'avrebbe detto addirittura: «Perché vuoi sposare Ada? Vediamo! Non faresti meglio di sposare Augusta?».
Perché egli aveva un assioma che ricordavo e che avrebbe potuto guidarlo in questo caso: «Devi sempre spiegare chiaramente l'affare al tuo avversario perché allora appena sarai sicuro d'intenderlo meglio di lui!».
E allora? Ne sarebbe conseguita un'aperta rottura.
Solo allora il tempo avrebbe potuto camminare come voleva, perché io non avrei piú avuta alcuna ragione d'ingerirmene: sarei arrivato al punto fermo!
Ricordai anche un altro assioma di Giovanni e mi vi attaccai perché mi procurava una grande speranza.
Seppi restarvi attaccato per cinque giorni, per quei cinque giorni che convertirono la mia passione in malattia.
Giovanni soleva dire che non bisogna aver fretta di arrivare alla liquidazione di un affare quando da questa liquidazione non si può attendersi un vantaggio: ogni affare arriva prima o poi da sé alla liquidazione, come lo prova il fatto che la storia del mondo è tanto lunga e che tanto pochi affari sono rimasti in sospeso.
Finché non si è proceduti alla sua liquidazione, ogni affare può ancora evolversi vantaggiosamente.
Non ricordai che v'erano altri assiomi di Giovanni che dicevano il contrario e m'attaccai a quello.
Già a qualche cosa dovevo pur attaccarmi.
Feci il proposito ferreo di non movermi finché non avessi appreso che qualche cosa di nuovo avesse fatto evolvere il mio affare in mio favore.
E ne ebbi tale danno che forse per questo, in seguito, nessun mio proposito m'accompagnò per tanto tempo.
Non appena fatto il proposito, ricevetti un biglietto dalla signora Malfenti.
Ne riconobbi la scrittura sulla busta e, prima di aprirlo, mi lusingai fosse bastato quel mio proposito ferreo, perché essa si pentisse di avermi maltrattato e mi corresse dietro.
Quando trovai che non conteneva che le lettere p.r.
che significavano il ringraziamento per i fiori che le avevo inviati, mi disperai, mi gettai sul mio letto e ficcai i denti nel guanciale quasi per inchiodarmivi e impedirmi di correr via a rompere il mio proposito.
Quanta ironica serenità risultava da quelle iniziali! Ben maggiore di quella espressa dalla data ch'io avevo apposta al mio biglietto e che significava già un proposito e forse anche un rimprovero.
Remember aveva detto Carlo I prima che gli tagliassero il collo e doveva aver pensata la data di quel giorno! Anch'io avevo esortata la mia avversaria a ricordare e temere!
Furono cinque giorni e cinque notti terribili ed io ne sorvegliai le albe e i tramonti che significavano fine e principio e avvicinavano l'ora della mia libertà, la libertà di battermi di nuovo per il mio amore.
Mi preparavo a quella lotta.
Oramai sapevo come la mia fanciulla voleva io fossi fatto.
M'è facile di ricordarmi dei propositi che feci allora, prima di tutto perché ne feci d'identici in epoca piú recente, eppoi perché li annotai su un foglio di carta che conservo tuttora.
Mi proponevo di diventare piú serio.
Ciò significava allora di non raccontare quelle barzellette che facevano ridere e mi diffamavano, facendomi anche amare dalla brutta Augusta e disprezzare dalla mia Ada.
Poi v'era il proponimento di essere ogni mattina alle otto nel mio ufficio che non vedevo da tanto tempo, non per discutere sui miei diritti con l'Olivi, ma per lavorare con lui e poter assumere a suo tempo la direzione dei miei affari.
Ciò doveva essere attuato in un'epoca piú tranquilla di quella, come dovevo anche cessar di fumare piú tardi, cioè quando avessi riavuta la mia libertà, perché non bisognava peggiorare quell'orribile intervallo.
Ad Ada spettava un marito perfetto.
Perciò v'erano anche varii proponimenti di dedicarmi a letture serie, eppoi di passare ogni giorno una mezz'oretta sulla pedana e di cavalcare un paio di volte alla settimana.
Le ventiquattr'ore della giornata non erano troppe.
Durante quei giorni di segregazione la gelosia piú amara fu la mia compagna di tutte le ore.
Era un proposito eroico quello di voler correggersi di ogni difetto per prepararsi a conquistare Ada dopo qualche settimana.
Ma intanto? Intanto ch'io m'assoggettavo alla piú dura constrizione, si sarebbero tenuti tranquilli gli altri maschi della città e non avrebbero cercato di portarmi via la mia donna? Fra di loro v'era certamente qualcuno che non aveva bisogno di tanto esercizio per essere gradito.
Io sapevo, io credevo di sapere che quando Ada avesse trovato chi faceva al caso suo, avrebbe subito consentito senza attendere di innamorarsi.
Quando in quei giorni io m'imbattevo in un maschio ben vestito, sano e sereno, l'odiavo, perché mi pareva facesse al caso di Ada.
Di quei giorni, la cosa che meglio ricordo è la gelosia che s'era abbassata come una nebbia sulla mia vita.
Dell'atroce dubbio di vedermi portar via Ada in quei giorni non si può ridere, ormai che si sa come le cose andarono a finire.
Quando ripenso a quei giorni di passione sento un'ammirazione grande per la profetica anima mia.
Varie volte, di notte, passai sotto alle finestre di quella casa.
Lassú apparentemente continuavano a divertirsi come quando c'ero stato anch'io.
Alla mezzanotte o poco prima, nel salotto si spegnevano i lumi.
Scappavo pel timore di essere scorto da qualche visitatore che allora doveva lasciare la casa.
Ma ogni ora di quei giorni fu affannosa anche per l'impazienza.
Perché nessuno domandava di me? Perché non si moveva Giovanni? Non doveva egli meravigliarsi di non vedermi né a casa sua né al Tergesteo? Dunque era d'accordo anche lui ch'io fossi stato allontanato? Interrompevo spesso le mie passeggiate di giorno e di notte per correre a casa ad accertarmi che nessuno fosse venuto a domandare di me.
Non sapevo andare a letto nel dubbio, e destavo per interrogarla la povera Maria.
Restavo per ore ad aspettare in casa, nel luogo ove ero piú facilmente raggiungibile.
Ma nessuno domandò di me ed è certo che se non mi fossi risolto a movermi io, sarei tuttavia celibe.
Una sera andai a giocare al club.
Era da molti anni che non mi vi facevo vedere per rispetto ad una promessa fatta a mio padre.
Mi pareva che la promessa non potesse piú valere poiché mio padre non poteva aver previste tali mie dolorose circostanze e l'urgente mia necessità di procurarmi uno svago.
Dapprima guadagnai con una fortuna che mi dolse perché mi parve un indennizzo della mia sfortuna in amore.
Poi perdetti e mi dolse ancora perché mi parve di soggiacere al giuoco com'ero soggiaciuto all'amore.
Ebbi presto disgusto del giuoco: non era degno di me e neppure di Ada.
Tanto puro mi rendeva quell'amore!
Di quei giorni so anche che i sogni d'amore erano stati annientati da quella realtà tanto rude.
Il sogno era oramai tutt'altra cosa.
Sognavo la vittoria invece che l'amore.
Il mio sonno fu una volta abbellito da una visita di Ada.
Era vestita di sposa e veniva con me all'altare, ma quando fummo lasciati soli non facemmo all'amore, neppure allora.
Ero suo marito e avevo acquistato il diritto di domandarle: «Come hai potuto permettere ch'io fossi trattato cosí?» Di altro diritto non mi premeva.
Trovo in un mio cassetto degli abbozzi di lettere ad Ada, a Giovanni e alla signora Malfenti.
Sono di quei giorni.
Alla signora Malfenti scrivevo una lettera semplice con la quale prendevo congedo prima d'intraprendere un lungo viaggio.
Non ricordo però di aver avuto una tale intenzione: non potevo lasciare la città quando non ero ancora certo che nessuno sarebbe venuto a cercarmi.
Quale sventura se fossero venuti e non m'avessero trovato! Nessuna di quelle lettere è stata inviata.
Credo anzi le avessi scritte solo per mettere in carta i miei pensieri.
Da molti anni io mi consideravo malato, ma di una malattia che faceva soffrire piuttosto gli altri che me stesso.
Fu allora che conobbi la malattia «dolente», una quantità di sensazioni fisiche sgradevoli che mi resero tanto infelice.
S'iniziarono cosí.
Alla una di notte circa, incapace di prendere sonno, mi levai e camminai nella mite notte finché non giunsi ad un caffè di sobborgo nel quale non ero mai stato e dove perciò non avrei trovato alcun conoscente, ciò che mi era molto gradito perché volevo continuarvi una discussione con la signora Malfenti, cominciata a letto e nella quale non volevo che nessuno si frammettesse.
La signora Malfenti m'aveva fatti dei rimproveri nuovi.
Diceva ch'io avevo tentato di «giocar di pedina» con le sue figliuole.
Intanto se avevo tentato una cosa simile l'avevo certamente fatto con la sola Ada.
Mi venivano i sudori freddi al pensare che forse in casa Malfenti oramai mi si movessero dei rimproveri simili.
L'assente ha sempre torto e potevano aver approfittato della mia lontananza per associarsi ai miei danni.
Nella viva luce del caffè mi difendevo meglio.
Certo talvolta io avrei voluto toccare col mio piede quello di Ada ed una volta anzi m'era parso di averlo raggiunto, lei consenziente.
Poi però risultò che avevo premuto il piede di legno del tavolo e quello non poteva aver parlato.
Fingevo di pigliar interesse al gioco del biliardo.
Un signore, appoggiato ad una gruccia, s'avvicinò e venne a sedere proprio accanto a me.
Ordinò una spremuta e poiché il cameriere aspettava anche i miei ordini, per distrazione ordinai una spremuta anche per me ad onta ch'io non possa soffrire il sapore del limone.
Intanto la gruccia appoggiata al sofà su cui sedevamo, scivolò a terra ed io mi chinai a raccoglierla con un movimento quasi istintivo.
- Oh Zeno! - fece il povero zoppo riconoscendomi nel momento in cui voleva ringraziarmi.
- Tullio! - esclamai io sorpreso e tendendogli la mano.
Eravamo stati compagni di scuola e non ci eravamo visti da molti anni.
Sapevo di lui che, finite le scuole medie, era entrato in una banca, dove occupava un buon posto.
Ero tuttavia tanto distratto che bruscamente gli domandai come fosse avvenuto ch'egli aveva la gamba destra troppo corta cosí da aver bisogno della gruccia.
Di buonissimo umore, egli mi raccontò che sei mesi prima s'era ammalato di reumatismi che avevano finito col danneggiargli la gamba.
M'affrettai di suggerirgli molte cure.
È il vero modo per poter simulare senza grande sforzo una viva partecipazione Egli le aveva fatte tutte.
Allora suggerii ancora:
- E perché a quest'ora non sei ancora a letto? A me non pare che ti possa far bene di esporti all'aria notturna.
Egli scherzò bonariamente: riteneva che neppure a me l'aria notturna potesse giovare e riteneva che chi non soffriva di reumatismi, finché aveva vita, poteva ancora procurarseli.
Il diritto di andare a letto alle ore piccole era ammesso persino dalla costituzione austriaca.
Del resto, contrariamente all'opinione generale, il caldo e il freddo non avevano a che fare coi reumatismi.
Egli aveva studiata la sua malattia ed anzi non faceva altro a questo mondo che studiarne le cause e i rimedi.
Piú che per la cura aveva avuto bisogno di un lungo permesso dalla banca per poter approfondirsi in quello studio.
Poi mi raccontò che stava facendo una cura strana.
Mangiava ogni giorno una quantità enorme di limoni.
Quel giorno ne aveva ingoiati una trentina, ma sperava con l'esercizio di arrivare a sopportarne anche di piú.
Mi confidò che i limoni secondo lui erano buoni anche per molte altre malattie.
Dacché li prendeva sentiva meno fastidio per il fumare esagerato, al quale anche lui era condannato.
Io ebbi un brivido alla visione di tanto acido, ma, subito dopo, una visione un po' piú lieta della vita: i limoni non mi piacevano, ma se mi avessero data la libertà di fare quello che dovevo o volevo senz'averne danno e liberandomi da ogni altra costrizione, ne avrei ingoiati altrettanti anch'io.
È libertà completa quella di poter fare ciò che si vuole a patto di fare anche qualche cosa che piaccia meno.
La vera schiavitú è la condanna all'astensione: Tantalo e non Ercole.
Poi Tullio finse anche lui di essere ansioso di mie notizie.
Io ero ben deciso di non raccontargli del mio amore infelice, ma abbisognavo di uno sfogo.
Parlai con tale esagerazione dei miei mali (cosí li registrai e sono sicuro ch'erano lievi) che finii con l'avere le lagrime agli occhi, mentre Tullio andava sentendosi sempre meglio credendomi piú malato di lui.
Mi domandò se lavoravo.
Tutti in città dicevano ch'io non facevo niente ed io temevo egli avesse da invidiarmi mentre in quell'istante avevo l'assoluto bisogno di essere commiserato.
Mentii! Gli raccontai che lavoravo nel mio ufficio, non molto, ma giornalmente almeno per sei ore e che poi gli affari molto imbrogliati ereditati da mio padre e da mia madre mi davano da fare per altre sei ore.
- Dodici ore! - commentò Tullio, e con un sorriso soddisfatto, mi concedette quello che ambivo, la sua commiserazione: - Non sei mica da invidiare, tu!
La conclusione era esatta ed io ne fui tanto commosso che dovetti lottare per non lasciar trapelare le lagrime.
Mi sentii piú infelice che mai e, in quel morbido stato di compassione di me stesso, si capisce io sia stato esposto a delle lesioni.
Tullio s'era rimesso a parlare della sua malattia ch'era anche la sua principale distrazione.
Aveva studiato l'anatomia della gamba e del piede.
Mi raccontò ridendo che quando si cammina con passo rapido, il tempo in cui si svolge un passo non supera il mezzo secondo e che in quel mezzo secondo si movevano nientemeno che cinquantaquattro muscoli.
Trasecolai e subito corsi col pensiero alle mie gambe a cercarvi la macchina mostruosa.
Io credo di avercela trovata.
Naturalmente non riscontrai i cinquantaquattro ordigni, ma una complicazione enorme che perdette il suo ordine dacché io vi ficcai la mia attenzione.
Uscii da quel caffè zoppicando e per alcuni giorni zoppicai sempre.
Il camminare era per me divenuto un lavoro pesante, e anche lievemente doloroso.
A quel groviglio di congegni pareva mancasse ormai l'olio e che, movendosi, si ledessero a vicenda.
Pochi giorni appresso, fui colto da un male piú grave di cui dirò e che diminuí il primo.
Ma ancora oggidí, che ne scrivo, se qualcuno mi guarda quando mi movo, i cinquantaquattro movimenti s'imbarazzano ed io sono in procinto di cadere.
Anche questa lesione io la devo ad Ada.
Molti animali diventano preda dei cacciatori o di altri animali quando sono in amore.
Io fui allora preda della malattia e sono certo che se avessi appreso della macchina mostruosa in altro momento, non ne avrei avuto alcun danno.
Qualche segno su un foglio di carta che conservai, mi ricorda un'altra strana avventura di quei giorni.
Oltre all'annotazione di un'ultima sigaretta accompagnata dall'espressione della fiducia di poter guarire della malattia dei cinquantaquattro movimenti, v'è un tentativo di poesia...
su una mosca.
Se non sapessi altrimenti, crederei che quei versi provengano da una signorina dabbene che dà del tu agl'insetti di cui canta, ma visto che sono stati stesi da me, devo credere che poiché io sono passato per di là, tutti possano capitare dappertutto.
Ecco come quei versi nacquero.
A tarda notte ero ritornato a casa e invece che coricarmi m'ero recato nel mio studiolo ove avevo acceso il gas.
Alla luce una mosca si mise a tormentarmi.
Riuscii a darle un colpo, lieve però per non insudiciarmi.
La dimenticai, ma poi la rividi in mezzo al tavolo come lentamente si rimetteva.
Era ferma, eretta e pareva piú alta di prima perché una delle sue zampine era stata anchilosata e non poteva flettersi.
Con le due zampine posteriori si lisciava assiduamente le ali.
Tentò di moversi, ma si ribaltò sulla schiena.
Si rizzò e ritornò ostinata al suo assiduo lavoro.
Scrissi allora quei versi, stupito di aver scoperto che quel piccolo organismo pervaso da tanto dolore, fosse diretto nel suo sforzo immane da due errori: prima di tutto lisciando con tanta ostinazione le ali che non erano lese, l'insetto rivelava di non sapere da quale organo venisse il suo dolore; poi l'assiduità del suo sforzo dimostrava che c'era nella sua minuscola mente la fede fondamentale che la salute spetti a tutti e che debba certamente ritornare quando ci ha lasciato.
Erano errori che si possono facilmente scusare in un insetto che non vive che la vita di una sola stagione, e non ha tempo di far dell'esperienza.
Ma venne la domenica.
Scadeva il quinto giorno dalla mia ultima visita in casa Malfenti.
Io, che lavoro tanto poco, conservai sempre un grande rispetto per il giorno festivo che divide la vita in periodi brevi che la rendono piú sopportabile.
Quel giorno festivo chiudeva anche una mia settimana faticosa e me ne competeva la gioia.
Io non cambiai per nulla i miei piani ma per quel giorno non dovevano valere ed io avrei rivista Ada.
Non avrei compromessi quei piani con alcuna parola, ma dovevo rivederla perché c'era anche la possibilità che l'affare si fosse già cambiato in mio favore ed allora sarebbe stato un bel danno di continuar a soffrire senza scopo.
Perciò, a mezzodí, con la fretta che le mie povere gambe mi concedevano, corsi in città e sulla via che sapevo la signora Malfenti e le figliuole dovevano percorrere al ritorno dalla messa.
Era una festa piena di sole e, camminando, pensai che forse in città m'aspettava la novità attesa, l'amore di Ada!
Non fu cosí, ma per un altro istante n'ebbi l'illusione.
La fortuna mi favorí in modo incredibile.
M'imbattei faccia a faccia in Ada, nella sola Ada.
Mi mancò il passo e il fiato.
Che fare? Il mio proponimento avrebbe voluto che mi tirassi in disparte e la lasciassi passare con un saluto misurato.
Ma nella mia mente ci fu un po' di confusione perché prima c'erano stati altri proponimenti tra cui uno che ricordavo secondo il quale avrei dovuto parlarle chiaro e apprendere dalla sua bocca il mio destino.
Non mi trassi in disparte e quand'ella mi salutò come se ci fossimo lasciati cinque minuti prima, io m'accompagnai a lei.
Ella mi aveva detto:
- Buon giorno, signor Cosini! Ho un po' fretta.
Ed io:
- Mi permette di accompagnarla per un tratto?
Ella accettò sorridendo.
Ma dunque avrei dovuto parlarle? Ella aggiunse che andava direttamente a casa sua, perciò compresi che non avevo a disposizione che cinque minuti per parlare ed anche di quel tempo ne perdetti una parte a calcolare se sarebbe bastato per le cose importanti che dovevo dirle.
Meglio non dirle che non dirle interamente.
Mi confondeva anche il fatto che allora nella nostra città, per una fanciulla, era già un'azione compromettente quella di lasciarsi accompagnare sulla via da un giovanotto.
Ella me lo permetteva.
Non potevo già accontentarmi? Intanto la guardavo, tentando di sentir di nuovo intero il mio amore annebbiatosi nell'ira e nel dubbio.
Riavrei almeno i miei sogni? Ella m'appariva piccola e grande nello stesso tempo, nell'armonia delle sue linee.
I sogni ritornavano in folla anche accanto a lei, reale.
Era il mio modo di desiderare e vi ritornai con gioia intensa.
Spariva dal mio animo qualunque traccia d'ira o di rancore.
Ma dietro di noi si sentí un'invocazione esitante:
- Se permette, signorina!
Mi volsi indignato.
Chi osava interrompere le spiegazioni che non avevo ancora iniziate? Un signorino imberbe, bruno e pallido, la guardava con occhi ansiosi.
A mia volta guardai Ada nella folle speranza ch'essa invocasse il mio aiuto.
Sarebbe bastato un suo segno ed io mi sarei gettato su quell'individuo a domandargli ragione della sua audacia.
E magari avesse insistito.
I miei mali sarebbero stati guariti subito se mi fosse stato concesso d'abbandonarmi ad un atto brutale di forza.
Ma Ada non fece quel segno.
Con un sorriso spontaneo perché mutava lievemente il disegno delle guancie e della bocca ma anche la luce dell'occhio, ella gli stese la mano:
- Il signor Guido!
Quel prenome mi fece male.
Ella, poco prima, mi aveva chiamato col nome mio di famiglia.
Guardai meglio quel signor Guido.
Era vestito con un'eleganza ricercata e teneva nella destra inguantata un bastone dal manico d'avorio lunghissimo, che io non avrei portato neppure se m'avessero pagato perciò una somma per ogni chilometro.
Non mi rimproverai di aver potuto vedere in una simile persona una minaccia per Ada.
Vi sono dei loschi figuri che vestono elegantemente e portano anche di tali bastoni.
Il sorriso di Ada mi ricacciò nei piú comuni rapporti mondani.
Ada fece la presentazione.
E sorrisi anch'io! Il sorriso di Ada ricordava un poco l'increspatura di un'acqua limpida sfiorata da una lieve brezza.
Anche il mio ricordava un simile movimento, ma prodotto da un sasso che fosse stato gettato nell'acqua.
Si chiamava Guido Speier.
Il mio sorriso si fece piú spontaneo perché subito mi si presentava l'occasione di dirgli qualche cosa di sgradevole:
- Lei è tedesco?
Cortesemente egli mi disse che riconosceva che al nome tutti potevano crederlo tale.
Invece i documenti della sua famiglia provavano ch'essa era italiana da varii secoli.
Egli parlava il toscano con grande naturalezza mentre io e Ada eravamo condannati al nostro dialettaccio.
Lo guardavo per sentire meglio quello ch'egli diceva.
Era un bellissimo giovine: le labbra naturalmente socchiuse lasciavano vedere una bocca di denti bianchi e perfetti.
L'occhio suo era vivace ed espressivo e, quando s'era scoperto il capo, avevo potuto vedere che i suoi capelli bruni e un po' ricciuti, coprivano tutto lo spazio che madre natura aveva loro destinato, mentre molta parte della mia testa era stata invasa dalla fronte.
Io l'avrei odiato anche se Ada non fosse stata presente, ma soffrivo di quell'odio e cercai di attenuarlo.
Pensai: - È troppo giovine per Ada.
- E pensai poi che la confidenza e la gentilezza ch'essa gli usava fossero dovute ad un ordine del padre.
Forse era un uomo importante per gli affari del Malfenti e a me era parso che in simili casi tutta la famiglia fosse obbligata alla collaborazione.
Gli domandai:
- Ella si stabilisce a Trieste?
Mi rispose che vi si trovava da un mese e che vi fondava una casa commerciale.
Respirai! Potevo aver indovinato.
Camminavo zoppicando, ma abbastanza disinvolto, vedendo che nessuno se ne accorgeva.
Guardavo Ada e tentavo di dimenticare tutto il resto compreso l'altro che ci accompagnava.
In fondo io sono l'uomo del presente e non penso al futuro quando esso non offuschi il presente con ombre evidenti.
Ada camminava fra noi due e aveva sulla faccia, stereotipata, un'espressione vaga di lietezza che arrivava quasi al sorriso.
Quella lietezza mi pareva nuova.
Per chi era quel sorriso? Non per me ch'essa non vedeva da tanto tempo?
Prestai orecchio a quello che si dicevano.
Parlavano di spiritismo e appresi subito che Guido aveva introdotto in casa Malfenti il tavolo parlante.
Ardevo dal desiderio di assicurarmi che il dolce sorriso che vagava sulle labbra di Ada fosse mio e saltai nell'argomento di cui parlavano, improvvisando una storia di spiriti.
Nessun poeta avrebbe potuto improvvisare a rime obbligate meglio di me.
Quando ancora non sapevo dove sarei andato a finire, esordii dichiarando che ormai credevo anch'io negli spiriti per una storia capitatami il giorno innanzi su quella stessa via...
anzi no!...
sulla via parallela a quella e che noi scorgevamo.
Poi dissi che anche Ada aveva conosciuto il professor Bertini ch'era morto poco tempo prima a Firenze ove s'era stabilito dopo il suo pensionamento.
Seppimo della sua morte da una breve notizia su un giornale locale che io avevo dimenticata, tant'è vero che, quando pensavo al professore Bertini, io lo vedevo passeggiare per le Cascine nel suo meritato riposo.
Ora, il giorno innanzi, su un punto che precisai della via parallela a quella che stavamo percorrendo, fui accostato da un signore che mi conosceva e che io sapevo di conoscere.
Aveva un'andatura curiosa di donnetta che si dimeni per facilitarsi il passo...
- Certo! Poteva essere il Bertini! - disse Ada ridendo.
Il riso era mio ed incorato continuai:
- Sapevo di conoscerlo, ma non sapevo ricordarlo.
Si parlò di politica.
Era il Bertini perché disse tante di quelle bestialità, con quella sua voce da pecora...
- Anche la sua voce! - ancora Ada rise guardandomi ansiosamente per sentire la chiusa.
- Sí! Avrebbe dovuto essere il Bertini, - dissi io fingendo spavento da quel grande attore che in me è andato perduto.
- Mi strinse la mano per congedarsi e se ne andò ballonzolando.
Lo seguii per qualche passo cercando di raccapezzarmi.
Scopersi di aver parlato col Bertini solo quando l'ebbi perduto di vista.
Col Bertini ch'era morto da un anno!
Poco dopo essa si fermò dinanzi al portone di casa sua.
Stringendogli la mano, disse a Guido che lo aspettava quella sera.
Poi, salutando anche me, mi disse che se non temevo di annoiarmi andassi quella sera da loro a far ballare il tavolino.
Non risposi né ringraziai.
Dovevo analizzare quell'invito prima di accettarlo.
Mi pareva avesse suonato come un atto di cortesia obbligata.
Ecco: forse per me il giorno festivo si sarebbe chiuso con quell'incontro.
Ma volli apparire cortese per lasciarmi aperte tutte le vie, anche quella di accettare quell'invito.
Le domandai di Giovanni col quale avevo da parlare.
Ella mi rispose che l'avrei trovato nel suo ufficio ove s'era recato per un affare urgente.
Guido ed io ci fermammo per qualche istante a guardar dietro all'elegante figurina che spariva nell'oscurità dell'atrio della casa.
Non so quello che Guido abbia pensato in quel momento.
In quanto a me, mi sentivo infelicissimo; perché ella non aveva fatto quell'invito prima a me e poi a Guido?
Ritornammo insieme sui nostri passi, quasi fino al punto ove ci eravamo imbattuti con Ada.
Guido, cortese e disinvolto (era proprio la disinvoltura quella ch'io piú di tutto invidiavo agli altri) parlò ancora di quella storia ch'io avevo improvvisata e ch'egli prendeva sul serio.
Di vero, invece, in quella storia non c'era che questo: a Trieste, anche dopo morto il Bertini, viveva una persona che diceva delle bestialità, camminava in modo che pareva si movesse sulle punte dei piedi ed aveva anche una voce strana.
Ne avevo fatta la conoscenza in quei giorni e, per un momento, m'aveva ricordato il Bertini.
Non mi dispiaceva che Guido si rompesse la testa a studiare quella mia invenzione.
Era stabilito ch'io non dovevo odiarlo perché egli per i Malfenti non era altro che un commerciante importante; ma m'era antipatico per la sua eleganza ricercata e il suo bastone.
M'era anzi tanto antipatico che non vedevo l'ora di liberarmene.
Sentii ch'egli concludeva:
- È possibile anche che la persona con cui ella parlò, fosse ben piú giovane del Bertini, camminasse come un granatiere e avesse la voce virile e che la sua somiglianza con lui fosse limitata al dire bestialità.
Ciò sarebbe bastato per fissare il suo pensiero sul Bertini.
Ma per ammettere questo, bisognerebbe anche credere ch'ella sia una persona molto distratta.
Non seppi aiutarlo nei suoi sforzi:
- Distratto io? Che idea! Sono un uomo d'affari.
Dove finirei se fossi distratto?
Poi pensai che perdevo il mio tempo.
Volevo veder Giovanni.
Giacché avevo vista la figlia, avrei potuto vedere anche il padre ch'era tanto meno importante.
Dovevo far presto se volevo ancora trovarlo nel suo ufficio.
Guido continuava ad almanaccare quanta parte di un miracolo si potesse attribuire alla disattenzione di chi lo fa o di chi vi assiste.
Io volli congedarmi e apparire almeno altrettanto disinvolto di lui.
Da ciò provenne una fretta nell'interromperlo e nel lasciarlo molto simile ad una brutalità:
- Per me i miracoli esistono e non esistono.
Non bisogna complicarli con troppe storie.
Bisogna crederci o non crederci ed in ambedue i casi le cose sono molto semplici.
Io non volevo dimostrargli dell'antipatia tant'è vero che con le mie parole mi pareva di fargli una concessione, visto ch'io sono un positivista convinto ed ai miracoli non ci credo.
Ma era una concessione fatta con grande malumore.
M'allontanai zoppicando piú che mai e sperai che Guido non sentisse il bisogno di guardarmi dietro.
Era proprio necessario ch'io parlassi con Giovanni.
Intanto m'avrebbe istruito come avrei dovuto comportarmi quella sera.
Ero stato invitato da Ada, e dal comportamento di Giovanni avrei potuto comprendere se dovevo seguire quell'invito o non piuttosto ricordarmi che quell'invito contravveniva all'espresso volere della signora Malfenti.
Chiarezza ci voleva nei miei rapporti con quella gente, e se a darmela non fosse bastata la domenica, vi avrei dedicato anche il lunedí.
Continuavo a contravvenire ai miei proponimenti e non me ne accorgevo.
Anzi mi pareva di eseguire una risoluzione presa dopo cinque giorni di meditazione.
È cosí ch'io designavo la mia attività di quei giorni.
Giovanni m'accolse con un bel saluto gridato, che mi fece bene, e m'invitò di prender posto su una poltrona addossata alla parete di faccia al suo tavolo.
- Cinque minuti! Sono subito con lei! - E subito dopo: - Ma lei zoppica?
Arrossii! Ero però in vena d'improvvisazione.
Gli dissi ch'ero scivolato mentre uscivo dal caffè, e designai proprio il caffè ove m'era capitato quell'accidente.
Temetti ch'egli potesse attribuire la mia tombola ad annebbiamento della mente per alcool, e ridendo aggiunsi il particolare che quando caddi mi trovavo in compagnia di una persona afflitta da reumatismi e che zoppicava.
Un impiegato e due facchini si trovavano in piedi accanto al tavolo di Giovanni.
Doveva essersi verificato qualche disordine in una consegna di merci e Giovanni aveva uno di quei suoi interventi ruvidi nel funzionamento del suo magazzino del quale egli raramente si occupava volendo avere la mente libera per fare - come diceva lui - solo quello che nessun altro avrebbe potuto fare in vece sua.
Urlava piú del consueto come se avesse voluto incidere nelle orecchie dei suoi dipendenti le sue disposizioni.
Credo si trattasse di stabilire la forma in cui dovevano svolgersi i rapporti fra l'ufficio e il magazzino.
- Questa carta - urlava Giovanni passando dalla mano destra alla sinistra una carta ch'egli aveva strappata da un libro, - sarà firmata da te e l'impiegato che la riceverà te ne darà una identica firmata da lui.
Fissava in faccia i suoi interlocutori ora traverso gli occhiali ed ora al disopra di essi e concluse con un altro urlo:
- Avete capito?
Voleva riprendere le sue spiegazioni da capo, ma a me sembrava di perdere troppo tempo.
Avevo il sentimento curioso che affrettandomi avrei potuto meglio battermi per Ada, mentre poi m'accorsi con grande sorpresa che nessuno m'aspettava e che io nessuno aspettavo, e che non c'era niente da fare per me.
Andai da Giovanni con la mano tesa:
- Vengo da lei questa sera.
Egli fu subito da me, mentre gli altri si tiravano in disparte.
- Perché non la vediamo da tanto tempo? - domandò con semplicità.
Io fui colto da una meraviglia che mi confuse.
Era proprio questa la domanda che Ada non m'aveva fatta e cui avrei avuto diritto.
Se non ci fossero stati quegli altri, io avrei parlato sinceramente con Giovanni che quella domanda m'aveva fatta e m'aveva provata la sua innocenza in quella ch'io oramai sentivo quale una congiura ai miei danni.
Lui solo era innocente e meritava la mia fiducia.
Forse subito allora non pensai con tanta chiarezza e ne è prova il fatto che non ebbi la pazienza di aspettare che l'impiegato ed i facchini si fossero allontanati.
Eppoi volevo studiare se forse ad Ada non fosse stata impedita quella domanda dall'arrivo inopinato di Guido.
Ma anche Giovanni m'impedí di parlare, manifestando una grande fretta di ritornare al suo lavoro.
- Ci vediamo allora questa sera.
Sentirà un violinista quale non ha sentito mai.
Si presenta quale un dilettante del violino solo perché ha tanti di quei denari che non si degna di farne la sua professione.
Intende di dedicarsi al commercio.
- Si strinse nelle spalle in atto di dispregio.
- Io, che pur amo il commercio, al posto suo non venderei che delle note.
Non so se lei lo conosce.
È un certo Guido Speier.
- Davvero? Davvero? - dissi simulando compiacenza, scotendo la testa e aprendo la bocca, movendo insomma tutto quello che potevo raggiungere per mio volere.
Quel bel giovinotto sapeva anche sonare il violino? - Davvero? Tanto bene? - Speravo che Giovanni avesse scherzato e con l'esagerazione delle sue lodi avesse voluto significare che Guido non fosse altro che un tartassatore del violino.
Ma egli scoteva la testa sempre con grande ammirazione.
Gli strinsi la mano:
- Arrivederci!
M'avviai zoppicando alla porta.
Fui fermato da un dubbio.
Forse avrei fatto meglio di non accettare quell'invito nel quale caso avrei dovuto prevenirne Giovanni.
Mi volsi per ritornare a lui, ma allora m'accorsi ch'egli mi guardava con grande attenzione proteso per innanzi per vedermi piú da vicino.
Questo non seppi sopportare e me ne andai!
Un violinista! Se era vero ch'egli sonava tanto bene, io semplicemente ero un uomo distrutto.
Almeno non avessi sonato io quell'istrumento o non mi fossi lasciato indurre di sonarlo in casa Malfenti.
Avevo portato il violino in quella casa non per conquistare col mio suono il cuore della gente, ma quale un pretesto per prolungarvi le mie visite.
Ero stato una bestia! Avrei potuto usare di tanti altri pretesti meno compromettenti!
Nessuno potrà dire ch'io m'abbandoni ad illusioni sul conto mio.
So di avere un alto sentimento musicale e non è per affettazione ch'io ricerco la musica piú complessa; però il mio stesso alto sentimento musicale m'avverte e m'avvertí da anni, ch'io mai arriverò a sonare in modo da dar piacere a chi m'ascolta.
Se tuttavia continuo a sonare, lo faccio per la stessa ragione per cui continuo a curarmi.
Io potrei sonare bene se non fossi malato, e corro dietro alla salute anche quando studio l'equilibrio sulle quattro corde.
C'è una lieve paralisi nel mio organismo, e sul violino si rivela intera e perciò piú facilmente guaribile.
Anche l'essere piú basso quando sa che cosa sieno le terzine, le quartine o le sestine, sa passare dalle une alle altre con esattezza ritmica come il suo occhio sa passare da un colore all'altro.
Da me, invece, una di quelle figure, quando l'ho fatta, mi si appiccica e non me ne libero piú, cosí ch'essa s'intrufola nella figura seguente e la sforma.
Per mettere al posto giusto le note, io devo battermi il tempo coi piedi e con la testa, ma addio disinvoltura, addio serenità, addio musica.
La musica che proviene da un organismo equilibrato è lei stessa il tempo ch'essa crea ed esaurisce.
Quando la farò cosí sarò guarito.
Per la prima volta pensai di abbandonare il campo, lasciare Trieste e andare altrove in cerca di svago.
Non c'era piú nulla da sperare.
Ada era perduta per me.
Ne ero certo! Non sapevo io forse, ch'essa avrebbe sposato un uomo dopo di averlo vagliato e pesato come se si fosse trattato di concedergli un'onorificenza accademica? Mi pareva ridicolo perché veramente il violino fra esseri umani non avrebbe potuto contare nella scelta di un marito, ma ciò non mi salvava.
Io sentivo l'importanza di quel suono.
Era decisiva come dagli uccelli canori.
Mi rintanai nel mio studio e il giorno festivo per gli altri non era ancora finito! Trassi il violino dalla busta, indeciso se mandarlo a pezzi o suonarlo.
Poi lo provai come se avessi voluto dargli l'ultimo addio e infine mi misi a studiare l'eterno Kreutzer.
In quello stesso posto avevo fatto percorrere tanti di quei chilometri al mio arco, che nel mio disorientamento mi rimisi a percorrerne macchinalmente degli altri.
Tutti coloro che si dedicarono a quelle maledette quattro corde sanno come, finché si viva isolati, si creda che ogni piccolo sforzo apporti un corrispondente progresso.
Se cosí non fosse, chi accetterebbe di sottoporsi a quei lavori forzati senza termine, come se si avesse avuta la disgrazia di ammazzare qualcuno? Dopo un po' di tempo mi parve che la mia lotta con Guido non fosse definitivamente perduta.
Chissà che forse non mi fosse concesso d'intervenire fra Guido e Ada con un violino vittorioso?
Non era presunzione questa, ma il mio solito ottimismo da cui mai seppi liberarmi.
Ogni minaccia di sventura m'atterrisce dapprima, ma subito dopo è dimenticata nella sfiducia piú sicura di saper evitarla.
Lí, poi, non occorreva che rendere piú benevolo il mio giudizio sulle mie capacità di violinista.
Nelle arti in genere si sa che il giudizio sicuro risulta dal confronto, che qui mancava.
Eppoi il proprio violino echeggia tanto vicino all'orecchio che ha breve la via al cuore.
Quando, stanco, smisi di suonare, mi dissi:
- Bravo Zeno, hai guadagnato il tuo pane.
Senz'alcuna esitazione mi recai dai Malfenti.
Avevo accettato l'invito ed oramai non potevo mancare.
Mi parve di buon augurio che la cameriera m'accogliesse con un sorriso gentile e la domanda se fossi stato male per non esser venuto per tanto tempo.
Le diedi una mancia.
Per bocca sua tutta la famiglia di cui essa era la rappresentante, mi faceva quella domanda.
Essa mi condusse al salotto ch'era immerso nell'oscurità piú profonda.
Arrivatovi dalla piena luce dell'anticamera, per un momento non vidi nulla e non osai movermi.
Poi scorsi varie figure disposte intorno ad un tavolino, in fondo al salotto, abbastanza lontano da me.
Fui salutato dalla voce di Ada che nell'oscurità mi parve sensuale.
Sorridente, una carezza:
- S'accomodi, da quella parte e non turbi gli spiriti! - Se continuava cosí io non li avrei certamente turbati.
Da un altro punto della periferia del tavolino echeggiò un'altra voce, di Alberta o forse di Augusta:
- Se vuole prendere parte all'evocazione, c'è qui ancora un posticino libero.
Io ero ben risoluto di non lasciarmi mettere in disparte e avanzai risoluto verso il punto donde m'era provenuto il saluto di Ada.
Urtai col ginocchio contro lo spigolo di quel tavolino veneziano ch'era tutto spigoli.
Ne ebbi un dolore intenso, ma non mi lasciai arrestare e andai a cadere su un sedile offertomi non sapevo da chi, fra due fanciulle di cui una, quella alla mia destra, pensai fosse Ada e l'altra Augusta.
Subito, per evitare ogni contatto con questa, mi spinsi verso l'altra.
Ebbi però il dubbio che mi sbagliassi e alla vicina di destra domandai per sentirne la voce:
- Aveste già qualche comunicazione dagli spiriti?
Guido, che mi parve sedesse a me di faccia, m'interruppe.
Imperiosamente gridò:
- Silenzio!
Poi, piú mitemente:
- Raccoglietevi e pensate intensamente al morto che desiderate di evocare.
Io non ho alcun'avversione per i tentativi di qualunque genere di spiare il mondo di là.
Ero anzi seccato di non aver introdotto io in casa di Giovanni quel tavolino, giacché vi otteneva tale successo.
Ma non mi sentivo di obbedire agli ordini di Guido e perciò non mi raccolsi affatto.
Poi m'ero fatti tanti di quei rimproveri per aver permesso che le cose arrivassero a quel punto senz'aver detta una parola chiara con Ada, che giacché avevo la fanciulla accanto, in quell'oscurità tanto favorevole, avrei chiarito tutto.
Fui trattenuto solo dalla dolcezza di averla tanto vicina a me dopo di aver temuto di averla perduta per sempre.
Intuivo la dolcezza delle stoffe tiepide che sfioravano i miei vestiti e pensavo anche che cosí stretti l'uno all'altra, il mio toccasse il suo piedino che di sera sapevo vestito di uno stivaletto laccato.
Era addirittura troppo dopo un martirio troppo lungo.
Parlò di nuovo Guido:
- Ve ne prego, raccoglietevi.
Supplicate ora lo spirito che invocaste di manifestarsi movendo il tavolino.
Mi piaceva ch'egli continuasse ad occuparsi del tavolino.
Oramai era evidente che Ada si rassegnava di portare quasi tutto il mio peso! Se non m'avesse amato non m'avrebbe sopportato.
Era venuta l'ora della chiarezza.
Tolsi la mia destra dal tavolino e pian pianino le posi il braccio alla taglia:
- Io vi amo, Ada! - dissi a bassa voce e avvicinando la mia faccia alla sua per farmi sentire meglio.
La fanciulla non rispose subito.
Poi, con un soffio di voce, però quella di Augusta, mi disse:
- Perché non veniste per tanto tempo?
La sorpresa e il dispiacere quasi mi facevano crollare dal mio sedile.
Subito sentii che se io dovevo finalmente eliminare quella seccante fanciulla dal mio destino, pure dovevo usarle il riguardo che un buon cavaliere quale son io, deve tributare alla donna che lo ama e sia dessa la piú brutta che mai sia stata creata.
Come m'amava! Nel mio dolore sentii il suo amore.
Non poteva essere altro che l'amore che le aveva suggerito di non dirmi ch'essa non era Ada, ma di farmi la domanda che da Ada avevo attesa invano e che lei invece certo s'era preparata di farmi subito quando m'avesse rivisto.
Seguii un mio istinto e non risposi alla sua domanda, ma, dopo una breve esitazione, le dissi:
- Ho tuttavia piacere di essermi confidato a voi, Augusta, che io credo tanto buona!
Mi rimisi subito in equilibrio sul mio treppiede.
Non potevo avere la chiarezza con Ada, ma intanto l'avevo completa con Augusta.
Qui non potevano esserci altri malintesi.
Guido ammoní di nuovo:
- Se non volete star zitti, non c'è alcuno scopo di passare qui il nostro tempo all'oscuro!
Egli non lo sapeva, ma io avevo tuttavia bisogno di un po' di oscurità che m'isolasse e mi permettesse di raccogliermi.
Avevo scoperto il mio errore e il solo equilibrio che avessi riconquistato era quello sul mio sedile.
Avrei parlato con Ada, ma alla chiara luce.
Ebbi il sospetto che alla mia sinistra non ci fosse lei, ma Alberta.
Come accertarmene? Il dubbio mi fece quasi cadere a sinistra e, per riconquistare l'equilibrio, mi poggiai sul tavolino.
Tutti si misero ad urlare: - Si muove, si muove! - Il mio atto involontario avrebbe potuto condurmi alla chiarezza.
Donde veniva la voce di Ada? Ma Guido coprendo con la sua la voce di tutti, impose quel silenzio che io, tanto volentieri, avrei imposto a lui.
Poi con voce mutata, supplice (imbecille!) parlò con lo spirito ch'egli credeva presente:
- Te ne prego, di' il tuo nome designandone le lettere in base all'alfabeto nostro!
Egli prevedeva tutto: aveva paura che lo spirito ricordasse l'alfabeto greco.
Io continuai la commedia sempre spiando l'oscurità alla ricerca di Ada.
Dopo una lieve esitazione feci alzare il tavolino per sette volte cosí che la lettera G era acquisita.
L'idea mi parve buona e per quanto la U che seguiva costasse innumerevoli movimenti, dettai netto netto il nome di Guido.
Non dubito che dettando il suo nome, io non fossi diretto dal desiderio di relegarlo fra gli spiriti.
Quando il nome di Guido fu perfetto, Ada finalmente parlò:
- Qualche vostro antenato? - suggerí.
Sedeva proprio accanto a lui.
Avrei voluto muovere il tavolino in modo da cacciarlo fra loro due e dividerli.
- Può essere! - disse Guido.
Egli credeva di avere degli antenati, ma non mi faceva paura.
La sua voce era alterata da una reale emozione che mi diede la gioia che prova uno schermidore quando s'accorge che l'avversario è meno temibile di quanto egli credesse.
Non era mica a sangue freddo ch'egli faceva quegli esperimenti.
Era un vero imbecille! Tutte le debolezze trovavano facilmente il mio compatimento, ma non la sua.
Poi egli si rivolse allo spirito:
- Se ti chiami Speier fa un movimento solo.
Altrimenti movi il tavolino per due volte.
- Giacché egli voleva avere degli antenati, lo compiacqui movendo il tavolino per due volte.
- Mio nonno! - mormorò Guido.
Poi la conversazione con lo spirito camminò piú rapida.
Allo spirito fu domandato se volesse dare delle notizie.
Rispose di sí.
D'affari od altre? D'affari! Questa risposta fu preferita solo perché per darla bastava movere il tavolo per una volta sola.
Guido domandò poi se si trattava di buone o di cattive notizie.
Le cattive dovevano essere designate con due movimenti ed io, - questa volta senz'alcun'esitazione, - volli movere il tavolo per due volte.
Ma il secondo movimento mi fu contrastato e doveva esserci qualcuno nella compagnia che avrebbe desiderato che le nuove fossero buone.
Ada, forse? Per produrre quel secondo movimento mi gettai addirittura sul tavolino e vinsi facilmente! Le notizie erano cattive!
Causa la lotta, il secondo movimento risultò eccessivo e spostò addirittura tutta la compagnia.
- Strano! - mormorò Guido.
Poi, deciso, urlò:
- Basta! Basta! Qui qualcuno si diverte alle nostre spalle!
Fu un comando cui molti nello stesso tempo ubbidirono e il salotto fu subito inondato dalla luce accesa in piú punti.
Guido mi parve pallido! Ada s'ingannava sul conto di quell'individuo ed io le avrei aperti gli occhi.
Nel salotto, oltre alle tre fanciulle, v'erano la signora Malfenti ed un'altra signora la cui vista m'ispirò imbarazzo e malessere perché credetti fosse la zia Rosina.
Per ragioni differenti le due signore ebbero da me un saluto compassato.
Il bello si è ch'ero rimasto al tavolino, solo accanto ad Augusta.
Era una nuova compromissione, ma non sapevo rassegnarmi d'accompagnarmi a tutti gli altri che attorniavano Guido, il quale con qualche veemenza spiegava come avesse capito che il tavolo veniva mosso non da uno spirito ma da un malizioso in carne ed ossa.
Non Ada, lui stesso aveva tentato di frenare il tavolino fattosi troppo chiacchierino.
Diceva:
- Io trattenni il tavolino con tutte le mie forze per impedire che si movesse la seconda volta.
Qualcuno dovette addirittura gettarsi su di esso per vincere la mia resistenza.
Bello quel suo spiritismo: uno sforzo potente non poteva provenire da uno spirito!
Guardai la povera Augusta per vedere quale aspetto avesse dopo di aver avuta la mia dichiarazione d'amore per sua sorella.
Era molto rossa, ma mi guardava con un sorriso benevolo.
Solo allora si decise di confermare d'aver sentita quella dichiarazione:
- Non lo dirò a nessuno! - mi disse a bassa voce.
Ciò mi piacque molto.
- Grazie, - mormorai stringendole la mano non piccola, ma modellata perfettamente.
Io ero disposto di diventare un buon amico di Augusta mentre prima di allora ciò non sarebbe stato possibile perché io non so essere l'amico delle persone brutte.
Ma sentivo una certa simpatia per la sua taglia che avevo stretta e che avevo trovata piú sottile di quanto l'avessi creduta.
Anche la sua faccia era discreta, e pareva deforme solo causa quell'occhio che batteva una strada non sua.
Avevo certamente esagerata quella deformità ritenendola estesa fino alla coscia.
Avevano fatto portare della limonata per Guido.
Mi avvicinai al gruppo che tuttavia l'attorniava e m'imbattei nella signora Malfenti che se ne staccava.
Ridendo di gusto le domandai.
- Abbisogna di un cordiale? - Ella ebbe un lieve movimento di disprezzo con le labbra:
- Non sembrerebbe un uomo! - disse chiaramente.
Io mi lusingai che la mia vittoria potesse avere un'importanza decisiva.
Ada non poteva pensare altrimenti della madre.
La vittoria ebbe subito l'effetto che non poteva mancare in un uomo fatto come son io.
Mi sparí ogni rancore e non volli che Guido soffrisse ulteriormente.
Certo il mondo sarebbe meno aspro se molti mi somigliassero.
Sedetti a lui da canto e, senza guardare gli altri, gli dissi:
- Dovete scusarmi, signor Guido.
Mi sono permesso uno scherzo di cattivo genere.
Sono stato io che ho fatto dichiarare al tavolino di essere mosso da uno spirito portante il vostro stesso nome.
Non l'avrei fatto se avessi saputo che anche vostro nonno aveva quel nome.
Guido tradí nella sua cera, che si schiarí, come la mia comunicazione fosse importante per lui.
Non volle però ammetterlo e mi disse:
- Queste signore sono troppo buone! Io non ho mica bisogno di conforto.
La cosa non ha alcun'importanza.
Vi ringrazio per la vostra sincerità, ma io avevo già indovinato che qualcuno aveva indossata la parrucca di mio nonno.
Rise, soddisfatto, dicendomi:
- Siete molto robusto, voi! Avrei dovuto indovinare che il tavolo veniva mosso dal solo altro uomo della compagnia.
M'ero dimostrato piú forte di lui, infatti, ma presto dovetti sentirmi di lui piú debole.
Ada mi guardava con occhio poco amico e m'aggredí, le belle guancie infiammate:
- Mi dispiace per voi che abbiate potuto credervi autorizzato ad uno scherzo simile.
Mi mancò il fiato e, balbettando, dissi:
- Volevo ridere! Credevo che nessuno di noi avrebbe presa sul serio quella storia del tavolino.
Era un po' tardi per attaccare Guido ed anzi, se avessi avuto un orecchio sensibile, avrei sentito che, mai piú, in una lotta con lui, la vittoria avrebbe potuto essere mia.
L'ira che Ada mi dimostrava era ben significativa.
Come non intesi ch'essa era già tutta sua? Ma io m'ostinavo nel pensiero ch'egli non la meritava perché non era l'uomo ch'essa cercava col suo occhio serio.
Non l'aveva sentito persino la signora Malfenti?
Tutti mi protessero e aggravarono la mia situazione.
La signora Malfenti disse ridendo:
- Non fu che uno scherzo riuscito benissimo.
- La zia Rosina aveva tuttavia il grosso corpo virante dal ridere e diceva ammirando:
- Magnifica!
Mi spiacque che Guido fosse tanto amichevole.
Già, a lui non importava altro che di essere sicuro che le cattive notizie che il tavolino gli aveva date, non fossero state portate da uno spirito.
Mi disse:
- Scommetto che dapprima non avete mosso il tavolo di proposito.
L'avrete mosso la prima volta senza volerlo, eppoi appena avrete deciso di moverlo con malizia.
Cosí la cosa conserverebbe una certa importanza, cioè soltanto fino al momento in cui non decideste di sabotare la vostra ispirazione.
Ada si volse e mi guardò con curiosità.
Essa stava per manifestare a Guido una devozione eccessiva perdonandomi perché Guido m'aveva concesso il suo perdono.
Glielo impedii:
- Ma no! - dissi deciso.
- Io ero stanco d'aspettare quegli spiriti che non volevano venire e li sostituii per divertirmi.
Ada mi volse le spalle arcuandole in modo ch'ebbi tutto il sentimento d'essere stato schiaffeggiato.
Persino i riccioli alla sua nuca mi parve significassero disdegno.
Come sempre, invece che guardare e ascoltare, ero tutt'occupato dal mio proprio pensiero.
M'opprimeva il fatto che Ada si comprometteva orribilmente.
Ne provavo un forte dolore come dinanzi alla rivelazione che la donna mia mi tradisse.
Ad onta di quelle sue manifestazioni d'affetto per Guido, essa tuttavia poteva ancora essere mia, ma sentivo che non le avrei mai perdonato il suo contegno.
È il mio pensiero troppo lento per saper seguire gli avvenimenti che si svolgono senz'attendere che nel mio cervello si sieno cancellate le impressioni lasciatevi dagli avvenimenti precedenti? Io dovevo tuttavia movermi sulla via segnatami dal mio proposito.
Una vera, una cieca ostinazione.
Volli anzi rendere il mio proposito piú forte registrandolo un'altra volta.
Andai ad Augusta che mi guardava ansiosamente con un sincero sorriso incoraggiante sulla faccia e le dissi serio e accorato:
- È forse l'ultima volta ch'io vengo in casa vostra perché io, questa sera stessa, dichiarerò il mio amore ad Ada.
- Non dovete farlo, - mi disse essa supplice.
- Non v'accorgete di quello che qui succede? Mi dispiacerebbe se aveste a soffrirne.
Essa continuava a frapporsi fra me e Ada.
Le dissi proprio per farle dispetto:
- Parlerò con Ada perché lo debbo.
M'è poi del tutto indifferente quello ch'essa risponderà.
Zoppicai di nuovo verso Guido.
Giunto accanto a lui, guardandomi in uno specchio, accesi una sigaretta.
Nello specchio mi vidi molto pallido ciò che per me è una ragione per impallidire di piú.
Lottai per sentirmi meglio ed apparire disinvolto.
Nel duplice sforzo la mia mano distratta afferrò il bicchiere di Guido.
Una volta afferratolo non seppi far di meglio che vuotarlo.
Guido si mise a ridere:
- Cosí saprete tutti i miei pensieri perché poco fa ho bevuto anch'io da quel bicchiere.
Il sapore del limone m'è sempre sgradito.
Quello dovette apparirmi velenoso addirittura perché, prima di tutto, per aver bevuto dal suo bicchiere a me parve d'aver subito un contatto odioso con Guido eppoi perché fui colpito nello stesso tempo dall'espressione d'impazienza iraconda che si stampò sulla faccia di Ada.
Chiamò subito la cameriera per ordinarle un altro bicchiere di limonata e insistette nel suo ordine ad onta che Guido dichiarasse di non aver piú sete.
Allora fui veramente compassionevole.
Essa si comprometteva sempre piú.
- Scusatemi, Ada, - le dissi sommessamente e guardandola come se mi fossi aspettata qualche spiegazione.
- Io non volevo spiacervi.
Poi fui invaso dal timore che i miei occhi si bagnassero di lagrime.
Volli salvarmi dal ridicolo.
Gridai:
- Mi sono spruzzato del limone nell'occhio.
Mi coprii gli occhi col fazzoletto e perciò non ebbi piú bisogno di sorvegliare le mie lagrime e bastò che badassi a non singhiozzare.
Non dimenticherò mai quell'oscurità dietro di quel fazzoletto.
Vi celavo le mie lagrime, ma anche un momento di pazzia.
Pensavo ch'io le avrei detto tutto, ch'essa m'avrebbe inteso e amato e ch'io non le avrei perdonato mai piú.
Allontanai dalla mia faccia il fazzoletto, lasciai che tutti vedessero i miei occhi lagrimosi e feci uno sforzo per ridere e far ridere:
- Scommetto che il signor Giovanni manda a casa dell'acido citrico per fare le spremute.
In quel momento giunse Giovanni che mi salutò con la sua solita grande cordialità.
Ne ebbi un piccolo conforto, che non durò a lungo, perché egli dichiarò ch'era venuto prima del solito per il desiderio di sentir suonare Guido.
S'interruppe per domandare ragione delle lagrime che mi bagnavano gli occhi.
Gli raccontarono dei miei sospetti sulla qualità delle sue spremute, ed egli ne rise.
Io fui tanto vile d'associarmi con calore alle preghiere che Giovanni rivolgeva a Guido perché suonasse.
Ricordavo: non ero io venuto quella sera per sentire il violino di Guido? Ed il curioso è che so d'aver sperato di rabbonire Ada con le mie sollecitazioni a Guido.
La guardai sperando d'essere finalmente associato a lei per la prima volta in quella sera.
Quale stranezza! Non avevo da parlarle e da non perdonarle? Invece non vidi che le sue spalle e i riccioli sdegnosi alla sua nuca.
Era corsa a trarre il violino dalla busta.
Guido domandò di essere lasciato in pace ancora per un quarto d'ora.
Pareva esitante.
Poi nei lunghi anni in cui lo conobbi feci l'esperienza ch'egli sempre esitava prima di fare le cose anche piú semplici di cui veniva pregato.
Egli non faceva che ciò che gli piaceva e, prima di consentire ad una preghiera, procedeva ad un'indagine nelle proprie cavità per vedere quello che laggiú si desiderava.
Poi in quella memoranda serata ci fu per me il quarto d'ora piú felice.
La mia chiacchierata capricciosa fece divertire tutti, Ada compresa.
Era certamente dovuta alla mia eccitazione, ma anche al mio sforzo supremo di vincere quel violino minaccioso che s'avvicinava, s'avvicinava...
E quel piccolo tratto di tempo che gli altri per opera mia sentirono come tanto divertente, io lo ricordo dedicato ad una lotta affannosa.
Giovanni aveva raccontato che nel tram, sul quale era rincasato, aveva assistito ad una scena penosa.
Una donna ne era scesa quando il veicolo era ancora in movimento e tanto malamente da cadere e ferirsi.
Giovanni descriveva con un poco di esagerazione la sua ansia all'accorgersi che quella donna s'apprestava a fare quel salto e in modo tale che era evidente sarebbe stata atterrata e forse travolta.
Era ben doloroso di prevedere e di non essere piú in tempo di salvare.
Io ebbi una trovata.
Raccontai che per quelle vertigini che in passato m'avevano fatto soffrire, avevo scoperto un rimedio.
Quando vedevo un ginnasta fare i suoi esercizi troppo in alto, o quando assistevo alla discesa da un tram in corsa di persona troppo vecchia o poco abile, mi liberavo da ogni ansia augurando loro dei malanni.
Arrivavo persino a modulare le parole con cui auguravo loro di precipitare e sfracellarsi.
Ciò mi tranquillava enormemente per cui potevo assistere del tutto inerte alla minaccia della disgrazia.
Se i miei augurii poi non si compivano, potevo dirmi ancora piú contento.
Guido fu incantato della mia idea che gli pareva una scoperta psicologica.
L'analizzava come faceva di tutte le inezie, non vedeva l'ora di poter provare il rimedio.
Ma faceva una riserva: che i malaugurii non facessero aumentare le disgrazie.
Ada s'associò al suo riso ed ebbe per me persino un'occhiata d'ammirazione.
Io, baggeo, ne ebbi una grande soddisfazione.
Ma scoprii che non era vero ch'io non avrei piú saputo perdonarle: anche questo era un grande vantaggio.
Si rise insieme moltissimo, da buoni ragazzi che si vogliono bene.
Ad un certo momento ero rimasto da una parte del salotto, solo con zia Rosina.
Essa parlava ancora del tavolino.
Abbastanza grassa, stava immobile sulla sua sedia e mi parlava senza guardarmi.
Io trovai il modo di far capire agli altri che mi seccavo e tutti mi guardavano, senza farsi vedere dalla zia, ridendo discretamente.
Per aumentare l'ilarità mi pensai di dirle senz'alcuna preparazione:
- Ma Lei, signora, è molto rimessa, la trovo ringiovanita.
Ci sarebbe stato da ridere se essa si fosse arrabbiata.
Ma la signora invece di arrabbiarsi mi si dimostrò gratissima e mi raccontò che infatti s'era molto rimessa dopo di una recente malattia.
Fui tanto stupito da quella risposta che la mia faccia dovette assumere un aspetto molto comico cosí che l'ilarità che aveva sperata non mancò.
Poco dopo l'enigma mi fu spiegato.
Seppi, cioè, che non era zia Rosina, ma zia Maria, una sorella della signora Malfenti.
Avevo cosí eliminato da quel salotto una fonte di malessere per me, ma non la maggiore.
A un dato momento Guido domandò il violino.
Faceva a meno per quella sera dell'accompagnamento del piano, eseguendo la Chaconne.
Ada gli porse il violino con un sorriso di ringraziamento.
Egli non la guardò, ma guardò il violino come se avesse voluto segregarsi seco e con l'ispirazione.
Poi si mise in mezzo al salotto volgendo la schiena a buona parte della piccola società, toccò lievemente le corde con l'arco per accordarle e fece anche qualche arpeggio.
S'interruppe per dire con un sorriso:
- Un bel coraggio il mio, quando si pensi che non ho toccato il violino dall'ultima volta in cui suonai qui!
Ciarlatano! Egli volgeva le spalle anche ad Ada.
Io la guardai ansiosamente per vedere se essa ne soffrisse.
Non pareva! Aveva poggiato il gomito su un tavolino e il mento sulla mano raccogliendosi per ascoltare.
Poi, contro di me, si mise il grande Bach in persona.
Giammai, né prima né poi, arrivai a sentire a quel modo la bellezza di quella musica nata su quelle quattro corde come un angelo di Michelangelo in un blocco di marmo.
Solo il mio stato d'animo era nuovo per me e fu desso che m'indusse a guardare estatico in su, come a cosa novissima.
Eppure io lottavo per tenere quella musica lontana da me.
Mai cessai di pensare: «Bada! Il violino è una sirena e si può far piangere con esso anche senz'avere il cuore di un eroe!».
Fui assaltato da quella musica che mi prese.
Mi parve dicesse la mia malattia e i miei dolori con indulgenza e mitigandoli con sorrisi e carezze.
Ma era Guido che parlava! Ed io cercavo di sottrarmi alla musica dicendomi: «Per saper fare ciò, basta disporre di un organismo ritmico, una mano sicura e una capacità d'imitazione; tutte cose che io non ho, ciò che non è un'inferiorità, ma una sventura».
Io protestavo, ma Bach procedeva sicuro come il destino.
Cantava in alto con passione e scendeva a cercare il basso ostinato che sorprendeva per quanto l'orecchio e il cuore l'avessero anticipato: proprio al suo posto! Un attimo piú tardi e il canto sarebbe dileguato e non avrebbe potuto essere raggiunto dalla risonanza; un attimo prima e si sarebbe sovrapposto al canto, strozzandolo.
Per Guido ciò non avveniva: non gli tremava il braccio neppure affrontando Bach e ciò era una vera inferiorità.
Oggi che scrivo ho tutte le prove di ciò.
Non gioisco per aver visto allora tanto esattamente.
Allora ero pieno di odio e quella musica, ch'io accettavo come la mia anima stessa, non seppe addolcirlo.
Poi venne la vita volgare di ogni giorno e l'annullò senza che da parte mia vi fosse alcuna resistenza.
Si capisce! La vita volgare sa fare tante di quelle cose.
Guai se i geni se ne accorgessero!
Guido cessò di suonare sapientemente.
Nessuno plaudí fuori di Giovanni, e per qualche istante nessuno parlò.
Poi, purtroppo, sentii io il bisogno di parlare.
Come osai di farlo davanti a gente che il mio violino conosceva? Pareva parlasse il mio violino che invano anelava alla musica e biasimasse l'altro sul quale - non si poteva negarlo - la musica era divenuta vita, luce ed aria.
- Benissimo! - dissi e aveva tutto il suono di una concessione piú che di un applauso.
- Ma però non capisco perché, verso la chiusa, abbiate voluto scandere quelle note che il Bach segnò legate.
Io conoscevo la Chaconne nota per nota.
C'era stata un'epoca in cui avevo creduto che, per progredire, avrei dovuto affrontare di simili imprese e per lunghi mesi passai il tempo a compitare battuta per battuta alcune composizioni del Bach.
Sentii che in tutto il salotto non v'era per me che biasimo e derisione.
Eppure parlai ancora lottando contro quell'ostilità.
- Bach - aggiunsi - è tanto modesto nei suoi mezzi che non ammette un arco fatturato a quel modo.
Io avevo probabilmente ragione, ma era anche certo ch'io non avrei neppur saputo fatturare l'arco a quel modo.
Guido fu subito altrettanto spropositato quanto lo ero stato io.
Dichiarò:
- Forse Bach non conosceva la possibilità di quell'espressione.
Gliela regalo io!
Egli montava sulle spalle di Bach, ma in quell'ambiente nessuno protestò mentre mi si aveva deriso perché io avevo tentato di montare soltanto sulle sue.
Allora avvenne una cosa di minima importanza, ma che fu per me decisiva.
Da una stanza abbastanza lontana da noi echeggiarono le urla della piccola Anna.
Come si seppe poi, era caduta insanguinandosi le labbra.
Fu cosí ch'io per qualche minuto mi trovai solo con Ada perché tutti uscirono di corsa dal salotto.
Guido, prima di seguire gli altri, aveva posto il suo prezioso violino nelle mani di Ada.
- Volete dare a me quel violino? - domandai io ad Ada vedendola esitante se seguire gli altri.
Davvero che non m'ero ancora accorto che l'occasione tanto sospirata s'era finalmente presentata.
Ella esitò, ma poi una sua strana diffidenza ebbe il sopravvento.
Trasse il violino ancora meglio a sé:
- No - rispose, - non occorre ch'io vada con gli altri.
Non credo che Anna si sia fatta tanto male.
Essa strilla per nulla.
Sedette col suo violino e a me parve che con quest'atto essa m'avesse invitato di parlare.
Del resto, come avrei potuto io andar a casa senz'aver parlato? Che cosa avrei poi fatto in quella lunga notte? Mi vedevo ribaltarmi da destra a sinistra nel mio letto o correre per le vie o le bische in cerca di svago.
No! Non dovevo abbandonare quella casa senz'essermi procurata la chiarezza e la calma.
Cercai di essere semplice e breve.
Vi ero anche costretto perché mi mancava il fiato.
Le dissi:
- Io vi amo, Ada.
Perché non mi permettereste di parlarne a vostro padre?
Ella mi guardò stupita e spaventata.
Temetti che si mettesse a strillare come la piccina, là fuori.
Io sapevo che il suo occhio sereno e la sua faccia dalle linee tanto precise non sapevano l'amore, ma tanto lontana dall'amore come ora, non l'avevo mai vista.
Incominciò a parlare e disse qualcosa che doveva essere come un esordio.
Ma io volevo la chiarezza: un sí o un no! Forse m'offendeva già quanto mi pareva un'esitazione.
Per fare presto e indurla a decidersi, discussi il suo diritto di prendersi tempo:
- Ma come non ve ne sareste accorta? A voi non era possibile di credere ch'io facessi la corte ad Augusta!
Volli mettere dell'enfasi nelle mie parole, ma, nella fretta, la misi fuori di posto e finí che quel povero nome di Augusta fu accompagnato da un accento e da un gesto di disprezzo.
Fu cosí che levai Ada dall'imbarazzo.
Essa non rilevò altro che l'offesa fatta ad Augusta:
- Perché credete di essere superiore ad Augusta? Io non penso mica che Augusta accetterebbe di divenire vostra moglie!
Poi appena ricordò che mi doveva una risposta:
- In quanto a me...
mi meraviglia che vi sia capitata una cosa simile in testa.
La frase acre doveva vendicare l'Augusta.
Nella mia grande confusione pensai che anche il senso della parola non avesse avuto altro scopo; se mi avesse schiaffeggiato credo che sarei stato esitante a studiarne la ragione.
Perciò ancora insistetti:
- Pensateci, Ada.
Io non sono un uomo cattivo.
Sono ricco...
Sono un po' bizzarro, ma mi sarà facile di correggermi.
Anche Ada fu piú dolce, ma parlò di nuovo di Augusta.
- Pensateci anche voi, Zeno: Augusta è una buona fanciulla e farebbe veramente al caso vostro.
Io non posso parlare per conto suo, ma credo...
Era una grande dolcezza di sentirmi invocare da Ada per la prima volta col mio prenome.
Non era questo un invito a parlare ancora piú chiaro? Forse era perduta per me, o almeno non avrebbe accettato subito di sposarmi, ma intanto bisognava evitare che si compromettesse di piú con Guido sul conto del quale dovevo aprirle gli occhi.
Fui accorto, e prima di tutto le dissi che stimavo e rispettavo Augusta, ma che assolutamente non volevo sposarla.
Lo dissi due volte per farmi intendere chiaramente: «io non volevo sposarla».
Cosí potevo sperare di aver rabbonita Ada che prima aveva creduto io volessi offendere Augusta.
- Una buona, una cara, un'amabile ragazza quell'Augusta; ma non fa per me.
Poi appena precipitai le cose, perché c'era del rumore sul corridoio e mi poteva essere tagliata la parola da un momento all'altro.
- Ada! Quell'uomo non fa per voi.
È un imbecille! Non v'accorgeste come sofferse per i responsi del tavolino? Avete visto il suo bastone? Suona bene il violino, ma vi sono anche delle scimmie che sanno suonarlo.
Ogni sua parola tradisce il bestione...
Essa, dopo d'esser stata ad ascoltarmi con l'aspetto di chi non sa risolversi ad ammettere nel loro senso le parole che gli sono dirette, m'interruppe.
Balzò in piedi sempre col violino e l'arco in mano e mi soffiò addosso delle parole offensive.
Io feci del mio meglio per dimenticarle e vi riuscii.
Ricordo solo che cominciò col domandarmi ad alta voce come avevo potuto parlare cosí di lui e di lei! Io feci gli occhi grandi dalla sorpresa perché mi pareva di non aver parlato che di lui solo.
Dimenticai le tante parole sdegnose ch'essa mi diresse, ma non la sua bella, nobile e sana faccia arrossata dallo sdegno e dalle linee rese piú precise, quasi marmoree, dall'indignazione.
Quella non dimenticai piú e quando penso al mio amore e alla mia giovinezza, rivedo la faccia bella e nobile e sana di Ada nel momento in cui essa m'eliminò definitivamente dal suo destino.
Ritornarono tutti in gruppo intorno alla signora Malfenti che teneva in braccio Anna ancora piangente.
Nessuno si occupò di me o di Ada ed io, senza salutare nessuno, uscii dal salotto; nel corridoio presi il mio cappello.
Curioso! Nessuno veniva a trattenermi.
Allora mi trattenni da solo, ricordando ch'io non dovevo mancare alle regole della buona educazione e che perciò prima di andarmene dovevo salutare compitamente tutti.
Vero è che non dubito io non sia stato impedito di abbandonare quella casa dalla convinzione che troppo presto sarebbe cominciata per me la notte ancora peggiore delle cinque notti che l'avevano preceduta.
Io che finalmente avevo la chiarezza, sentivo ora un altro bisogno: quello della pace, la pace con tutti.
Se avessi saputo eliminare ogni asprezza dai miei rapporti con Ada e con tutti gli altri, mi sarebbe stato piú facile di dormire.
Perché aveva da sussistere tale asprezza? Se non potevo prendermela neppure con Guido il quale se anche non ne aveva alcun merito, certamente non aveva nessuna colpa di essere stato preferito da Ada!
Essa era la sola che si fosse accorta della mia passeggiata sul corridoio e, quando mi vide ritornare, mi guardò ansiosa.
Temeva di una scena? Subito volli rassicurarla.
Le passai accanto e mormorai:
- Scusate se vi ho offesa!
Essa prese la mia mano e, rasserenata, la strinse.
Fu un grande conforto.
Io chiusi per un istante gli occhi per isolarmi con la mia anima e vedere quanta pace gliene fosse derivata.
Il mio destino volle che mentre tutti ancora si occupavano della bimba, io mi trovassi seduto accanto ad Alberta.
Non l'avevo vista e di lei non m'accorsi che quando essa mi parlò dicendomi:
- Non s'è fatta nulla.
Il grave è la presenza di papà il quale, se la vede piangere, le fa un bel regalo.
Io cessai dall'analizzarmi perché mi vidi intero! Per avere la pace io avrei dovuto fare in modo che quel salotto non mi fosse mai piú interdetto.
Guardai Alberta! Somigliava ad Ada! Era un po' di lei piú piccola e portava sul suo organismo evidenti dei segni non ancora cancellati dell'infanzia.
Facilmente alzava la voce, e il suo riso spesso eccessivo le contraeva la faccina e gliel'arrossava.
Curioso! In quel momento ricordai una raccomandazione di mio padre: «Scegli una donna giovine e ti sarà piú facile di educarla a modo tuo».
Il ricordo fu decisivo.
Guardai ancora Alberta.
Nel mio pensiero m'industriavo di spogliarla e mi piaceva cosí dolce e tenerella come supposi fosse.
Le dissi:
- Sentite, Alberta! Ho un'idea: avete mai pensato che siete nell'età di prendere marito?
- Io non penso di sposarmi! - disse essa sorridendo e guardandomi mitemente, senz'imbarazzo o rossore.
- Penso invece di continuare i miei studii.
Anche mamma lo desidera.
- Potreste continuare gli studii anche dopo sposata.
Mi venne un'idea che mi parve spiritosa e le dissi subito:
- Anch'io penso d'iniziarli dopo essermi sposato.
Essa rise di cuore, ma io m'accorsi che perdevo il mio tempo, perché non era con tali scipitezze che si poteva conquistare una moglie e la pace.
Bisognava essere serii.
Qui poi era facile perché venivo accolto tutt'altrimenti che da Ada.
Fui veramente serio.
La mia futura moglie doveva intanto sapere tutto.
Con voce commossa le dissi:
- Io, poco fa, ho indirizzata ad Ada la stessa proposta che ora feci a voi.
Essa rifiutò con sdegno.
Potete figurarvi in quale stato io mi trovi.
Queste parole accompagnate da un atteggiamento di tristezza non erano altro che la mia ultima dichiarazione d'amore per Ada.
Divenivo troppo serio e, sorridendo, aggiunsi:
- Ma credo che se voi accettaste di sposarmi, io sarei felicissimo e dimenticherei per voi tutto e tutti.
Essa si fece molto seria per dirmi:
- Non dovete offendervene, Zeno, perché mi dispiacerebbe.
Io faccio una grande stima di voi.
So che siete un buon diavolo eppoi, senza saperlo, sapete molte cose, mentre i miei professori sanno esattamente tutto quello che sanno.
Io non voglio sposarmi.
Forse mi ricrederò, ma per il momento non ho che una mèta: vorrei diventare una scrittrice.
Vedete quale fiducia vi dimostro.
Non lo dissi mai a nessuno e spero non mi tradirete.
Dal canto mio, vi prometto che non ripeterò a nessuno la vostra proposta.
- Ma anzi potete dirlo a tutti! - la interruppi io con stizza.
Mi sentivo di nuovo sotto la minaccia di essere espulso da quel salotto e corsi al riparo.
C'era poi un solo modo per attenuare in Alberta l'orgoglio di aver potuto respingermi ed io l'adottai non appena lo scopersi.
Le dissi:
- Io ora farò la stessa proposta ad Augusta e racconterò a tutti che la sposai perché le sue due sorelle mi rifiutarono!
Ridevo di un buon umore eccessivo che m'aveva colto in seguito alla stranezza del mio procedere.
Non era nella parola che mettevo lo spirito di cui ero tanto orgoglioso, ma nelle azioni.
Mi guardai d'intorno per trovare Augusta.
Era uscita sul corridoio con un vassoio sul quale non v'era che un bicchiere semivuoto contenente un calmante per Anna.
La seguii di corsa chiamandola per nome ed essa s'addossò alla parete per aspettarmi.
Mi misi a lei di faccia e subito le dissi:
- Sentite, Augusta, volete che noi due ci sposiamo?
La proposta era veramente rude.
Io dovevo sposare lei e lei me, ed io non domandavo quello ch'essa pensasse né pensavo potrebbe toccarmi di essere io costretto di dare delle spiegazioni.
Se non facevo altro che quello che tutti volevano!
Essa alzò gli occhi dilatati dalla sorpresa.
Cosí quello sbilenco era anche piú differente del solito dall'altro.
La sua faccia vellutata e bianca, dapprima impallidí di piú, eppoi subito si congestionò.
Con un filo di voce mi disse:
- Voi scherzate e ciò è male.
Temetti si mettesse a piangere ed ebbi la curiosa idea di consolarla dicendole della mia tristezza.
- Io non scherzo, - dissi serio e triste.
- Domandai dapprima la sua mano ad Ada che me la rifiutò con ira, poi domandai ad Alberta di sposarmi ed essa, con belle parole, vi si rifiutò anch'essa.
Non serbo rancore né all'una né all'altra.
Solo mi sento molto, ma molto infelice.
Dinanzi al mio dolore essa si ricompose e si mise a guardarmi commossa, riflettendo intensamente.
Il suo sguardo somigliava ad una carezza che non mi faceva piacere.
- Io devo dunque sapere e ricordare che voi non mi amate? - domandò.
Che cosa significava questa frase sibillina? Preludiava ad un consenso? Voleva ricordare! Ricordare per tutta la vita da trascorrersi con me? Ebbi il sentimento di chi per ammazzarsi si sia messo in una posizione pericolosa ed ora sia costretto a faticare per salvarsi.
Non sarebbe stato meglio che anche Augusta m'avesse rifiutato e che mi fosse stato concesso di ritornare sano e salvo nel mio studiolo nel quale neppure quel giorno stesso m'ero sentito troppo male? Le dissi:
- Sí! Io non amo che Ada e sposerei ora voi...
Stavo per dirle che non potevo rassegnarmi di divenire un estraneo per Ada e che perciò mi contentavo di divenirle cognato.
Sarebbe stato un eccesso, ed Augusta avrebbe di nuovo potuto credere che volessi dileggiarla.
Perciò dissi soltanto:
- Io non so piú rassegnarmi di restar solo.
Essa rimaneva tuttavia poggiata alla parete del cui sostegno forse sentiva il bisogno; però pareva piú calma ed il vassoio era ora tenuto da una sola mano.
Ero salvo e cioè dovevo abbandonare quel salotto, o potevo restarci e dovevo sposarmi? Dissi delle altre parole, solo perché impaziente di aspettare le sue che non volevano venire:
- Io sono un buon diavolo e credo che con me si possa vivere facilmente anche senza che ci sia un grande amore.
Questa era una frase che nei lunghi giorni precedenti avevo preparata per Ada per indurla a dirmi di sí anche senza sentire per me un grande amore.
Augusta ansava leggermente e taceva ancora.
Quel silenzio poteva anche significare un rifiuto, il piú delicato rifiuto che si potesse immaginare: io quasi sarei scappato in cerca del mio cappello, in tempo per porlo su una testa salva.
Invece Augusta, decisa, con un movimento dignitoso che mai dimenticai, si rizzò e abbandonò il sostegno della parete.
Nel corridoio non largo essa si avvicinò cosí ancora di piú a me che le stavo di faccia.
Mi disse:
- Voi, Zeno, avete bisogno di una donna che voglia vivere per voi e vi assista.
Io voglio essere quella donna.
Mi porse la mano paffutella ch'io quasi istintivamente baciai.
Evidentemente non c'era piú la possibilità di fare altrimenti.
Devo poi confessare che in quel momento fui pervaso da una soddisfazione che m'allargò il petto.
Non avevo piú da risolvere niente, perché tutto era stato risolto.
Questa era la vera chiarezza.
Fu cosí che mi fidanzai.
Fummo subito festeggiatissimi.
Il mio somigliava un poco al grande successo del violino di Guido, tanti furono gli applausi di tutti.
Giovanni mi baciò e mi diede subito del tu.
Con eccessiva espressione di affetto mi disse:
- Mi sentivo tuo padre da molto tempo, dacché cominciai a darti dei consigli per il tuo commercio.
La mia futura suocera mi porse anch'essa la guancia che sfiorai.
A quel bacio non sarei sfuggito neppure se avessi sposato Ada.
- Vede ch'io avevo indovinato tutto, - mi disse con una disinvoltura incredibile e che non fu punita perché io non seppi né volli protestare.
Essa poi abbracciò Augusta e la grandezza del suo affetto si rivelò in un singhiozzo che le sfuggí interrompendo le sue manifestazioni di gioia.
Io non potevo soffrire la signora Malfenti, ma devo dire che quel singhiozzo colorí, almeno per tutta quella sera, di una luce simpatica e importante il mio fidanzamento.
Alberta, raggiante, mi strinse la mano:
- Io voglio essere per voi una buona sorella.
- E Ada:
- Bravo, Zeno! - Poi, a bassa voce: - Sappiatelo: giammai un uomo che creda di aver fatta una cosa con precipitazione, ha agito piú saviamente di voi.
Guido mi diede una grande sorpresa:
- Da questa mattina avevo capito che volevate una o l'altra delle signorine Malfenti, ma non arrivavo a sapere quale.
Non dovevano dunque essere molto intimi se Ada non gli aveva parlato della mia corte! Che avessi davvero agito precipitosamente?
Poco dopo però, Ada mi disse ancora:
- Vorrei che mi voleste bene come un fratello.
Il resto sia dimenticato: io non dirò mai nulla a Guido.
Era del resto bello di aver provocata tanta gioia in una famiglia.
Non potevo goderne molto, solo perché ero molto stanco.
Ero anche assonnato.
Ciò provava che avevo agito con grande accortezza.
La mia notte sarebbe stata buona.
A cena Augusta ed io assistemmo muti ai festeggiamenti che ci venivano fatti.
Essa sentí il bisogno di scusarsi della sua incapacità di prender parte alla conversazione generale:
- Non so dir nulla.
Dovete ricordare che, mezz'ora fa, io non sapevo quello che stava per succedermi.
Essa diceva sempre l'esatta verità.
Si trovava fra il riso e il pianto e mi guardò.
Volli accarezzarla anch'io con l'occhio e non so se vi riuscii.
Quella stessa sera a quel tavolo subii un'altra lesione.
Fui ferito proprio da Guido.
Pare che poco prima ch'io fossi giunto per prendere parte alla seduta spiritistica, Guido avesse raccontato che nella mattina io avevo dichiarato di non essere una persona distratta.
Gli diedero subito tante di quelle prove ch'io avevo mentito che, per vendicarsi, (o forse per far vedere ch'egli sapeva disegnare) fece due mie caricature.
Nella prima ero rappresentato come, col naso in aria, mi poggiavo su un ombrello puntato a terra.
Nella seconda l'ombrello s'era spezzato e il manico m'era penetrato nella schiena.
Le due caricature raggiungevano lo scopo e facevano ridere col mezzuccio semplice che l'individuo che doveva rappresentarmi - invero affatto somigliante, ma caratterizzato da una grande calvizie - era identico nel primo e nel secondo schizzo e si poteva perciò figurarselo tanto distratto da non aver cambiato di aspetto per il fatto che un ombrello lo aveva trafitto.
Tutti risero molto e anzi troppo.
Mi dolse intensamente il tentativo tanto ben riuscito di gettare su me del ridicolo.
E fu allora che per la prima volta fui colto dal mio dolore lancinante.
Quella sera mi dolsero l'avambraccio destro e l'anca.
Un intenso bruciore, un formicolio nei nervi come se avessero minacciato di rattrappirsi.
Stupito portai la mano destra all'anca e con la mano sinistra afferrai l'avambraccio colpito.
Augusta mi domandò:
- Che hai?
Risposi che sentivo un dolore al posto contuso da quella caduta al caffè della quale s'era parlato anche quella sera stessa.
Feci subito un energico tentativo per liberarmi da quel dolore.
Mi parve che ne sarei guarito se avessi saputo vendicarmi dell'ingiuria che m'era stata fatta.
Domandai un pezzo di carta ed una matita e tentai di disegnare un individuo che veniva oppresso da un tavolino ribaltatoglisi addosso.
Misi poi accanto a lui un bastone sfuggitogli di mano in seguito alla catastrofe.
Nessuno riconobbe il bastone e perciò l'offesa non riuscí quale io l'avrei voluta.
Perché poi si riconoscesse chi fosse quell'individuo e come fosse capitato in quella posizione, scrissi di sotto: «Guido Speier alle prese col tavolino».
Del resto di quel disgraziato sotto al tavolino non si vedevano che le gambe, che avrebbero potuto somigliare a quelle di Guido se non le avessi storpiate ad arte, e lo spirito di vendetta non fosse intervenuto a peggiorare il mio disegno già tanto infantile.
Il dolore assillante mi fece lavorare in grande fretta.
Certo giammai il mio povero organismo fu talmente pervaso dal desiderio di ferire e se avessi avuta in mano la sciabola invece di quella matita che non sapevo muovere, forse la cura sarebbe riuscita.
Guido rise sinceramente del mio disegno, ma poi osservò mitemente:
- Non mi pare che il tavolino m'abbia nociuto!
Non gli aveva infatti nociuto ed era questa l'ingiustizia di cui mi dolevo.
Ada prese i due disegni di Guido e disse di voler conservarli.
Io la guardai per esprimerle il mio rimprovero ed essa dovette stornare il suo sguardo dal mio.
Avevo il diritto di rimproverarla perché faceva aumentare il mio dolore.
Trovai una difesa in Augusta.
Essa volle che sul mio disegno mettessi la data del nostro fidanzamento perché voleva conservare anche lei quello sgorbio.
Un'onda calda di sangue inondò le mie vene a tale segno d'affetto che per la prima volta riconobbi tanto importante per me.
Il dolore però non cessò e dovetti pensare che se quell'atto d'affetto mi fosse venuto da Ada, esso avrebbe provocata nelle mie vene una tale ondata di sangue che tutti i detriti accumulatisi nei miei nervi ne sarebbero stati spazzati via.
Quel dolore non m'abbandonò piú.
Adesso, nella vecchiaia, ne soffro meno perché, quando mi coglie, lo sopporto con indulgenza: «Ah! Sei qui, prova evidente che sono stato giovine?».
Ma in gioventú fu altra cosa.
Io non dico che il dolore sia stato grande, per quanto talvolta m'abbia impedito il libero movimento o mi abbia tenuto desto per notti intere.
Ma esso occupò buona parte della mia vita.
Volevo guarirne! Perché avrei dovuto portare per tutta la vita sul mio corpo stesso lo stigma del vinto? Divenire addirittura il monumento ambulante della vittoria di Guido? Bisognava cancellare dal mio corpo quel dolore.
Cosí cominciarono le cure.
Ma, subito dopo, l'origine rabbiosa della malattia fu dimenticata e mi fu ora persino difficile di ritrovarla.
Non poteva essere altrimenti: io avevo una grande fiducia nei medici che mi curarono e credetti loro sinceramente quando attribuirono quel dolore ora al ricambio ed ora alla circolazione difettosa, poi alla tubercolosi o a varie infezioni di cui qualcuna vergognosa.
Devo poi confessare che tutte le cure m'arrecarono qualche sollievo temporaneo per cui ogni volta l'eventuale nuova diagnosi sembrava confermata.
Prima o poi risultava meno esatta, ma non del tutto erronea, perché da me nessuna funzione è idealmente perfetta.
Una volta sola ci fu un vero errore: una specie di veterinario nelle cui mani m'ero posto, s'ostinò per lungo tempo ad attaccare il mio nervo sciatico coi suoi vescicanti e finí coll'essere beffato dal mio dolore che improvvisamente, durante una seduta, saltò dall'anca alla coppa, lungi perciò da ogni connessione col nervo sciatico.
Il cerusico s'arrabbiò e mi mise alla porta ed io me ne andai - me lo ricordo benissimo - niente affatto offeso, ammirato invece che il dolore al nuovo posto non avesse cambiato per nulla.
Rimaneva rabbioso e irraggiungibile come quando m'aveva torturata l'anca.
È strano come ogni parte del nostro corpo sappia dolere allo stesso modo.
Tutte le altre diagnosi vivono esattissime nel mio corpo e si battono fra di loro per il primato.
Vi sono delle giornate in cui vivo per la diatesi urica ed altre in cui la diatesi è uccisa, cioè guarita, da un'infiammazione delle vene.
Io ho dei cassetti interi di medicinali e sono i soli cassetti miei che tengo io stesso in ordine.
Io amo le mie medicine e so che quando ne abbandono una, prima o poi vi ritornerò.
Del resto non credo di aver perduto il mio tempo.
Chissà da quanto tempo e di quale malattia io sarei già morto se il mio dolore in tempo non le avesse simulate tutte per indurmi a curarle prima ch'esse m'afferrassero.
Ma pur senza saper spiegarne l'intima natura, io so quando il mio dolore per la prima volta si formò.
Proprio per quel disegno tanto migliore del mio.
Una goccia che fece traboccare il vaso! Io sono sicuro di non aver mai prima sentito quel dolore.
Ad un medico volli spiegarne l'origine, ma non m'intese.
Chissà? Forse la psico-analisi porterà alla luce tutto il rivolgimento che il mio organismo subí in quei giorni e specialmente nelle poche ore che seguirono al mio fidanzamento.
Non furono neppure poche, quelle ore!
Quando, tardi, la compagnia si sciolse, Augusta lietamente mi disse:
- A domani!
L'invito mi piacque perché provava che avevo raggiunto il mio scopo e che niente era finito e tutto avrebbe continuato il giorno appresso.
Essa mi guardò negli occhi e trovò i miei vivamente annuenti cosí da confortarla.
Scesi quegli scalini, che non contai piú, domandandomi:
- Chissà se l'amo?
È un dubbio che m'accompagnò per tutta la vita e oggidí posso pensare che l'amore accompagnato da tanto dubbio sia il vero amore.
Ma neppure dopo abbandonata quella casa, mi fu concesso di andar a coricarmi e raccogliere il frutto della mia attività di quella serata in un sonno lungo e ristoratore.
Faceva caldo.
Guido sentí il bisogno di un gelato e m'invitò ad accompagnarlo ad un caffè.
S'aggrappò amichevolmente al mio braccio ed io, altrettanto amichevolmente, sostenni il suo.
Egli era una persona molto importante per me e non avrei saputo rifiutargli niente.
La grande stanchezza che avrebbe dovuto cacciarmi a letto, mi rendeva piú arrendevole del solito.
Entrammo proprio nella bottega ove il povero Tullio m'aveva infettato con la sua malattia, e ci mettemmo a sedere ad un tavolo appartato.
Sulla via il mio dolore che io ancora non sapevo quale compagno fedele mi sarebbe stato, m'aveva fatto soffrire molto e, per qualche istante, mi parve si attenuasse perché mi fu concesso di sedere.
La compagnia di Guido fu addirittura terribile.
S'informava con grande curiosità della storia dei miei amori con Augusta.
Sospettava ch'io lo ingannassi? Gli dissi sfacciatamente che io di Augusta m'ero innamorato subito alla mia prima visita in casa Malfenti.
Il mio dolore mi rendeva ciarliero, quasi avessi voluto gridare piú di esso.
Ma parlai troppo e se Guido fosse stato piú attento si sarebbe accorto che io non ero tanto innamorato di Augusta.
Parlai della cosa piú interessante nel corpo di Augusta, cioè quell'occhio sbilenco che a torto faceva credere che anche il resto non fosse al suo vero posto.
Poi volli spiegare perché non mi fossi fatto avanti prima.
Forse Guido era meravigliato di avermi visto capitare in quella casa all'ultimo momento per fidanzarmi.
Urlai:
- Intanto le signorine Malfenti sono abituate ad un grande lusso ed io non potevo sapere se ero al caso di addossarmi una cosa simile.
Mi dispiacque di aver cosí parlato anche di Ada, ma non v'era piú rimedio; era tanto difficile di isolare Augusta da Ada! Continuai abbassando la voce per sorvegliarmi meglio:
- Dovetti perciò fare dei calcoli.
Trovai che il mio denaro non bastava.
Allora mi misi a studiare se potevo allargare il mio commercio.
Dissi poi che, per fare quei calcoli, avevo avuto bisogno di molto tempo e che perciò m'ero astenuto dal far visita ai Malfenti per cinque giorni.
Finalmente la lingua abbandonata a se stessa era arrivata ad un po' di sincerità.
Ero vicino al pianto e, premendomi l'anca, mormorai:
- Cinque giorni son lunghi!
Guido disse che si compiaceva di scoprire in me una persona tanto previdente.
Io osservai seccamente:
- La persona previdente non è piú gradevole della stordita!
Guido rise:
- Curioso che il previdente senta il bisogno di difendere lo stordito!
Poi, senz'altra transizione, mi raccontò seccamente ch'egli era in procinto di domandare la mano di Ada.
M'aveva trascinato al caffè per farmi quella confessione oppure s'era seccato di aver dovuto starmi a sentire per tanto tempo a parlare di me e si procurava la rivincita?
Io sono quasi sicuro d'esser riuscito a dimostrare la massima sorpresa e la massima compiacenza.
Ma subito dopo trovai il modo di addentarlo vigorosamente:
- Adesso capisco perché ad Ada piacque tanto quel Bach svisato a quel modo! Era ben suonato, ma gli Otto proibiscono di lordare in certi posti.
La botta era forte e Guido arrossí dal dolore.
Fu mite nella risposta perché ora gli mancava l'appoggio di tutto il suo piccolo pubblico entusiasta.
- Dio mio! - cominciò per guadagnar tempo.
- Talvolta suonando si cede ad un capriccio.
In quella stanza pochi conoscevano il Bach ed io lo presentai loro un poco modernizzato.
Parve soddisfatto della sua trovata, ma io ne fui soddisfatto altrettanto perché mi parve una scusa e una sommissione.
Ciò bastò a mitigarmi e, del resto, per nulla al mondo avrei voluto litigare col futuro marito di Ada.
Proclamai che raramente avevo sentito un dilettante che suonasse cosí bene.
A lui non bastò: osservò ch'egli poteva essere considerato quale un dilettante, solo perché non accettava di presentarsi come professionista.
Non voleva altro? Gli diedi ragione.
Era evidente ch'egli non poteva essere considerato quale un dilettante.
Cosí fummo di nuovo buoni amici.
Poi, di punto in bianco, egli si mise a dir male delle donne.
Restai a bocca aperta! Ora che lo conosco meglio, so ch'egli si lancia a un discorrere abbondante in qualsiasi direzione quando si crede sicuro di piacere al suo interlocutore.
Io, poco prima, avevo parlato del lusso delle signorine Malfenti, ed egli ricominciò a parlare di quello per finire col dire di tutte le altre cattive qualità delle donne.
La mia stanchezza m'impediva d'interromperlo e mi limitavo a continui segni d'assenso ch'erano già troppo faticosi per me.
Altrimenti, certo, avrei protestato.
Io sapevo ch'io avevo ogni ragione di dir male delle donne rappresentate per me da Ada, Augusta e dalla mia futura suocera; ma lui non aveva alcuna ragione di prendersela col sesso rappresentato per lui dalla sola Ada che l'amava.
Era ben dotto, e ad onta della mia stanchezza stetti a sentirlo con ammirazione.
Molto tempo dopo scopersi ch'egli aveva fatte sue le geniali teorie del giovine suicida Weininger.
Per allora subivo il peso di un secondo Bach.
Mi venne persino il dubbio ch'egli volesse curarmi.
Perché altrimenti avrebbe voluto convincermi che la donna non sa essere né geniale né buona? A me parve che la cura non riuscí perché somministrata da Guido.
Ma conservai quelle teorie e le perfezionai con la lettura del Weininger.
Non guariscono però mai, ma sono una comoda compagnia quando si corre dietro alle donne.
Finito il suo gelato, Guido sentí il bisogno di una boccata d'aria fresca e m'indusse ad accompagnarlo ad una passeggiata verso la periferia della città.
Ricordo: da giorni, in città, si anelava ad un poco di pioggia da cui si sperava qualche sollievo al caldo anticipato.
Io non m'ero neppure accorto di quel caldo.
Quella sera il cielo aveva cominciato a coprirsi di leggere nubi bianche, di quelle da cui il popolo spera la pioggia abbondante, ma una grande luna s'avanzava nel cielo intensamente azzurro dov'era ancora limpido, una di quelle lune dalle guancie gonfie che lo stesso popolo crede capaci di mangiare le nubi.
Era infatti evidente che là dov'essa toccava, scioglieva e nettava.
Volli interrompere il chiacchierio di Guido che mi costringeva ad un annuire continuo, una tortura, e gli descrissi il bacio nella luna scoperto dal poeta Zamboni: com'era dolce quel bacio nel centro delle nostre notti in confronto all'ingiustizia che Guido accanto a me commetteva! Parlando e scotendomi dal torpore in cui ero caduto a forza di assentire, mi parve che il mio dolore s'attenuasse.
Era il premio per la mia ribellione e vi insistetti.
Guido dovette adattarsi di lasciare per un momento in pace le donne e guardare in alto.
Ma per poco! Scoperta, in seguito alle mie indicazioni, la pallida immagine di donna nella luna, ritornò al suo argomento con uno scherzo di cui rise fortemente, ma solo lui, nella via deserta:
- Vede tante cose quella donna! Peccato ch'essendo donna non sa ricordarle.
Faceva parte della sua teoria (o di quella del Weininger) che la donna non può essere geniale perché non sa ricordare.
Arrivammo sotto la via Belvedere.
Guido disse che un po' di salita ci avrebbe fatto bene.
Anche questa volta lo compiacqui.
Lassú, con uno di quei movimenti che si confanno meglio ai giovanissimi ragazzi, egli si sdraiò sul muricciuolo che arginava la via da quella sottostante.
Gli pareva di fare un atto di coraggio esponendosi ad una caduta di una diecina di metri.
Sentii dapprima il solito ribrezzo al vederlo esposto a tanto pericolo, ma poi ricordai il sistema da me escogitato quella sera stessa, in uno slancio d'improvvisazione, per liberarmi da quell'affanno e mi misi ad augurare ferventemente ch'egli cadesse.
In quella posizione egli continuava a predicare contro le donne.
Diceva ora che abbisognavano di giocattoli come i bambini, ma di alto prezzo.
Ricordai che Ada diceva di amare molto i gioielli.
Era dunque proprio di lei ch'egli parlava? Ebbi allora un'idea spaventosa! Perché non avrei fatto fare a Guido quel salto di dieci metri? Non sarebbe stato giusto di sopprimere costui che mi portava via Ada senz'amarla? In quel momento mi pareva che quando l'avessi ucciso, avrei potuto correre da Ada per averne subito il premio.
Nella strana notte piena di luce, a me era parso ch'essa stesse a sentire come Guido l'infamava.
Debbo confessare ch'io in quel momento m'accinsi veramente ad uccidere Guido! Ero in piedi accanto a lui ch'era sdraiato sul basso muricciuolo ed esaminai freddamente come avrei dovuto afferrarlo per essere sicuro del fatto mio.
Poi scopersi che non avevo neppur bisogno di afferrarlo.
Egli giaceva sulle proprie braccia incrociate dietro la testa, e sarebbe bastata una buona spinta improvvisa per metterlo senza rimedio fuori d'equilibrio.
Mi venne un'altra idea che mi parve tanto importante da poter compararla alla grande luna che s'avanzava nel cielo nettandolo: avevo accettato di fidanzarmi ad Augusta per essere sicuro di dormir bene quella notte.
Come avrei potuto dormire se avessi ammazzato Guido? Quest'idea salvò me e lui.
Volli subito abbandonare quella posizione nella quale sovrastavo a Guido e che mi seduceva a quell'azione.
Mi piegai sulle ginocchia abbattendomi su me stesso e arrivando quasi a toccare il suolo con la mia testa:
- Che dolore, che dolore! - urlai.
Spaventato, Guido balzò in piedi a domandarmi delle spiegazioni.
Io continuai a lamentarmi piú mitemente senza rispondere.
Sapevo perché mi lamentavo: perché avevo voluto uccidere e forse, anche, perché non avevo saputo farlo.
Il dolore e il lamento scusavano tutto.
Mi pareva di gridare ch'io non avevo voluto uccidere e mi pareva anche di gridare che non era colpa mia se non avevo saputo farlo.
Tutto era colpa della mia malattia e del mio dolore.
Invece ricordo benissimo che proprio allora il mio dolore scomparve del tutto e che il mio lamento rimase una pura commedia cui io invano cercai di dare un contenuto evocando il dolore e ricostruendolo per sentirlo e soffrirne.
Ma fu uno sforzo vano perché esso non ritornò che quando volle.
Come al solito Guido procedeva per ipotesi.
Fra altro mi domandò se non si fosse trattato dello stesso dolore prodotto da quella caduta al caffè.
L'idea mi parve buona e assentii.
Egli mi prese per il braccio e, amorevolmente, mi fece rizzare.
Poi, con ogni riguardo, sempre appoggiandomi, mi fece scendere la piccola erta.
Quando fummo giú, dichiarai che mi sentivo un poco meglio e che credevo che, appoggiato a lui, avrei potuto procedere piú spedito.
Cosí si andava finalmente a letto! Poi era la prima vera grande soddisfazione che quel giorno mi fosse stata accordata.
Egli lavorava per me, perché quasi mi portava.
Ero io che finalmente gl'imponevo il mio volere.
Trovammo una farmacia ancora aperta ed egli ebbe l'idea di mandarmi a letto accompagnato da un calmante.
Costruí tutta una teoria sul dolore reale e sul sentimento esagerato dello stesso: un dolore si moltiplicava per l'esasperazione ch'esso stesso aveva prodotta.
Con quella bottiglietta s'iniziò la mia raccolta di medicinali, e fu giusto fosse stata scelta da Guido.
Per dar base piú solida alla sua teoria, egli suppose ch'io avessi sofferto di quel dolore da molti giorni.
Mi spiacque di non poter compiacerlo.
Dichiarai che quella sera, in casa dei Malfenti, io non avevo sentito alcun dolore.
Nel momento in cui m'era stata concessa la realizzazione del mio lungo sogno, evidentemente non avevo potuto soffrire.
E per essere sincero volli proprio essere come avevo asserito ch'io fossi e dissi piú volte a me stesso: «Io amo Augusta, io non amo Ada.
Amo Augusta e questa sera arrivai alla realizzazione del mio lungo sogno».
Cosí procedemmo nella notte lunare.
Suppongo che Guido fosse affaticato dal mio peso, perché finalmente ammutolí.
Mi propose però di accompagnarmi fino a letto.
Rifiutai e quando mi fu concesso di chiudere la porta di casa dietro di me, diedi un sospiro di sollievo.
Ma certamente anche Guido dovette emettere lo stesso sospiro.
Feci gli scalini della mia villa a quattro a quattro e in dieci minuti fui a letto.
M'addormentai presto e, nel breve periodo che precede il sonno, non ricordai né Ada né Augusta, ma il solo Guido, cosí dolce e buono e paziente.
Certo, non avevo dimenticato che poco prima avevo voluto ucciderlo, ma ciò non aveva alcun'importanza perché le cose di cui nessuno sa e che non lasciarono delle tracce, non esistono.
Il giorno seguente mi recai alla casa della mia sposa un po' titubante.
Non ero sicuro se gl'impegni presi la sera prima avessero il valore ch'io credevo di dover conferire loro.
Scopersi che l'avevano per tutti.
Anche Augusta riteneva d'essersi fidanzata, anzi piú sicuramente di quanto lo credessi io.
Fu un fidanzamento laborioso.
Io ho il senso di averlo annullato varie volte e ricostituito con grande fatica e sono sorpreso che nessuno se ne sia accorto.
Mai non ebbi la certezza d'avviarmi proprio al matrimonio, ma pare che tuttavia io mi sia comportato da fidanzato abbastanza amoroso.
Infatti io baciavo e stringevo al seno la sorella di Ada ogni qualvolta ne avevo la possibilità.
Augusta subiva le mie aggressioni come credeva che una sposa dovesse ed io mi comportai relativamente bene, solo perché la signora Malfenti non ci lasciò soli che per brevi istanti.
La mia sposa era molto meno brutta di quanto avessi creduto, e la sua piú grande bellezza la scopersi baciandola: il suo rossore! Là dove baciavo sorgeva una fiamma in mio onore ed io baciavo piú con la curiosità dello sperimentatore che col fervore dell'amante.
Ma il desiderio non mancò e rese un po' piú lieve quella grave epoca.
Guai se Augusta e sua madre non m'avessero impedito di bruciare quella fiamma in una sola volta come io spesso ne avrei avuto il desiderio.
Come si avrebbe continuato a vivere allora? Almeno cosí il mio desiderio continuò a darmi sulle scale di quella casa la stessa ansia come quando le salivo per andare alla conquista di Ada.
Gli scalini dispari mi promettevano che quel giorno avrei potuto far vedere ad Augusta che cosa fosse il fidanzamento ch'essa aveva voluto.
Sognavo un'azione violenta che m'avrebbe ridato tutto il sentimento della mia libertà.
Non volevo mica altro io ed è ben strano che quando Augusta intese quello ch'io volevo, l'abbia interpretato quale un segno di febbre d'amore.
Nel mio ricordo quel periodo si divide in due fasi.
Nella prima la signora Malfenti ci faceva spesso sorvegliare da Alberta o cacciava nel salotto con noi la piccola Anna con una sua maestrina.
Ada non fu allora mai associata in alcun modo a noi ed io dicevo a me stesso che dovevo compiacermene, mentre invece ricordo oscuramente di aver pensato una volta che sarebbe stata una bella soddisfazione per me di poter baciare Augusta in presenza di Ada.
Chissà con quale violenza l'avrei fatto.
La seconda fase s'iniziò quando Guido ufficialmente si fidanzò con Ada e la signora Malfenti da quella pratica donna che era, uní le due coppie nello stesso salotto perché si sorvegliassero a vicenda.
Della prima fase so che Augusta si diceva perfettamente soddisfatta di me.
Quando non l'assaltavo, divenivo di una loquacità straordinaria.
La loquacità era un mio bisogno.
Me ne procurai l'opportunità figgendomi in capo l'idea che giacché dovevo sposare Augusta, dovessi anche imprenderne l'educazione.
L'educavo alla dolcezza, all'affetto e sopra tutto alla fedeltà.
Non ricordo esattamente la forma che davo alle mie prediche di cui taluna m'è ricordata da lei che giammai le obliò.
M'ascoltava attenta e sommessa.
Io, una volta, nella foga dell'insegnamento, proclamai che se essa avesse scoperto un mio tradimento, ne sarebbe conseguito il suo diritto di ripagarmi della stessa moneta.
Essa, indignata, protestò che neppure col mio permesso avrebbe saputo tradirmi e che, da un mio tradimento, a lei non sarebbe risultata che la libertà di piangere.
Io credo che tali prediche fatte per tutt'altro scopo che di dire qualche cosa, abbiano avuta una benefica influenza sul mio matrimonio.
Di sincero v'era l'effetto ch'esse ebbero sull'animo di Augusta.
La sua fedeltà non fu mai messa a prova perché dei miei tradimenti essa mai seppe nulla, ma il suo affetto e la sua dolcezza restarono inalterati nei lunghi anni che passammo insieme, proprio come l'avevo indotta a promettermelo.
Quando Guido si promise, la seconda fase del mio fidanzamento s'iniziò con un mio proponimento che fu espresso cosí: «Eccomi ben guarito del mio amore per Ada!».
Fino ad allora avevo creduto che il rossore di Augusta fosse bastato per guarirmi, ma si vede che non si è mai guariti abbastanza! Il ricordo di quel rossore mi fece pensare ch'esso oramai ci sarebbe stato anche fra Guido e Ada.
Questo, molto meglio di quell'altro, doveva abolire ogni mio desiderio.
È della prima fase il desiderio di violare Augusta.
Nella seconda fui molto meno eccitato.
La signora Malfenti non aveva certo sbagliato organizzando cosí la nostra sorveglianza con tanto piccolo suo disturbo.
Mi ricordo che una volta scherzando mi misi a baciare Augusta.
Invece di scherzare con me, Guido si mise a sua volta a baciare Ada.
Mi parve poco delicato da parte sua, perché egli non baciava castamente come avevo fatto io per riguardo a loro, ma baciava Ada proprio nella bocca che addirittura suggeva.
Sono certo che in quell'epoca io m'ero già assueffatto a considerare Ada quale una sorella, ma non ero preparato a vederne far uso a quel modo.
Dubito anche che ad un vero fratello piacerebbe di veder manipolare cosí la sorella.
Perciò, in presenza di Guido, io non baciai mai piú Augusta.
Invece Guido, in mia presenza, tentò un'altra volta di attirare a sé Ada, ma fu dessa che se ne schermí ed egli non ripeté piú il tentativo.
Molto confusamente mi ricordo delle tante e tante sere che passammo insieme.
La scena che si ripeté all'infinito, s'impresse nella mia mente cosí: tutt'e quattro eravamo seduti intorno al fine tavolo veneziano su cui ardeva una grande lampada a petrolio coperta da uno schermo di stoffa verde che metteva tutto nell'ombra, meno i lavori di ricamo cui le due fanciulle attendevano, Ada su un fazzoletto di seta che teneva libero in mano, Augusta su un piccolo telaio rotondo.
Vedo Guido perorare e dev'essere successo di spesso che sia stato io solo a dargli ragione.
Mi ricordo ancora della testa di capelli neri lievemente ricciuti di Ada, rilevati da un effetto strano che vi produceva la luce gialla e verde.
Si discusse di quella luce e anche del colore vero di quei capelli.
Guido, che sapeva anche dipingere, ci spiegò come si dovesse analizzare un colore.
Neppure questo suo insegnamento non dimenticai piú e ancora oggidí, quando voglio intendere meglio il colore di un paesaggio, socchiudo gli occhi finché non spariscano molte linee e non si vedano che le sole luci che anch'esse s'abbrunano nel solo e vero colore.
Però, quando mi dedico ad un'analisi simile, sulla mia retina, subito dopo le immagini reali, quasi una reazione mia fisica, riappare la luce gialla e verde e i capelli bruni sui quali per la prima volta educai il mio occhio.
Non so dimenticare una sera che fra tutte fu rilevata da un'espressione di gelosia di Augusta e subito dopo anche da una mia riprovevole indiscrezione.
Per farci uno scherzo, Guido e Ada erano andati a sedere lontano da noi, dall'altra parte del salotto, al tavolo Luigi XIV.
Cosí io ebbi presto un dolore al collo che torcevo per parlare con loro.
Augusta mi disse:
- Lasciali! Là si fa veramente all'amore.
Ed io, con una grande inerzia di pensiero, le dissi a bassa voce che non doveva crederlo perché Guido non amava le donne.
Cosí m'era sembrato di scusarmi di essermi ingerito nei discorsi dei due amanti.
Era invece una malvagia indiscrezione quella di riferire ad Augusta i discorsi sulle donne cui Guido s'abbandonava in mia compagnia, ma giammai in presenza di alcun altro della famiglia delle nostre spose.
Il ricordo di quelle mie parole m'amareggiò per varii giorni, mentre posso dire che il ricordo di aver voluto uccidere Guido non m'aveva turbato neppure per un'ora.
Ma uccidere e sia pure a tradimento, è cosa piú virile che danneggiare un amico riferendo una sua confidenza.
Già allora Augusta aveva torto di essere gelosa di Ada.
Non era per vedere Ada ch'io a quel modo torcevo il mio collo.
Guido, con la sua loquacità, m'aiutava a trascorrere quel lungo tempo.
Io gli volevo già bene e passavo una parte delle mie giornate con lui.
Ero legato a lui anche dalla gratitudine che gli portavo per la considerazione in cui egli mi teneva e che comunicava agli altri.
Persino Ada stava ora a sentirmi attentamente quando parlavo.
Ogni sera aspettavo con una certa impazienza il suono del gong che ci chiamava a cena, e di quelle cene ricordo principalmente la mia perenne indigestione.
Mangiavo troppo per un bisogno di tenermi attivo.
A cena abbondavo di parole affettuose per Augusta; proprio quanto la mia bocca piena me lo permetteva, e i genitori suoi potevano aver solo la brutta impressione che il grande mio affetto fosse diminuito dalla mia bestiale voracità.
Si sorpresero che al mio ritorno dal viaggio di nozze non avessi riportato con me tanto appetito.
Sparí quando non si esigette piú da me di dimostrare una passione che non sentivo.
Non è permesso di farsi veder freddo con la sposa dai suoi genitori nel momento in cui ci si accinge di andar a letto con essa! Augusta ricorda specialmente le affettuose parole che le mormoravo a quel tavolo.
Fra boccone e boccone devo averne inventate di magnifiche e resto stupito, quando mi vengono ricordate, perché non mi sembrerebbero mie.
Lo stesso mio suocero, Giovanni il furbo, si lasciò ingannare e, finché visse, quando voleva dare un esempio di una grande passione amorosa, citava la mia per sua figlia, cioè per Augusta.
Ne sorrideva beato da quel buon padre ch'egli era, ma gliene derivava un aumento di disprezzo per me, perché secondo lui, non era un vero uomo colui che metteva tutto il proprio destino nelle mani di una donna e che sopra tutto non s'accorgeva che all'infuori della propria v'erano a questo mondo anche delle altre donne.
Da ciò si vede che non sempre fui giudicato con giustizia.
Mia suocera, invece, non credette nel mio amore neppure quando la stessa Augusta vi si adagiò piena di fiducia.
Per lunghi anni essa mi squadrò con occhio diffidente, dubbiosa del destino della figliuola sua prediletta.
Anche per questa ragione io sono convinto ch'essa deve avermi guidato nei giorni che mi condussero al fidanzamento.
Era impossibile d'ingannare anche lei che deve aver conosciuto il mio animo meglio di me stesso.
Venne finalmente il giorno del mio matrimonio e proprio quel giorno ebbi un'ultima esitazione.
Avrei dovuto essere dalla sposa alle otto del mattino, e invece alle sette e tre quarti mi trovavo ancora a letto fumando rabbiosamente e guardando la mia finestra su cui brillava, irridendo, il primo sole che durante quell'inverno fosse apparso.
Meditavo di abbandonare Augusta! Diveniva evidente l'assurdità del mio matrimonio ora che non m'importava piú di restar attaccato ad Ada.
Non sarebbero mica avvenute di grandi cose se io non mi fossi presentato all'appuntamento! Eppoi: Augusta era stata una sposa amabile, ma non si poteva mica sapere come si sarebbe comportata la dimane delle nozze.
E se subito m'avesse dato della bestia perché m'ero lasciato prendere a quel modo?
Per fortuna venne Guido, ed io, nonché resistere, mi scusai del mio ritardo asserendo di aver creduto che fosse stata stabilita un'altra ora per le nozze.
Invece di rimproverarmi, Guido si mise a raccontare di sé e delle tante volte ch'egli, per distrazione, aveva mancato a degli appuntamenti.
Anche in fatto di distrazione egli voleva essere superiore a me e dovetti non dargli altro ascolto per arrivare a uscir di casa.
Cosí avvenne che andai al matrimonio a passo di corsa.
Arrivai tuttavia molto tardi.
Nessuno mi rimproverò e tutti meno la sposa s'accontentarono di certe spiegazioni che Guido diede in vece mia.
Augusta era tanto pallida che persino le sue labbra erano livide.
Se anche non potevo dire di amarla, pure è certo che non avrei voluto farle del male.
Tentai di riparare e commisi la bestialità d'attribuire al mio ritardo ben tre cause.
Erano troppe e raccontavano con tanta chiarezza quello ch'io avevo meditato là nel mio letto, guardando il sole invernale, che si dovette ritardare la nostra partenza per la chiesa onde dar tempo ad Augusta di rimettersi.
All'altare dissi di sí distrattamente perché nella mia viva compassione per Augusta stavo escogitando una quarta spiegazione al mio ritardo e mi pareva la migliore di tutte.
Invece, quando uscimmo dalla chiesa, m'accorsi che Augusta aveva ricuperati tutti i suoi colori.
Ne ebbi una certa stizza perché quel mio sí non avrebbe mica dovuto bastare a rassicurarla del mio amore.
E mi preparavo a trattarla molto rudemente se si fosse rimessa da tanto da darmi della bestia perché m'ero lasciato prendere a quel modo.
Invece, a casa sua, approfittò di un momento in cui ci lasciarono soli, per dirmi piangendo:
- Non dimenticherò mai che, pur non amandomi, mi sposasti.
Io non protestai perché la cosa era stata tanto evidente che non si poteva.
Ma, pieno di compassione, l'abbracciai.
Poi di tutto questo non si parlò piú fra me ed Augusta perché il matrimonio è una cosa ben piú semplice del fidanzamento.
Una volta sposati non si discute piú d'amore e, quando si sente il bisogno di dirne, l'animalità interviene presto a rifare il silenzio.
Ora tale animalità può essere divenuta tanto umana da complicarsi e falsificarsi ed avviene che, chinandosi su una capigliatura femminile, si faccia anche lo sforzo di evocarvi una luce che non c'è.
Si chiudono gli occhi e la donna diventa un'altra per ridivenire lei quando la si abbandona.
A lei s'indirizza tutta la gratitudine e maggiore ancora se lo sforzo riuscí.
È per questo che se io avessi da nascere un'altra volta (madre natura è capace di tutto!) accetterei di sposare Augusta, ma mai di promettermi con lei.
Alla stazione Ada mi porse la guancia al bacio fraterno.
Io la vidi solo allora, frastornato com'ero dalla tanta gente ch'era venuta ad accompagnarci e subito pensai: «Sei proprio tu che mi cacciasti in questi panni!» Avvicinai le mie labbra alla sua guancia vellutata badando di non sfiorarla neppure.
Fu la prima soddisfazione di quel giorno, perché per un istante sentii quale vantaggio mi derivasse dal mio matrimonio: m'ero vendicato rifiutando d'approfittare dell'unica occasione che m'era stata offerta di baciare Ada! Poi, mentre il treno correva, seduto accanto ad Augusta, dubitai di non aver fatto bene.
Temevo ne fosse compromessa la mia amicizia con Guido.
Però soffrivo di piú quando pensavo che forse Ada non s'era neppure accorta che non avevo baciata la guancia che mi aveva offerta.
Essa se ne era accorta, ma io non lo seppi che quando, a sua volta, molti mesi dopo, partí con Guido da quella stessa stazione.
Tutti essa baciò.
A me solo offerse con grande cordialità la mano.
Io gliela strinsi freddamente.
La sua vendetta arrivava proprio in ritardo perché le circostanze erano del tutto mutate.
Dal ritorno dal mio viaggio di nozze avevamo avuti dei rapporti fraterni e non si poteva spiegare perché mi avesse escluso dal bacio.
6.
Moglie e amante
Nella mia vita ci furono varii periodi in cui credetti di essere avviato alla salute e alla felicità.
Mai però tale fede fu tanto forte come nel tempo in cui durò il mio viaggio di nozze eppoi qualche settimana dopo il nostro ritorno a casa.
Cominciò con una scoperta che mi stupí: io amavo Augusta com'essa amava me.
Dapprima diffidente, godevo intanto di una giornata e m'aspettavo che la seguente fosse tutt'altra cosa.
Ma una seguiva e somigliava all'altra, luminosa, tutta gentilezza di Augusta ed anche - ciò ch'era la sorpresa - mia.
Ogni mattina ritrovavo in lei lo stesso commosso affetto e in me la stessa riconoscenza che, se non era amore, vi somigliava molto.
Chi avrebbe potuto prevederlo quando avevo zoppicato da Ada ad Alberta per arrivare ad Augusta? Scoprivo di essere stato non un bestione cieco diretto da altri, ma un uomo abilissimo.
E vedendomi stupito, Augusta mi diceva:
- Ma perché ti sorprendi? Non sapevi che il matrimonio è fatto cosí? Lo sapevo pur io che sono tanto piú ignorante di te!
Non so piú se dopo o prima dell'affetto, nel mio animo si formò una speranza, la grande speranza di poter finire col somigliare ad Augusta ch'era la salute personificata.
Durante il fidanzamento io non avevo neppur intravvista quella salute, perché tutto immerso a studiare me in primo luogo eppoi Ada e Guido.
La lampada a petrolio in quel salotto non era mai arrivata ad illuminare gli scarsi capelli di Augusta.
Altro che il suo rossore! Quando questo sparve con la semplicità con cui i colori dell'aurora spariscono alla luce diretta del sole, Augusta batté sicura la via per cui erano passate le sue sorelle su questa terra, quelle sorelle che possono trovare tutto nella legge e nell'ordine o che altrimenti a tutto rinunziano.
Per quanto la sapessi mal fondata perché basata su di me, io amavo, io adoravo quella sicurezza.
Di fronte ad essa io dovevo comportarmi almeno con la modestia che usavo quando si trattava di spiritismo.
Questo poteva essere e poteva perciò esistere anche la fede nella vita.
Però mi sbalordiva; da ogni sua parola, da ogni suo atto risultava che in fondo essa credeva la vita eterna.
Non che la dicessi tale: si sorprese anzi che una volta io, cui gli errori ripugnavano prima che non avessi amati i suoi, avessi sentito il bisogno di ricordargliene la brevità.
Macché! Essa sapeva che tutti dovevano morire, ma ciò non toglieva che oramai ch'eravamo sposati, si sarebbe rimasti insieme, insieme, insieme.
Essa dunque ignorava che quando a questo mondo ci si univa, ciò avveniva per un periodo tanto breve, breve, breve, che non s'intendeva come si fosse arrivati a darsi del tu dopo di non essersi conosciuti per un tempo infinito e pronti a non rivedersi mai piú per un altro infinito tempo.
Compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi.
Cercai di esservi ammesso e tentai di soggiornarvi risoluto di non deridere me e lei, perché questo conato non poteva essere altro che la mia malattia ed io dovevo almeno guardarmi dall'infettare chi a me s'era confidato.
Anche perciò, nello sforzo di proteggere lei, seppi per qualche tempo movermi come un uomo sano.
Essa sapeva tutte le cose che fanno disperare, ma in mano sua queste cose cambiavano di natura.
Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal di mare! Tutt'altro! La terra girava, ma tutte le altre cose restavano al loro posto.
E queste cose immobili avevano un'importanza enorme: l'anello di matrimonio, tutte le gemme e i vestiti, il verde, il nero, quello da passeggio che andava in armadio quando si arrivava a casa e quello di sera che in nessun caso si avrebbe potuto indossare di giorno, né quando io non m'adattavo di mettermi in marsina.
E le ore dei pasti erano tenute rigidamente e anche quelle del sonno.
Esistevano, quelle ore, e si trovavano sempre al loro posto.
Di domenica essa andava a Messa ed io ve l'accompagnai talvolta per vedere come sopportasse l'immagine del dolore e della morte.
Per lei non c'era, e quella visita le infondeva serenità per tutta la settimana.
Vi andava anche in certi giorni festivi ch'essa sapeva a mente.
Niente di piú, mentre se io fossi stato religioso mi sarei garantita la beatitudine stando in chiesa tutto il giorno.
C'erano un mondo di autorità anche quaggiú che la rassicuravano.
Intanto quella austriaca o italiana che provvedeva alla sicurezza sulle vie e nelle case ed io feci sempre del mio meglio per associarmi anche a quel suo rispetto.
Poi v'erano i medici, quelli che avevano fatto tutti gli studii regolari per salvarci quando - Dio non voglia - ci avesse a toccare qualche malattia.
Io ne usavo ogni giorno di quell'autorità: lei, invece, mai.
Ma perciò io sapevo il mio atroce destino quando la malattia mortale m'avesse raggiunto, mentre lei credeva che anche allora, appoggiata solidamente lassú e quaggiú, per lei vi sarebbe stata la salvezza.
Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m'accorgo che, analizzandola, la converto in malattia.
E, scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d'istruzione per guarire.
Ma vivendole accanto per tanti anni, mai ebbi tale dubbio.
Quale importanza m'era attribuita in quel suo piccolo mondo! Dovevo dire la mia volontà ad ogni proposito, per la scelta dei cibi e delle vesti, delle compagnie e delle letture.
Ero costretto ad una grande attività che non mi seccava.
Stavo collaborando alla costruzione di una famiglia patriarcale e diventavo io stesso il patriarca che avevo odiato e che ora m'appariva quale il segnacolo della salute.
È tutt'altra cosa essere il patriarca o dover venerare un altro che s'arroghi tale dignità.
Io volevo la salute per me a costo d'appioppare ai non patriarchi la malattia, e, specialmente durante il viaggio, assunsi talvolta volentieri l'atteggiamento di statua equestre.
Ma già in viaggio non mi fu sempre facile l'imitazione che m'ero proposta.
Augusta voleva veder tutto come se si fosse trovata in un viaggio d'istruzione.
Non bastava mica essere stati a palazzo Pitti, ma bisognava passare per tutte quelle innumerevoli sale, fermandosi almeno per qualche istante dinanzi ad ogni opera d'arte.
Io rifiutai d'abbandonare la prima sala e non vidi altro, addossandomi la sola fatica di trovare dei pretesti alla mia infingardaggine.
Passai una mezza giornata dinanzi ai ritratti dei fondatori di casa Medici e scopersi che somigliavano a Carnegie e Vanderbilt.
Meraviglioso! Eppure erano della mia razza! Augusta non divideva la mia meraviglia.
Sapeva che cosa fossero i Yankees, ma non ancora bene chi fossi io.
Qui la sua salute non la vinse ed essa dovette rinunziare ai musei.
Le raccontai che una volta al Louvre, m'imbizzarrii talmente in mezzo a tante opere d'arte, che fui in procinto di mandare in pezzi la Venere.
Rassegnata, Augusta disse:
- Meno male che i musei si incontrano in viaggio di nozze eppoi mai piú!
Infatti nella vita manca la monotonia dei musei.
Passano i giorni capaci di cornice, ma sono ricchi di suoni che frastornano eppoi oltre che di linee e di colori anche di vera luce, di quella che scotta e perciò non annoia.
La salute spinge all'attività e ad addossarsi un mondo di seccature.
Chiusi i musei, cominciarono gli acquisti.
Essa, che non vi aveva mai abitato, conosceva la nostra villa meglio di me e sapeva che in una stanza mancava uno specchio, in un'altra un tappeto e che in una terza v'era il posto per una statuina.
Comperò i mobili di un intero salotto e, da ogni città in cui soggiornammo, fu organizzata almeno una spedizione.
A me pareva che sarebbe stato piú opportuno e meno fastidioso di fare tutti quegli acquisti a Trieste.
Ecco che dovevamo pensare alla spedizione, all'assicurazione e alle operazioni doganali.
- Ma tu non sai che tutte le merci devono viaggiare? Non sei un negoziante, tu? - E rise.
Aveva quasi ragione.
Obbiettai:
- Le merci si fanno viaggiare per vendere e guadagnare! Mancando quello scopo si lasciano tranquille e si sta tranquilli!
Ma l'intraprendenza era una delle cose che in lei piú amavo.
Era deliziosa quell'intraprendenza cosí ingenua! Ingenua perché bisogna ignorare la storia del mondo per poter credere di aver fatto un buon affare col solo acquisto di un oggetto: è alla vendita che si giudica l'accortezza dell'acquisto.
Credevo di trovarmi in piena convalescenza.
Le mie lesioni s'erano fatte meno velenose.
Fu da allora che l'atteggiamento mio immutabile fu di lietezza.
Era come un impegno che in quei giorni indimenticabili avessi preso con Augusta e fu l'unica fede che non violai che per brevi istanti, quando cioè la vita rise piú forte di me.
La nostra fu e rimase una relazione sorridente perché io sorrisi sempre di lei, che credevo non sapesse e lei di me, cui attribuiva molta scienza e molti errori ch'essa - cosí si lusingava - avrebbe corretti.
Io rimasi apparentemente lieto anche quando la malattia mi riprese intero.
Lieto come se il mio dolore fosse stato sentito da me quale un solletico.
Nel lungo cammino traverso l'Italia, ad onta della mia nuova salute, non andai immune da molte sofferenze.
Eravamo partiti senza lettere di raccomandazione e, spessissimo, a me parve che molti degl'ignoti fra cui ci movevamo, mi fossero nemici.
Era una paura ridicola, ma non sapevo vincerla.
Potevo essere assaltato, insultato e sopra tutto calunniato, e chi avrebbe potuto proteggermi?
Ci fu anche una vera crisi di questa paura della quale per fortuna nessuno, neppur Augusta, s'accorse.
Usavo prendere quasi tutti i giornali che m'erano offerti sulla via.
Fermatomi un giorno davanti al banco di un giornalaio, mi venne il dubbio, ch'egli, per odio, avrebbe potuto facilmente farmi arrestare come un ladro avendo io preso da lui un solo giornale e tenendone molti, sotto il braccio, comperati altrove e neppure aperti.
Corsi via seguito da Augusta a cui non dissi la ragione della mia fretta.
Mi legai d'amicizia con un vetturino e un cicerone in compagnia dei quali ero almeno sicuro di non poter essere accusato di furti ridicoli.
Fra me e il vetturino c'era qualche evidente punto di contatto.
Egli amava molto i vini dei Castelli e mi raccontò che ad ogni tratto gli si gonfiavano i piedi.
Andava allora all'ospedale e, guarito, ne veniva congedato con molte raccomandazioni di rinunziare al vino.
Egli allora faceva un proposito che diceva ferreo perché, per materializzarlo, lo accompagnava con un nodo ch'egli allacciava alla catena di metallo del suo orologio.
Ma quando io lo conobbi la sua catena gli pendeva sul panciotto, senza nodo.
Lo invitai di venir a stare con me a Trieste.
Gli descrissi il sapore del nostro vino, tanto differente da quello del suo, per assicurarlo dell'esito della drastica cura.
Non ne volle sapere e rifiutò con una faccia in cui v'era già stampata la nostalgia.
Col cicerone mi legai perché mi parve fosse superiore ai suoi colleghi.
Non è difficile sapere di storia molto piú di me, ma anche Augusta con la sua esattezza e col suo Baedeker verificò l'esattezza di molte sue indicazioni.
Intanto era giovine e si andava di corsa traverso i viali seminati di statue.
Quando perdetti quei due amici, abbandonai Roma.
Il vetturino avendo avuto da me tanto denaro, mi fece vedere come il vino gli attaccasse qualche volta anche la testa e ci gettò contro una solidissima antica costruzione Romana.
Il cicerone poi si pensò un giorno di asserire che gli antichi Romani conoscevano benissimo la forza elettrica e ne facessero largo uso.
Declamò anche dei versi latini che dovevano farne fede.
Ma mi colse allora un'altra piccola malattia da cui non dovevo piú guarire.
Una cosa da niente: la paura d'invecchiare e sopra tutto la paura di morire.
Io credo abbia avuto origine da una speciale forma di gelosia.
L'invecchiamento mi faceva paura solo perché m'avvicinava alla morte.
Finché ero vivo, certamente Augusta non m'avrebbe tradito, ma mi figuravo che non appena morto e sepolto, dopo di aver provveduto acché la mia tomba fosse tenuta in pieno ordine e mi fossero dette le Messe necessarie, subito essa si sarebbe guardata d'intorno per darmi il successore ch'essa avrebbe circondato del medesimo mondo sano e regolato che ora beava me.
Non poteva mica morire la sua bella salute perché ero morto io.
Avevo una tale fede in quella salute che mi pareva non potesse perire che sfracellata sotto un intero treno in corsa.
Mi ricordo che una sera, a Venezia, si passava in gondola per uno di quei canali dal silenzio profondo ad ogni tratto interrotto dalla luce e dal rumore di una via che su di esso improvvisamente s'apre.
Augusta, come sempre, guardava le cose e accuratamente le registrava: un giardino verde e fresco che sorgeva da una base sucida lasciata all'aria dall'acqua che s'era ritirata; un campanile che si rifletteva nell'acqua torbida; una viuzza lunga e oscura con in fondo un fiume di luce e di gente.
Io, invece, nell'oscurità, sentivo, con pieno sconforto, me stesso.
Le dissi del tempo che andava via e che presto essa avrebbe rifatto quel viaggio di nozze con un altro.
Io ne ero tanto sicuro che mi pareva di dirle una storia già avvenuta.
E mi parve fuori di posto ch'essa si mettesse a piangere per negare la verità di quella storia.
Forse m'aveva capito male e credeva io le avessi attribuita l'intenzione di uccidermi.
Tutt'altro! Per spiegarmi meglio le descrissi un mio eventuale modo di morire: le mie gambe, nelle quali la circolazione era certamente già povera, si sarebbero incancrenite e la cancrena dilatata, dilatata, sarebbe giunta a toccare un organo qualunque, indispensabile per poter tener aperti gli occhi.
Allora li avrei chiusi, e addio patriarca! Sarebbe stato necessario stamparne un altro.
Essa continuò a singhiozzare e a me quel suo pianto, nella tristezza enorme di quel canale, parve molto importante.
Era forse provocato dalla disperazione per la visione esatta di quella sua salute atroce? Allora tutta l'umanità avrebbe singhiozzato in quel pianto.
Poi, invece, seppi ch'essa neppur sapeva come fosse fatta la salute.
La salute non analizza se stessa e neppur si guarda nello specchio.
Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi.
Fu allora ch'essa mi raccontò di avermi amato prima di avermi conosciuto.
M'aveva amato dacché aveva sentito il mio nome, presentato da suo padre in questa forma: Zeno Cosini, un ingenuo, che faceva tanto d'occhi quando sentiva parlare di qualunque accorgimento commerciale e s'affrettava a prenderne nota in un libro di comandamenti, che però smarriva.
E se io non m'ero accorto della sua confusione al nostro primo incontro, ciò doveva far credere che fossi stato confuso anch'io.
Mi ricordai che al vedere Augusta ero stato distratto dalla sua bruttezza visto che m'ero atteso di trovare in quella casa le quattro fanciulle dall'iniziale in a tutte bellissime.
Apprendevo ora ch'essa m'amava da molto tempo, ma che cosa provava ciò? Non le diedi la soddisfazione di ricredermi.
Quando fossi stato morto, essa ne avrebbe preso un altro.
Mitigato il pianto, essa s'appoggiò ancora meglio a me e, subito ridendo, mi domandò:
- Dove troverei il tuo successore? Non vedi come sono brutta?
Infatti, probabilmente, mi sarebbe stato concesso qualche tempo di putrefazione tranquilla.
Ma la paura d'invecchiare non mi lasciò piú, sempre per la paura di consegnare ad altri mia moglie.
Non s'attenuò la paura quando la tradii e non s'accrebbe neppure per il pensiero di perdere nello stesso modo l'amante.
Era tutt'altra cosa, che non aveva niente a che fare con l'altra.
Quando la paura di morire m'assillava, mi rivolgevo ad Augusta per averne conforto come quei bambini che porgono al bacio della mamma la manina ferita.
Essa trovava sempre delle nuove parole per confortarmi.
In viaggio di nozze m'attribuiva ancora trent'anni di gioventú ed oggidí altrettanti.
Io invece sapevo che già le settimane di gioia del viaggio di nozze m'avevano sensibilmente accostato alle smorfie orribili dell'agonia.
Augusta poteva dire quello che voleva, il conto era presto fatto: ogni settimana io mi vi accostavo di una settimana.
Quando m'accorsi di esser colto troppo spesso dallo stesso dolore, evitai di stancarla col dirle sempre le stesse cose e, per avvertirla del mio bisogno di conforto, bastò mormorassi: «Povero Cosini!».
Ella sapeva allora esattamente cosa mi turbava e accorreva a coprirmi del suo grande affetto.
Cosí riuscii ad avere il suo conforto anche quand'ebbi tutt'altri dolori.
Un giorno, ammalato dal dolore di averla tradita, mormorai per svista: «Povero Cosini!».
Ne ebbi gran vantaggio perché anche allora il suo conforto mi fu prezioso.
Ritornato dal viaggio di nozze, ebbi la sorpresa di non aver mai abitata una casa tanto comoda e calda.
Augusta v'introdusse tutte le comodità che aveva avute nella propria, ma anche molte altre ch'essa stessa inventò.
La stanza da bagno, che a memoria d'uomo era stata sempre in fondo a un corridoio a mezzo chilometro dalla mia stanza da letto, si accostò alla nostra e fu fornita di un numero maggiore di getti d'acqua.
Poi una stanzuccia accanto al tinello fu convertita in stanza da caffè.
Imbottita di tappeti e addobbata da grandi poltrone in pelle, vi soggiornavamo ogni giorno per un'oretta dopo colazione.
Contro mia voglia, vi era tutto il necessario per fumare.
Anche il mio piccolo studio, per quanto io lo difendessi, subí delle modificazioni.
Io temevo che i mutamenti me lo rendessero odioso e invece subito m'accorsi che solo allora era possibile viverci.
Essa dispose la sua illuminazione in modo che potevo leggere seduto al tavolo, sdraiato sulla poltrona o coricato sul sofà.
Persino per il violino fu provveduto un leggio con la sua brava lampadina che illuminava la musica senza ferire gli occhi.
Anche colà, e contro mia voglia, fui accompagnato da tutti gli ordigni necessarii per fumare tranquillamente.
Perciò in casa si costruiva molto e c'era qualche disordine che diminuiva la nostra quiete.
Per lei, che lavorava per l'eternità, il breve incomodo poteva non importare, ma per me la cosa era ben diversa.
Mi opposi energicamente quando le venne il desiderio d'impiantare nel nostro giardino una piccola lavanderia che implicava addirittura la costruzione di una casuccia.
Augusta asseriva che la lavanderia in casa era una garanzia della salute dei bébés.
Ma intanto i bébés non c'erano ed io non vedevo alcuna necessità di lasciarmi incomodare da loro prima ancora che arrivassero.
Ella invece portava nella mia vecchia casa un istinto che veniva dall'aria aperta, e, in amore, somigliava alla rondinella che subito pensa al nido.
Ma anch'io facevo all'amore e portavo a casa fiori e gemme.
La mia vita fu del tutto mutata dal mio matrimonio.
Rinunziai, dopo un debole tentativo di resistenza, a disporre a mio piacere del mio tempo e m'acconciai al piú rigido orario.
Sotto questo riguardo la mia educazione ebbe un esito splendido.
Un giorno, subito dopo il nostro viaggio di nozze, mi lasciai innocentemente trattenere dall'andar a casa a colazione e, dopo di aver mangiato qualche cosa in un bar, restai fuori fino alla sera.
Rientrato a notte fatta, trovai che Augusta non aveva fatto colazione ed era disfatta dalla fame.
Non mi fece alcun rimprovero, ma non si lasciò convincere d'aver fatto male.
Dolcemente, ma risoluta, dichiarò che se non fosse stata avvisata prima, m'avrebbe atteso per la colazione fino all'ora del pranzo.
Non c'era da scherzare! Un'altra volta mi lasciai indurre da un amico a restar fuori di casa fino alle due di notte.
Trovai Augusta che m'aspettava e che batteva i denti dal freddo avendo trascurata la stufa.
Ne seguí anche una sua lieve indisposizione che rese indimenticabile la lezione inflittami.
Un giorno volli farle un altro grande regalo: lavorare! Essa lo desiderava ed io stesso pensavo che il lavoro sarebbe stato utile per la mia salute.
Si capisce che è meno malato chi ha poco tempo per esserlo.
Andai al lavoro e, se non vi restai, non fu davvero colpa mia.
Vi andai coi migliori propositi e con vera umiltà.
Non reclamai di partecipare alla direzione degli affari e domandai invece di tenere intanto il libro mastro.
Davanti al grosso libro in cui le scritturazioni erano disposte con la regolarità di strade e case, mi sentii pieno di rispetto e cominciai a scrivere con mano tremante.
Il figliuolo dell'Olivi, un giovinotto sobriamente elegante, occhialuto, dotto di tutte le scienze commerciali, assunse la mia istruzione e di lui davvero non ho da lagnarmi.
Mi diede qualche seccatura con la sua scienza economica e la teoria della domanda e dell'offerta che a me pareva piú evidente di quanto egli non volesse ammettere.
Ma si vedeva in lui un certo rispetto per il padrone, ed io gliene ero tanto piú grato in quanto non era ammissibile che l'avesse appreso da suo padre.
Il rispetto della proprietà doveva far parte della sua scienza economica.
Non mi rimproverò giammai gli errori di registrazione che spesso facevo; solo era incline ad attribuirli ad ignoranza e mi dava delle spiegazioni che veramente erano superflue.
Il male si è che a forza di guardare gli affari, mi venne la voglia di farne.
Nel libro, con grande chiarezza, arrivai a raffigurare la mia tasca e quando registravo un importo nel «dare» dei clienti mi pareva di tener in mano invece della penna il bastoncino del croupier che raccoglie i denari sparsi sul tavolo da giuoco.
Il giovine Olivi mi faceva anche vedere la posta che arrivava ed io la leggevo con attenzione e - devo dirlo - in principio con la speranza d'intenderla meglio degli altri.
Un'offerta comunissima conquistò un giorno la mia attenzione appassionata.
Anche prima di leggerla sentii moversi nel mio petto qualche cosa che subito riconobbi come l'oscuro presentimento che talvolta veniva a trovarmi al tavolo da giuoco.
È difficile descrivere tale presentimento.
Esso consiste in una certa dilatazione dei polmoni per cui si respira con voluttà l'aria per quanto sia affumicata.
Ma poi c'è di piú: sapete subito che quando avrete raddoppiata la posta starete ancora meglio.
Però ci vuole della pratica per intendere tutto questo.
Bisogna essersi allontanati dal tavolo da giuoco con le tasche vuote e il dolore di averlo trascurato; allora non sfugge piú.
E quando lo si ha trascurato, non c'è piú salvezza per quel giorno perché le carte si vendicano.
Però al tavolo verde è assai piú perdonabile di non averlo sentito che dinanzi al tranquillo libro mastro, ed infatti io lo percepii chiaramente, mentre gridava in me: «Compera subito quella frutta secca!».
Ne parlai con tutta mitezza all'Olivi, naturalmente senza accennare della mia ispirazione.
L'Olivi rispose che quegli affari non li faceva che per conto di terzi quando poteva realizzare un piccolo beneficio.
Cosí egli eliminava dai miei affari la possibilità dell'ispirazione e la riservava ai terzi.
La notte rafforzò la mia convinzione: il presentimento era dunque in me.
Respiravo tanto bene da non poter dormire.
Augusta sentí la mia inquietudine e dovetti dirgliene la ragione.
Essa ebbe subito la mia stessa ispirazione e nel sonno arrivò a mormorare:
- Non sei forse il padrone?
Vero è che alla mattina, prima che uscissi, mi disse impensierita:
- A te non conviene d'indispettire l'Olivi.
Vuoi che ne parli al babbo?
Non lo volli perché sapevo che anche Giovanni dava assai poco peso alle ispirazioni.
Arrivai all'ufficio ben deciso di battermi per la mia idea anche per vendicarmi dell'insonnia sofferta.
La battaglia durò fino a mezzodí quando spirava il termine utile per accettare l'offerta.
L'Olivi restò irremovibile e mi saldò con la solita osservazione:
- Lei vuole forse diminuire le facoltà attribuitemi dal defunto suo padre?
Risentito, ritornai per il momento al mio mastro, ben deciso di non ingerirmi piú di affari.
Ma il sapore dell'uva sultanina mi restò in bocca ed ogni giorno al Tergesteo m'informavo del suo prezzo.
Di altro non m'importava.
Salí lento, lento come se avesse avuto bisogno di raccogliersi per prendere lo slancio.
Poi in un giorno solo fu un balzo formidabile in alto.
Il raccolto era stato miserabile e lo si sapeva appena ora.
Strana cosa l'ispirazione! Essa non aveva previsto il raccolto scarso ma solo l'aumento di prezzo.
Le carte si vendicarono.
Intanto io non sapevo restare al mio mastro e perdetti ogni rispetto per i miei insegnanti, tanto piú che ora l'Olivi non pareva tanto sicuro di aver fatto bene.
Io risi e derisi; fu la mia occupazione principale.
Arrivò una seconda offerta dal prezzo quasi raddoppiato.
L'Olivi, per rabbonirmi, mi domandò consiglio ed io, trionfante, dissi che non avrei mangiata l'uva a quel prezzo.
L'Olivi, offeso, mormorò:
- Io m'attengo al sistema che seguii per tutta la mia vita.
E andò in cerca del compratore.
Ne trovò uno per un quantitativo molto ridotto e, sempre con le migliori intenzioni, ritornò da me e mi domandò esitante:
- La copro, questa piccola vendita?
Risposi, sempre cattivo:
- Io l'avrei coperta prima di farla.
Finí che l'Olivi perdette la forza della propria convinzione e lasciò la vendita scoperta.
Le uve continuarono a salire e noi si perdette tutto quello che sul piccolo quantitativo si poteva perdere.
Ma l'Olivi si arrabbiò con me e dichiarò che aveva giuocato solo per compiacermi.
Il furbo dimenticava che io l'avevo consigliato di puntare sul rosso e ch'egli, per farmela, aveva puntato sul nero.
La nostra lite fu insanabile.
L'Olivi s'appellò a mio suocero dicendogli che fra lui e me la ditta sarebbe stata sempre danneggiata, e che se la mia famiglia lo desiderava, egli e suo figlio si sarebbero ritirati per lasciarmi il campo libero.
Mio suocero decise subito in favore dell'Olivi.
Mi disse:
- L'affare della frutta secca è troppo istruttivo.
Siete due uomini che non potete stare insieme.
Ora chi ha da ritirarsi? Chi senza l'altro avrebbe fatto un solo buon affare, o chi da mezzo secolo dirige da solo la casa?
Anche Augusta fu indotta dal padre a convincermi di non ingerirmi piú nei miei propri affari.
- Pare che la tua bontà e la tua ingenuità - mi disse - ti rendano disadatto agli affari.
Resta a casa con me.
Io, irato, mi ritirai nella mia tenda, ossia nel mio studiolo.
Per qualche tempo leggiucchiai e suonai, poi sentii il desiderio di una attività piú seria e poco mancò non ritornassi alla chimica eppoi alla giurisprudenza.
Infine, e non so veramente perché, per qualche tempo mi dedicai agli studi di religione.
Mi parve di riprendere lo studio che avevo iniziato alla morte di mio padre.
Forse questa volta fu per un tentativo energico di avvicinarmi ad Augusta e alla sua salute.
Non bastava andare a messa con lei; io dovevo andarci altrimenti, leggendo cioè Renan e Strauss, il primo con diletto, il secondo sopportandolo come una punizione.
Ne dico qui solo per rilevare quale grande desiderio m'attaccasse ad Augusta.
E lei questo desiderio non indovinò quando mi vide nelle mani i Vangeli in edizione critica.
Preferiva l'indifferenza alla scienza e cosí non seppe apprezzare il massimo segno d'affetto che le avevo dato.
Quando, come soleva, interrompendo la sua toilette o le sue occupazioni in casa, s'affacciava alla porta della mia stanza per dirmi una parola di saluto, vedendomi chino su quei testi, torceva la bocca:
- Sei ancora con quella roba?
La religione di cui Augusta abbisognava non esigeva del tempo per acquisirsi o per praticarsi.
Un inchino e l'immediato ritorno alla vita! Nulla di piú.
Da me la religione acquistava tutt'altro aspetto.
Se avessi avuto la fede vera, io a questo mondo non avrei avuto che quella.
Poi nella mia stanzetta magnificamente organizzata venne talvolta la noia.
Era piuttosto un'ansia perché proprio allora mi pareva di sentirmi la forza di lavorare, ma stavo aspettando che la vita m'avesse imposto qualche compito.
Nell'attesa uscivo frequentemente e passavo molte ore al Tergesteo o in qualche caffè.
Vivevo in una simulazione di attività.
Un'attività noiosissima.
La visita di un amico d'Università, che aveva dovuto rimpatriare in tutta furia da un piccolo paese della Stiria per curarsi di una grave malattia, fu la mia Nemesi, benché non ne avesse avuto l'aspetto.
Arrivò a me dopo di aver fatto a Trieste un mese di letto ch'era valso a convertire la sua malattia, una nefrite, da acuta in cronica e probabilmente inguaribile.
Ma egli credeva di star meglio e s'apprestava lietamente a trasferirsi subito, durante la primavera, in qualche luogo dal clima piú dolce del nostro, dove s'aspettava di essere restituito alla piena salute.
Gli fu fatale forse di essersi indugiato troppo nel rude luogo natio.
Io considero la visita di quell'uomo tanto malato, ma lieto e sorridente, come molto nefasta per me; ma forse ho torto: essa non segna che una data nella mia vita, per la quale bisognava pur passare.
Il mio amico, Enrico Copler, si stupí ch'io nulla avessi saputo né di lui né della sua malattia di cui Giovanni doveva essere informato.
Ma Giovanni, dacché era malato anche lui, non aveva tempo per nessuno e non me ne aveva detto niente ad onta che ogni giorno di sole venisse nella mia villa per dormire qualche ora all'aria aperta.
Fra' due malati si passò un pomeriggio lietissimo.
Si parlò delle loro malattie, ciò che costituisce il massimo svago per un malato ed è una cosa non troppo triste per i sani che stanno a sentire.
Ci fu solo un dissenso perché Giovanni aveva bisogno dell'aria aperta che all'altro era proibita.
Il dissenso si dileguò quando si levò un po' di vento che indusse anche Giovanni di restare con noi, nella piccola stanza calda.
Il Copler ci raccontò della sua malattia che non dava dolore ma toglieva la forza.
Soltanto ora che stava meglio sapeva quanto fosse stato malato.
Parlò delle medicine che gli erano state propinate e allora il mio interesse fu piú vivo.
Il suo dottore gli aveva consigliato fra altro un efficace sistema per procurargli un lungo sonno senza perciò avvelenarlo con veri sonniferi.
Ma questa era la cosa di cui io avevo sopra tutto bisogno!
Il mio povero amico, sentendo il mio bisogno di medicine, si lusingò per un istante ch'io potessi essere affetto della stessa sua malattia e mi consigliò di farmi vedere, ascoltare e analizzare.
Augusta si mise a ridere di cuore e dichiarò ch'io non ero altro che un malato immaginario.
Allora sul volto emaciato del Copler passò qualche cosa che somigliava ad un risentimento.
Subito, virilmente, si liberò dallo stato d'inferiorità a cui pareva fosse condannato, aggredendomi con grande energia:
- Malato immaginario? Ebbene, io preferisco di essere un malato reale.
Prima di tutto un malato immaginario è una mostruosità ridicola eppoi per lui non esistono dei farmachi mentre la farmacia, come si vede in me, ha sempre qualche cosa di efficace per noi malati veri!
La sua parola sembrava quella di un sano ed io - voglio essere sincero - ne soffersi.
Mio suocero s'associò a lui con grande energia, ma le sue parole non arrivavano a gettare un disprezzo sul malato immaginario, perché tradivano troppo chiaramente l'invidia per il sano.
Disse che se egli fosse stato sano come me, invece di seccare il prossimo con le lamentele, sarebbe corso ai suoi cari e buoni affari, specie ora che gli era riuscito di diminuire la sua pancia.
Egli non sapeva neppure che il suo dimagrimento non veniva considerato come un sintomo favorevole.
Causa l'assalto del Copler, io avevo veramente l'aspetto di un malato e di un malato maltrattato.
Augusta sentí il bisogno d'intervenire in mio soccorso.
Carezzando la mano che avevo abbandonata sul tavolo, essa disse che la mia malattia non disturbava nessuno e ch'ella non era neppur convinta ch'io credessi d'esser ammalato, perché altrimenti non avrei avuto tanta gioia di vivere.
Cosí il Copler ritornò allo stato d'inferiorità cui era condannato.
Egli era del tutto solo a questo mondo e se poteva lottare con me in fatto di salute, non poteva contrappormi alcun affetto simile a quello che Augusta m'offriva.
Sentendo vivo il bisogno di un'infermiera, si rassegnò di confessarmi piú tardi quanto egli m'aveva invidiato per questo.
La discussione continuò nei giorni seguenti con un tono piú calmo mentre Giovanni dormiva in giardino.
E il Copler, dopo averci pensato sú, asseriva ora che il malato immaginario era un malato reale, ma piú intimamente di questi ed anche piú radicalmente.
Infatti i suoi nervi erano ridotti cosí da accusare una malattia quando non c'era, mentre la loro funzione normale sarebbe consistita nell'allarmare col dolore e indurre a correre al riparo.
- Sí! - dicevo io.
- Come ai denti, dove il dolore si manifesta solo quando il nervo è scoperto e per la guarigione occorre la sua distruzione.
Si terminò col trovarsi d'accordo sul fatto che un malato e l'altro si valevano.
Proprio nella sua nefrite era mancato e mancava tuttavia un avviso dei nervi, mentre che i miei nervi, invece, erano forse tanto sensibili da avvisarmi della malattia di cui sarei morto qualche ventennio piú tardi.
Erano dunque dei nervi perfetti e avevano l'unico svantaggio di concedermi pochi giorni lieti a questo mondo.
Essendogli riuscito a mettermi fra gli ammalati, il Copler fu soddisfattissimo.
Non so perché il povero malato avesse la mania di parlare di donne e, quando non c'era mia moglie, non si parlava d'altro.
Egli pretendeva che dal malato reale, almeno nelle malattie che noi sapevamo, il sesso s'affievolisse, ciò ch'era una buona difesa dell'organismo, mentre dal malato immaginario che non soffriva che pel disordine di nervi troppo laboriosi (questa era la nostra diagnosi) esso fosse patologicamente vivo.
Io corroborai la sua teoria con la mia esperienza e ci compiangemmo reciprocamente.
Ignoro perché non volli dirgli che io mi trovavo lontano da ogni sregolatezza e ciò da lungo tempo.
Avrei almeno potuto confessare che mi ritenevo convalescente se non sano, per non offenderlo troppo e perché dirsi sano quando si conoscono tutte le complicazioni del nostro organismo è una cosa difficile.
- Tu desideri tutte le donne belle che vedi? - inquisí ancora il Copler.
- Non tutte! - mormorai io per dirgli che non ero tanto malato.
Intanto io non desideravo Ada che vedevo ogni sera.
Quella, per me, era proprio la donna proibita.
Il fruscio delle sue gonne non mi diceva niente e, se mi fosse stato permesso di muoverle con le mie stesse mani, sarebbe stata la stessa cosa.
Per fortuna non l'avevo sposata.
Questa indifferenza era, o mi sembrava, una manifestazione di salute genuina.
Forse il mio desiderio per lei era stato tanto violento da esaurirsi da sé.
Però la mia indifferenza si estendeva anche ad Alberta ch'era pur tanto carina nel suo vestitino accurato e serio da scuola.
Che il possesso di Augusta fosse stato sufficiente a calmare il mio desiderio per tutta la famiglia Malfenti? Ciò sarebbe stato davvero molto morale!
Forse non parlai della mia virtú perché nel pensiero io tradivo sempre Augusta, e anche ora, parlando col Copler, con un fremito di desiderio, pensai a tutte le donne che per lei trascuravo.
Pensai alle donne che correvano le vie, tutte coperte, e dalle quali perciò gli organi sessuali secondarii divenivano tanto importanti mentre dalla donna che si possedeva scomparivano come se il possesso li avesse atrofizzati.
Avevo sempre vivo il desiderio dell'avventura; quell'avventura che cominciava dall'ammirazione di uno stivaletto, di un guanto, di una gonna, di tutto quello che copre e altera la forma.
Ma questo desiderio non era ancora una colpa.
Il Copler però non faceva bene ad analizzarmi.
Spiegare a qualcuno come è fatto, è un modo per autorizzarlo ad agire come desidera.
Ma il Copler fece anche di peggio, solo che tanto quando parlò, come quando agí, egli non poteva prevedere dove mi avrebbe condotto.
Resta cosí importante nel mio ricordo la parola del Copler che, quando la ricordo, essa rievoca tutte le sensazioni che vi si associarono, e le cose e le persone.
Avevo accompagnato in giardino il mio amico che doveva rincasare prima del tramonto.
Dalla mia villa, che giace su una collina, si aveva la vista del porto e del mare, vista che ora è intercettata da nuovi fabbricati.
Ci fermammo a guardare lungamente il mare mosso da una brezza leggera che rimandava in miriadi di luci rosse la luce tranquilla del cielo.
La penisola istriana dava riposo all'occhio con la sua mitezza verde che s'inoltrava in arco enorme nel mare come una penombra solida.
I moli e le dighe erano piccoli e insignificanti nelle loro forme rigidamente lineari, e l'acqua nei bacini era oscurata dalla sua immobilità o era forse torbida? Nel vasto panorama la pace era piccola in confronto a tutto quel rosso animato sull'acqua e noi, abbacinati, dopo poco volgemmo la schiena al mare.
Sulla piccola spianata dinanzi alla casa, incombeva in confronto già la notte.
Dinanzi al portico, su una grande poltrona, il capo coperto da un berretto e anche protetto dal bavero rialzato della pelliccia, le gambe avvolte in una coperta, mio suocero dormiva.
Ci fermammo a guardarlo.
Aveva la bocca spalancata, la mascella inferiore pendente come una cosa morta e la respirazione rumorosa e troppo frequente.
Ad ogni tratto la sua testa ricadeva sul petto ed egli, senza destarsi, la rialzava.
C'era allora un movimento delle sue palpebre come se avesse voluto aprire gli occhi per ritrovare piú facilmente l'equilibrio e la sua respirazione cambiava di ritmo.
Una vera interruzione del sonno.
Era la prima volta che la grave malattia di mio suocero mi si presentasse con tanta evidenza e ne fui profondamente addolorato.
Il Copler a bassa voce mi disse:
- Bisognerebbe curarlo.
Probabilmente è ammalato anche di nefrite.
Il suo non è un sonno: io so che cosa sia quello stato.
Povero diavolo!
Terminò consigliando di chiamare il suo medico.
Giovanni ci sentí e aperse gli occhi.
Parve subito meno malato e scherzò con Copler:
- Lei s'attenta di stare all'aria aperta? Non le farà male?
Gli sembrava di aver dormito saporitamente e non pensava di aver avuto mancanza d'aria in faccia al vasto mare che gliene mandava tanta! Ma la sua voce era fioca e la sua parola interrotta dall'ansare; aveva la faccia terrea e, levatosi dalla poltrona, si sentiva ghiacciare.
Dovette rifugiarsi in casa.
Lo vedo ancora muoversi traverso la spianata, la coperta sotto il braccio, ansante ma ridendo, mentre ci mandava il suo saluto.
- Vedi com'è fatto l'ammalato reale? - disse il Copler che non sapeva liberarsi dalla sua idea dominante.
- È moribondo e non sa d'essere ammalato.
Parve anche a me che l'ammalato reale soffrisse poco.
Mio suocero e anche il Copler riposano da molti anni a Sant'Anna, ma ci fu un giorno in cui passai accanto alle loro tombe e mi parve che per il fatto di trovarsi da tanti anni sotto alle loro pietre, la tesi propugnata da uno di loro non fosse infirmata.
Prima di lasciare il suo antico domicilio, il Copler aveva liquidati i suoi affari e perciò come me non ne aveva affatto.
Però, non appena lasciato il letto, non seppe restar tranquillo e, mancando di affari propri, cominciò ad occuparsi di quelli degli altri che gli parevano molto piú interessanti.
Ne risi allora, ma piú tardi anch'io dovevo apprendere quale sapore gradevole avessero gli affari altrui.
Egli si dedicava alla beneficenza ed essendosi proposto di vivere dei soli interessi del suo capitale, non poteva concedersi il lusso di farla tutta a spese proprie.
Perciò organizzava delle collette e tassava amici e conoscenti.
Registrava tutto da quel bravo uomo d'affari che era, ed io pensai che quel libro fosse il suo viatico e che io, nel caso suo, condannato a breve vita e privo di famiglia com'egli era, l'avrei arricchito intaccando il mio capitale.
Ma egli era il sano immaginario e non toccava che gl'interessi che gli spettavano, non sapendo rassegnarsi di ammettere breve il futuro.
Un giorno mi assalí con la richiesta di alcune centinaia di corone per procurare un pianino ad una povera fanciulla la quale veniva già sovvenzionata da me insieme ad altri, per suo mezzo, con un piccolo mensile.
Bisognava far presto per approfittare di una buona occasione.
Non seppi esimermi, ma, un po' di malagrazia, osservai che avrei fatto un buon affare se quel giorno non fossi uscito di casa.
Io sono di tempo in tempo soggetto ad accessi di avarizia.
Il Copler prese il denaro e se ne andò con una breve parola di ringraziamento, ma l'effetto delle mie parole si vide pochi giorni appresso e fu, purtroppo, importante.
Egli venne ad informarmi che il pianino era a posto e che la signorina Carla Gerco e sua madre mi pregavano di andar a trovarle per ringraziarmi.
Il Copler aveva paura di perdere il cliente e voleva legarmi facendomi assaporare la riconoscenza delle beneficate.
Dapprima volli esimermi da quella noia assicurandolo che ero convinto ch'egli sapesse fare la beneficenza piú accorta, ma insistette tanto che finii con l'accondiscendere:
- È bella? - domandai ridendo.
- Bellissima - egli rispose - ma non è pane per i nostri denti.
Curiosa cosa che egli mettesse i miei denti assieme ai suoi, col pericolo di comunicarmi la sua carie.
Mi raccontò dell'onestà di quella famiglia disgraziata che aveva perduto da qualche anno il suo capo di casa e che nella piú squallida miseria era vissuta nella piú rigida onestà.
Era una giornata sgradevole.
Soffiava un vento diaccio ed io invidiavo il Copler che s'era messa la pelliccia.
Dovevo trattenere con la mano il cappello che altrimenti sarebbe volato via.
Ma ero di buon umore, perché andavo a raccogliere la gratitudine dovuta alla mia filantropia.
Percorremmo a piedi la Corsia Stadion, traversammo il Giardino Pubblico.
Era una parte della città ch'io non vedevo mai.
Entrammo in una di quelle case cosidette di speculazione, che i nostri antenati s'erano messi a fabbricare quarant'anni prima, in posti lontani dalla città che subito li invase; aveva un aspetto modesto ma tuttavia piú cospicuo delle case che si fanno oggidí con le stesse intenzioni.
La scala occupava una piccola area e perciò era molto alta.
Ci fermammo al primo piano dove arrivai molto prima del mio compagno, assai piú lento.
Fui stupito che delle tre porte che davano su quel pianerottolo, due, quelle ai lati, fossero contrassegnate dal biglietto di visita di Carla Gerco, attaccatovi con chiodini, mentre la terza aveva anch'essa un biglietto ma con altro nome.
Il Copler mi spiegò che le Gerco avevano a destra la cucina e la camera da letto mentre a sinistra non c'era che una stanza sola, lo studio della signorina Carla.
Avevano potuto subaffittare una parte del quartiere al centro e cosí l'affitto costava loro pochissimo, ma avevano l'incomodo di dover passare il pianerottolo per recarsi da una stanza all'altra.
Bussammo a sinistra, alla stanza da studio ove madre e figlia, avvisate della nostra visita, ci attendevano.
Il Copler fece le presentazioni.
La signora, una persona timidissima vestita di un povero vestito nero, con la testa rilevata da un biancore di neve, mi tenne un piccolo discorso che doveva aver preparato: erano onorate dalla mia visita e mi ringraziavano del cospicuo dono che avevo fatto loro.
Poi essa non aperse piú bocca.
Il Copler assisteva come un maestro che ad un esame ufficiale stia ad ascoltare la lezione ch'egli con grande fatica ha insegnata.
Corresse la signora dicendole che non soltanto io avevo elargito il denaro per il pianino, ma che contribuivo anche al soccorso mensile ch'egli aveva loro raggranellato.
Amava l'esattezza, lui.
La signorina Carla si alzò dalla sedia ove era seduta accanto al pianino, mi porse la mano e mi disse la semplice parola:
- Grazie!
Ciò almeno era meno lungo.
La mia carica di filantropo cominciava a pesarmi.
Anch'io mi occupavo degli affari altrui come un qualunque ammalato reale! Che cosa doveva vedere in me quella graziosa giovinetta? Una persona di grande riguardo ma non un uomo! Ed era veramente graziosa! Credo che essa volesse sembrare piú giovine di quanto non fosse, con la sua gonna troppo corta per la moda di quell'epoca a meno che non usasse per casa una gonna del tempo in cui non aveva ancora finito di crescere.
La sua testa era però di donna e, per la pettinatura alquanto ricercata, di donna che vuol piacere.
Le ricche treccie brune erano disposte in modo da coprire le orecchie e anche in parte il collo.
Ero tanto compreso della mia dignità e temevo tanto l'occhio inquisitore del Copler che dapprima non guardai neppur bene la fanciulla; ma ora la so tutta.
La sua voce aveva qualche cosa di musicale quando parlava e, con un'affettazione oramai divenuta natura, essa si compiaceva di stendere le sillabe come se avesse voluto carezzare il suono che le riusciva di metterci.
Perciò e anche per certe sue vocali eccessivamente larghe persino per Trieste, il suo linguaggio aveva qualche cosa di straniero.
Appresi poi che certi maestri, per insegnare l'emissione della voce, alterano il valore delle vocali.
Era proprio tutt'altra pronuncia di quella di Ada.
Ogni suo suono mi pareva d'amore.
Durante quella visita la signorina Carla sorrise sempre, forse immaginando di avere cosí stereotipata sulla faccia l'espressione della gratitudine.
Era un sorriso un po' forzato; il vero aspetto della gratitudine.
Poi, quando poche ore dopo cominciai a sognare Carla, immaginai che su quella faccia ci fosse stata una lotta fra la letizia e il dolore.
Nulla di tutto questo trovai poi in lei ed una volta di piú appresi che la bellezza femminile simula dei sentimenti coi quali nulla ha a vedere.
Cosí la tela su cui è dipinta una battaglia non ha alcun sentimento eroico.
Il Copler pareva soddisfatto della presentazione come se le due donne fossero state opera sua.
Me le descriveva: erano sempre liete del loro destino e lavoravano.
Egli diceva delle parole che parevano tolte da un libro scolastico e, annuendo macchinalmente, pareva che io volessi confermare di aver fatti i miei studii e sapessi perciò come dovessero essere fatte le povere donne virtuose prive di denaro.
Poi egli domandò a Carla di cantarci qualche cosa.
Essa non volle dichiarando di essere raffreddata.
Proponeva di farlo un altro giorno.
Io sentivo con simpatia ch'essa temeva il nostro giudizio, ma avevo il desiderio di prolungare la seduta e m'associai nelle preghiere del Copler.
Dissi anche che non sapevo se m'avrebbe rivisto mai piú, perché ero molto occupato.
Il Copler, che pur sapeva ch'io a questo mondo non avevo alcun impegno, confermò con grande serietà quanto dicevo.
Mi fu poi facile d'intendere ch'egli desiderava che io non rivedessi piú Carla.
Questa tentò ancora di esimersi, ma il Copler insistette con una parola che somigliava ad un comando ed essa obbedí: com'era facile costringerla!
Cantò «La mia bandiera».
Dal mio soffice sofà io seguivo il suo canto.
Avevo un ardente desiderio di poterla ammirare.
Come sarebbe stato bello di vederla rivestita di genialità! Ma invece ebbi la sorpresa di sentire che la sua voce, quando cantava, perdeva ogni musicalità.
Lo sforzo l'alterava.
Carla non sapeva neppure suonare e il suo accompagnamento monco rendeva anche piú povera quella povera musica.
Ricordai di trovarmi dinanzi ad una scolara e analizzai se il volume di voce fosse bastevole.
Abbondante anzi! Nel piccolo ambiente ne avevo l'orecchio ferito.
Pensai, per poter continuare ad incoraggiarla, che solo la sua scuola fosse cattiva.
Quando cessò, m'associai all'applauso abbondante e parolaio del Copler.
Egli diceva:
- Figurati quale effetto farebbe questa voce quando fosse accompagnata da una buona orchestra.
Questo era certamente vero.
Un'intera potente orchestra ci voleva su quella voce.
Io dissi con grande sincerità che mi riservavo di riudire la signorina di là a qualche mese e che allora mi sarei pronunciato sul valore della sua scuola.
Meno sinceramente aggiunsi che certamente quella voce meritava una scuola di primo ordine.
Poi, per attenuare quanto di sgradevole ci poteva essere stato nelle mie prime parole, filosofai sulla necessità per una voce eccelsa, di trovare una scuola eccelsa.
Questo superlativo coperse tutto.
Ma poi, restato solo, fui meravigliato di aver sentito la necessità di essere sincero con Carla.
Che già l'avessi amata? Ma se non l'avevo ancora ben vista!
Sulle scale dall'odore dubbio, il Copler disse ancora:
- La voce sua è troppo forte.
È una voce da teatro.
Egli non sapeva che a quell'ora io sapevo qualcosa di piú: quella voce apparteneva ad un ambiente piccolissimo dove si poteva gustare l'impressione d'ingenuità di quell'arte e sognare di portarci dentro l'arte, cioè vita e dolore.
Nel lasciarmi, il Copler mi disse che m'avrebbe avvertito quando il maestro di Carla avrebbe organizzato un concerto pubblico.
Si trattava di un maestro poco noto ancora in città, ma sarebbe certo divenuto una futura grande celebrità.
Il Copler ne era sicuro ad onta che il maestro fosse abbastanza vecchio.
Pareva che la celebrità gli sarebbe venuta ora, dopo che il Copler lo conosceva.
Due debolezze da morituri, quella del maestro e quella del Copler.
Il curioso si è che sentii il bisogno di raccontare tale visita ad Augusta.
Si potrebbe forse credere che sia stato per prudenza, visto che il Copler ne sapeva e che io non mi sentivo di pregarlo di tacere.
Ma però ne parlai troppo volentieri.
Fu un grande sfogo.
Fino ad allora non avevo da rimproverarmi altro che di aver taciuto con Augusta.
Ecco che ora ero innocente del tutto.
Ella mi domandò qualche notizia della fanciulla e se fosse bella.
Mi fu difficile di rispondere: dissi che la povera fanciulla mi era parsa molto anemica.
Poi ebbi una buona idea:
- E se tu ti occupassi un poco di lei?
Augusta aveva tanto da fare nella sua nuova casa e nella sua vecchia famiglia ove la chiamavano per farsi aiutare nell'assistenza al padre malato, che non vi pensò piú.
Ma la mia idea era stata perciò veramente buona.
Il Copler però riseppe da Augusta che io l'avevo avvertita della nostra visita e anche lui dimenticò perciò le qualità ch'egli aveva attribuite al malato immaginario.
Mi disse in presenza di Augusta che di lí a poco tempo avremmo fatta un'altra visita a Carla.
Mi concedeva la sua piena fiducia.
Nella mia inerzia subito fui preso dal desiderio di rivedere Carla.
Non osai correre da lei temendo che il Copler avesse a risaperne.
I pretesti però non mi sarebbero mica mancati.
Potevo andare da lei per offrirle un aiuto maggiore ad insaputa del Copler, ma avrei dovuto prima essere sicuro che, a proprio vantaggio, ella avrebbe accettato di tacere.
E se quell'ammalato reale fosse già l'amante della fanciulla? Io, degli ammalati reali, non sapevo proprio niente e poteva essere benissimo che avessero il costume di farsi pagare dagli altri le loro amanti.
In quel caso sarebbe bastata una sola visita a Carla per compromettermi.
Non potevo mettere a pericolo la pace della mia famigliuola; ossia, non la misi a pericolo finché il mio desiderio di Carla non ingrandí.
Ma esso ingrandí costantemente.
Già conoscevo quella fanciulla molto meglio che non quando le aveva stretta la mano per congedarmi da lei.
Ricordavo specialmente quella treccia nera che copriva il suo collo niveo e che sarebbe stato necessario di allontanare col naso per arrivare a baciare la pelle ch'essa celava.
Per stimolare il mio desiderio bastava io ricordassi che su un dato pianerottolo, nella stessa mia piccola città, era esposta una bella fanciulla e che con una breve passeggiata si poteva andare a prenderla! La lotta col peccato diventa in tali circostanze difficilissima perché bisogna rinnovarla ad ogni ora ed ogni giorno, finché cioè la fanciulla rimanga su quel pianerottolo.
Le lunghe vocali di Carla mi chiamavano, e forse proprio il loro suono m'aveva messo nell'anima la convinzione che quando la mia resistenza fosse sparita, altre resistenze non ci sarebbero state piú.
Però m'era chiaro che potevo ingannarmi e che forse il Copler vedeva le cose con maggior esattezza; anche questo dubbio valeva a diminuire la mia resistenza visto che la povera Augusta poteva essere salvata da un mio tradimento da Carla stessa che, come donna, aveva la missione della resistenza.
Perché il mio desiderio avrebbe dovuto darmi un rimorso quando pareva fosse proprio venuto a tempo per salvarmi dal tedio che in quell'epoca mi minacciava? Non danneggiava affatto i miei rapporti con Augusta, anzi tutt'altro.
Io le dicevo oramai non piú soltanto le parole di affetto che avevo sempre avute per lei, ma anche quelle che nel mio animo andavano formandosi per l'altra.
Non c'era mai stata una simile abbondanza di dolcezza in casa mia e Augusta ne pareva incantata.
Ero sempre esatto in quello che io chiamavo l'orario della famiglia.
La mia coscienza è tanto delicata che, con le mie maniere, già allora mi preparavo ad attenuare il mio futuro rimorso.
Che la mia resistenza non sia mancata del tutto è provato dal fatto che io arrivai a Carla non con uno slancio solo, ma a tappe.
Dapprima per varii giorni giunsi solo fino al Giardino Pubblico e con la sincera intenzione di gioire di quel verde che apparisce tanto puro in mezzo al grigio delle strade e delle case che lo circondano.
Poi, non avendo avuta la fortuna di imbattermi, come speravo, casualmente in lei, uscii dal Giardino per movermi proprio sotto le sue finestre.
Lo feci con una grande emozione che ricordava proprio quella deliziosissima del giovinetto che per la prima volta accosta l'amore.
Da tanto tempo ero privo non d'amore, ma delle corse che vi conducono.
Ero appena uscito dal Giardino Pubblico che m'imbattei proprio faccia a faccia in mia suocera.
Dapprima ebbi un dubbio curioso: di mattina, cosí di buon'ora, da quelle parti tanto lontane dalle nostre? Forse anche lei tradiva il marito ammalato.
Seppi poi subito che le facevo un torto perché essa era stata a trovare il medico per averne conforto dopo una cattiva notte passata accanto a Giovanni.
Il medico le aveva detto delle buone parole, ma essa era tanto agitata che presto mi lasciò dimenticando persino di sorprendersi di avermi trovato in quel luogo visitato di solito da vecchi, bambini e balie.
Ma mi bastò di averla vista per sentirmi riafferrato dalla mia famiglia.
Camminai verso casa mia con un passo deciso, a cui battevo il tempo mormorando: «Mai piú! Mai piú!».
In quell'istante la madre di Augusta con quel suo dolore mi aveva dato il sentimento di tutti i miei doveri.
Fu una buona lezione e bastò per tutto quel giorno.
Augusta non era in casa perché era corsa dal padre col quale rimase tutta la mattina.
A tavola mi disse che avevano discusso se, dato lo stato di Giovanni, non avrebbero dovuto rimandare il matrimonio di Ada ch'era stabilito per la settimana dopo.
Giovanni stava già meglio.
Pare che a cena si fosse lasciato in
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