LA COSCIENZA DI ZENO, di Italo Svevo - pagina 27
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Ella invece portava nella mia vecchia casa un istinto che veniva dall'aria aperta, e, in amore, somigliava alla rondinella che subito pensa al nido.
Ma anch'io facevo all'amore e portavo a casa fiori e gemme.
La mia vita fu del tutto mutata dal mio matrimonio.
Rinunziai, dopo un debole tentativo di resistenza, a disporre a mio piacere del mio tempo e m'acconciai al piú rigido orario.
Sotto questo riguardo la mia educazione ebbe un esito splendido.
Un giorno, subito dopo il nostro viaggio di nozze, mi lasciai innocentemente trattenere dall'andar a casa a colazione e, dopo di aver mangiato qualche cosa in un bar, restai fuori fino alla sera.
Rientrato a notte fatta, trovai che Augusta non aveva fatto colazione ed era disfatta dalla fame.
Non mi fece alcun rimprovero, ma non si lasciò convincere d'aver fatto male.
Dolcemente, ma risoluta, dichiarò che se non fosse stata avvisata prima, m'avrebbe atteso per la colazione fino all'ora del pranzo.
Non c'era da scherzare! Un'altra volta mi lasciai indurre da un amico a restar fuori di casa fino alle due di notte.
Trovai Augusta che m'aspettava e che batteva i denti dal freddo avendo trascurata la stufa.
Ne seguí anche una sua lieve indisposizione che rese indimenticabile la lezione inflittami.
Un giorno volli farle un altro grande regalo: lavorare! Essa lo desiderava ed io stesso pensavo che il lavoro sarebbe stato utile per la mia salute.
Si capisce che è meno malato chi ha poco tempo per esserlo.
Andai al lavoro e, se non vi restai, non fu davvero colpa mia.
Vi andai coi migliori propositi e con vera umiltà.
Non reclamai di partecipare alla direzione degli affari e domandai invece di tenere intanto il libro mastro.
Davanti al grosso libro in cui le scritturazioni erano disposte con la regolarità di strade e case, mi sentii pieno di rispetto e cominciai a scrivere con mano tremante.
Il figliuolo dell'Olivi, un giovinotto sobriamente elegante, occhialuto, dotto di tutte le scienze commerciali, assunse la mia istruzione e di lui davvero non ho da lagnarmi.
Mi diede qualche seccatura con la sua scienza economica e la teoria della domanda e dell'offerta che a me pareva piú evidente di quanto egli non volesse ammettere.
Ma si vedeva in lui un certo rispetto per il padrone, ed io gliene ero tanto piú grato in quanto non era ammissibile che l'avesse appreso da suo padre.
Il rispetto della proprietà doveva far parte della sua scienza economica.
Non mi rimproverò giammai gli errori di registrazione che spesso facevo; solo era incline ad attribuirli ad ignoranza e mi dava delle spiegazioni che veramente erano superflue.
Il male si è che a forza di guardare gli affari, mi venne la voglia di farne.
Nel libro, con grande chiarezza, arrivai a raffigurare la mia tasca e quando registravo un importo nel «dare» dei clienti mi pareva di tener in mano invece della penna il bastoncino del croupier che raccoglie i denari sparsi sul tavolo da giuoco.
Il giovine Olivi mi faceva anche vedere la posta che arrivava ed io la leggevo con attenzione e - devo dirlo - in principio con la speranza d'intenderla meglio degli altri.
Un'offerta comunissima conquistò un giorno la mia attenzione appassionata.
Anche prima di leggerla sentii moversi nel mio petto qualche cosa che subito riconobbi come l'oscuro presentimento che talvolta veniva a trovarmi al tavolo da giuoco.
È difficile descrivere tale presentimento.
Esso consiste in una certa dilatazione dei polmoni per cui si respira con voluttà l'aria per quanto sia affumicata.
Ma poi c'è di piú: sapete subito che quando avrete raddoppiata la posta starete ancora meglio.
Però ci vuole della pratica per intendere tutto questo.
Bisogna essersi allontanati dal tavolo da giuoco con le tasche vuote e il dolore di averlo trascurato; allora non sfugge piú.
E quando lo si ha trascurato, non c'è piú salvezza per quel giorno perché le carte si vendicano.
Però al tavolo verde è assai piú perdonabile di non averlo sentito che dinanzi al tranquillo libro mastro, ed infatti io lo percepii chiaramente, mentre gridava in me: «Compera subito quella frutta secca!».
Ne parlai con tutta mitezza all'Olivi, naturalmente senza accennare della mia ispirazione.
L'Olivi rispose che quegli affari non li faceva che per conto di terzi quando poteva realizzare un piccolo beneficio.
Cosí egli eliminava dai miei affari la possibilità dell'ispirazione e la riservava ai terzi.
La notte rafforzò la mia convinzione: il presentimento era dunque in me.
Respiravo tanto bene da non poter dormire.
Augusta sentí la mia inquietudine e dovetti dirgliene la ragione.
Essa ebbe subito la mia stessa ispirazione e nel sonno arrivò a mormorare:
- Non sei forse il padrone?
Vero è che alla mattina, prima che uscissi, mi disse impensierita:
- A te non conviene d'indispettire l'Olivi.
Vuoi che ne parli al babbo?
Non lo volli perché sapevo che anche Giovanni dava assai poco peso alle ispirazioni.
Arrivai all'ufficio ben deciso di battermi per la mia idea anche per vendicarmi dell'insonnia sofferta.
La battaglia durò fino a mezzodí quando spirava il termine utile per accettare l'offerta.
L'Olivi restò irremovibile e mi saldò con la solita osservazione:
- Lei vuole forse diminuire le facoltà attribuitemi dal defunto suo padre?
Risentito, ritornai per il momento al mio mastro, ben deciso di non ingerirmi piú di affari.
Ma il sapore dell'uva sultanina mi restò in bocca ed ogni giorno al Tergesteo m'informavo del suo prezzo.
Di altro non m'importava.
Salí lento, lento come se avesse avuto bisogno di raccogliersi per prendere lo slancio.
Poi in un giorno solo fu un balzo formidabile in alto.
Il raccolto era stato miserabile e lo si sapeva appena ora.
Strana cosa l'ispirazione! Essa non aveva previsto il raccolto scarso ma solo l'aumento di prezzo.
Le carte si vendicarono.
Intanto io non sapevo restare al mio mastro e perdetti ogni rispetto per i miei insegnanti, tanto piú che ora l'Olivi non pareva tanto sicuro di aver fatto bene.
Io risi e derisi; fu la mia occupazione principale.
Arrivò una seconda offerta dal prezzo quasi raddoppiato.
L'Olivi, per rabbonirmi, mi domandò consiglio ed io, trionfante, dissi che non avrei mangiata l'uva a quel prezzo.
L'Olivi, offeso, mormorò:
- Io m'attengo al sistema che seguii per tutta la mia vita.
E andò in cerca del compratore.
Ne trovò uno per un quantitativo molto ridotto e, sempre con le migliori intenzioni, ritornò da me e mi domandò esitante:
- La copro, questa piccola vendita?
Risposi, sempre cattivo:
- Io l'avrei coperta prima di farla.
Finí che l'Olivi perdette la forza della propria convinzione e lasciò la vendita scoperta.
Le uve continuarono a salire e noi si perdette tutto quello che sul piccolo quantitativo si poteva perdere.
Ma l'Olivi si arrabbiò con me e dichiarò che aveva giuocato solo per compiacermi.
Il furbo dimenticava che io l'avevo consigliato di puntare sul rosso e ch'egli, per farmela, aveva puntato sul nero.
La nostra lite fu insanabile.
L'Olivi s'appellò a mio suocero dicendogli che fra lui e me la ditta sarebbe stata sempre danneggiata, e che se la mia famiglia lo desiderava, egli e suo figlio si sarebbero ritirati per lasciarmi il campo libero.
Mio suocero decise subito in favore dell'Olivi.
Mi disse:
- L'affare della frutta secca è troppo istruttivo.
Siete due uomini che non potete stare insieme.
Ora chi ha da ritirarsi? Chi senza l'altro avrebbe fatto un solo buon affare, o chi da mezzo secolo dirige da solo la casa?
Anche Augusta fu indotta dal padre a convincermi di non ingerirmi piú nei miei propri affari.
- Pare che la tua bontà e la tua ingenuità - mi disse - ti rendano disadatto agli affari.
Resta a casa con me.
Io, irato, mi ritirai nella mia tenda, ossia nel mio studiolo.
Per qualche tempo leggiucchiai e suonai, poi sentii il desiderio di una attività piú seria e poco mancò non ritornassi alla chimica eppoi alla giurisprudenza.
Infine, e non so veramente perché, per qualche tempo mi dedicai agli studi di religione.
Mi parve di riprendere lo studio che avevo iniziato alla morte di mio padre.
Forse questa volta fu per un tentativo energico di avvicinarmi ad Augusta e alla sua salute.
Non bastava andare a messa con lei; io dovevo andarci altrimenti, leggendo cioè Renan e Strauss, il primo con diletto, il secondo sopportandolo come una punizione.
Ne dico qui solo per rilevare quale grande desiderio m'attaccasse ad Augusta.
E lei questo desiderio non indovinò quando mi vide nelle mani i Vangeli in edizione critica.
Preferiva l'indifferenza alla scienza e cosí non seppe apprezzare il massimo segno d'affetto che le avevo dato.
Quando, come soleva, interrompendo la sua toilette o le sue occupazioni in casa, s'affacciava alla porta della mia stanza per dirmi una parola di saluto, vedendomi chino su quei testi, torceva la bocca:
- Sei ancora con quella roba?
La religione di cui Augusta abbisognava non esigeva del tempo per acquisirsi o per praticarsi.
Un inchino e l'immediato ritorno alla vita! Nulla di piú.
Da me la religione acquistava tutt'altro aspetto.
Se avessi avuto la fede vera, io a questo mondo non avrei avuto che quella.
Poi nella mia stanzetta magnificamente organizzata venne talvolta la noia.
Era piuttosto un'ansia perché proprio allora mi pareva di sentirmi la forza di lavorare, ma stavo aspettando che la vita m'avesse imposto qualche compito.
Nell'attesa uscivo frequentemente e passavo molte ore al Tergesteo o in qualche caffè.
Vivevo in una simulazione di attività.
Un'attività noiosissima.
La visita di un amico d'Università, che aveva dovuto rimpatriare in tutta furia da un piccolo paese della Stiria per curarsi di una grave malattia, fu la mia Nemesi, benché non ne avesse avuto l'aspetto.
Arrivò a me dopo di aver fatto a Trieste un mese di letto ch'era valso a convertire la sua malattia, una nefrite, da acuta in cronica e probabilmente inguaribile.
Ma egli credeva di star meglio e s'apprestava lietamente a trasferirsi subito, durante la primavera, in qualche luogo dal clima piú dolce del nostro, dove s'aspettava di essere restituito alla piena salute.
Gli fu fatale forse di essersi indugiato troppo nel rude luogo natio.
Io considero la visita di quell'uomo tanto malato, ma lieto e sorridente, come molto nefasta per me; ma forse ho torto: essa non segna che una data nella mia vita, per la quale bisognava pur passare.
Il mio amico, Enrico Copler, si stupí ch'io nulla avessi saputo né di lui né della sua malattia di cui Giovanni doveva essere informato.
Ma Giovanni, dacché era malato anche lui, non aveva tempo per nessuno e non me ne aveva detto niente ad onta che ogni giorno di sole venisse nella mia villa per dormire qualche ora all'aria aperta.
Fra' due malati si passò un pomeriggio lietissimo.
Si parlò delle loro malattie, ciò che costituisce il massimo svago per un malato ed è una cosa non troppo triste per i sani che stanno a sentire.
Ci fu solo un dissenso perché Giovanni aveva bisogno dell'aria aperta che all'altro era proibita.
Il dissenso si dileguò quando si levò un po' di vento che indusse anche Giovanni di restare con noi, nella piccola stanza calda.
Il Copler ci raccontò della sua malattia che non dava dolore ma toglieva la forza.
Soltanto ora che stava meglio sapeva quanto fosse stato malato.
Parlò delle medicine che gli erano state propinate e allora il mio interesse fu piú vivo.
Il suo dottore gli aveva consigliato fra altro un efficace sistema per procurargli un lungo sonno senza perciò avvelenarlo con veri sonniferi.
Ma questa era la cosa di cui io avevo sopra tutto bisogno!
Il mio povero amico, sentendo il mio bisogno di medicine, si lusingò per un istante ch'io potessi essere affetto della stessa sua malattia e mi consigliò di farmi vedere, ascoltare e analizzare.
Augusta si mise a ridere di cuore e dichiarò ch'io non ero altro che un malato immaginario.
Allora sul volto emaciato del Copler passò qualche cosa che somigliava ad un risentimento.
Subito, virilmente, si liberò dallo stato d'inferiorità a cui pareva fosse condannato, aggredendomi con grande energia:
- Malato immaginario? Ebbene, io preferisco di essere un malato reale.
Prima di tutto un malato immaginario è una mostruosità ridicola eppoi per lui non esistono dei farmachi mentre la farmacia, come si vede in me, ha sempre qualche cosa di efficace per noi malati veri!
La sua parola sembrava quella di un sano ed io - voglio essere sincero - ne soffersi.
Mio suocero s'associò a lui con grande energia, ma le sue parole non arrivavano a gettare un disprezzo sul malato immaginario, perché tradivano troppo chiaramente l'invidia per il sano.
Disse che se egli fosse stato sano come me, invece di seccare il prossimo con le lamentele, sarebbe corso ai suoi cari e buoni affari, specie ora che gli era riuscito di diminuire la sua pancia.
Egli non sapeva neppure che il suo dimagrimento non veniva considerato come un sintomo favorevole.
Causa l'assalto del Copler, io avevo veramente l'aspetto di un malato e di un malato maltrattato.
Augusta sentí il bisogno d'intervenire in mio soccorso.
Carezzando la mano che avevo abbandonata sul tavolo, essa disse che la mia malattia non disturbava nessuno e ch'ella non era neppur convinta ch'io credessi d'esser ammalato, perché altrimenti non avrei avuto tanta gioia di vivere.
Cosí il Copler ritornò allo stato d'inferiorità cui era condannato.
Egli era del tutto solo a questo mondo e se poteva lottare con me in fatto di salute, non poteva contrappormi alcun affetto simile a quello che Augusta m'offriva.
Sentendo vivo il bisogno di un'infermiera, si rassegnò di confessarmi piú tardi quanto egli m'aveva invidiato per questo.
La discussione continuò nei giorni seguenti con un tono piú calmo mentre Giovanni dormiva in giardino.
E il Copler, dopo averci pensato sú, asseriva ora che il malato immaginario era un malato reale, ma piú intimamente di questi ed anche piú radicalmente.
Infatti i suoi nervi erano ridotti cosí da accusare una malattia quando non c'era, mentre la loro funzione normale sarebbe consistita nell'allarmare col dolore e indurre a correre al riparo.
- Sí! - dicevo io.
- Come ai denti, dove il dolore si manifesta solo quando il nervo è scoperto e per la guarigione occorre la sua distruzione.
Si terminò col trovarsi d'accordo sul fatto che un malato e l'altro si valevano.
Proprio nella sua nefrite era mancato e mancava tuttavia un avviso dei nervi, mentre che i miei nervi, invece, erano forse tanto sensibili da avvisarmi della malattia di cui sarei morto qualche ventennio piú tardi.
Erano dunque dei nervi perfetti e avevano l'unico svantaggio di concedermi pochi giorni lieti a questo mondo.
Essendogli riuscito a mettermi fra gli ammalati, il Copler fu soddisfattissimo.
Non so perché il povero malato avesse la mania di parlare di donne e, quando non c'era mia moglie, non si parlava d'altro.
Egli pretendeva che dal malato reale, almeno nelle malattie che noi sapevamo, il sesso s'affievolisse, ciò ch'era una buona difesa dell'organismo, mentre dal malato immaginario che non soffriva che pel disordine di nervi troppo laboriosi (questa era la nostra diagnosi) esso fosse patologicamente vivo.
Io corroborai la sua teoria con la mia esperienza e ci compiangemmo reciprocamente.
Ignoro perché non volli dirgli che io mi trovavo lontano da ogni sregolatezza e ciò da lungo tempo.
Avrei almeno potuto confessare che mi ritenevo convalescente se non sano, per non offenderlo troppo e perché dirsi sano quando si conoscono tutte le complicazioni del nostro organismo è una cosa difficile.
- Tu desideri tutte le donne belle che vedi? - inquisí ancora il Copler.
- Non tutte! - mormorai io per dirgli che non ero tanto malato.
Intanto io non desideravo Ada che vedevo ogni sera.
Quella, per me, era proprio la donna proibita.
Il fruscio delle sue gonne non mi diceva niente e, se mi fosse stato permesso di muoverle con le mie stesse mani, sarebbe stata la stessa cosa.
Per fortuna non l'avevo sposata.
Questa indifferenza era, o mi sembrava, una manifestazione di salute genuina.
Forse il mio desiderio per lei era stato tanto violento da esaurirsi da sé.
Però la mia indifferenza si estendeva anche ad Alberta ch'era pur tanto carina nel suo vestitino accurato e serio da scuola.
Che il possesso di Augusta fosse stato sufficiente a calmare il mio desiderio per tutta la famiglia Malfenti? Ciò sarebbe stato davvero molto morale!
Forse non parlai della mia virtú perché nel pensiero io tradivo sempre Augusta, e anche ora, parlando col Copler, con un fremito di desiderio, pensai a tutte le donne che per lei trascuravo.
Pensai alle donne che correvano le vie, tutte coperte, e dalle quali perciò gli organi sessuali secondarii divenivano tanto importanti mentre dalla donna che si possedeva scomparivano come se il possesso li avesse atrofizzati.
Avevo sempre vivo il desiderio dell'avventura; quell'avventura che cominciava dall'ammirazione di uno stivaletto, di un guanto, di una gonna, di tutto quello che copre e altera la forma.
Ma questo desiderio non era ancora una colpa.
Il Copler però non faceva bene ad analizzarmi.
Spiegare a qualcuno come è fatto, è un modo per autorizzarlo ad agire come desidera.
Ma il Copler fece anche di peggio, solo che tanto quando parlò, come quando agí, egli non poteva prevedere dove mi avrebbe condotto.
Resta cosí importante nel mio ricordo la parola del Copler che, quando la ricordo, essa rievoca tutte le sensazioni che vi si associarono, e le cose e le persone.
Avevo accompagnato in giardino il mio amico che doveva rincasare prima del tramonto.
Dalla mia villa, che giace su una collina, si aveva la vista del porto e del mare, vista che ora è intercettata da nuovi fabbricati.
Ci fermammo a guardare lungamente il mare mosso da una brezza leggera che rimandava in miriadi di luci rosse la luce tranquilla del cielo.
La penisola istriana dava riposo all'occhio con la sua mitezza verde che s'inoltrava in arco enorme nel mare come una penombra solida.
I moli e le dighe erano piccoli e insignificanti nelle loro forme rigidamente lineari, e l'acqua nei bacini era oscurata dalla sua immobilità o era forse torbida? Nel vasto panorama la pace era piccola in confronto a tutto quel rosso animato sull'acqua e noi, abbacinati, dopo poco volgemmo la schiena al mare.
Sulla piccola spianata dinanzi alla casa, incombeva in confronto già la notte.
Dinanzi al portico, su una grande poltrona, il capo coperto da un berretto e anche protetto dal bavero rialzato della pelliccia, le gambe avvolte in una coperta, mio suocero dormiva.
Ci fermammo a guardarlo.
Aveva la bocca spalancata, la mascella inferiore pendente come una cosa morta e la respirazione rumorosa e troppo frequente.
Ad ogni tratto la sua testa ricadeva sul petto ed egli, senza destarsi, la rialzava.
C'era allora un movimento delle sue palpebre come se avesse voluto aprire gli occhi per ritrovare piú facilmente l'equilibrio e la sua respirazione cambiava di ritmo.
Una vera interruzione del sonno.
Era la prima volta che la grave malattia di mio suocero mi si presentasse con tanta evidenza e ne fui profondamente addolorato.
Il Copler a bassa voce mi disse:
- Bisognerebbe curarlo.
Probabilmente è ammalato anche di nefrite.
Il suo non è un sonno: io so che cosa sia quello stato.
Povero diavolo!
Terminò consigliando di chiamare il suo medico.
Giovanni ci sentí e aperse gli occhi.
Parve subito meno malato e scherzò con Copler:
- Lei s'attenta di stare all'aria aperta? Non le farà male?
Gli sembrava di aver dormito saporitamente e non pensava di aver avuto mancanza d'aria in faccia al vasto mare che gliene mandava tanta! Ma la sua voce era fioca e la sua parola interrotta dall'ansare; aveva la faccia terrea e, levatosi dalla poltrona, si sentiva ghiacciare.
Dovette rifugiarsi in casa.
Lo vedo ancora muoversi traverso la spianata, la coperta sotto il braccio, ansante ma ridendo, mentre ci mandava il suo saluto.
- Vedi com'è fatto l'ammalato reale? - disse il Copler che non sapeva liberarsi dalla sua idea dominante.
- È moribondo e non sa d'essere ammalato.
Parve anche a me che l'ammalato reale soffrisse poco.
Mio suocero e anche il Copler riposano da molti anni a Sant'Anna, ma ci fu un giorno in cui passai accanto alle loro tombe e mi parve che per il fatto di trovarsi da tanti anni sotto alle loro pietre, la tesi propugnata da uno di loro non fosse infirmata.
Prima di lasciare il suo antico domicilio, il Copler aveva liquidati i suoi affari e perciò come me non ne aveva affatto.
Però, non appena lasciato il letto, non seppe restar tranquillo e, mancando di affari propri, cominciò ad occuparsi di quelli degli altri che gli parevano molto piú interessanti.
Ne risi allora, ma piú tardi anch'io dovevo apprendere quale sapore gradevole avessero gli affari altrui.
Egli si dedicava alla beneficenza ed essendosi proposto di vivere dei soli interessi del suo capitale, non poteva concedersi il lusso di farla tutta a spese proprie.
Perciò organizzava delle collette e tassava amici e conoscenti.
Registrava tutto da quel bravo uomo d'affari che era, ed io pensai che quel libro fosse il suo viatico e che io, nel caso suo, condannato a breve vita e privo di famiglia com'egli era, l'avrei arricchito intaccando il mio capitale.
Ma egli era il sano immaginario e non toccava che gl'interessi che gli spettavano, non sapendo rassegnarsi di ammettere breve il futuro.
Un giorno mi assalí con la richiesta di alcune centinaia di corone per procurare un pianino ad una povera fanciulla la quale veniva già sovvenzionata da me insieme ad altri, per suo mezzo, con un piccolo mensile.
Bisognava far presto per approfittare di una buona occasione.
Non seppi esimermi, ma, un po' di malagrazia, osservai che avrei fatto un buon affare se quel giorno non fossi uscito di casa.
Io sono di tempo in tempo soggetto ad accessi di avarizia.
Il Copler prese il denaro e se ne andò con una breve parola di ringraziamento, ma l'effetto delle mie parole si vide pochi giorni appresso e fu, purtroppo, importante.
Egli venne ad informarmi che il pianino era a posto e che la signorina Carla Gerco e sua madre mi pregavano di andar a trovarle per ringraziarmi.
Il Copler aveva paura di perdere il cliente e voleva legarmi facendomi assaporare la riconoscenza delle beneficate.
Dapprima volli esimermi da quella noia assicurandolo che ero convinto ch'egli sapesse fare la beneficenza piú accorta, ma insistette tanto che finii con l'accondiscendere:
- È bella? - domandai ridendo.
- Bellissima - egli rispose - ma non è pane per i nostri denti.
Curiosa cosa che egli mettesse i miei denti assieme ai suoi, col pericolo di comunicarmi la sua carie.
Mi raccontò dell'onestà di quella famiglia disgraziata che aveva perduto da qualche anno il suo capo di casa e che nella piú squallida miseria era vissuta nella piú rigida onestà.
Era una giornata sgradevole.
Soffiava un vento diaccio ed io invidiavo il Copler che s'era messa la pelliccia.
Dovevo trattenere con la mano il cappello che altrimenti sarebbe volato via.
Ma ero di buon umore, perché andavo a raccogliere la gratitudine dovuta alla mia filantropia.
Percorremmo a piedi la Corsia Stadion, traversammo il Giardino Pubblico.
Era una parte della città ch'io non vedevo mai.
Entrammo in una di quelle case cosidette di speculazione, che i nostri antenati s'erano messi a fabbricare quarant'anni prima, in posti lontani dalla città che subito li invase; aveva un aspetto modesto ma tuttavia piú cospicuo delle case che si fanno oggidí con le stesse intenzioni.
La scala occupava una piccola area e perciò era molto alta.
Ci fermammo al primo piano dove arrivai molto prima del mio compagno, assai piú lento.
Fui stupito che delle tre porte che davano su quel pianerottolo, due, quelle ai lati, fossero contrassegnate dal biglietto di visita di Carla Gerco, attaccatovi con chiodini, mentre la terza aveva anch'essa un biglietto ma con altro nome.
Il Copler mi spiegò che le Gerco avevano a destra la cucina e la camera da letto mentre a sinistra non c'era che una stanza sola, lo studio della signorina Carla.
Avevano potuto subaffittare una parte del quartiere al centro e cosí l'affitto costava loro pochissimo, ma avevano l'incomodo di dover passare il pianerottolo per recarsi da una stanza all'altra.
Bussammo a sinistra, alla stanza da studio ove madre e figlia, avvisate della nostra visita, ci attendevano.
Il Copler fece le presentazioni.
La signora, una persona timidissima vestita di un povero vestito nero, con la testa rilevata da un biancore di neve, mi tenne un piccolo discorso che doveva aver preparato: erano onorate dalla mia visita e mi ringraziavano del cospicuo dono che avevo fatto loro.
Poi essa non aperse piú bocca.
Il Copler assisteva come un maestro che ad un esame ufficiale stia ad ascoltare la lezione ch'egli con grande fatica ha insegnata.
Corresse la signora dicendole che non soltanto io avevo elargito il denaro per il pianino, ma che contribuivo anche al soccorso mensile ch'egli aveva loro raggranellato.
Amava l'esattezza, lui.
La signorina Carla si alzò dalla sedia ove era seduta accanto al pianino, mi porse la mano e mi disse la semplice parola:
- Grazie!
Ciò almeno era meno lungo.
La mia carica di filantropo cominciava a pesarmi.
Anch'io mi occupavo degli affari altrui come un qualunque ammalato reale! Che cosa doveva vedere in me quella graziosa giovinetta? Una persona di grande riguardo ma non un uomo! Ed era veramente graziosa! Credo che essa volesse sembrare piú giovine di quanto non fosse, con la sua gonna troppo corta per la moda di quell'epoca a meno che non usasse per casa una gonna del tempo in cui non aveva ancora finito di crescere.
La sua testa era però di donna e, per la pettinatura alquanto ricercata, di donna che vuol piacere.
Le ricche treccie brune erano disposte in modo da coprire le orecchie e anche in parte il collo.
Ero tanto compreso della mia dignità e temevo tanto l'occhio inquisitore del Copler che dapprima non guardai neppur bene la fanciulla; ma ora la so tutta.
La sua voce aveva qualche cosa di musicale quando parlava e, con un'affettazione oramai divenuta natura, essa si compiaceva di stendere le sillabe come se avesse voluto carezzare il suono che le riusciva di metterci.
Perciò e anche per certe sue vocali eccessivamente larghe persino per Trieste, il suo linguaggio aveva qualche cosa di straniero.
Appresi poi che certi maestri, per insegnare l'emissione della voce, alterano il valore delle vocali.
Era proprio tutt'altra pronuncia di quella di Ada.
Ogni suo suono mi pareva d'amore.
Durante quella visita la signorina Carla sorrise sempre, forse immaginando di avere cosí stereotipata sulla faccia l'espressione della gratitudine.
Era un sorriso un po' forzato; il vero aspetto della gratitudine.
Poi, quando poche ore dopo cominciai a sognare Carla, immaginai che su quella faccia ci fosse stata una lotta fra la letizia e il dolore.
Nulla di tutto questo trovai poi in lei ed una volta di piú appresi che la bellezza femminile simula dei sentimenti coi quali nulla ha a vedere.
Cosí la tela su cui è dipinta una battaglia non ha alcun sentimento eroico.
Il Copler pareva soddisfatto della presentazione come se le due donne fossero state opera sua.
Me le descriveva: erano sempre liete del loro destino e lavoravano.
Egli diceva delle parole che parevano tolte da un libro scolastico e, annuendo macchinalmente, pareva che io volessi confermare di aver fatti i miei studii e sapessi perciò come dovessero essere fatte le povere donne virtuose prive di denaro.
Poi egli domandò a Carla di cantarci qualche cosa.
Essa non volle dichiarando di essere raffreddata.
Proponeva di farlo un altro giorno.
Io sentivo con simpatia ch'essa temeva il nostro giudizio, ma avevo il desiderio di prolungare la seduta e m'associai nelle preghiere del Copler.
Dissi anche che non sapevo se m'avrebbe rivisto mai piú, perché ero molto occupato.
Il Copler, che pur sapeva ch'io a questo mondo non avevo alcun impegno, confermò con grande serietà quanto dicevo.
Mi fu poi facile d'intendere ch'egli desiderava che io non rivedessi piú Carla.
Questa tentò ancora di esimersi, ma il Copler insistette con una parola che somigliava ad un comando ed essa obbedí: com'era facile costringerla!
Cantò «La mia bandiera».
Dal mio soffice sofà io seguivo il suo canto.
Avevo un ardente desiderio di poterla ammirare.
Come sarebbe stato bello di vederla rivestita di genialità! Ma invece ebbi la sorpresa di sentire che la sua voce, quando cantava, perdeva ogni musicalità.
Lo sforzo l'alterava.
Carla non sapeva neppure suonare e il suo accompagnamento monco rendeva anche piú povera quella povera musica.
Ricordai di trovarmi dinanzi ad una scolara e analizzai se il volume di voce fosse bastevole.
Abbondante anzi! Nel piccolo ambiente ne avevo l'orecchio ferito.
Pensai, per poter continuare ad incoraggiarla, che solo la sua scuola fosse cattiva.
Quando cessò, m'associai all'applauso abbondante e parolaio del Copler.
Egli diceva:
- Figurati quale effetto farebbe questa voce quando fosse accompagnata da una buona orchestra.
Questo era certamente vero.
Un'intera potente orchestra ci voleva su quella voce.
Io dissi con grande sincerità che mi riservavo di riudire la signorina di là a qualche mese e che allora mi sarei pronunciato sul valore della sua scuola.
Meno sinceramente aggiunsi che certamente quella voce meritava una scuola di primo ordine.
Poi, per attenuare quanto di sgradevole ci poteva essere stato nelle mie prime parole, filosofai sulla necessità per una voce eccelsa, di trovare una scuola eccelsa.
Questo superlativo coperse tutto.
Ma poi, restato solo, fui meravigliato di aver sentito la necessità di essere sincero con Carla.
Che già l'avessi amata? Ma se non l'avevo ancora ben vista!
Sulle scale dall'odore dubbio, il Copler disse ancora:
- La voce sua è troppo forte.
È una voce da teatro.
Egli non sapeva che a quell'ora io sapevo qualcosa di piú: quella voce apparteneva ad un ambiente piccolissimo dove si poteva gustare l'impressione d'ingenuità di quell'arte e sognare di portarci dentro l'arte, cioè vita e dolore.
Nel lasciarmi, il Copler mi disse che m'avrebbe avvertito quando il maestro di Carla avrebbe organizzato un concerto pubblico.
Si trattava di un maestro poco noto ancora in città, ma sarebbe certo divenuto una futura grande celebrità.
Il Copler ne era sicuro ad onta che il maestro fosse abbastanza vecchio.
Pareva che la celebrità gli sarebbe venuta ora, dopo che il Copler lo conosceva.
Due debolezze da morituri, quella del maestro e quella del Copler.
Il curioso si è che sentii il bisogno di raccontare tale visita ad Augusta.
Si potrebbe forse credere che sia stato per prudenza, visto che il Copler ne sapeva e che io non mi sentivo di pregarlo di tacere.
Ma però ne parlai troppo volentieri.
Fu un grande sfogo.
Fino ad allora non avevo da rimproverarmi altro che di aver taciuto con Augusta.
Ecco che ora ero innocente del tutto.
Ella mi domandò qualche notizia della fanciulla e se fosse bella.
Mi fu difficile di rispondere: dissi che la povera fanciulla mi era parsa molto anemica.
Poi ebbi una buona idea:
- E se tu ti occupassi un poco di lei?
Augusta aveva tanto da fare nella sua nuova casa e nella sua vecchia famiglia ove la chiamavano per farsi aiutare nell'assistenza al padre malato, che non vi pensò piú.
Ma la mia idea era stata perciò veramente buona.
Il Copler però riseppe da Augusta che io l'avevo avvertita della nostra visita e anche lui dimenticò perciò le qualità ch'egli aveva attribuite al malato immaginario.
Mi disse in presenza di Augusta che di lí a poco tempo avremmo fatta un'altra visita a Carla.
Mi concedeva la sua piena fiducia.
Nella mia inerzia subito fui preso dal desiderio di rivedere Carla.
Non osai correre da lei temendo che il Copler avesse a risaperne.
I pretesti però non mi sarebbero mica mancati.
Potevo andare da lei per offrirle un aiuto maggiore ad insaputa del Copler, ma avrei dovuto prima essere sicuro che, a proprio vantaggio, ella avrebbe accettato di tacere.
E se quell'ammalato reale fosse già l'amante della fanciulla? Io, degli ammalati reali, non sapevo proprio niente e poteva essere benissimo che avessero il costume di farsi pagare dagli altri le loro amanti.
In quel caso sarebbe bastata una sola visita a Carla per compromettermi.
Non potevo mettere a pericolo la pace della mia famigliuola; ossia, non la misi a pericolo finché il mio desiderio di Carla non ingrandí.
Ma esso ingrandí costantemente.
Già conoscevo quella fanciulla molto meglio che non quando le aveva stretta la mano per congedarmi da lei.
Ricordavo specialmente quella treccia nera che copriva il suo collo niveo e che sarebbe stato necessario di allontanare col naso per arrivare a baciare la pelle ch'essa celava.
Per stimolare il mio desiderio bastava io ricordassi che su un dato pianerottolo, nella stessa mia piccola città, era esposta una bella fanciulla e che con una breve passeggiata si poteva andare a prenderla! La lotta col peccato diventa in tali circostanze difficilissima perché bisogna rinnovarla ad ogni ora ed ogni giorno, finché cioè la fanciulla rimanga su quel pianerottolo.
Le lunghe vocali di Carla mi chiamavano, e forse proprio il loro suono m'aveva messo nell'anima la convinzione che quando la mia resistenza fosse sparita, altre resistenze non ci sarebbero state piú.
Però m'era chiaro che potevo ingannarmi e che forse il Copler vedeva le cose con maggior esattezza; anche questo dubbio valeva a diminuire la mia resistenza visto che la povera Augusta poteva essere salvata da un mio tradimento da Carla stessa che, come donna, aveva la missione della resistenza.
Perché il mio desiderio avrebbe dovuto darmi un rimorso quando pareva fosse proprio venuto a tempo per salvarmi dal tedio che in quell'epoca mi minacciava? Non danneggiava affatto i miei rapporti con Augusta, anzi tutt'altro.
Io le dicevo oramai non piú soltanto le parole di affetto che avevo sempre avute per lei, ma anche quelle che nel mio animo andavano formandosi per l'altra.
Non c'era mai stata una simile abbondanza di dolcezza in casa mia e Augusta ne pareva incantata.
Ero sempre esatto in quello che io chiamavo l'orario della famiglia.
La mia coscienza è tanto delicata che, con le mie maniere, già allora mi preparavo ad attenuare il mio futuro rimorso.
Che la mia resistenza non sia mancata del tutto è provato dal fatto che io arrivai a Carla non con uno slancio solo, ma a tappe.
Dapprima per varii giorni giunsi solo fino al Giardino Pubblico e con la sincera intenzione di gioire di quel verde che apparisce tanto puro in mezzo al grigio delle strade e delle case che lo circondano.
Poi, non avendo avuta la fortuna di imbattermi, come speravo, casualmente in lei, uscii dal Giardino per movermi proprio sotto le sue finestre.
Lo feci con una grande emozione che ricordava proprio quella deliziosissima del giovinetto che per la prima volta accosta l'amore.
Da tanto tempo ero privo non d'amore, ma delle corse che vi conducono.
Ero appena uscito dal Giardino Pubblico che m'imbattei proprio faccia a faccia in mia suocera.
Dapprima ebbi un dubbio curioso: di mattina, cosí di buon'ora, da quelle parti tanto lontane dalle nostre? Forse anche lei tradiva il marito ammalato.
Seppi poi subito che le facevo un torto perché essa era stata a trovare il medico per averne conforto dopo una cattiva notte passata accanto a Giovanni.
Il medico le aveva detto delle buone parole, ma essa era tanto agitata che presto mi lasciò dimenticando persino di sorprendersi di avermi trovato in quel luogo visitato di solito da vecchi, bambini e balie.
Ma mi bastò di averla vista per sentirmi riafferrato dalla mia famiglia.
Camminai verso casa mia con un passo deciso, a cui battevo il tempo mormorando: «Mai piú! Mai piú!».
In quell'istante la madre di Augusta con quel suo dolore mi aveva dato il sentimento di tutti i miei doveri.
Fu una buona lezione e bastò per tutto quel giorno.
Augusta non era in casa perché era corsa dal padre col quale rimase tutta la mattina.
A tavola mi disse che avevano discusso se, dato lo stato di Giovanni, non avrebbero dovuto rimandare il matrimonio di Ada ch'era stabilito per la settimana dopo.
Giovanni stava già meglio.
Pare che a cena si fosse lasciato indurre a mangiar troppo e l'indigestione avesse assunto l'aspetto di un aggravamento del male.
Io le raccontai di aver già avute quelle notizie dalla madre in cui m'ero imbattuto la mattina al Giardino Pubblico.
Neppure Augusta si meravigliò della mia passeggiata, ma io sentii il bisogno di darle delle spiegazioni.
Le raccontai che preferivo da qualche tempo il Giardino Pubblico quale meta delle mie passeggiate.
Mi sedevo su una banchina e vi leggevo il mio giornale.
Poi aggiunsi:
- Quell'Olivi! Me l'ha fatta grossa condannandomi a tanta inerzia.
Augusta, che a quel proposito si sentiva un poco colpevole, ebbe un aspetto di dolore e di rimpianto.
Io, allora, mi sentii benissimo.
Ma ero realmente purissimo perché passai il pomeriggio intero nel mio studio e potevo veramente credere di essere definitivamente guarito di ogni desiderio perverso.
Leggevo oramai l'Apocalisse.
E ad onta che fosse oramai assodato ch'io avevo l'autorizzazione di andare ogni mattina al Giardino Pubblico, tanto grande s'era fatta la mia resistenza alla tentazione che quando il giorno appresso uscii, mi diressi proprio dalla parte opposta.
Andavo a cercare certa musica volendo provare un nuovo metodo del violino che m'era stato consigliato.
Prima di uscire seppi che mio suocero aveva passata una notte ottima e che sarebbe venuto da noi in vettura nel pomeriggio.
Ne avevo piacere tanto per mio suocero quanto per Guido, che finalmente avrebbe potuto sposarsi.
Tutto andava bene: io ero salvo ed era salvo anche mio suocero.
Ma fu proprio la musica che mi ricondusse a Carla! Fra i metodi che il venditore m'offerse ve ne fu per errore uno che non era del violino ma del canto.
Ne lessi accuratamente il titolo: «Trattato completo dell'Arte del Canto (Scuola di Garcia) di E.
Garcia (figlio) contenente una Relazione sulla Memoria riguardante la Voce Umana presentata all'Accademia delle Scienze di Parigi».
Lasciai che il venditore s'occupasse di altri clienti e mi misi a leggere l'operetta.
Devo dire che leggevo con un'agitazione che forse somigliava a quella con cui il giovinetto depravato accosta le opere di pornografia.
Ecco: quella era la via per arrivare a Carla; essa abbisognava di quell'opera e sarebbe stato un delitto da parte mia di non fargliela conoscere.
La comperai e ritornai a casa.
L'opera del Garcia constava di due parti di cui una teorica e l'altra pratica.
Continuai la lettura con l'intenzione di intenderla tanto bene da poter poi dare i miei consigli a Carla quando fossi andato da lei col Copler.
Intanto avrei guadagnato del tempo e avrei potuto tuttavia continuare a dormire i miei sonni tranquilli, pur sollazzandomi sempre col pensiero all'avventura che m'aspettava.
Ma Augusta stessa fece precipitare gli avvenimenti.
M'interruppe nella mia lettura per venir a salutarmi, si chinò su di me e sfiorò la mia guancia con le sue labbra.
Mi domandò che cosa facessi e sentito che si trattava di un nuovo metodo, pensò fosse per violino e non si curò di guardare meglio.
Io, quand'essa mi lasciò, esagerai il pericolo che avevo corso e pensai che per la mia sicurezza avrei fatto bene di non tenere nel mio studio quel libro.
Bisognava portarlo subito al suo destino, ed è cosí che fui costretto di andar dritto verso la mia avventura.
Avevo trovato qualche cosa di piú di un pretesto per poter fare quello ch'era il mio desiderio.
Non ebbi piú esitazioni di sorta.
Giunto su quel pianerottolo, mi rivolsi subito alla porta a sinistra.
Però dinanzi a quella porta m'arrestai per un istante ad ascoltare i suoni della ballata «La mia bandiera» ch'echeggiavano gloriosamente sulle scale.
Pareva che, per tutto quel tempo, Carla avesse continuato a cantare la stessa cosa.
Sorrisi pieno di affetto e di desiderio per tanta infantilità.
Apersi poi cautamente la porta senza bussare ed entrai nella stanza in punta di piedi.
Volevo vederla subito, subito.
Nel piccolo ambiente la sua voce era veramente sgradevole.
Essa cantava con grande entusiasmo e maggior calore che non quella volta della mia prima visita.
Era addirittura abbandonata sullo schienale della sedia per poter emettere tutto il fiato dei suoi polmoni.
Io vidi solo la testina fasciata dalle grosse treccie e mi ritirai còlto da un'emozione profonda per aver osato tanto.
Essa intanto era arrivata all'ultima nota che non voleva finire piú ed io potei ritornare sul pianerottolo e chiudere dietro di me la porta senza ch'essa di me s'accorgesse.
Anche quell'ultima nota aveva oscillato in sú e in giú prima di affermarsi sicura.
Carla sentiva dunque la nota giusta e toccava ora al Garcia d'intervenire per insegnarle a trovarla piú presto.
Bussai quando mi sentii piú calmo.
Subito essa accorse ad aprire la porta ed io non dimenticherò giammai la sua figurina gentile, poggiata allo stipite, mentre mi fissava coi suoi grandi occhi bruni prima di saper riconoscermi nell'oscurità.
Ma intanto io m'ero calmato in modo da venir ripreso da tutte le mie esitazioni.
Ero avviato a tradire Augusta, ma pensavo che come nei giorni precedenti avevo potuto contentarmi di giungere fino al Giardino Pubblico, tanto piú facilmente ora avrei potuto fermarmi a quella porta, consegnare quel libro compromettente e andarmene pienamente soddisfatto.
Fu un breve istante pieno di buoni propositi.
Ricordai persino un consiglio strano che m'era stato dato per liberarmi dall'abitudine del fumo e che poteva valere in quell'occasione: talvolta, per contentarsi, bastava accendere il cerino e gettare poi via e sigaretta e cerino.
Mi sarebbe stato anche facile di far cosí, perché Carla stessa, quando mi riconobbe, arrossí e accennò a fuggire vergognandosi - come seppi poi - di farsi trovare vestita di un povero consunto vestitino di casa.
Una volta riconosciuto, sentii il bisogno di scusarmi:
- Le ho portato questo libro ch'io credo la interesserà.
Se vuole, posso lasciarglielo e andarmene subito.
Il suono delle parole - o cosí mi parve - era abbastanza brusco, ma non il significato, perché in complesso la lasciavo arbitra di decidere lei se avessi dovuto andarmene o restare e tradire Augusta.
Essa subito decise, perché afferrò la mia mano per trattenermi piú sicuramente e mi fece entrare.
L'emozione m'oscurò la vista e ritengo sia stata provocata non tanto dal dolce contatto di quella mano, ma da quella familiarità che mi parve decidesse del mio e del destino di Augusta.
Perciò credo di essere entrato con qualche riluttanza e, quando rievoco la storia del mio primo tradimento, ho il sentimento di averlo compiuto perché trascinatovi.
La faccia di Carla era veramente bella cosí arrossata.
Fui deliziosamente sorpreso all'accorgermi che se non ero stato aspettato da lei, essa pur aveva sperata la mia visita.
Essa mi disse con grande compiacenza:
- Lei sentí dunque il bisogno di rivedermi? Di rivedere la poverina che le deve tanto?
Io, certo, se avessi voluto, avrei potuto prenderla subito fra le mie braccia, ma non ci pensavo neppure.
Ci pensavo tanto poco che non risposi neppure alle sue parole che mi parevano compromettenti e mi rimisi a parlare del Garcia e della necessità di quel libro per lei.
Ne parlai con una furia che mi portò a qualche parola meno considerata.
Garcia le avrebbe insegnato il modo di rendere le note solide come il metallo e dolci come l'aria.
Le avrebbe spiegato come una nota non possa rappresentare che una linea retta e anzi un piano, ma un piano veramente levigato.
Il mio fervore sparí solo quand'essa m'interruppe per manifestarmi un suo dubbio doloroso:
- Ma dunque a lei non piace come io canto?
Fui stupito della sua domanda.
Io avevo fatta una critica rude, ma non ne avevo la coscienza e protestai in piena buona fede.
Protestai tanto bene che mi parve di esser ritornato, sempre parlando del solo canto, all'amore che tanto imperiosamente m'aveva trascinato in quella casa.
E le mie parole furono tanto amorose che lasciarono tuttavia trasparire una parte di sincerità:
- Come può credere una cosa simile? Sarei qui se cosí fosse? Io sono stato su quel pianerottolo per lungo tempo a bearmi del suo canto, delizioso ed eccelso canto nella sua ingenuità.
Soltanto io ritengo che alla sua perfezione occorra qualche cosa d'altro e sono venuto a portarglielo.
Quale potenza aveva tuttavia nel mio animo il pensiero di Augusta, se continuavo ostinatamente a protestare di non essere stato trascinato dal mio desiderio!
Carla stette a sentire le mie parole lusinghiere, ch'essa non era neppure al caso di analizzare.
Non era molto colta, ma, con mia grande sorpresa, compresi che non mancava di buon senso.
Mi raccontò ch'essa stessa aveva dei forti dubbii sul suo talento e sulla sua voce: sentiva che non faceva dei progressi.
Spesso, dopo una certa quantità di ore di studio, essa si concedeva lo svago e il premio di cantare «La mia Bandiera» sperando di scoprire nella propria voce qualche nuova qualità.
Ma era sempre la stessa cosa: non peggio e forse sempre abbastanza bene come le assicuravano quanti la udivano ed io anche (e qui mi mandò dai suoi begli occhi bruni un lampo mitemente interrogativo che dimostrava com'essa avesse bisogno di essere rassicurata sul senso delle mie parole che ancora le sembrava dubbio) ma un vero progresso non c'era.
Il maestro diceva che in arte non c'erano progressi lenti, ma grandi salti che portavano alla meta e che un bel giorno essa si sarebbe destata grande artista.
- È una cosa lunga, però, - aggiunse guardando nel vuoto e rivedendo forse tutte le sue ore di noia e di dolore.
Si dice onesto prima di tutto quello ch'è sincero e da parte mia sarebbe stato onestissimo di consigliare alla povera fanciulla di lasciare lo studio del canto e divenire la mia amante.
Ma io non ero ancora giunto tanto lontano dal Giardino Pubblico, eppoi, se non altro, non ero molto sicuro del mio giudizio nell'arte del canto.
Da alcuni istanti io ero fortemente preoccupato da una sola persona: quel noioso Copler che passava ogni festa nella mia villa con me e con mia moglie.
Sarebbe stato quello il momento di trovare un pretesto per pregare la fanciulla di non raccontare al Copler della mia visita.
Ma non lo feci non sapendo come travestire la mia domanda e fu bene, perché pochi giorni appresso il povero mio amico ammalò e subito dopo morí.
Intanto le dissi ch'essa avrebbe trovato nel Garcia tutto quello che cercava, e per un istante solo, ma solo per un istante, essa ansiosamente aspettò dei miracoli da quel libro.
Presto però, trovandosi dinanzi a tante parole, dubitò dell'efficacia della magia.
Io leggevo le teorie del Garcia in italiano, poi in italiano gliele spiegavo e, quando non bastava, gliele traducevo in triestino, ma essa non sentiva moversi niente nella sua gola e una vera efficacia in quel libro essa avrebbe potuto riconoscere solo se si fosse manifestata in quel punto.
Il male è che anch'io, poco dopo, ebbi la convinzione che in mano mia quel libro non valeva molto.
Rivedendo per ben tre volte quelle frasi e non sapendo che farmene, mi vendicai della mia incapacità criticandole liberamente.
Ecco che il Garcia perdeva il suo e il mio tempo per provare che poiché la voce umana sapeva produrre varii suoni non era giusto di considerarla quale uno strumento solo.
Anche il violino allora avrebbe dovuto essere considerato quale un conglomerato di strumenti.
Ebbi forse torto di comunicare a Carla tale mia critica, ma accanto ad una donna che si vuole conquistare è difficile di trattenersi dall'approfittare di un'occasione che si presenti per dimostrare la propria superiorità.
Essa infatti m'ammirò, ma proprio fisicamente allontanò da sé il libro ch'era il nostro Galeotto, ma che non ci accompagnò fino alla colpa.
Io ancora non mi rassegnai di rinunziarvi e lo rimandai ad altra mia visita.
Quando il Copler morí non ve ne fu piú di bisogno.
Era rotto qualunque nesso fra quella casa e la mia e cosí il mio procedere non poteva essere frenato che dalla mia coscienza.
Ma intanto eravamo divenuti abbastanza intimi, di un'intimità maggiore di quanto si avrebbe potuto attendersi da quella mezz'ora di conversazione.
Io credo che l'accordo in un giudizio critico unisca intimamente.
La povera Carla approfittò di tale intimità per mettermi a parte delle sue tristezze.
Dopo l'intervento del Copler, in quella casa si viveva modestamente ma senza grandi privazioni.
Il maggior peso per le due povere donne era il pensiero del futuro.
Perché il Copler portava loro a date ben precise il suo soccorso, ma non permetteva di calcolarvi con sicurezza; egli non voleva pensieri e preferiva li avessero loro.
Poi non dava gratuitamente quei denari: Era il vero padrone in quella casa e intendeva di essere informato di ogni piccolezza.
Guai se si permettevano una spesa non preventivamente approvata da lui! La madre di Carla, poco tempo prima, era stata indisposta e Carla, per poter accudire alle faccende domestiche, aveva trascurato per qualche giorno di cantare.
Informatone dal maestro, il Copler fece una scenata e se ne andò dichiarando che allora non valeva la pena di seccare dei valentuomini per indurli a soccorrerle.
Per varii giorni esse vissero nel terrore temendo di essere abbandonate al loro destino.
Poi, quando ritornò, rinnovò patti e condizioni e stabilí esattamente per quante ore al giorno Carla dovesse sedere al pianoforte e quante ne potesse dedicare alla casa.
Minacciò anche di venir a sorprenderle a tutte le ore del giorno.
- Certo, - concludeva la fanciulla, - egli non vuole altro che il nostro bene, ma s'arrabbia tanto per cose di nessuna importanza, che una volta o l'altra, nell'ira, finirà col gettarci sul lastrico.
Ma ora che anche lei si occupa di noi, non c'è piú questo pericolo, nevvero?
E di nuovo mi strinse la mano.
Poiché io non risposi subito, essa temette ch'io mi sentissi solidale col Copler, e aggiunse:
- Anche il signor Copler dice che lei è tanto buono!
Questa frase voleva essere un complimento diretto a me, ma anche al Copler.
La sua figura presentatami con tanta antipatia da Carla, era nuova per me e destava proprio la mia simpatia.
Avrei voluto somigliargli mentre il desiderio che mi aveva portato in quella casa me ne rendeva tanto dissimile! Era ben vero che alle due donne egli portava i denari altrui, ma dava tutta l'opera propria, una parte della propria vita.
Quella rabbia, ch'egli dedicava loro, era veramente paterna.
Ebbi però un dubbio: e se a tale opera fosse stato indotto dal desiderio? Senz'esitare domandai a Carla:
- Il Copler le ha mai chiesto un bacio?
- Mai! - rispose Carla con vivacità.
- Quand'è soddisfatto del mio comportamento, seccamente impartisce la sua approvazione, mi stringe leggermente la mano e se ne va.
Altre volte, quand'è arrabbiato, mi rifiuta anche la stretta di mano e non s'accorge nemmeno ch'io dallo spavento piango.
Un bacio in quel momento sarebbe per me una liberazione.
Visto ch'io mi misi a ridere, Carla si spiegò meglio:
- Accetterei con riconoscenza il bacio di un uomo tanto vecchio cui devo tanto!
Ecco il vantaggio dei malati reali; appariscono piú vecchi di quanto non sieno.
Feci un debole tentativo di somigliare al Copler.
Sorridendo per non spaventare troppo la povera fanciulla, le dissi che anch'io, quando mi occupavo di qualcuno, finivo col divenire molto imperioso.
In complesso anch'io trovavo che quando si studiava un'arte si dovesse farlo seriamente.
Poi m'investii tanto bene della mia parte che cessai persino di sorridere.
Il Copler aveva ragione d'essere severo con una giovinetta che non poteva intendere il valore del tempo: bisognava anche ricordare quante persone facevano dei sacrifici per aiutarla.
Ero veramente serio e severo.
Venne cosí per me l'ora di andare a colazione e specialmente quel giorno non avrei voluto far aspettare Augusta.
Porsi la mano a Carla e allora m'avvidi com'essa fosse pallida.
Volli confortarla:
- Stia sicura ch'io farò sempre del mio meglio per appoggiarla presso il Copler e tutti gli altri.
Essa ringraziò, ma pareva tuttavia abbattuta.
Poi seppi che vedendomi arrivare, essa subito aveva indovinata quasi la verità e aveva pensato ch'io fossi innamorato di lei e quindi salva.
Poi invece - e proprio quando m'accinsi ad andarmene - essa credette che anch'io fossi innamorato solo dell'arte e del canto e che perciò se essa non avesse cantato bene e fatti dei progressi, l'avrei abbandonata.
Mi parve abbattutissima.
Fui preso da compassione e, visto che non c'era altro tempo da perdere, la rassicurai col mezzo ch'essa stessa aveva designato quale il piú efficace.
Ero già alla porta che l'attrassi a me, spostai accuratamente col naso la grossa treccia dal suo collo cui cosí giunsi con le labbra e sfiorai persino coi denti.
Aveva l'apparenza di uno scherzo ed anch'essa finí col riderne, ma soltanto quando io la lasciai.
Fino a quel momento essa era rimasta inerte e stupita fra le mie braccia.
Mi seguí sul pianerottolo e, quando cominciai a scendere, mi domandò ridendo:
- Quando ritorna?
- Domani o forse piú tardi! - risposi io già incerto.
Poi piú deciso: - Certamente vengo domani! - Quindi, in seguito al desiderio di non compromettermi troppo, aggiunsi: - Continueremo la lettura del Garcia.
Ella non mutò di espressione in quel breve tempo: assentí alla prima malsicura promessa, assentí riconoscente alla seconda e assentí anche al mio terzo proposito, sempre sorridendo.
Le donne sanno sempre quello che vogliono.
Non ci furono esitazioni né per parte di Ada che mi respinse, né dall'Augusta che mi prese, e neppure da Carla, che mi lasciò fare.
Sulla via mi trovai subito piú vicino ad Augusta che non a Carla.
Respirai l'aria fresca, aperta ed ebbi pieno il sentimento della mia libertà.
Io non avevo fatto altro che uno scherzo che non poteva perdere tale suo carattere perché era finito su quel collo e sotto quella treccia.
Infine Carla aveva accettato quel bacio come una promessa di affetto e sopra tutto di assistenza.
Quel giorno a tavola, però, cominciai veramente a soffrire.
Tra me e Augusta stava la mia avventura, come una grande ombra fosca che mi pareva impossibile non fosse vista anche da lei.
Mi sentivo piccolo, colpevole e malato, e sentivo il dolore al fianco come un dolore simpatico che riverberasse dalla grande ferita alla mia coscienza.
Mentre distrattamente fingevo di mangiare, cercai il sollievo in un proposito ferreo: «Non la rivedrò piú - pensai - e se, per riguardo, la dovrò rivedere, sarà per l'ultima volta».
Non si pretendeva poi mica tanto da me: un solo sforzo, quello di non rivedere piú Carla.
Augusta ridendo, mi domandò:
- Sei stato dall'Olivi che ti vedo tanto preoccupato? Mi misi a ridere anch'io.
Era un grande sollievo quello di poter parlare.
Le parole non erano quelle che avrebbero potuto dare la pace intera perché per dire quelle sarebbe occorso di confessare eppoi promettere, ma, non potendo altrimenti, era già un bel sollievo di dirne delle altre.
Parlai abbondantemente, sempre lieto e buono.
Poi trovai ancora di meglio: parlai della piccola lavanderia ch'essa tanto desiderava e che io fino ad allora le avevo rifiutata, e le diedi subito il permesso di costruirla.
Essa fu tanto commossa del mio non sollecitato permesso che si alzò e venne a darmi un bacio.
Ecco un bacio ch'evidentemente cancellava quell'altro, ed io mi sentii subito meglio.
Fu cosí ch'ebbimo la lavanderia e ancora oggidí, quando passo dinanzi alla minuscola costruzione, ricordo che Augusta la volle e Carla la consentí.
Seguí un pomeriggio incantevole riempito dal nostro affetto.
Nella solitudine la mia coscienza era piú seccante.
La parola e l'affetto di Augusta valevano a calmarla.
Uscimmo insieme.
Poi l'accompagnai da sua madre e passai anche tutta la serata con lei.
Prima di mettermi a dormire, come m'avviene di spesso, guardai lungamente mia moglie che già dormiva raccolta nella sua lieve respirazione.
Anche dormendo essa era tutta ordinata, con le coperte fino al mento e i capelli non abbondanti riuniti in una breve treccia annodata alla nuca.
Pensai: «Non voglio procurarle dei dolori.
Mai!».
Mi addormentai tranquillo.
Il giorno seguente avrei chiarita la mia relazione con Carla e avrei trovato il modo di rassicurare la povera fanciulla del suo avvenire, senza perciò essere obbligato di darle dei baci.
Ebbi un sogno bizzarro: non solo baciavo il collo di Carla, ma lo mangiavo.
Era però un collo fatto in modo che le ferite ch'io le infliggevo con rabbiosa voluttà non sanguinavano, e il collo restava perciò sempre coperto dalla sua bianca pelle e inalterato nella sua forma lievemente arcuata.
Carla, abbandonata fra le mie braccia, non pareva soffrisse dei miei morsi.
Chi invece ne soffriva era Augusta che improvvisamente era accorsa.
Per tranquillarla le dicevo: «Non lo mangerò tutto: ne lascerò un pezzo anche a te».
Il sogno ebbe l'aspetto di un incubo soltanto quando in mezzo alla notte mi destai e la mia mente snebbiata poté ricordarlo, ma non prima, perché finché durò, neppure la presenza di Augusta m'aveva levato il sentimento di soddisfazione ch'esso mi procurava.
Non appena desto, ebbi la piena coscienza della forza del mio desiderio e del pericolo ch'esso rappresentava per Augusta e anche per me.
Forse nel grembo della donna che mi dormiva accanto già s'iniziava un'altra vita di cui sarei stato responsabile.
Chissà quello che avrebbe preteso Carla quando fosse stata la mia amante? A me pareva desiderosa del godimento che fino ad allora le era stato conteso, e come avrei io saputo provvedere a due famiglie? Augusta domandava l'utile lavanderia, l'altra avrebbe domandata qualche altra cosa, ma non meno costosa.
Rividi Carla mentre dal pianerottolo mi salutava ridendo dopo di essere stata baciata.
Essa già sapeva ch'io sarei stato la sua preda.
N'ebbi spavento e là, solo e nell'oscurità, non seppi trattenere un gemito.
Mia moglie, subito desta, mi domandò che cosa avessi ed io risposi con una breve parola, la prima che mi si fosse affacciata alla mente quando seppi rimettermi dallo spavento di vedermi interrogato in un momento in cui mi pareva di aver gridata una confessione:
- Penso alla vecchiaia incombente!
Ella rise e cercò di consolarmi senza perciò tagliare il sonno cui s'aggrappava.
M'inviò la frase stessa che sempre mi diceva quando mi vedeva spaventato del tempo che andava via:
- Non pensarci, ora che siamo giovani...
il sonno è tanto buono!
L'esortazione giovò: non ci pensai piú e mi riaddormentai.
La parola nella notte è come un raggio di luce.
Illumina un tratto di realtà in confronto al quale sbiadiscono le costruzioni della fantasia.
Perché avevo tanto da temere della povera Carla di cui ancora non ero l'amante? Era evidente che avevo fatto di tutto per spaventarmi della mia situazione.
Infine, il «bébé» che avevo evocato nel grembo di Augusta finora non aveva dato altro segno di vita che la costruzione della lavanderia.
Mi alzai sempre accompagnato dai migliori propositi.
Corsi al mio studio e preparai in una busta qualche poco di denaro che volevo offrire a Carla nello stesso istante in cui le avrei annunziato il mio abbandono.
Però mi sarei dichiarato pronto di mandarle per posta dell'altro denaro ogni qualvolta essa me ne avesse domandato scrivendomi ad un indirizzo che le avrei fatto sapere.
Proprio quando m'accingevo ad uscire, Augusta m'invitò con un dolce sorriso ad accompagnarla in casa del padre.
Era arrivato da Buenos Aires il padre di Guido per assistere alle nozze, e bisognava andare a farne la conoscenza.
Essa certamente si curava meno del padre di Guido che di me.
Voleva rinnovare la dolcezza del giorno prima.
Ma la cosa non era piú la stessa: a me pareva fosse male lasciar trascorrere del tempo fra il mio buon proposito e la sua esecuzione.
Intanto che noi camminavamo sulla via uno accanto all'altro e, all'apparenza, sicuri del nostro affetto, l'altra si riteneva già amata da me.
Ciò era male.
Sentii quella passeggiata come una vera e propria constrizione.
Trovammo Giovanni che stava realmente meglio.
Solo non poteva mettere gli stivali per una certa gonfiezza ai piedi cui egli non attribuiva importanza ed io in allora neppure.
Si trovava in salotto col padre di Guido cui mi presentò.
Augusta ci lasciò subito per andare a raggiungere la madre e la sorella.
Il Signor Francesco Speier mi parve un uomo molto meno istruito del figlio.
Era piccolo, tozzo, sulla sessantina, di poche idee e di poca vivacità, forse anche perché in seguito ad una malattia aveva l'orecchio molto indebolito.
Ficcava qualche parola spagnuola nel suo italiano:
- Cada volta che vengo a Trieste...
I due vecchi parlavano di affari, e Giovanni ascoltava attentamente perché quegli affari erano molto importanti per il destino di Ada.
Stetti ad ascoltare distrattamente.
Sentii che il vecchio Speier aveva deciso di liquidare i suoi affari nell'Argentina e di consegnare a Guido tutti i suoi duros perché li impiegasse alla fondazione di una ditta a Trieste; poi egli sarebbe ritornato a Buenos Aires per vivere con la moglie e con la figlia con un piccolo podere che gli rimaneva.
Non compresi perché raccontasse in mia presenza a Giovanni tutto ciò, né lo so neppur oggi.
A me parve che ambedue a un dato punto cessassero di parlare, guardandomi come se avessero aspettato da me un consiglio ed io, per essere gentile, osservai:
- Non dev'essere piccolo quel podere se le basta per viverci!
Giovanni urlò subito:
- Ma che cosa vai dicendo? - Lo scoppio di voce ricordava i suoi migliori tempi, ma è certo che se egli non avesse urlato tanto, il signor Francesco non avrebbe rilevata la mia osservazione.
Cosí, invece, impallidí e disse:
- Spero bene che Guido non mancherà di pagarmi gl'interessi del mio capitale.
Giovanni, sempre urlando, cercò di rassicurarlo:
- Altro che gl'interessi! Anche il doppio se le occorrerà! Non è forse suo figlio?
Il signor Francesco tuttavia non parve molto rasserenato ed aspettava proprio da me una parola che lo rassicurasse.
Io la diedi subito e abbondante perché il vecchio ora sentiva meno di prima.
Poi il discorso fra i due uomini di affari continuò, ma io mi guardai bene dall'intervenire piú oltre.
Giovanni mi guardava di tempo in tempo al disopra degli occhiali per sorvegliarmi e il suo respiro pesante pareva una minaccia.
Parlò poi a lungo e mi domandò a un dato punto:
- Ti pare?
Io annuii fervidamente.
Tanto piú fervido dovette apparire il mio consenso in quanto ogni mio atto era reso piú espressivo dalla rabbia che sempre piú mi pervadeva.
Che cosa stavo facendo in quel luogo lasciando trascorrere il tempo utile per effettuare i miei buoni propositi? Mi obbligavano di trascurare un'opera tanto utile a me e ad Augusta! Stavo preparando una scusa per andarmene, ma in quel momento il salotto fu invaso dalle donne accompagnate da Guido.
Questi, subito dopo l'arrivo del padre, aveva regalato alla sposa un magnifico anello.
Nessuno mi guardò o salutò, nemmeno la piccola Anna.
Ada aveva già al dito la gemma splendente e, sempre poggiando il braccio sulla spalla del fidanzato, la faceva vedere al padre.
Le donne guardavano anche loro estatiche.
Neppure gli anelli m'interessavano.
Se non portavo neppure quello matrimoniale perché m'impediva la circolazione del sangue! Senza salutare infilai la porta del salotto, andai alla porta di casa e m'accinsi ad uscire.
Augusta però s'accorse della mia fuga e mi raggiunse in tempo.
Fui stupito del suo aspetto sconvolto.
Le sue labbra erano pallide come il giorno del nostro matrimonio, poco prima che andassimo in chiesa.
Le dissi che avevo un affare di premura.
Poi essendomi in buon punto ricordato che pochi giorni prima, per un capriccio, avevo comperato degli occhiali leggerissimi da presbite che poi non avevo provati dopo di averli posti nel taschino del panciotto dove li sentivo, le dissi che avevo un appuntamento con un oculista per farmi esaminare la vista che da qualche tempo mi pareva indebolita.
Essa rispose che avrei potuto andarmene subito, ma che mi pregava di fare prima i miei convenevoli col padre di Guido.
Mi strinsi nelle spalle dall'impazienza, ma tuttavia la compiacqui.
Rientrai nel salotto e tutti gentilmente mi salutarono.
In quanto a me, sicuro che ora mi mandavano via, ebbi persino un momento di buon umore.
Il padre di Guido che in tanta famiglia non si raccapezzava bene, mi domandò:
- Ci rivedremo ancora prima della mia partenza per Buenos Aires?
- Oh! - dissi io, - cada volta ch'ella verrà in questa casa, probabilmente mi ci troverà!
Tutti risero ed io me ne andai trionfalmente accompagnato anche da un saluto abbastanza lieto da parte di Augusta.
Andavo via tanto ordinatamente dopo di aver corrisposto a tutte le formalità legali, che potevo camminare sicuro.
Ma v'era un altro motivo che mi liberava dai dubbi che fino a quel momento m'avevano trattenuto: io correvo via dalla casa di mio suocero per allontanarmene piú che fosse possibile, cioè fino da Carla.
In quella casa e non per la prima volta (cosí mi pareva) mi sospettavano di congiurare bassamente ai danni di Guido.
Innocentemente e in piena distrazione io avevo parlato di quel podere che si trovava nell'Argentina, e Giovanni subito aveva interpretate le mie parole come se fossero state meditate per danneggiare Guido presso suo padre.
Con Guido mi sarebbe stato facile di spiegarmi se fosse abbisognato: con Giovanni e gli altri, che mi sospettavano capace di simili macchinazioni, bastava la vendetta.
Non che io mi fossi proposto di correre a tradire Augusta.
Facevo però alla luce del sole quello che desideravo.
Una visita a Carla non implicava ancora niente di male ed anzi, se io da quelle parti mi fossi imbattuto ancora una volta in mia suocera, e se essa mi avesse domandato che cosa io fossi andato a farvi, le avrei subito risposto:
- Oh bella! Vado da Carla! - Fu perciò quella la sola volta che andai da Carla senza ricordare Augusta.
Tanto mi aveva offeso il contegno di mio suocero!
Sul pianerottolo non sentii echeggiare la voce di Carla.
Ebbi un istante di terrore: che essa fosse uscita? Bussai e subito entrai prima che qualcuno me ne avesse dato il permesso.
Carla v'era bensí, ma con lei si trovava anche sua madre.
Cucivano assieme in un'associazione che potrà essere frequente, ma che io mai prima avevo vista.
Lavoravano ambedue allo stesso grande lenzuolo, ai suoi lembi, una molto lontana dall'altra.
Ecco ch'io ero corso da Carla e arrivavo a Carla accompagnata dalla madre.
Era tutt'altra cosa.
Non si potevano attuare né i buoni né i cattivi propositi.
Tutto continuava a restare in sospeso.
Molto accesa, Carla si levò in piedi mentre la vecchia lentamente si levò gli occhiali che ripose in una busta.
Io intanto credetti di poter essere indignato per altra ragione che non fosse quella di vedermi interdetto di chiarire subito l'animo mio.
Non erano queste le ore che il Copler aveva destinate allo studio? Salutai gentilmente la vecchia signora e mi fu difficile persino di sottopormi a tale atto di gentilezza.
Salutai anche Carla quasi senza guardarla.
Le dissi:
- Sono venuto per vedere se possiamo cavare da questo libro - e accennai al Garcia che si trovava intatto sul tavolo al posto ove l'avevamo lasciato, - qualche altra cosa di utile.
M'assisi al posto che avevo occupato il giorno prima e subito apersi il libro.
Carla tentò dapprima di sorridermi, ma visto che io non corrisposi alla sua gentilezza, sedette con una certa sollecitudine di obbedienza accanto a me, per guardare.
Era esitante; non comprendeva.
Io la guardai e vidi che sulla sua faccia si distendeva qualche cosa che poteva significare sdegno e ostinazione.
Mi figurai che cosí usasse di accogliere i rimproveri del Copler.
Solo essa non era ancora sicura che i miei rimproveri fossero proprio quelli che il Copler le indirizzava perché - come me lo disse poi - ricordava ch'io il giorno prima l'avevo baciata e perciò credeva di essere per sempre rassicurata sulla mia ira.
Era perciò sempre ancora pronta a convertire quel suo sdegno in un sorriso amichevole.
Debbo dire qui, perché piú tardi non ne avrò il tempo, che questa sua fiducia di avermi addomesticato definitivamente con quel solo bacio che m'aveva concesso, mi dispiacque enormemente: una donna che pensa cosí è molto pericolosa.
Ma in quel momento il mio animo era proprio quello stesso del Copler, carico di rimproveri e di risentimento.
Mi misi a leggere ad alta voce proprio quella parte che il giorno prima avevamo già letta e che io stesso avevo demolita, pedantescamente, e non commentando altrimenti, pesando su alcune parole che mi parevano piú significative.
Con voce un po' tremante Carla m'interruppe:
- Mi pare che questo l'abbiamo già letto!
Cosí fui finalmente obbligato di dire parole mie.
Anche la parola propria può dare un po' di salute.
La mia non soltanto fu piú mite del mio animo e del mio comportamento, ma addirittura mi ricondusse alla vita di società:
- Vede, signorina, - e accompagnai subito l'appellativo vezzeggiativo con un sorriso che poteva essere anche di amante, - vorrei rivedere questa roba prima di passare oltre.
Forse noi ieri l'abbiamo giudicata un po' precipitosamente, ed un mio amico poco fa m'avvertí che per intendere tutto quello che il Garcia dice, bisognava studiarlo tutto.
Sentii finalmente anche il bisogno di usare un riguardo alla povera vecchia signora che certamente nel corso della sua vita e per quanto poco fortunata fosse stata, non s'era mai trovata in un frangente simile.
Inviai anche a lei un sorriso che mi costò piú fatica di quello regalato a Carla:
- La cosa non è molto divertente, - le dissi, - ma può essere sentita con qualche vantaggio anche da chi non si occupa di canto.
Continuai ostinatamente a leggere.
Carla certamente si sentiva meglio, e sulle sue labbra carnose errava qualche cosa che somigliava ad un sorriso.
La vecchia invece appariva sempre come un povero animale catturato e restava in quella stanza solo perché la sua timidezza le impediva di trovare il modo di andarsene.
Io, poi, a nessun prezzo avrei tradito il mio desiderio di buttarla fuori di quella stanza.
Sarebbe stata una cosa grave e compromettente.
Carla fu piú decisa: con molto riguardo mi pregò sospendere per un momento quella lettura e, rivoltasi alla madre, le disse che poteva andarsene e che il lavoro a quel lenzuolo l'avrebbero continuato nel pomeriggio.
La signora s'avvicinò a me, esitante se porgermi la mano.
Io gliela strinsi affettuosamente e le dissi:
- Capisco che questa lettura non è troppo divertente.
Sembrava volessi deplorare ch'essa ci lasciasse.
La signora se ne andò dopo di aver posto su di una sedia il lenzuolo ch'essa fino ad allora aveva tenuto in grembo.
Poi Carla la seguí per un istante sul pianerottolo per dirle qualche cosa mentre io smaniavo di averla finalmente accanto.
Rientrò, chiuse dietro di sé la porta e ritornando al suo posto ebbe di nuovo attorno alla bocca qualche cosa di rigido che ricordava l'ostinazione su una faccia infantile.
Disse:
- Ogni giorno a quest'ora io studio.
Giusto ora doveva capitarmi di attendere a quel lavoro di premura!
- Ma non vede che a me non importa nulla del suo canto? - gridai io e l'aggredii con un abbraccio violento che mi portò a baciarla prima in bocca eppoi subito sul punto stesso ove avevo baciato il giorno prima.
Curioso! Essa si mise a piangere dirottamente e si sottrasse a me.
Disse singhiozzando che aveva sofferto troppo di avermi visto entrare a quel modo.
Essa piangeva per quella solita compassione di sé stesso che tocca a chi vede compianto il proprio dolore.
Le lacrime non sono espresse dal dolore, ma dalla sua storia.
Si piange quando si grida all'ingiustizia.
Era infatti ingiusto di obbligare allo studio questa bella fanciulla che si poteva baciare.
In complesso andava peggio di quanto m'ero figurato.
Dovetti spiegarmi e per far presto non mi presi il tempo necessario per inventare e raccontai l'esatta verità.
Le dissi della mia impazienza di vederla e di baciarla.
Io m'ero proposto di venir da lei di buon'ora; in questo proposito avevo persino passata la notte.
Naturalmente non seppi dire che cosa mi prefiggessi di fare venendo da lei, ma ciò era poco d'importante.
Era vero che la stessa dolorosa impazienza l'avevo sentita quando avevo voluto andare da lei per dirle che volevo abbandonarla per sempre e quand'ero accorso per prenderla fra le mie braccia.
Poi le raccontai degli avvenimenti della mattina e come mia moglie m'avesse obbligato di uscire con lei e m'avesse condotto da mio suocero ove ero stato immobilizzato ad ascoltare come si discorreva di affari che non mi toccavano.
Infine, con grandi sforzi arrivo a svincolarmi e a fare la lunga via a passo celere e che cosa trovo?...
La stanza tutta ingombra di quel lenzuolo!
Carla scoppiò a ridere perché comprese che in me non v'era niente del Copler.
Il riso sulla sua bella faccia pareva l'arcobaleno ed io la baciai ancora.
Essa non rispondeva alle mie carezze, ma le subiva sommessa, un atteggiamento ch'io adoro forse perché amo il sesso debole in proporzione diretta della sua debolezza.
Per la prima volta essa mi raccontò d'aver risaputo dal Copler ch'io amavo tanto mia moglie:
- Perciò - aggiunse ed io vidi passare sulla sua bella faccia l'ombra del proposito serio, - fra noi due non ci può essere che una buona amicizia e niente altro.
Io a quel proposito tanto saggio non credetti molto perché quella stessa bocca che lo esprimeva non sapeva neppur allora sottrarsi ai miei baci.
Carla parlò lungamente.
Voleva evidentemente destare la mia compassione.
Ricordo tutto quello ch'essa mi disse e cui credetti solo quando essa sparí dalla mia vita.
Finché l'ebbi accanto, sempre la paventai come una donna che prima o poi avrebbe approfittato del suo ascendente su di me per rovinare me e la mia famiglia.
Non le credetti quand'essa m'assicurò che non domandava altro che di essere sicura della propria e della vita della madre.
Ora lo so con certezza ch'essa mai ebbe il proposito di ottenere da me piú di quanto le occorresse, e quando penso a lei arrossisco dalla vergogna di averla compresa e amata tanto male.
Essa, poverina, non ebbe nulla da me.
Io le avrei dato tutto, perché io sono di quelli che pagano i proprii debiti.
Ma aspettavo sempre che me lo domandasse.
Mi raccontò dello stato disperato in cui s'era trovata alla morte di suo padre.
Per mesi e mesi lei e la vecchia erano state obbligate a lavorare giorno e notte a certi ricami che venivano commessi loro da un mercante.
Ingenuamente essa credeva che l'aiuto dovesse venire dalla provvidenza divina tant'è vero che talvolta per ore era rimasta alla finestra per guardare sulla via, donde doveva giungere.
Venne invece il Copler.
Ora essa si diceva contenta del suo stato, ma lei e sua madre passavano le notti inquiete perché l'aiuto che veniva concesso era ben precario.
Se un giorno fosse risultato ch'essa non aveva né la voce né il talento per cantare? Il Copler le avrebbe abbandonate.
Poi egli parlava di farla apparire su un teatro di lí a pochi mesi.
E se ci fosse stato un vero e proprio fiasco?
Sempre nello sforzo di destare la mia compassione, essa mi raccontò che la disgrazia finanziaria della sua famiglia aveva anche travolto un suo sogno d'amore: il suo fidanzato l'aveva abbandonata.
Io ero sempre lontano dalla compassione.
Le dissi:
- Quel suo fidanzato l'avrà baciata molto? Come faccio io?
Essa rise perché le impedivo di parlare.
Io vidi cosí dinanzi a me un uomo che mi segnava la via.
Era da lungo tempo trascorsa l'ora in cui avrei dovuto trovarmi a colazione a casa.
Avrei voluto andarmene.
Per quel giorno bastava.
Ero ben lontano da quel rimorso che m'aveva tenuto desto durante la notte, e l'inquietudine che m'aveva trascinato da Carla era del tutto scomparsa.
Ma tranquillo non ero.
È, forse, mio destino di non esserlo mai.
Non avevo rimorsi perché intanto Carla m'aveva promesso tanti baci che volevo a nome di un'amicizia che non poteva offendere Augusta.
Mi parve di scoprire la ragione del malcontento che come al solito faceva serpeggiare vaghi dolori nel mio organismo.
Carla mi vedeva in una luce falsa! Carla poteva disprezzarmi vedendomi tanto desideroso dei suoi baci quando amavo Augusta! Quella stessa Carla che faceva mostra di stimarmi tanto perché di me aveva tanto bisogno!
Decisi di conquistarmi la sua stima e dissi delle parole che dovevano dolermi come il ricordo di un crimine vigliacco, come un tradimento commesso per libera elezione, senza necessità e senza nessun vantaggio.
Ero quasi alla porta e con l'aspetto di persona serena che a malincuore si confessi, dissi a Carla:
- Il Copler le ha raccontato dell'affetto ch'io porto a mia moglie.
È vero: io stimo molto mia moglie.
Poi le raccontai per filo e per segno la storia del mio matrimonio, come mi fossi innamorato della sorella maggiore di Augusta che non aveva voluto saperne di me perché innamorata di un altro, come poi avessi tentato di sposare un'altra delle sue sorelle che pure mi respinse e come infine mi adattassi a sposare lei.
Carla credette subito nell'esattezza di questo racconto.
Poi seppi che il Copler ne aveva appreso qualche cosa a casa mia e le aveva riferito dei particolari non del tutto veri, ma quasi, ch'io avevo ora rettificato e confermato.
- È bella la sua signora? - domandò essa pensierosa.
- Secondo i gusti, - dissi io.
C'era qualche centro proibitivo che agiva ancora in me.
Avevo detto di stimare mia moglie, ma non avevo mica ancora detto di non amarla.
Non avevo detto che mi piacesse, ma neppure che non potesse piacermi.
In quel momento mi pareva di essere molto sincero; ora so di aver tradito con quelle parole tutt'e due le donne e tutto l'amore, il mio e il loro.
A dire il vero non ero ancora tranquillo; dunque mancava ancora qualche cosa.
Mi sovvenni della busta dai buoni propositi e l'offersi a Carla.
Essa l'aperse e me la restituí dicendomi che pochi giorni prima il Copler le aveva portata la mesata e che per il momento essa proprio non aveva bisogno di danaro.
La mia inquietudine aumentò per un'antica idea che m'ero fatta che le donne veramente pericolose non accettano poco denaro.
Essa s'avvide del mio malessere e con un'ingenuità deliziosa e che apprezzo solamente ora che ne scrivo, mi domandò poche corone con le quali avrebbe acquistati dei piatti di cui le due donne erano state private da una catastrofe in cucina.
Poi avvenne una cosa che lasciò un segno indelebile nella mia memoria.
Al momento di andarmene io la baciai, ma questa volta, con tutta intensità, essa rispose al mio bacio.
Il mio veleno aveva agito.
Essa disse con tutta ingenuità:
- Io le voglio bene perché lei è tanto buono che neppure la ricchezza poté guastarla.
Poi aggiunse con malizia:
- Io so ora che non bisogna farla attendere e che fuori di quel pericolo non ce n'è altro con lei.
Sul pianerottolo essa domandò ancora:
- Potrò mandare a quel paese il maestro di canto assieme al Copler?
Scendendo rapidamente le scale io le dissi:
- Vedremo!
Ecco che qualche cosa restava tuttavia in sospeso nei nostri rapporti; tutto il resto era stato chiaramente stabilito.
Me ne derivò tale malessere, che quando arrivai all'aria aperta, indeciso mi mossi nella direzione opposta a quella della mia casa.
Avrei quasi avuto il desiderio di ritornare subito subito da Carla per spiegarle ancora qualche cosa: il mio amore per Augusta.
Si poteva farlo perché io non avevo detto di non amarla.
Soltanto, come conclusione a quella vera storia che avevo raccontata, avevo dimenticato di dire che oramai io amavo veramente Augusta.
Carla, poi, ne aveva dedotto che non l'amavo affatto e perciò aveva corrisposto tanto fervidamente al mio bacio, sottolineandolo con una sua dichiarazione di amore.
Mi pareva che, se non ci fosse stato tale episodio, io avrei potuto sopportare piú facilmente lo sguardo confidente di Augusta.
E pensare che poco prima io ero stato lieto di apprendere che Carla sapesse del mio amore per mia moglie e che cosí, per sua decisione, l'avventura ch'io aveva cercata mi venisse offerta nella forma di un'amicizia condita da baci.
Al Giardino Pubblico sedetti su una panchina e, col bastone, segnai distrattamente sulla ghiaia la data di quel giorno.
Poi risi amaramente: sapevo che quella non era la data che avrebbe segnata la fine dei miei tradimenti.
Anzi, s'iniziavano quel giorno.
Dove avrei potuto trovare io la forza per non ritornare da quella donna tanto desiderabile che m'aspettava? Poi avevo già assunti degl'impegni, degl'impegni d'onore.
Avevo avuto dei baci e non m'era stato concesso di dare che il controvalore di alcune terraglie! Era proprio un conto non saldato quello che ora mi legava a Carla.
La colazione fu triste.
Augusta non aveva domandate delle spiegazioni per il mio ritardo ed io non le diedi.
Avevo paura di tradirmi, tanto piú che nel breve percorso dal Giardino a casa mi ero baloccato con l'idea di raccontarle tutto e la storia del mio tradimento poteva perciò essere segnata sulla mia faccia onesta.
Questo sarebbe stato l'unico mezzo per salvarmi.
Raccontandole tutto mi sarei messo sotto la sua protezione e sotto la sua sorveglianza.
Sarebbe stato un atto di tale decisione che allora in buona fede avrei potuto segnare la data di quel giorno come un avviamento all'onestà e alla salute.
Si parlò di molte cose indifferenti.
Cercai di essere lieto, ma non seppi neppur tentare di essere affettuoso.
A lei mancava il fiato; certo aspettava una spiegazione che non venne.
Poi essa andò a continuare il suo grande lavoro di riporre i panni d'inverno in armadi speciali.
La intravvidi spesso nel pomeriggio, tutta intenta al suo lavoro, là, in fondo al corridoio lungo, aiutata dalla fantesca.
Il suo grande dolore non interrompeva la sua sana attività.
Inquieto, passai spesso dalla mia stanza da letto alla camera da bagno.
Avrei voluto chiamare Augusta e dirle almeno che l'amavo perché a lei - povera sempliciona! - questo sarebbe bastato.
Ma invece continuai a meditare e a fumare.
Passai naturalmente per varie fasi.
Ci fu persino un momento in cui quell'accesso di virtú fu interrotto da una viva impazienza di veder arrivare il giorno appresso per poter correre da Carla.
Può essere che anche questo desiderio fosse stato ispirato da qualche buon proposito.
In fondo la grande difficoltà era di poter, cosí solo, impegnarsi e legarsi al dovere.
La confessione che m'avrebbe procurata la collaborazione di mia moglie era impensabile; restava dunque Carla sulla cui bocca avrei potuto giurare con un ultimo bacio! Chi era Carla? Nemmeno il ricatto era il massimo pericolo che con lei correvo! Il giorno appresso essa sarebbe stata la mia amante: chissà quello che ne sarebbe poi conseguito! Io la conoscevo solo per quanto me ne aveva detto quell'imbecille del Copler e in base ad informazioni provenienti da costui, un uomo piú accorto di me come ad esempio l'Olivi, non avrebbe neppure accettato di contrarre un affare commerciale.
Tutta la sana, bella attività di Augusta intorno alla mia casa era sprecata.
La cura drastica del matrimonio che avevo intrapresa nella mia affannosa ricerca della salute era fallita.
Io rimanevo malato piú che mai e sposato ai danni miei e degli altri.
Piú tardi, quando fui effettivamente l'amante di Carla, riandando col pensiero a quel triste pomeriggio non arrivai a intendere perché prima d'impegnarmi piú oltre, non mi fossi arrestato con un virile proposito.
Avevo tanto pianto il mio tradimento prima di commetterlo, che si sarebbe dovuto credere facile di evitarlo.
Ma del senno di poi si può sempre ridere e anche di quello di prima, perché non serve.
Fu marcata in quelle ore angosciose in caratteri grandi nel mio vocabolario alla lettera C (Carla) la data di quel giorno con l'annotazione: «ultimo tradimento».
Ma il primo tradimento effettivo, che impegnava a tradimenti ulteriori, seguí soltanto il giorno dopo.
A una tarda ora, non sapendo fare di meglio, presi un bagno.
Sentivo una bruttura sul mio corpo e volevo lavarmi.
Ma quando fui in acqua pensai: «Per nettarmi dovrei essere capace di sciogliermi tutto in quest'acqua».
Mi vestii poi, cosí privo di volontà, che neppure m'asciugai accuratamente.
Il giorno sparí ed io restai alla finestra a guardare le nuove foglie verdi degli alberi del mio giardino.
Fui colto da brividi e con una certa soddisfazione pensai fossero di febbre.
Non la morte desiderai ma la malattia, una malattia che mi servisse di pretesto per fare quello che volevo o che me lo impedisse.
Dopo aver esitato per tanto tempo, Augusta venne a cercarmi.
Vedendola tanto dolce e priva di rancore, si aumentarono da me i brividi fino a farmi battere i denti.
Spaventata, essa mi costrinse di mettermi a letto.
Battevo sempre i denti dal freddo, ma già sapevo di non aver la febbre e le impedii di chiamare il medico.
La pregai di spegnere la lampada, di sedere accanto a me e di non parlare.
Non so per quanto tempo restammo cosí: riconquistai il necessario calore e anche qualche fiducia.
Avevo però la mente ancor tanto offuscata che quando essa riparlò di chiamare il medico, le dissi che sapevo la ragione del mio malore e che glielo avrei detto piú tardi.
Ritornavo al proposito di confessare.
Non mi rimaneva aperta altra via per liberarmi da tanta oppressione.
Cosí restammo ancora per vario tempo muti.
Piú tardi m'accorsi che Augusta s'era levata dalla sua poltrona e mi si accostava.
Ebbi paura: forse essa aveva indovinato tutto.
Mi prese la mano, l'accarezzò, poi leggermente poggiò la sua mano sulla mia testa per sentire se scottasse, e infine mi disse:
- Dovevi aspettartelo! Perché tanta dolorosa sorpresa?
Mi meravigliai delle strane parole e nello stesso tempo che passassero traverso un singhiozzo soffocato.
Era evidente che essa non alludeva alla mia avventura.
Come avrei io potuto prevedere di essere fatto cosí? Con una certa rudezza le domandai:
- Ma che cosa vuoi dire? Che cosa dovevo io prevedere?
Confusa essa mormorò:
- L'arrivo del padre di Guido per le nozze di Ada...
Finalmente compresi: essa credeva ch'io soffrissi per l'imminenza del matrimonio di Ada.
A me parve ch'essa veramente mi facesse torto: io non ero colpevole di un simile delitto.
Mi sentii puro e innocente come un neonato e subito liberato da ogni oppressione.
Saltai dal letto:
- Tu credi ch'io soffra per il matrimonio di Ada? Sei pazza! Dacché sono sposato, io non ho piú pensato a lei: Non ricordavo neppure ch'era arrivato quest'oggi il signor Cada!
La baciai e abbracciai con pieno desiderio e il mio accento fu improntato a tale sincerità ch'essa si vergognò del suo sospetto.
Anche lei ebbe la ingenua faccia sgombera da ogni nube e andammo presto a cena ambedue affamati.
A quello stesso tavolo, dove avevamo sofferto tanto, poche ore prima, sedevamo ora come due buoni compagni in vacanza.
Ella mi ricordò che le avevo promesso di dirle la ragione del mio malessere.
Io finsi una malattia, quella malattia che doveva darmi la facoltà di fare senza colpa tutto quello che mi piaceva.
Le raccontai che già in compagnia dei due vecchi signori, alla mattina, m'ero sentito scoraggiato profondamente.
Poi ero andato a prendere gli occhiali che l'oculista m'aveva prescritti.
Forse quel segno di vecchiezza m'aveva avvilito maggiormente.
E avevo camminato per le vie della città per ore ed ore.
Raccontai anche qualche cosa delle immaginazioni che tanto m'avevano fatto soffrire e ricordo che contenevano persino un abbozzo di confessione.
Non so in quale connessione con la malattia immaginaria, parlai anche del nostro sangue che girava, girava, ci teneva eretti, capaci al pensiero e all'azione e perciò alla colpa e al rimorso.
Essa non capí che si trattava di Carla, ma a me parve di averlo detto.
Dopo cena inforcai gli occhiali e finsi lungamente di leggere il mio giornale, ma quei vetri m'annebbiavano la vista.
Ne ebbi un aumento del mio turbamento lieto come di alcolizzato.
Dissi di non poter intendere quello che leggevo.
Continuavo a fare il malato.
La notte la passai pressocché insonne.
Aspettavo l'abbraccio di Carla con pieno grande desiderio.
Desideravo proprio lei, la fanciulla dalle ricche treccie fuori di posto e la voce tanto musicale quando la nota non le era imposta.
Ella era resa desiderabile anche da tutto ciò che per lei avevo già sofferto.
Fui accompagnato tutta la notte da un ferreo proposito.
Sarei stato sincero con Carla prima di farla mia e le avrei detta l'intera verità sui miei rapporti con Augusta.
Nella mia solitudine mi misi a ridere: era molto originale di andare alla conquista di una donna con in bocca la dichiarazione d'amore per un'altra.
Forse Carla sarebbe ritornata alla sua passività! E che perciò? Per il momento nessun suo atto avrebbe potuto diminuire il pregio della sua sottomissione di cui mi sembrava di poter essere sicuro.
La mattina seguente vestendomi mormoravo le parole che le avrei dette.
Prima di essere mia, Carla doveva sapere che Augusta col suo carattere e anche con la sua salute (avrei potuto spendere molte parole per spiegare quello ch'io intendessi per salute ciò che avrebbe anche servito ad educare Carla) aveva saputo conquistare il mio rispetto, ma anche il mio amore.
Prendendo il caffè, ero tanto assorto nel preparare un tanto elaborato discorso, che Augusta non ebbe da me altro segno di affetto che un lieve bacio prima di uscire.
Se ero tutto suo! Andavo da Carla per riaccendere la mia passione per lei.
Non appena entrai nella stanza di studio di Carla, ebbi un tale sollievo al trovarla sola e pronta, che subito l'attirai a me e appassionatamente l'abbracciai.
Fui spaventato dall'energia con la quale essa mi respinse.
Una vera violenza! Essa non voleva saperne ed io rimasi a bocca aperta in mezzo alla stanza, dolorosamente deluso.
Ma Carla subito rimessasi mormorò:
- Non vede che la porta è rimasta aperta e che qualcuno sta scendendo le scale?
Assunsi l'aspetto di un visitatore cerimonioso finché l'importuno non passò.
Poi chiudemmo la porta.
Essa impallidí vedendo che giravo anche la chiave.
Cosí tutto era chiaro.
Poco dopo essa mormorò fra le mie braccia con voce soffocata: - Lo vuoi? Veramente lo vuoi?
M'aveva dato del tu, e questo fu decisivo.
Io poi avevo subito risposto:
- Se non desidero altro!
Avevo dimenticato che avrei voluto prima chiarire qualche cosa.
Subito dopo io avrei voluto cominciare a parlarle dei miei rapporti con Augusta avendo tralasciato di farlo prima.
Ma era difficile per il momento.
Parlando con Carla d'altro in quel momento sarebbe stato come diminuire l'importanza della sua dedizione.
Anche il piú sordo fra gli uomini sa che non si può fare una cosa simile, per quanto tutti sappiano che non c'è confronto fra l'importanza di quella dedizione prima che avvenga e immediatamente dopo.
Sarebbe una grande offesa per una donna, che aperse le braccia per la prima volta, sentirsi dire: «Prima di tutto debbo chiarire quelle parole che ti dissi ieri...
».
Ma che ieri? Tutto quello che avvenne il giorno prima deve apparire indegno di essere menzionato e se ad un gentiluomo avviene di non sentire cosí, tanto peggio per lui e deve fare in modo che nessuno se ne avveda.
È certo che io ero quel gentiluomo che non sentiva cosí perché nella simulazione sbagliai come la sincerità non saprebbe.
Le domandai:
- Com'è che ti concedesti a me? Come meritai una cosa simile?
Volevo dimostrarmi grato o rimproverarla? Probabilmente non era che un tentativo per iniziare delle spiegazioni.
Essa un po' stupita guardò in alto per vedere il mio aspetto:
- A me pare che tu mi abbia presa, - e sorrise affettuosamente per provarmi che non intendeva di rimproverarmi.
Ricordai che le donne esigono si dica che sono state prese.
Poi, essa stessa si accorse di aver sbagliato, che le cose si prendono e le persone si accordano e mormorò:
- Io ti aspettavo! Eri il cavaliere che doveva venire a liberarmi.
Certo è male che tu sia sposato, ma, visto che non ami tua moglie, io so almeno che la mia felicità non distrugge quella di nessun altro.
Fui preso dal mio dolore al fianco con tale intensità che dovetti cessare dall'abbracciarla.
Dunque l'importanza delle mie sconsiderate parole non era stata esagerata da me? Era proprio la mia menzogna che aveva indotta Carla di divenire mia? Ecco che se ora avessi pensato di parlare del mio amore per Augusta, Carla avrebbe avuto il diritto di rimproverarmi nientemeno che di un tranello! Rettifiche e spiegazioni non erano piú possibili per il momento.
Ma in seguito ci sarebbe stata l'opportunità di spiegarsi e di chiarire.
Aspettando che si presentasse, ecco che si costituiva un nuovo legame fra me e Carla.
Lí, accanto a Carla, rinacque intera la mia passione per Augusta.
Ora non avrei avuto che un desiderio: correre dalla mia vera moglie, solo per vederla intenta al suo lavoro di formica assidua, mentre metteva in salvo le nostre cose in un'atmosfera di canfora e di naftalina.
Ma restai al mio dovere, che fu gravissimo per un episodio che mi turbò molto dapprima perché m'apparve come un'altra minaccia della sfinge con la quale aveva da fare.
Carla mi raccontò che subito dopo che me n'ero andato il giorno prima, era venuto il maestro di canto e che essa lo aveva semplicemente messo alla porta.
Non seppi celare un gesto di contrarietà.
Era lo stesso che avvisare il Copler della nostra tresca!
- Che cosa ne dirà il Copler? - esclamai.
Essa si mise a ridere e si rifugiò, questa volta di sua iniziativa, fra le mie braccia:
- Non avevamo detto che l'avremmo buttato fuori della porta anche lui?
Era carina, ma non poteva piú conquistarmi.
Trovai subito anch'io un atteggiamento che mi stava bene, quello del pedagogo, perché mi dava anche la possibilità di sfogare quel rancore che c'era in fondo all'anima mia per la donna che non mi permetteva di parlare come avrei voluto di mia moglie.
- Bisognava lavorare a questo mondo - le dissi - perché, come ella già doveva saperlo, questo era un mondo cattivo dove solamente i validi reggevano.
E se io ora dovessi morire? Che cosa avverrebbe di lei? - Avevo prospettata l'eventualità del mio abbandono in modo ch'essa proprio non poteva offendersene e infatti se ne commosse.
Poi, con l'evidente intenzione di avvilirla, le dissi che con mia moglie bastava io manifestassi un desiderio per vederlo esaudito.
- Ebbene! - disse lei rassegnata - manderemo a dire al maestro che ritorni! - Poi tentò di comunicarmi la sua antipatia per quel maestro.
Ogni giorno doveva subire la compagnia di quel vecchione antipatico che le faceva ripetere per infinite volte gli stessi esercizi che non giovavano a nulla, proprio a nulla.
Essa non ricordava di aver passato qualche bel giorno che quando il maestro si ammalava.
Aveva anche sperato che morisse, ma essa non aveva fortuna.
Divenne infine addirittura violenta nella sua disperazione.
Ripeté, aumentandolo, il suo lamento di non aver fortuna: era disgraziata, irreparabilmente disgraziata.
Quando ricordava che m'aveva subito amato perché le era sembrato che dal mio fare, dal mio dire, dai miei occhi, venisse una promessa di vita meno rigida, meno obbligata, meno noiosa, doveva piangere.
Cosí conobbi subito i suoi singhiozzi e mi seccarono; erano violenti fino a scuotere, pervadendolo, il suo debole organismo.
Mi sembrava di subire immediatamente un brusco assalto alla mia tasca e alla mia vita.
Le domandai:
- Ma credi tu che mia moglie a questo mondo non faccia nulla? Adesso che noi due parliamo, essa ha i polmoni inquinati dalla canfora e dalla naftalina.
Carla singhiozzò:
- Le cose, le masserizie, i vestiti...
beata lei!
Pensai irritato ch'essa volesse che io corressi a comperarle tutte quelle cose, solo per procurarle l'occupazione che prediligeva.
Non dimostrai dell'ira, grazie al cielo e obbedii alla voce del dovere che gridava: «accarezza la fanciulla che si abbandonò a te!».
L'accarezzai.
Passai la mia mano leggermente sui suoi capelli.
Ne risultò che i suoi singhiozzi si calmarono e le sue lagrime fluirono abbondanti e non trattenute come la pioggia che segue ad un temporale.
- Tu sei il mio primo amante - disse essa ancora - ed io spero che continuerai ad amarmi!
Quella sua comunicazione, ch'ero il suo primo amante, designazione che preparava il posto ad un secondo, non mi commosse molto.
Era una dichiarazione che arrivava in ritardo perché da una buona mezz'ora l'argomento era stato abbandonato.
Eppoi era una nuova minaccia.
Una donna crede di avere tutti i diritti verso il suo primo amante.
Dolcemente le mormorai all'orecchio:
- Anche tu sei la mia prima amante...
dacché mi sono sposato.
La dolcezza della voce mascherava il tentativo di pareggiare le due partite.
Poco dopo io la lasciai perché a nessun prezzo avrei voluto arrivare tardi a colazione.
Prima di andarmene trassi di nuovo di tasca la busta che io dicevo dei buoni propositi perché un ottimo proposito l'aveva creata.
Sentivo il bisogno di pagare per sentirmi piú libero.
Carla rifiutò dolcemente di nuovo quel denaro ed io allora m'arrabbiai fortemente, ma seppi trattenermi dal manifestare questa rabbia, se non urlando delle parole dolcissime.
Gridavo per non picchiarla, ma nessuno avrebbe potuto accorgersene.
Dissi che ero arrivato al colmo dei miei desideri possedendola e che adesso volevo aver il senso di possederla ancora piú mantenendola completamente.
Perciò doveva guardarsi dal farmi arrabbiare perché ne soffrivo troppo.
Volendo correre via, riassunsi in poche parole il mio concetto che divenne - cosí gridato - molto brusco.
- Sei la mia amante? Perciò il tuo mantenimento incombe a me.
Essa, spaventata, cessò dal resistere e prese la busta mentre mi guardava ansiosa studiando che cosa fosse la verità, il mio urlo d'odio oppure la parola d'amore con cui le veniva concesso tutto quello ch'essa aveva desiderato.
Si rasserenò un poco quando prima di andarmene sfiorai con le mie labbra la sua fronte.
Sulle scale mi venne il dubbio ch'essa, disponendo di quei denari e avendo sentito ch'io m'incaricavo del suo avvenire, avrebbe messo alla porta anche il Copler nel caso in cui egli nel pomeriggio fosse venuto da lei.
Avrei voluto risalire quelle scale per andare ad esortarla di non compromettermi con un atto simile.
Ma non v'era tempo e dovetti correr via.
Io temo che il dottore che leggerà questo mio manoscritto abbia a pensare che anche Carla sarebbe stata un soggetto interessante alla psico-analisi.
A lui sembrerà che quella dedizione, preceduta dal congedo al maestro di canto, fosse stata troppo rapida.
Anche a me sembrava che in premio del suo amore essa si fosse attese da me troppe concessioni.
Occorsero molti, ma molti mesi, perché io intendessi meglio la povera fanciulla.
Probabilmente essa s'era lasciata prendere per liberarsi dall'inquietante tutela del Copler, e dovette essere per lei una ben dolorosa sorpresa all'accorgersi che s'era concessa invano perché da lei si continuava a pretendere proprio quello che le pesava tanto, cioè il canto.
Si trovava ancora fra le mie braccia e apprendeva che doveva continuare a cantare.
Da ciò un'ira e un dolore che non trovavano le parole giuste.
Per ragioni differenti dicemmo cosí ambedue delle stranissime parole.
Quand'essa mi volle bene, riebbe tutta la naturalezza che il calcolo le aveva tolto.
Io la naturalezza non la ebbi mai con lei.
Correndo via pensai ancora: «Se essa sapesse quanto io ami mia moglie si comporterebbe altrimenti».
Quando lo seppe si comportò infatti altrimenti.
All'aria aperta respirai la libertà e non sentii il dolore di averla compromessa.
Fino al giorno dopo c'era tempo e avrei forse trovato un riparo alle difficoltà che mi minacciavano.
Correndo verso casa ebbi anche il coraggio di prendermela con l'ordine sociale, come se esso fosse stato la colpa dei miei trascorsi.
Mi pareva avrebbe dovuto essere tale da permettere di tempo in tempo (non sempre) di fare all'amore, senz'aver a temerne delle conseguenze, anche con le donne che non si amano affatto.
Di rimorso non v'era traccia in me.
Perciò io penso che il rimorso non nasca dal rimpianto di una mala azione già commessa, ma dalla visione della propria colpevole disposizione.
La parte superiore del corpo si china a guardare e giudicare l'altra parte e la trova deforme.
Ne sente ribrezzo e questo si chiama rimorso.
Anche nella tragedia antica la vittima non ritornava in vita e tuttavia il rimorso passava.
Ciò significava che la deformità era guarita e che oramai il pianto altrui non aveva alcuna importanza.
Dove poteva esserci posto per il rimorso in me che con tanta gioia e tanto affetto correvo dalla mia legittima moglie? Da molto tempo non m'ero sentito tanto puro.
A colazione, senz'altro sforzo, fui lieto ed affettuoso con Augusta.
Non ci fu quel giorno alcuna nota stonata fra di noi.
Niente di eccessivo: ero come dovevo essere con la donna onestamente e sicuramente mia.
Altre volte ci furono degli eccessi d'affettuosità da parte mia, ma solamente quando nel mio animo si combatteva una lotta fra le due donne ed eccedendo nelle manifestazioni d'affetto m'era piú facile di celare ad Augusta che fra di noi c'era l'ombra per il momento abbastanza potente di un'altra donna.
Posso anche dire che perciò Augusta mi preferiva quando non ero tutto e con grande sincerità suo.
Io stesso ero un po' stupito della mia calma e l'attribuivo al fatto ch'ero riuscito di far accettare a Carla quella busta dai buoni propositi.
Non che con quella credessi di averla saldata.
Ma mi pareva che avevo cominciato a pagare un'indulgenza.
Disgraziatamente per tutta la durata della mia relazione con Carla, il denaro restò la mia preoccupazione principale.
Ad ogni occasione ne mettevo in disparte in un posto ben celato della mia biblioteca, per essere preparato a far fronte a qualunque esigenza dell'amante che tanto temevo.
Cosí quel denaro, quando Carla m'abbandonò lasciandomelo, serví per pagare tutt'altra cosa.
Dovevamo passare la sera in casa di mio suocero ad un pranzo cui non erano invitati che i membri della famiglia e che doveva sostituire il tradizionale banchetto, preludio alle nozze che dovevano aver luogo due giorni appresso.
Guido voleva approfittare per sposarsi del miglioramento di Giovanni, ch'egli credeva non avrebbe durato.
Andai con Augusta di buon'ora nel pomeriggio da mio suocero.
Sulla via le ricordai ch'essa il giorno prima aveva sospettato ch'io soffrissi tuttavia per quelle nozze.
Essa si vergognò del suo sospetto ed io parlai molto di quella mia innocenza.
Se ero ritornato a casa non ricordando neppure che quella stessa sera v'era la solennità che doveva preparare quelle nozze!
Quantunque non vi fossero altri invitati che noi di famiglia, i vecchi Malfenti volevano che il banchetto fosse preparato solennemente.
Augusta era stata pregata di aiutare a preparare la sala e la tavola.
Alberta non ne voleva sapere.
Poco tempo prima essa aveva ottenuto un premio ad un concorso per una commedia in un atto e s'accingeva ora alacremente alla riforma del teatro nazionale.
Cosí restammo intorno a quella tavola io ed Augusta coadiuvati da una cameriera e da Luciano un ragazzo dell'ufficio di Giovanni che dimostrava altrettanto talento per l'ordine in casa quanto per quello d'ufficio.
Aiutai a trasportare sulla tavola dei fiori e a distribuirli in bell'ordine.
- Vedi - dissi scherzando ad Augusta - che contribuisco anch'io alla loro felicità.
Se mi domandassero di preparare per loro anche il letto nuziale, lo farei con lo stesso aspetto sereno!
Piú tardi andammo a trovare gli sposi ritornati allora da una visita ufficiale.
S'erano messi nel cantuccio piú riposto del salotto e suppongo che fino al nostro arrivo si fossero baciucchiati.
La sposina non aveva neppur smesso il suo abito da passeggio ed era tanto bellina, cosí arrossata dal caldo.
Io credo che gli sposi, per celare ogni traccia dei baci che si erano scambiati, volessero darci ad intendere che avessero discusso di scienza.
Era una sciocchezza, forse anche sconveniente! Volevano allontanarci dalla loro intimità o credevano che i loro baci potessero dolere a qualcuno? Ciò però non guastò il mio buon umore.
Guido m'aveva detto che Ada non voleva credergli che certe vespe sapevano paralizzare con una puntura altri insetti anche piú forti di loro per conservarli cosí paralizzati, vivi e freschi, quale nutrimento per la loro discendenza.
Io credevo di ricordare ch'esisteva qualche cosa di tanto mostruoso in natura, ma in quel momento non volli concedere una soddisfazione a Guido:
- Mi credi una vespa che ti dirigi a me? - gli dissi ridendo.
Lasciammo gli sposi per permettere loro di occuparsi di cose piú liete.
Io però cominciavo a trovare alquanto lungo il pomeriggio e avrei voluto andare a casa ad aspettare nel mio studio l'ora del pranzo.
Nell'anticamera trovammo il dottor Paoli che usciva dalla stanza da letto di mio suocero.
Era un medico giovine che aveva però già saputo conquistarsi una buona clientela.
Era biondissimo e bianco e rosso come un ragazzone.
Nel potente organismo il suo occhio era però tanto importante da rendere seria ed imponente tutta la sua persona.
Gli occhiali lo facevano apparire piú grande e il suo sguardo s'attaccava alle cose come una carezza.
Ora che conosco bene tanto lui che il Dottor S.
- quello della psico-analisi - mi pare che l'occhio di questi sia indagatore per intenzione, mentre nel dottor Paoli lo è per una sua instancabile curiosità.
Il Paoli vede esattamente il suo cliente, ma anche la moglie di questi e la sedia su cui poggia.
Dio sa quale dei due conci meglio i suoi clienti! Durante la malattia di mio suocero io andai spesso dal Paoli per indurlo a non fare intendere alla famiglia che la catastrofe che la minacciava era imminente, e ricordo che un giorno, guardandomi piú a lungo di quanto mi fosse piaciuto, mi disse sorridendo:
- Ma Lei adora sua moglie!
Egli era un buon osservatore perché infatti io in quel momento adoravo mia moglie che soffriva tanto per la malattia del padre e che io giornalmente tradivo.
Ci disse che Giovanni stava anche meglio del giorno prima.
Adesso egli non aveva altre preoccupazioni perché la stagione era molto favorevole, e riteneva che gli sposi serenamente potessero mettersi in viaggio.
- Naturalmente - aggiunse cautamente - salvo complicazioni imprevedibili.
- La sua prognosi s'avverò perché intervennero le complicazioni imprevedibili.
Al momento di congedarsi si ricordò che noi conoscevamo certo Copler al cui letto egli era stato chiamato quel giorno stesso a consulto.
Lo aveva trovato colpito da una paralisi renale.
Raccontò che la paralisi s'era annunciata con un orrendo male di denti.
Qui fece una prognosi grave, ma, secondo il solito, attenuata da un dubbio:
- La sua vita può anche prolungarsi a patto ch'egli arrivi a vedere il sole di domani.
Augusta, dalla compassione, ebbe le lagrime agli occhi e mi pregò di correre subito dal nostro povero amico.
Dopo un'esitazione, ottemperai al suo desiderio, e volentieri, perché la mia anima improvvisamente si riempí di Carla.
Com'ero stato duro con la povera fanciulla! Ecco che, sparito il Copler, essa rimaneva là, solitaria su quel pianerottolo, nient'affatto compromettente perché tagliata da ogni comunicazione col mio mondo.
Era necessario correre da lei per cancellare l'impressione che doveva averle fatto il mio duro contegno della mattina.
Ma, prudentemente, andai prima di tutto dal Copler.
Dovevo pur poter dire ad Augusta che lo avevo visto.
Conoscevo già il modesto ma comodo e decente quartiere che il Copler abitava in Corsia Stadion.
Un vecchio pensionato gli aveva cedute tre delle sue cinque stanze.
Fui ricevuto da questi, un grosso uomo, ansante, dagli occhi rossi, che camminava inquieto su e giú per un breve corridoio oscuro.
Mi raccontò che il medico curante se ne era andato da poco, dopo di aver constatato che il Copler si trovava in agonia.
Il vecchio parlava a bassa voce, sempre ansando, come se avesse temuto di turbare la quiete del moribondo.
Anch'io abbassai la mia.
È una forma di rispetto come lo sentiamo noi uomini, mentre non è ben certo se al moribondo non piacerebbe di piú di venir accompagnato per l'ultimo tratto di via da voci chiare e forti che gli ricorderebbero la vita.
Il vecchio mi disse che il moribondo era assistito da una suora.
Pieno di rispetto mi fermai per qualche tempo dinanzi alla porta di quella camera nella quale il povero Copler col suo rantolo, dal ritmo tanto esatto, misurava il suo ultimo tempo.
La sua respirazione rumorosa era composta da due suoni: esitante pareva quello prodotto dall'aria ch'egli ispirava, precipitoso quello che nasceva dall'aria espulsa.
Fretta di morire? Una pausa seguiva ai due suoni ed io pensai che quando quella pausa si fosse allungata, allora si sarebbe iniziata la nuova vita.
Il vecchio voleva ch'io entrassi in quella stanza, ma io non volli.
Troppi moribondi m'avevano guatato con un'espressione di rimprovero.
Non attesi che quella pausa s'allungasse e corsi da Carla.
Bussai alla porta del suo studio ch'era chiusa a chiave, ma nessuno rispose.
Impazientito presi la porta a calci e allora dietro di me si aperse la porta del quartiere.
La voce della madre di Carla domandò:
- Ma chi è? - Poi la vecchia timorosa si sporse e, quando alla luce gialla che veniva dalla sua cucina m'ebbe riconosciuto, m'accorsi che la sua faccia si era coperta di un intenso rossore rilevato dalla nitida bianchezza dei suoi capelli.
Carla non c'era, ed essa si profferse di andar a prendere la chiave dello studio per ricevermi in quella stanza ch'essa riteneva fosse la sola degna di ricevermi.
Ma io le dissi di non scomodarsi, entrai nella sua cucina e sedetti senz'altro su una sedia di legno.
Sul focolare, sotto ad una pentola, ardeva un modesto mucchio di carbone.
Le dissi di non trascurare per causa mia la cucinatura della cena.
Essa mi rassicurò.
Cucinava dei fagiuoli, che non erano mai troppo cotti.
La povertà del cibo che si preparava nella casa le cui spese dovevo oramai sostenere io solo, m'ammorbidí e smorzò la stizza che provavo per non aver trovata pronta la mia amante.
La signora rimase in piedi ad onta ch'io ripetutamente l'avessi invitata di sedere.
Bruscamente le raccontai ch'ero venuto a portare alla signorina Carla una bruttissima notizia: il Copler era moribondo.
Alla vecchia caddero le braccia e subito sentí il bisogno di sedere.
- Dio mio! - mormorò - che cosa faremo ora noi?
Poi si ricordò che quello che toccava al Copler era peggio di quello che toccava a lei e aggiunse un compianto:
- Il povero signore! Tanto buono!
Aveva già la faccia irrorata dalle lagrime.
Essa, evidentemente, non sapeva che se il pover'uomo non fosse morto a tempo, sarebbe stato buttato fuori di quella casa.
Anche questo mi rassicurò.
Com'ero circondato dalla piú assoluta discrezione!
Volli tranquillarla e le dissi che quello che il Copler aveva fatto per loro fino ad allora, avrei continuato a farlo io.
Essa protestò che non era per sé stessa ch'essa piangeva, visto che sapeva ch'esse erano circondate da tanta buona gente, ma per il destino del loro grande benefattore.
Volle sapere di quale malattia morisse.
Raccontandole come la catastrofe s'era annunciata, ricordai quella discussione ch'io tempo prima avevo avuta col Copler sull'utilità del dolore.
Ecco che da lui i nervi dei denti s'erano agitati e s'erano messi a chiamare aiuto perché, ad un metro di distanza da loro, i reni avevano cessato di funzionare.
Ero tanto indifferente al fato del mio amico di cui avevo sentito poco prima il rantolo, che continuavo a giocherellare con le sue idee.
Se fosse stato ancora a sentirmi, gli avrei detto che si capiva cosí come dall'ammalato immaginario i nervi potessero legittimamente dolere per una malattia scoppiata a qualche chilometro di distanza.
Fra la vecchia e me c'era ben poco ancora da discorrere ed accettai di andar ad aspettare Carla nel suo studio.
Presi in mano il Garcia e tentai di leggerne qualche pagina.
Ma l'arte del canto mi toccava poco.
La vecchia mi raggiunse di nuovo.
Era inquieta perché non vedeva giungere Carla.
Mi raccontò ch'era andata a comperare dei piatti di cui avevano urgente bisogno.
La mia pazienza stava proprio per esaurirsi.
Irosamente le domandai:
- Avete rotti dei piatti? Non potreste usare maggior attenzione?
Cosí mi liberai della vecchia che borbottò andandosene:
- Due soli...
li ho rotti io...
Ciò mi procurò un momento d'ilarità perché io sapevo ch'erano stati distrutti tutti quelli che c'erano in casa e non dalla vecchia, ma proprio da Carla.
Poi seppi che Carla era tutt'altro che dolce con la madre che perciò aveva una paura folle di parlare troppo dei fatti della figlia coi suoi protettori.
Pare che una volta, ingenuamente, avesse raccontato al Copler del fastidio che risultava a Carla dalle lezioni di canto.
Il Copler se ne adirò con Carla e questa se la prese con la madre.
Ed è cosí che quando la mia deliziosa amante finalmente mi raggiunse, io l'amai violentemente e irosamente.
Essa, incantata, balbettava:
- E io che dubitavo del tuo amore! Il giorno intero fui perseguitata dal desiderio di uccidermi per essermi abbandonata ad un uomo che subito dopo mi trattò cosí male!
Le spiegai che spesso io venivo preso da gravi mali di testa e, quando mi ritrovai nello stato che, se non avessi valorosamente resistito, m'avrebbe ricondotto di corsa da Augusta, riparlai di quei mali e seppi domarmi.
Andavo facendomi.
Intanto piangemmo insieme il povero Copler; proprio assieme!
Del resto Carla non era indifferente all'atroce fine del suo benefattore.
Parlandone si scolorí:
- Io so come son fatta! - disse.
- Per lungo tempo avrò paura di restare sola.
Da vivo già mi faceva tanta paura!
E per la prima volta, timidamente, mi propose di restare con lei la notte intera.
Io non ci pensavo neppure e non avrei saputo prolungare nemmeno di mezz'ora il mio soggiorno in quella stanza.
Ma, sempre attento di non rivelare alla povera fanciulla il mio animo di cui ero il primo io a dolermi, feci delle obbiezioni dicendole che una cosa simile non era possibile perché in quella casa c'era anche sua madre.
Con vero disdegno essa arcuò le labbra:
- Avremmo trasportato qui il letto; la mamma non s'arrischia di spiarmi.
Allora le raccontai del banchetto di nozze che m'aspettava a casa, ma poi sentii il bisogno di dirle che mai mi sarebbe stato possibile di passare una notte con lei.
Nel proposito di bontà che avevo fatto poco prima, arrivavo a domare ogni mio accento che perciò restò sempre affettuoso, ma mi pareva che ogni altra concessione che le avessi fatta od anche soltanto fatta sperare, sarebbe equivaluta ad un nuovo tradimento ad Augusta che io non volevo commettere.
In quel momento sentivo quali erano i miei piú forti legami con Carla: il mio proposito d'affettuosità eppoi le menzogne dette da me sui miei rapporti con Augusta e che pian pianino, nel corso del tempo, bisognava attenuare ed anzi cancellare.
Perciò iniziai quella stessa sera tale opera, naturalmente con la debita prudenza perché era tuttavia troppo facile di ricordare il frutto che aveva avuto la mia bugia.
Le dissi che io sentivo fortemente i miei obblighi verso mia moglie ch'era una donna tanto stimabile che certamente avrebbe meritato di essere amata meglio e cui mai avrei voluto far sapere come la tradivo.
Carla m'abbracciò:
- Cosí ti amo: buono e dolce come ti sentii subito la prima volta.
Non tenterò mai di fare del male a quella poverina.
A me spiaceva sentir dare della poverina ad Augusta, ma ero riconoscente alla povera Carla della sua mitezza.
Era una buona cosa ch'essa non odiasse mia moglie.
Volli dimostrarle la mia riconoscenza e mi guardai d'attorno alla ricerca di un segno di affetto.
Finii col trovarlo.
Regalai anche a lei la sua lavanderia: le permisi di non richiamare il maestro di canto.
Carla ebbe un impeto di affetto che mi seccò abbastanza, ma che sopportai valorosamente.
Poi mi raccontò ch'essa non avrebbe mai abbandonato il canto.
Cantava tutto il giorno, ma a modo suo.
Voleva anzi farmi sentire subito una sua canzone.
Ma io non ne volli sapere e alquanto villanamente corsi via.
Perciò penso che anche quella notte essa abbia meditato il suicidio, ma io non le lasciai mai il tempo di dirmelo.
Ritornai dal Copler perché dovevo portare ad Augusta le ultime notizie dell'ammalato per farle credere che io avessi passate con lui tutte quelle ore.
Il Copler era morto da due ore circa, subito dopo ch'io me n'ero andato.
Accompagnato dal vecchio pensionato che aveva continuato a misurare col suo passo il piccolo corridoio, entrai nella stanza mortuaria.
Il cadavere, già vestito, giaceva sul nudo materazzo del letto.
Teneva nelle mani il crocifisso.
A bassa voce il pensionato mi raccontò che tutte le formalità erano state compiute e che una nipote dell'estinto sarebbe venuta a passare la notte presso il cadavere.
Cosí avrei potuto andarmene sapendo che al mio povero amico si dava tutto quel poco che ancora poteva occorrergli, ma restai per qualche minuto a guardarlo.
Avrei amato di sentirmi sgorgare dagli occhi una lacrima sincera di compianto per il poverino che tanto aveva lottato con la malattia fino a tentar di trovare un accordo con essa.
- È doloroso! - dissi.
La malattia per la quale esistevano tanti farmachi, l'aveva brutalmente ucciso.
Pareva un'irrisione.
Ma la mia lacrima mancò.
La faccia emaciata del Copler non era mai apparsa tanto forte come nella rigidezza della morte.
Pareva prodotta dallo scalpello in un marmo colorato e nessuno avrebbe potuto prevedere che vi sovrastasse imminente la putrefazione.
Era tuttavia una vera vita che quella faccia manifestava: disapprovava sdegnosamente forse me, l'ammalato immaginario, o fors'anche Carla, che non voleva cantare.
Trasalii un momento sembrandomi che il morto ricominciasse a rantolare.
Subito ritornai alla mia calma di critico quando m'accorsi che quello che m'era sembrato un rantolo non era che l'ansare, aumentato dall'emozione, del pensionato.
Il quale poi m'accompagnò alla porta e mi pregò di raccomandarlo se avessi conosciuto chi avrebbe potuto aver bisogno di un quartierino come quello.
- Vede che anche in una circostanza simile ho saputo fare il mio dovere e anche piú, molto di piú!
Alzò per la prima volta la voce in cui echeggiò un risentimento ch'era senza dubbio destinato al povero Copler che gli aveva lasciato libero il quartiere senza il debito preavviso.
Corsi via promettendo tutto quello che voleva.
Da mio suocero trovai che la compagnia s'era messa in quel momento a tavola.
Mi domandarono delle notizie ed io, per non compromettere la gaiezza di quel convitto, dissi che il Copler viveva tuttavia e che c'era dunque ancora qualche speranza.
A me parve che quell'adunanza fosse ben triste.
Forse tale impressione si fece in me alla vista di mio suocero condannato ad una minestrina e ad un bicchiere di latte, mentre attorno a lui tutti si caricavano dei cibi piú prelibati.
Aveva tutto il suo tempo libero, lui, e lo impiegava per guardare in bocca agli altri.
Vedendo che il signor Francesco si dedicava attivamente all'antipasto, mormorò:
- E pensare che ha due anni piú di me!
Poi, quando il signor Francesco giunse al terzo bicchierino di vino bianco, brontolò sottovoce:
- È il terzo! Che gli andasse in tanto fiele!
L'augurio non m'avrebbe disturbato se non avessi mangiato e bevuto anch'io a quel tavolo, e non avessi saputo che la medesima metamorfosi sarebbe stata augurata anche al vino che passava per la mia bocca.
Perciò mi misi a mangiare e a bere di nascosto.
Approfittavo di qualche momento in cui mio suocero ficcava il grosso naso nella tazza del latte o rispondeva a qualche parola che gli era stata rivolta, per inghiottire dei grossi bocconi o per tracannare dei grandi bicchieri di vino.
Alberta, solo per il desiderio di far ridere la gente, avvisò Augusta ch'io bevevo troppo.
Mia moglie, scherzosamente, mi minacciò coll'indice.
Questo non fu male ma fu male perché cosí non valeva piú la pena di mangiare di nascosto.
Giovanni, che fino ad allora non s'era quasi ricordato di me, mi guardò sopra gli occhiali con un'occhiataccia di vero odio.
Disse:
- Io non ho mai abusato di vino o di cibo.
Chi ne abusa non è un vero uomo ma un...
- e ripeté piú volte l'ultima parola che non significava proprio un complimento.
Per l'effetto del vino, quella parola offensiva accompagnata da una risata generale, mi cacciò nell'animo un desiderio veramente irragionevole di vendetta.
Attaccai mio suocero dal suo lato piú debole: la sua malattia.
Gridai che non era un vero uomo non chi abusava dei cibi ma colui che supinamente s'adattava alle prescrizioni del medico.
Io, nel caso suo, sarei stato ben altrimenti indipendente.
Alle nozze di mia figlia - se non altro per affetto - non avrei mica permesso che mi si impedisse di mangiare e di bere.
Giovanni osservò con ira:
- Vorrei vederti nei miei panni!
- E non ti basta di vedermi nei miei? lascio io forse di fumare?
Era la prima volta che mi riusciva di vantarmi della mia debolezza, e accesi subito una sigaretta per illustrare le mie parole.
Tutti ridevano e raccontavano al signor Francesco come la mia vita fosse piena di ultime sigarette.
Ma quella non era l'ultima e mi sentivo forte e combattivo.
Però perdetti subito l'appoggio degli altri quando versai del vino a Giovanni nel suo grande bicchiere d'acqua.
Avevano paura che Giovanni bevesse e urlavano per impedirglielo finché la signora Malfenti non poté afferrare e allontanare quel bicchiere.
- Proprio, vorresti uccidermi? - domandò mitemente Giovanni guardandomi con curiosità.
- Hai il vino cattivo, tu! - Egli non aveva fatto un solo gesto per approfittare del vino che gli avevo offerto.
Mi sentii veramente avvilito e vinto.
Mi sarei quasi gettato ai piedi di mio suocero per chiedergli perdono.
Ma anche quello mi parve un suggerimento del vino e lo respinsi.
Domandando perdono avrei confessata la mia colpa, mentre il banchetto continuava e sarebbe durato abbastanza per offrirmi l'opportunità di riparare a quel primo scherzo tanto mal riuscito.
C'è tempo a tutto a questo mondo.
Non tutti gli ubriachi sono preda immediata di ogni suggerimento del vino.
Quando ho bevuto troppo, io analizzo i miei conati come quando sono sereno e probabilmente con lo stesso risultato.
Continuai ad osservarmi per intendere come fossi arrivato a quel pensiero malvagio di danneggiare mio suocero.
E m'accorsi d'essere stanco, mortalmente stanco.
Se tutti avessero saputo quale giornata io avevo trascorsa, m'avrebbero scusato.
Avevo presa e violentemente abbandonata per ben due volte una donna ed ero ritornato due volte a mia moglie per rinnegare anche lei per due volte.
La mia fortuna fu che allora, per associazione, nel mio ricordo fece capolino quel cadavere su cui invano avevo tentato di piangere, e il pensiero alle due donne sparve; altrimenti avrei finito col parlare di Carla.
Non avevo sempre il desiderio di confessarmi anche quando non ero reso piú magnanimo dall'azione del vino? Finii col parlare del Copler.
Volevo che tutti sapessero che quel giorno avevo perduto il mio grande amico.
Avrebbero scusato il mio contegno.
Gridai che il Copler era morto, veramente morto e che fino ad allora ne avevo taciuto per non rattristarli.
Guarda! Guarda! Ecco che finalmente sentii salirmi le lacrime agli occhi e dovetti volgere altrove lo sguardo per celarle.
Tutti risero perché non mi credettero e allora intervenne l'ostinazione ch'è proprio il carattere piú evidente del vino.
Descrissi il morto:
- Pareva scolpito da Michelangelo, cosí rigido, nella pietra piú incorruttibile.
Ci fu un silenzio generale interrotto da Guido che esclamò:
- E adesso non senti piú il bisogno di non rattristarci?
L'osservazione era giusta.
Avevo mancato ad un proponimento che ricordavo! Non ci sarebbe stato il verso di riparare? Mi misi a ridere sgangheratamente:
- Ve l'ho fatta! È vivo e sta meglio.
Tutti mi guardavano per raccapezzarsi.
- Sta meglio, - soggiunsi seriamente - mi riconobbe e mi sorrise persino.
Tutti mi credettero, ma l'indignazione fu generale.
Giovanni proclamò che se non avesse temuto di farsi del male sottoponendosi ad uno sforzo, m'avrebbe gettato un piatto sulla testa.
Era infatti imperdonabile ch'io avessi turbata la festa con una simile notizia inventata.
Se fosse stata vera non ci sarebbe stata colpa.
Non avrei fatto meglio di dire loro di nuovo la verità? Il Copler era morto, e non appena fossi stato solo, avrei trovate le lacrime pronte per piangerlo, spontanee e abbondanti.
Cercai le parole, ma la signora Malfenti, con quella sua gravità di gran signora m'interruppe:
- Lasciamo stare per ora quel povero malato.
Ci penseremo domani!
Obbedii subito persino col pensiero che si staccò definitivamente dal morto: «Addio! Aspettami! Ritornerò a te subito dopo!».
Era venuta l'ora del brindisi.
Giovanni aveva ottenuta la concessione dal medico di sorbire a quell'ora un bicchiere di champagne.
Gravemente sorvegliò come gli versarono il vino, e rifiutò di portare il bicchiere alle labbra finché non fosse stato colmo.
Dopo di aver fatto un augurio serio e disadorno ad Ada e a Guido, lo vuotò lentamente fino all'ultima goccia.
Guardandomi biecamente mi disse che l'ultimo sorso l'aveva votato proprio alla mia salute.
Per annullare l'augurio, che io sapevo non buono, con ambe le mani sotto la tovaglia feci le corna.
Il ricordo del resto della serata è per me un poco confuso.
So che per iniziativa di Augusta, a quel tavolo, poco dopo si disse un mondo di bene di me citandomi quale un modello di marito.
Mi fu perdonato tutto e persino mio suocero si fece piú gentile.
Soggiunse però che sperava che il marito di Ada si dimostrasse buono come me, ma anche nello stesso tempo un miglior negoziante e soprattutto una persona...
e cercava la parola.
Non la trovò e nessuno intorno a noi la reclamò; neppure il signor Francesco che per avermi visto per la prima volta quella stessa mattina, poco poteva conoscermi.
Dal canto mio non mi offesi.
Come mitiga il proprio animo il sentimento di avere dei grossi torti da riparare! Accettavo con grato animo tutte le insolenze a patto fossero accompagnate da quell'affetto che non meritavo.
E nella mia mente, confusa dalla stanchezza e dal vino, sereno del tutto, accarezzai la mia immagine di buon marito che non diviene meno buono per essere adultero.
Bisognava essere buoni, buoni, buoni, e il resto non importava.
Mandai con la mano un bacio ad Augusta che lo accolse con un sorriso riconoscente.
Poi vi fu a quel tavolo chi volle approfittare della mia ebbrezza per ridere e fui costretto di dire un brindisi.
Avevo finito con l'accettare perché in quel momento mi pareva che sarebbe stata una cosa decisiva di poter fare cosí in pubblico dei buoni propositi.
Non che io dubitassi in quel momento di me, perché mi sentivo proprio quale ero stato descritto, ma sarei divenuto anche migliore quando avessi affermato un proposito dinanzi a tante persone che in certo modo l'avrebbero sottoscritto.
Ed è cosí che nel brindisi parlai solo di me e di Augusta.
Feci per la seconda volta in quei giorni la storia del mio matrimonio.
L'avevo falsificata per Carla tacendo del mio innamoramento per mia moglie; qui la falsificai altrimenti perché non parlai delle due persone tanto importanti nella storia del mio matrimonio, cioè Ada e Alberta.
Raccontai le mie esitazioni di cui non sapevo consolarmi perché m'avevano derubato di tanto tempo di felicità.
Poi, per cavalleria, attribuii anche ad Augusta delle esitazioni.
Ma essa negò ridendo vivacemente.
Ritrovai il filo del discorso con qualche difficoltà.
Raccontai come finalmente fossimo arrivati al viaggio di nozze e come avessimo fatto all'amore in tutti i musei d'Italia.
Ero tanto bene immerso fino al collo nella menzogna che vi cacciai dentro anche quel dettaglio bugiardo che non serviva ad alcuno scopo.
Eppoi si dice che nel vino ci sia la verità.
Augusta m'interruppe una seconda volta per mettere le cose a posto e raccontò come essa avesse dovuto evitare i musei per il pericolo che, per causa mia, correvano i capolavori.
Non s'accorgeva che cosí rivelava non la falsità di quel particolare soltanto! Se ci fosse stato a quel tavolo un osservatore, avrebbe presto fatto a scoprire di quale natura fosse quell'amore ch'io prospettavo in un ambiente ove non aveva potuto svolgersi.
Ripresi il lungo, slavato discorso raccontando l'arrivo in casa nostra e come ambedue ci fossimo messi a perfezionarla facendo questo e quello e fra altro anche una lavanderia.
Sempre ridendo, Augusta m'interruppe di nuovo:
- Questa non è mica una festa data in nostro onore, ma in onore di Ada e Guido! Parla di loro!
Tutti annuirono rumorosamente.
Risi anch'io accorgendomi che per opera mia si era arrivati ad una vera lietezza rumorosa quale è di prammatica in simili occasioni.
Ma non trovai piú nulla da dire.
Mi pareva di aver parlato per ore.
Ingoiai vari altri bicchieri di vino uno dopo l'altro:
- Questo per Ada! - Mi rizzai per un momento per vedere se essa avesse fatte le corna sotto la tovaglia.
- Questo per Guido! - e aggiunsi, dopo aver tracannato il vino:
- Di tutto cuore! - obliando che al primo bicchiere non era stata aggiunta tale dichiarazione.
- Questo per il vostro figliolo maggiore!
E ne avrei bevuti parecchi di quei bicchieri per i loro figliuoli, se non ne fossi stato finalmente impedito.
Per quei poveri innocenti io avrei bevuto tutto il vino che si trovava su quel tavolo.
Poi tutto divenne anche piú oscuro.
Chiaramente ricordo una cosa sola: la mia principale preoccupazione era di non apparire ubriaco.
Mi tenevo eretto e parlavo poco.
Diffidavo di me stesso, sentivo il bisogno di analizzare ogni parola prima di dirla.
Mentre il discorso generale si svolgeva, io dovevo rinunziare a prendervi parte perché non mi si lasciava il tempo di chiarire il mio torbido pensiero.
Volli iniziare un discorso io stesso e dissi a mio suocero:
- Hai sentito che l'Extérieur è caduto di due punti?
Avevo detto una cosa che non mi concerneva affatto e che avevo sentita dire in Borsa; volevo solo parlare di affari, roba seria di cui un ubbriaco di solito non si ricorda.
Ma pare che per mio suocero la cosa fosse meno indifferente e mi diede del corvo dalle male nuove.
Con lui non ne indovinavo una.
Allora mi occupai della mia vicina, Alberta.
Si parlò di amore.
A lei interessava in teoria e a me, per il momento, non interessava affatto in pratica.
Perciò era bello parlarne.
Mi domandò delle idee ed io ne scopersi subito una che mi parve risultare evidente dalla mia esperienza della giornata stessa.
Una donna era un oggetto che variava di prezzo ben piú di qualunque valore di Borsa.
Alberta mi fraintese e credette che io volessi dire una cosa saputa da tutti, cioè che una donna di una certa età aveva tutt'altro valore che ad un'altra.
Mi spiegai piú chiaramente: una donna poteva avere un alto valore ad una certa ora della mattina, nessunissimo a mezzodí, per valere nel pomeriggio il doppio che alla mattina e finire alla sera con un valore addirittura negativo.
Spiegai il concetto di valore negativo: una donna aveva tale valore quando un uomo calcolava quale somma sarebbe pronto di pagare per mandarla molto ma molto lontano da lui.
Tuttavia la povera commediografa non vedeva la giustezza della mia scoperta mentre io, ricordando il movimento di valore che quel giorno stesso avevano subito Carla e Augusta, ne ero sicuro.
Intervenne il vino quando volli spiegarmi meglio e deviai assolutamente:
- Vedi, - le dissi - supponendo che tu ora abbia il valore di X e mi permetta di premere il tuo piedino col mio, tu aumenti immediatamente almeno di un altro X.
Accompagnai subito alle parole l'atto.
Rossa, rossa ella sottrasse il piede e, volendo apparire spiritosa, disse:
- Ma questa è pratica e non piú teoria.
Me ne appellerò ad Augusta.
Devo confessare che anch'io sentivo quel piedino ben altrimenti che un'arida teoria, ma protestai gridando con l'aria piú candida del mondo:
- È pura teoria, purissima, ed è male da parte tua di sentirla altrimenti.
Le fantasie del vino sono veri avvenimenti.
Per lungo tempo io ed Alberta non dimenticammo che io avevo toccato una parte del suo corpo avvisandola che lo facevo per goderne.
La parola aveva rilevato l'atto e l'atto la parola.
Finché essa non si sposò ebbe per me un sorriso e un rossore, poi, invece, rossore ed ira.
Le donne son fatte cosí.
Ogni giorno che sorge porta loro una nuova interpretazione del passato.
Dev'essere una vita poco monotona la loro.
Da me, invece, l'interpretazione di quel mio atto fu sempre la stessa: il furto di piccolo oggetto dal sapore intenso e fu colpa di Alberta se in certa epoca cercai di far ricordare quell'atto mentre invece piú tardi avrei pagato qualche cosa perché fosse dimenticato del tutto.
Ricordo anche che prima di lasciare quella casa avvenne un'altra cosa e ben piú grave.
Restai, per un istante, solo con Ada.
Giovanni si era coricato da tempo e gli altri prendevano congedo dal signor Francesco che andava all'albergo accompagnato da Guido.
Io guardai Ada lungamente vestita tutta di pizzi bianchi, le spalle e le braccia nude.
Restai lungamente muto benché sentissi il bisogno di dirle qualche cosa; ma, dopo analizzata, sopprimevo qualunque frase che mi venisse alle labbra.
Ricordo che analizzai anche se mi fosse stato permesso di dirle: «Come mi fa piacere che finalmente ti sposi e sposi il mio grande amico Guido.
Ora appena sarà tutto finito fra di noi.
» Volevo dire una bugia perché tutti sapevano che fra di noi tutto era finito da varii mesi, ma mi pareva che quella bugia fosse un bellissimo complimento ed è certo che una donna, vestita cosí, domanda complimenti e se ne compiace.
Però dopo lunga riflessione non ne feci nulla.
Soppressi quelle parole perché nel mare di vino in cui nuotavo, trovai una tavola che mi salvò.
Pensai che avevo torto di rischiare l'affetto di Augusta per fare un piacere ad Ada che non mi voleva bene.
Ma, nel dubbio che per qualche istante mi turbò la mente, eppoi anche quando con uno sforzo da quelle parole mi staccai, diedi ad Ada una tale occhiata ch'essa si alzò e uscí dopo di essersi voltata a sorvegliarmi con spavento, pronta forse di mettersi a correre.
Anche una propria occhiata si ricorda quanto e forse meglio di una parola; è piú importante di una parola perché non v'è in tutto il vocabolario una parola che sappia spogliare una donna.
Io so ora che quella mia occhiata falsò le parole che avevo ideate, semplificandole.
Essa per gli occhi di Ada, aveva tentato di penetrare al di là dei vestiti e anche della sua epidermide.
E aveva certamente significato: «Vuoi venire intanto subito a letto con me?».
Il vino è un grande pericolo specie perché non porta a galla la verità.
Tutt'altro che la verità anzi: rivela dell'individuo specialmente la storia passata e dimenticata e non la sua attuale volontà; getta capricciosamente alla luce anche tutte le ideuccie con le quali in epoca piú o meno recente ci si baloccò e che si è dimenticate; trascura le cancellature e legge tutto quello ch'è ancora percettibile nel nostro cuore.
E si sa che non v'è modo di cancellarvi niente tanto radicalmente, come si fa di un giro errato su di una cambiale.
Tutta la nostra storia vi è sempre leggibile e il vino la grida, trascurando quello che poi la vita vi aggiunse.
Per andare a casa, Augusta ed io prendemmo una vettura.
Nell'oscurità mi parve fosse mio dovere di baciare e abbracciare mia moglie perché in simili incontri molte volte avevo usato cosí e temevo che, se non l'avessi fatto, essa avrebbe potuto pensare che fra di noi ci fosse qualche cosa di mutato.
Non v'era nulla di cambiato fra di noi: il vino gridava anche questo! Ella aveva sposato Zeno Cosini che, immutato, le stava accanto.
Che cosa importava se quel giorno io avevo possedute delle altre donne di cui il vino, per rendermi piú lieto, aumentava il numero ponendo fra di esse non so piú se Ada o Alberta?
Ricordo che, addormentandomi, rividi per un istante la faccia marmorea del Copler sul letto di morte.
Pareva domandasse giustizia, cioè le lacrime ch'io gli avevo promesse.
Ma non le ebbe neppure allora perché il sonno mi abbracciò annientandomi.
Prima però mi scusai col fantasma: «Aspetta ancora per poco.
Sono subito con te!».
Con lui non fui piú, giammai, perché non assistetti neppure al suo funerale.
Avevamo tanto da fare in casa ed io anche fuori, che non ci fu tempo per lui.
Se ne parlò talvolta, ma solo per ridere ricordando che il mio vino l'aveva tante volte ammazzato e fatto risuscitare.
Anzi egli restò proverbiale in famiglia e quando i giornali, come avviene spesso, annunziano e smentiscono la morte di qualcuno, noi diciamo: «Come il povero Copler».
La mattina dopo mi levai con un po' di male di testa.
Mi affannò un poco il mio dolore al fianco, probabilmente perché, finché era durato l'effetto del vino, non lo avevo sentito affatto e subito ne avevo perduta l'abitudine.
Ma in fondo non ero triste.
Augusta contribuí alla mia serenità dicendomi che sarebbe stato male se io non fossi andato a quella cena di nozze, perché prima del mio arrivo le era sembrato di assistere ad un mortorio.
Non avevo dunque da aver rimorso del mio contegno.
Poi sentii che una cosa sola non mi era stata perdonata: l'occhiataccia ad Ada!
Quando c'incontrammo nel pomeriggio, Ada mi porse la mano con un'ansietà che aumentò la mia.
Forse però le pesava sulla coscienza quella sua fuga ch'era stata tutt'altro che gentile.
Ma anche la mia occhiata era stata una gran brutta azione.
Ricordavo esattamente il movimento del mio occhio e capivo come non sapesse dimenticare chi ne era stato trafitto.
Bisognava riparare con un contegno accuratamente fraterno.
Si dice che quando si soffre per aver bevuto troppo, non ci sia miglior cura che di berne dell'altro.
Io, quella mattina, andai a rianimarmi da Carla.
Andai da lei proprio col desiderio di vivere piú intensamente ed è quello che riconduce all'alcool, ma camminando verso di lei, avrei desiderato ch'essa m'avesse fornita tutt'altra intensità di vita del giorno prima.
Mi accompagnavano dei propositi poco precisi ma tutti onesti.
Sapevo di non poter abbandonarla subito, ma potevo avviarmi a quell'atto tanto morale pian pianino.
Intanto avrei continuato a parlarle di mia moglie.
Senza sorprendersene, un bel giorno essa avrebbe saputo com'io amassi mia moglie.
Avevo nella mia giubba un'altra busta con del denaro per essere pronto ad ogni evenienza.
Arrivai da Carla, e un quarto d'ora dopo essa mi rimproverò con una parola che per la sua giustezza lungamente mi risonò all'orecchio: «Come sei rude, tu, in amore!».
Non sono conscio di essere stato rude proprio allora.
Avevo cominciato a parlarle di mia moglie, e le lodi tributate ad Augusta erano risonate all'orecchio di Carla come tanti rimproveri rivolti a lei.
Poi fu Carla che mi ferí.
Per passare il tempo, le avevo raccontato come mi fossi seccato al banchetto, specie per un brindisi che avevo detto e ch'era stato assolutamente spropositato.
Carla osservò:
- Se tu amassi tua moglie non sbaglieresti i brindisi al tavolo di suo padre.
E mi diede anche un bacio per rimeritarmi del poco amore che portavo a mia moglie.
Intanto lo stesso desiderio d'intensificare la mia vita, che m'aveva tratto da Carla, m'avrebbe riportato subito da Augusta, ch'era la sola con cui avrei potuto parlare del mio amore per lei.
Il vino preso come cura era già di troppo o volevo oramai tutt'altro vino.
Ma quel giorno la mia relazione con Carla doveva ingentilirsi, coronarsi finalmente di quella simpatia che - come seppi piú tardi - la povera giovinetta meritava.
Essa piú volte m'aveva offerto di cantarmi una canzonetta, desiderosa di avere il mio giudizio.
Ma io non avevo voluto saperne di quel canto di cui non m'importava nemmeno piú l'ingenuità.
Le dicevo che giacché essa rifiutava di studiare, non valeva la pena di cantare piú.
La mia era proprio una grave offesa ed essa ne sofferse.
Seduta accanto a me, per non farmi vedere le sue lacrime essa guardava immota le mani che teneva intrecciate in grembo.
Ripeté il suo rimprovero:
- Come devi essere rude con chi non ami, se lo sei tanto con me!
Buon diavolo come sono, mi lasciai intenerire da quelle lacrime e pregai Carla di squarciarmi le orecchie con la sua grande voce nel piccolo ambiente.
Essa ora se ne schermiva e dovetti persino minacciare di andarmene se non fossi stato compiaciuto.
Devo riconoscere che mi sembrò per un istante anche di aver trovato un pretesto per riconquistare almeno temporaneamente la mia libertà, ma, alla minaccia, la mia umile serva si recò con gli occhi bassi a sedere al pianoforte.
Dedicò poi un istante breve breve al raccoglimento e si passò la mano sul viso quasi a scacciarne ogni nube.
Vi riuscí con una prontezza che mi sorprese e la sua faccia, quando fu scoperta da quella mano, non ricordava affatto il dolore di prima.
Ebbi subito una grande sorpresa.
Carla diceva la sua canzonetta, la raccontava, non la gridava.
Le grida - come essa poi mi disse - le erano state imposte dal suo maestro; ora le aveva congedate insieme a lui.
La canzonetta triestina:
Fazzo l'amor xe vero
Cossa ghe xe de mal
Volè che a sedes'ani
Stio là come un cocal...
è una specie di racconto o di confessione.
Gli occhi di Carla brillavano di malizia e confessavano anche piú delle parole.
Non c'era paura di sentirsi leso il timpano ed io m'avvicinai a lei, sorpreso e incantato.
Sedetti accanto a lei ed essa allora raccontò la canzonetta proprio a me, socchiudendo gli occhi per dirmi con la nota piú lieve e piú pura che quei sedici anni volevano la libertà e l'amore.
Per la prima volta vidi esattamente la faccina di Carla: un ovale purissimo interrotto dalla profonda e arcuata incavatura degli occhi e degli zigomi tenui, reso anche piú puro da un biancore niveo, ora ch'essa teneva la faccia rivolta a me e alla luce, e perciò non offuscata da alcun'ombra.
E quelle linee dolci in quella carne che pareva trasparente, e celava tanto bene il sangue e le vene forse troppo deboli per poter apparire, domandavano affetto e protezione.
Ora ero pronto di accordarle tanto affetto e protezione, incondizionatamente, ed anche nel momento in cui mi sarei sentito tanto disposto di ritornare ad Augusta, perché essa in quel momento non domandava che un affetto paterno che potevo concedere senza tradire.
Quale soddisfazione! Restavo là con Carla, le accordavo quello che la sua faccina ovale domandava e non mi allontanavo da Augusta! Il mio affetto per Carla si ingentilí.
Da allora, quando sentivo il bisogno di onestà e purezza, non occorse piú abbandonarla, ma potei restare con lei e cambiare discorso.
Questa nuova dolcezza era dovuta alla sua faccina ovale ch'io allora avevo scoperto o al suo talento musicale? Innegabile il talento! La strana canzonetta triestina finisce con una strofe in cui la stessa giovinetta proclama di essere vecchia e malandata e che oramai non ha piú bisogno di altra libertà che di morire.
Carla continuava a profondere malizia e lietezza nel verso povero.
Era tuttavia la giovinezza che si fingeva vecchia per proclamare meglio da quel nuovo punto di vista il suo diritto.
Quando terminò e mi trovò in piena ammirazione, anch'essa per la prima volta oltre che amarmi mi volle veramente bene.
Sapeva che a me quella canzonetta sarebbe piaciuta di piú del canto che le insegnava il suo maestro:
- Peccato - aggiunse con tristezza, - che se non si vuole andare pei cafés chantants, non si possa trarre da ciò il necessario per vivere.
La convinsi facilmente che le cose non stavano cosí.
V'erano a questo mondo molte grandi artiste che dicevano e non cantavano.
Essa si fece dire dei nomi.
Era beata di apprendere quanto importante avrebbe potuto divenire la sua arte.
- Io so - aggiunse ingenuamente, - che questo canto è ben piú difficile dell'altro per il quale basta gridare a perdifiato.
Io sorrisi e non discussi.
La sua arte era anch'essa certamente difficile ed essa lo sapeva perché era quella la sola arte che conoscesse.
Quella canzonetta le era costata uno studio lunghissimo.
L'aveva detta e ridetta correggendo l'intonazione di ogni parola, di ogni nota.
Adesso ne studiava un'altra, ma l'avrebbe saputa soltanto di lí a qualche settimana.
Prima non voleva farla sentire.
Seguirono dei momenti deliziosi in quella stanza ove fino ad allora non s'erano svolte che delle scene di brutalità.
Ecco che a Carla s'apriva anche una carriera.
La carriera che m'avrebbe liberato di lei.
Molto simile a quella che per lei aveva sognato il Copler! Le proposi di trovarle un maestro.
Essa dapprima si spaventò della parola, ma poi si lasciò convincere facilmente quando le dichiarai che si poteva provare, e ch'essa sarebbe rimasta libera di congedarlo quando le fosse sembrato noioso o poco utile.
Anche con Augusta mi trovai quel giorno molto bene.
Avevo l'animo tranquillo come se fossi ritornato da una passeggiata e non dalla casa di Carla o come avrebbe dovuto averlo il povero Copler quando abbandonava quella casa nei giorni in cui non gli avevano dato motivo ad arrabbiarsi.
Ne godetti come se fossi giunto a un'oasi.
Per me e per la mia salute sarebbe stato gravissimo se tutta la mia lunga relazione con Carla si fosse svolta in un'eterna agitazione.
Da quel giorno, come risultato della bellezza estetica, le cose si svolsero piú calme con le lievi interruzioni necessarie a rianimare tanto il mio amore per Carla, quanto quello per Augusta.
Ogni mia visita a Carla significava bensí un tradimento per Augusta, ma tutto era presto dimenticato in un bagno di salute e di buoni propositi.
Ed il buon proposito non era brutale ed eccitante come quando avevo nella strozza il desiderio di dichiarare a Carla che non l'avrei rivista mai piú.
Ero dolce e paterno: ecco che di nuovo io pensavo alla sua carriera.
Abbandonare ogni giorno una donna per correrle dietro il giorno appresso, sarebbe stata una fatica a cui il mio povero cuore non avrebbe saputo reggere.
Cosí, invece, Carla restava sempre in mio potere ed io l'avviavo ora in una direzione ed ora in un'altra.
Per lungo tempo i propositi buoni non furono tanto forti da indurmi a correre per la città in cerca del maestro che avrebbe fatto per Carla.
Mi baloccavo col proposito buono, restando sempre seduto.
Poi un bel giorno Augusta mi confidò che si sentiva madre ed allora il mio proposito per un istante ingigantí e Carla ebbe il suo maestro.
Avevo esitato tanto anche perché era evidente che, anche senza maestro, Carla aveva saputo avviarsi ad un lavoro veramente serio nella sua nuova arte.
Ogni settimana essa sapeva dirmi una canzonetta nuova, analizzata accuratamente nell'atteggiamento e nella parola.
Certe note avrebbero abbisognato di essere levigate un poco, ma forse avrebbero finito con l'affinarsi da sé.
Una prova decisiva che Carla era una vera artista, io l'avevo nel modo com'essa perfezionava continuamente le sue canzonette senza mai rinunziare alle cose migliori ch'essa aveva saputo far sue di prim'acchito.
La indussi spesso a ridirmi il suo primo lavoro e vi trovavo aggiunto ogni volta qualche accento nuovo ed efficace.
Data la sua ignoranza, era meraviglioso che nel grande sforzo di scoprire una forte espressione, non le fosse mai capitato di cacciare nella canzonetta dei suoni falsi o esagerati.
Da vera artista, essa aggiungeva ogni giorno una pietruccia al piccolo edificio, e tutto il resto restava intatto.
Non la canzonetta era stereotipata, ma il sentimento che la dettava.
Carla, prima di cantare, si passava sempre la mano sulla faccia e dietro quella mano si creava un istante di raccoglimento che bastava a piombarla nella commediola ch'essa doveva costruire.
Una commedia non sempre puerile.
Il mentore ironico di Rosina te xe nata in un casoto minacciava, ma non troppo seriamente.
Pareva che la cantante avvertisse di sapere ch'era la storia di ogni giorno.
Il pensiero di Carla era un altro, ma finiva con l'arrivare allo stesso risultato:
- La mia simpatia è per Rosina perché altrimenti la canzonetta non meriterebbe di essere cantata, - essa diceva.
Avvenne qualche volta che Carla inconsapevolmente riaccendesse il mio amore per Augusta e il mio rimorso.
Infatti ciò si avverò ogni qualvolta ella si permise dei movimenti offensivi contro la posizione tanto solidamente occupata da mia moglie.
Era sempre vivo il suo desiderio di avermi tutto suo per una notte intera; mi confidò che le pareva che, per non avere mai dormito uno accanto all'altro, fossimo meno intimi.
Volendo abituarmi ad essere piú dolce con lei, non mi rifiutai risolutamente di compiacerla, ma quasi sempre pensai che non sarebbe stato possibile di fare una cosa simile a meno che non mi fossi rassegnato di trovare alla mattina Augusta ad una finestra donde m'avesse aspettato la notte intera.
Eppoi, non sarebbe stato questo un nuovo tradimento a mia moglie? Talvolta, cioè quando correvo a Carla pieno di desiderio, mi sentivo propenso di accontentarla, ma subito dopo ne vedevo l'impossibilità e la sconvenienza.
Ma cosí non si arrivò per lungo tempo né ad eliminare la prospettiva della cosa né a realizzarla.
Apparentemente si era d'accordo: prima o poi avremmo passata una notte intera insieme.
Intanto ora ce n'era la possibilità perché io avevo indotto le Gerco di congedare quegl'inquilini che tagliavano la loro casa in due parti, e Carla aveva finalmente la sua camera da letto.
Ora avvenne che poco dopo le nozze di Guido, mio suocero fu colto da quella crisi che doveva ucciderlo ed io ebbi l'imprudenza di raccontare a Carla che mia moglie doveva passare una notte al capezzale di suo padre per concedere un riposo a mia suocera.
Non ci fu piú il caso di esimermi: Carla pretese che passassi con lei quella stessa notte ch'era tanto dolorosa per mia moglie.
Non ebbi il coraggio di ribellarmi a tale capriccio e mi vi acconciai col cuore pesante.
Mi preparai a quel sacrificio.
Non andai da Carla alla mattina e cosí corsi da lei alla sera con pieno desiderio dicendomi anche ch'era infantile di credere di tradire piú gravemente Augusta perché la tradivo in un momento in cui essa per altre cause soffriva.
Perciò arrivai persino a spazientirmi perché la povera Augusta mi tratteneva per spiegarmi come avessi dovuto movermi per avere pronte le cose di cui potevo aver bisogno a cena, per la notte ed anche per il caffè della mattina dopo.
Carla m'accolse nello studio.
Poco dopo colei ch'era sua madre e serva ci serví una cenetta squisita a cui io aggiunsi i dolci che avevo portati con me.
La vecchia ritornò poi per sparecchiare ed io veramente avrei voluto coricarmi subito, ma era veramente ancora troppo di buon'ora e Carla m'indusse di starla a sentir cantare.
Essa passò tutto il suo repertorio e fu quella certamente la parte migliore di quelle ore, perché l'ansietà con cui aspettavo la mia amante, andava ad aumentare il piacere che sempre m'aveva data la canzonetta di Carla.
- Un pubblico ti coprirebbe di fiori e d'applausi - le dichiarai ad un certo momento dimenticando che sarebbe stato impossibile di mettere tutto un pubblico nello stato d'animo in cui mi trovavo io.
Ci coricammo infine nello stesso letto in una stanzuccia piccola e del tutto disadorna.
Pareva un corridoio stroncato da una parete.
Non avevo ancora sonno e mi disperavo al pensiero che, se ne avessi avuto, non avrei potuto dormire con tanta poca aria a mia disposizione.
Carla fu chiamata dalla voce timida di sua madre.
Essa, per rispondere, andò all'uscio e lo socchiuse.
La sentii come con voce concitata domandava alla vecchia che cosa volesse.
Timidamente l'altra disse delle parole di cui non percepii il senso e allora Carla urlò prima di sbattere l'uscio in faccia alla madre:
- Lasciami in pace.
T'ho già detto che per questa notte dormo di qua!
Cosí appresi che Carla, tormentata di notte dalla paura, dormiva sempre nella sua antica stanza da letto con la madre, ove aveva un altro letto, mentre quello sul quale dovevamo dormire insieme restava vuoto.
Era certamente per paura ch'essa m'aveva indotto di fare quella partaccia ad Augusta.
Confessò con una maliziosa allegria cui non partecipai, che con me si sentiva piú sicura che con sua madre.
Mi diede da pensare quel letto in prossimità di quella stanza da studio solitaria.
Non l'avevo mai visto prima.
Ero geloso! Poco dopo fui sprezzante anche per il contegno che Carla aveva avuto con quella sua povera madre.
Era fatta un po' differentemente di Augusta che aveva rinunziato alla mia compagnia pur di assistere i suoi genitori.
Io sono specialmente sensibile a mancanze di riguardo verso i proprii genitori, io, che avevo sopportato con tanta rassegnazione le bizze del mio povero padre.
Carla non poté accorgersi né della mia gelosia né del mio disprezzo.
Soppressi le manifestazioni di gelosia ricordando come non avessi alcun diritto ad essere geloso visto che passavo buona parte delle mie giornate augurandomi che qualcuno mi portasse via la mia amante.
Non v'era neppure alcuno scopo di far vedere il mio disprezzo alla povera giovinetta ormai che già mi baloccavo di nuovo col desiderio di abbandonarla definitivamente, e quantunque il mio sdegno fosse ora ingrandito anche dalle ragioni che poco prima avrebbero provocata la mia gelosia.
Quello che occorreva era di allontanarsi al piú presto da quella piccola stanzuccia non contenente di piú di un metro cubo di aria, per soprappiú caldissima.
Non ricordo neppure bene il pretesto che addussi per allontanarmi subito.
Affannosamente mi misi a vestirmi.
Parlai di una chiave che avevo dimenticato di consegnare a mia moglie per cui essa, se le fosse occorso, non avrebbe potuto entrare in casa.
Feci vedere la chiave che non era altra che quella che io avevo sempre in tasca, ma che fu presentata come la prova tangibile della verità delle mie asserzioni.
Carla non tentò neppure di fermarmi; si vestí e m'accompagnò fin giú per farmi luce.
Nell'oscurità delle scale, mi parve ch'essa mi squadrasse con un'occhiata inquisitrice che mi turbò: cominciava essa a intendermi? Non era tanto facile, visto ch'io sapevo simulare troppo bene.
Per ringraziarla perché mi lasciava andare, continuavo di tempo in tempo ad applicare la mie labbra sulle sue guancie e simulavo di essere pervaso tuttavia dallo stesso entusiasmo che m'aveva condotto da lei.
Non ebbi poi ad avere alcun dubbio della buona riuscita della mia simulazione.
Poco prima, con un'ispirazione d'amore, Carla m'aveva detto che il brutto nome di Zeno, che m'era stato appioppato dai miei genitori, non era certamente quello che spettava alla mia persona.
Essa avrebbe voluto ch'io mi chiamassi Dario e lí, nell'oscurità, si congedò da me appellandomi cosí.
Poi s'accorse che il tempo era minaccioso e m'offerse di andar a prendere per me un ombrello.
Ma io assolutamente non potevo sopportarla piú oltre, e corsi via tenendo sempre quella chiave in mano nella cui autenticità cominciavo a credere anch'io.
L'oscurità profonda della notte veniva interrotta di tratto in tratto da bagliori abbacinanti.
Il mugolio del tuono pareva lontanissimo.
L'aria era ancora tranquilla e soffocante quanto nella stessa stanzetta di Carla.
Anche i radi goccioloni che cadevano erano tiepidi.
In alto, evidente, c'era la minaccia ed io mi misi a correre.
Ebbi la ventura di trovare in Corsia Stadion un portone ancora aperto e illuminato in cui mi rifugiai proprio a tempo! Subito dopo il nembo s'abbatté sulla via.
Lo scroscio di pioggia fu interrotto da una ventata furiosa che parve portasse con sé anche il tuono tutt'ad un tratto vicinissimo.
Trasalii! Sarebbe stato un vero compromettermi se fossi stato ammazzato dal fulmine, a quell'ora, in Corsia Stadion! Meno male ch'ero noto anche a mia moglie come un uomo dai gusti bizzarri che poteva correre fin là di notte e allora c'è sempre la scusa a tutto.
Dovetti rimanere in quel portone per piú di un'ora.
Pareva sempre che il tempo volesse mitigarsi, ma subito riprendeva il suo furore sempre in altra forma.
Ora grandinava.
Era venuto a tenermi compagnia il portinaio della casa e dovetti regalargli qualche soldo perché ritardasse la chiusura del portone.
Poi entrò nel portone un signore vestito di bianco e grondante d'acqua.
Era vecchio, magro e secco.
Non lo rividi mai piú, ma non so dimenticarlo per la luce del suo occhio nero e per l'energia ch'emanava da tutta la sua personcina.
Bestemmiava per essere stato infradiciato a quel modo.
A me è sempre piaciuto d'intrattenermi con la gente che non conosco.
Con loro mi sento sano e sicuro.
È addirittura un riposo.
Devo stare attento di non zoppicare, e sono salvo.
Quando finalmente il tempo si mitigò, io mi recai subito non a casa mia, ma da mio suocero.
Mi pareva in quel momento di dover correre subito all'appello e vantarmi di esservi.
Mio suocero s'era addormentato e Augusta, ch'era aiutata da una suora, poté venire da me.
Essa disse che avevo fatto bene di venire e si gettò piangente fra le mie braccia.
Aveva visto soffrire suo padre orrendamente.
S'accorse ch'ero tutto bagnato.
Mi fece adagiare in una poltrona e mi coperse con delle coperte.
Poi per qualche tempo poté restarmi accanto.
Io ero molto stanco e anche nel breve tempo in cui essa poté restare con me, lottai col sonno.
Mi sentivo molto innocente perché intanto non l'avevo tradita restando lontano dal domicilio coniugale per tutta una notte.
Era tanto bella l'innocenza che tentai di aumentarla.
Incominciai a dire delle parole che somigliavano ad una confessione.
Le dissi che mi sentivo debole e colpevole e, visto che a questo punto essa mi guardò domandando delle spiegazioni, subito ritirai la testa nel guscio e, gettandomi nella filosofia, le raccontai che il sentimento della colpa io l'avevo ad ogni mio pensiero, ad ogni mio respiro.
- Cosí pensano anche i religiosi, - disse Augusta; - chissà che non sia per le colpe che ignoriamo che veniamo puniti cosí!
Diceva delle parole adatte ad accompagnare le sue lacrime che continuavano a scorrere.
A me parve ch'essa non avesse ben compresa la differenza che correva fra il mio pensiero e quello dei religiosi, ma non volli discutere e al suono monotono del vento che s'era rinforzato, con la tranquillità che mi dava anche quel mio slancio alla confessione, m'addormentai di un lungo sonno ristoratore.
Quando venne la volta del maestro di canto, tutto fu regolato in poche ore.
Io da tempo l'avevo scelto, e, per dire il vero, m'ero arrestato al suo nome, prima di tutto perché era il maestro piú a buon mercato di Trieste.
Per non compromettermi, fu Carla stessa che andò a parlare con lui.
Io non lo vidi mai, ma devo dire che oramai so molto di lui ed è una delle persone che piú stimo a questo mondo.
Dev'essere un semplicione sano ciò che è strano per un artista che viveva per la sua arte, come questo Vittorio Lali.
Insomma un uomo invidiabile, perché geniale e anche sano.
Intanto sentii subito che la voce di Carla s'ammorbidí e divenne piú flessibile e piú sicura.
Noi avevamo avuto paura che il maestro le avesse imposto uno sforzo come aveva fatto quello scelto dal Copler.
Forse egli s'adattò al desiderio di Carla, ma sta di fatto che restò sempre nel genere da lei prediletto.
Solo molti mesi dopo essa s'accorse di essersene lievemente allontanata, affinandosi.
Non cantava piú le canzonette triestine e poi neppure le napoletane, ma era passata ad antiche canzoni italiane e a Mozart e Schubert.
Ricordo specialmente una «Ninna nanna» attribuita al Mozart, e nei giorni in cui sento meglio la tristezza della vita e rimpiango l'acerba fanciulla che fu mia e che io non amai, la «Ninna nanna» mi echeggia all'orecchio come un rimprovero.
Rivedo allora Carla travestita da madre che trae dal suo seno i suoni piú dolci per conquistare il sonno al suo bambino.
Eppure essa, ch'era stata un'amante indimenticabile, non poteva essere una buona madre, dato ch'era una cattiva figlia.
Ma si vede che saper cantare da madre è una caratteristica che copre ogni altra.
Da Carla seppi la storia del suo maestro.
Egli aveva fatto qualche anno di studii al Conservatorio di Vienna ed era poi venuto a Trieste ove aveva avuto la fortuna di lavorare per il nostro maggiore compositore colpito da cecità.
Scriveva le sue composizioni sotto dettatura, ma ne aveva anche la fiducia, che i ciechi devono concedere intera.
Cosí ne conobbe i propositi, le convinzioni tanto mature e i sogni sempre giovanili.
Presto egli ebbe nell'anima tutta la musica, anche quella che occorreva a Carla.
Mi fu descritto anche il suo aspetto; giovine, biondo, piuttosto robusto, dal vestire negletto, una camicia molle non sempre di bucato, una cravatta che doveva essere stata nera, abbondante e sciolta, un cappello a cencio dalle falde spropositate.
Di poche parole - a quanto mi diceva Carla e devo crederle perché pochi mesi appresso con lei si fece ciarliero ed essa me lo disse subito, - e tutt'intento al compito che s'era assunto.
Ben presto la mia giornata subí delle complicazioni.
Alla mattina portavo da Carla oltre che amore anche un'amara gelosia, che diveniva molto meno amara nel corso della giornata.
Mi pareva impossibile che quel giovinotto non approfittasse della buona, facile preda.
Carla pareva stupita ch'io potessi pensare una cosa simile, ma io lo ero altrettanto al vederla stupita.
Non ricordava piú come le cose si erano svolte fra me e lei?
Un giorno arrivai a lei furibondo di gelosia ed essa spaventata si dichiarò subito pronta di congedare il maestro.
Io non credo che il suo spavento fosse prodotto solo dalla paura di vedersi privata del mio appoggio, perché in quell'epoca io ebbi da lei delle manifestazioni di affetto di cui non posso dubitare e che alle volte mi resero beato, mentre, quando mi trovavo in altro stato d'animo, mi seccarono sembrandomi atti ostili ad Augusta ai quali, e per quanto mi costasse, ero obbligato d'associarmi.
La sua proposta m'imbarazzò.
Che mi trovassi nel momento dell'amore o del pentimento, io non volevo accettare un suo sacrificio.
Doveva pur esserci qualche comunicazione fra' miei due stati d'essere ed io non volevo diminuire la mia già scarsa libertà di passare dall'uno all'altro.
Perciò non sapevo accettare una tale proposta che invece mi rese piú cauto cosí che anche quando ero esasperato dalla gelosia, seppi celarla.
Il mio amore si fece piú iroso e finí che quando la desideravo e anche quando non la desideravo affatto, Carla mi sembrò un essere inferiore.
Mi tradiva o di lei non m'importava nulla.
Quando non l'odiavo non ricordavo che ci fosse.
Io appartenevo all'ambiente di salute e di onestà in cui regnava Augusta a cui ritornavo subito col corpo e l'anima non appena Carla mi lasciava libero.
Data l'assoluta sincerità di Carla, io so esattamente per quanto lunghissimo tempo essa fu tutta mia, e la mia gelosia ricorrente di allora non può essere considerata che quale una manifestazione di un recondito senso di giustizia.
Doveva pur toccarmi quello che meritavo.
Prima s'innamorò il maestro.
Credo il primo sintomo del suo amore sia consistito in certe parole che Carla mi riferí con aria di trionfo ritenendo segnassero il primo suo grande successo artistico pel quale le competesse una mia lode.
Egli le avrebbe detto che oramai s'era tanto affezionato al suo compito di maestro che, se essa non avesse potuto pagarlo, egli avrebbe continuato ad impartirle gratuitamente le sue lezioni.
Io le avrei dato uno schiaffo, ma venne poi il momento in cui potei pretendere di saper gioire di quel suo vero trionfo.
Essa poi dimenticò il crampo che alla prima aveva colto tutta la mia faccia come di chi ficca i denti in un limone e accettò serena la lode tardiva.
Egli le aveva raccontati tutti gli affari proprii che non erano molti: musica, miseria e famiglia.
La sorella gli aveva dati dei grandi dispiaceri ed egli aveva saputo comunicare a Carla una grande antipatia per quella donna ch'essa non conosceva.
Quell'antipatia mi parve molto compromettente.
Cantavano ora insieme delle canzoni sue che mi parvero povera cosa tanto quando amavo Carla quanto allorché la sentivo come una catena.
Può tuttavia essere che fossero buone ad onta che io poi non ne abbia piú sentito parlare.
Egli diresse poi delle orchestre negli Stati Uniti e forse colà si cantano anche quelle canzoni.
Ma un bel giorno essa mi raccontò ch'egli le aveva chiesto di diventare sua moglie e ch'essa aveva rifiutato.
Allora io passai due quarti d'ora veramente brutti: il primo quando mi sentii tanto invaso dall'ira che avrei voluto aspettare il maestro per gettarlo fuori a furia di calci, ed il secondo quando non trovai il verso per conciliare la possibilità della continuazione della mia tresca, con quel matrimonio ch'era in fondo una bella e morale cosa e una ben piú sicura semplificazione della mia posizione che non la carriera di Carla ch'essa immaginava d'iniziare in mia compagnia.
Perché quel benedetto maestro s'era scaldato a quel modo e tanto presto? Oramai, in un anno di relazione, tutto s'era attenuato fra me e Carla, anche il cipiglio mio quando l'abbandonavo.
I rimorsi miei erano oramai sopportabilissimi e quantunque Carla avesse ancora ragione di dirmi rude in amore, pareva ch'essa ci si fosse abituata.
Ciò doveva esserle riuscito anche facile, perché io non fui mai piú tanto brutale come nei primi giorni della nostra relazione e, sopportato quel primo eccesso, il resto dovette esserle sembrato in confronto mitissimo.
Perciò anche quando di Carla non m'importava piú tanto, mi fu sempre facile prevedere che il giorno appresso io non sarei stato contento di venir a cercare la mia amante e di non trovarla piú.
Certo sarebbe stato bellissimo allora di saper ritornare ad Augusta senza il solito intermezzo con Carla ed in quel momento io me ne sentivo capacissimo; ma prima avrei voluto provare.
Il mio proposito in quel momento dev'essere stato circa il seguente: «Domani la pregherò di accettare la proposta del maestro, ma oggi gliel'impedirò».
E con grande sforzo continuai a comportarmi da amante.
Adesso, dicendone, dopo di aver registrate tutte le fasi della mia avventura, potrebbe sembrare ch'io facessi il tentativo di far sposare da altri la mia amante e di conservarla mia, ciò che sarebbe stata la politica di un uomo piú avveduto di me e piú equilibrato, sebbene altrettanto corrotto.
Ma non è vero: essa doveva sposare il maestro, ma doveva decidervisi solo la dimane.
È perciò che solo allora cessò quel mio stato ch'io m'ostino a qualificare d'innocenza.
Non era piú possibile adorare Carla per un breve periodo della giornata eppoi odiarla per ventiquattr'ore continue, e levarsi ogni mattina ignorante come un neonato a rivivere la giornata, tanto simile alle precedenti, per sorprendersi delle avventure ch'essa apportava e che avrei dovuto sapere a mente.
Ciò non era piú possibile.
Mi si prospettava l'eventualità di perdere per sempre la mia amante se non avessi saputo domare il mio desiderio di liberarmene.
Io subito lo domai!
Ed è cosí che quel giorno, quando di lei non m'importò piú, feci a Carla una scena d'amore che per la sua falsità e la sua furia somigliava a quella che, preso dal vino, avevo fatto ad Augusta quella notte in vettura.
Solo che qui mancava il vino ed io finii col commovermi veramente al suono delle mie parole.
Le dichiarai ch'io l'amavo, che non sapevo piú restare senza di lei e che d'altronde mi pareva di esigere da lei il sacrificio della sua vita, visto che io non potevo offrirle niente che potesse eguagliare quanto le veniva offerto dal Lali.
Fu proprio una nota nuova nella nostra relazione che pur aveva avuto tante ore di grande amore.
Essa stava a sentire le mie parole beandovisi.
Molto tardi si accinse a convincermi che non era il caso di affliggersi tanto perché il Lali s'era innamorato.
Essa non ci pensava affatto!
Io la ringraziai, sempre col medesimo fervore che ora però non arrivava piú a commovermi.
Sentivo un certo peso allo stomaco: evidentemente ero piú compromesso che mai.
Il mio apparente fervore invece che diminuire aumentò, solo per permettermi di dire qualche parola d'ammirazione pel povero Lali.
Io non volevo mica perderlo, io volevo salvarlo, ma per il giorno dopo.
Quando si trattò di risolvere se tenere o congedare il maestro, andammo presto d'accordo.
Io non avrei poi voluto privarla oltre che del matrimonio anche della carriera.
Anche lei confessò che al suo maestro ci teneva: ad ogni lezione aveva la prova della necessità della sua assistenza.
M'assicurò che potevo vivere tranquillo e fiducioso: essa amava me e nessun altro.
Evidentemente il mio tradimento s'era allargato ed esteso.
M'ero attaccato alla mia amante di una nuova affettuosità che legava di nuovi legami e invadeva un territorio finora riservato solo al mio affetto legittimo.
Ma, ritornato a casa mia, anche quest'affettuosità non esisteva piú e si riversava aumentata su Augusta.
Per Carla non avevo altro che una profonda sfiducia.
Chissà che cosa c'era di vero in quella proposta di matrimonio! Non mi sarei meravigliato se un bel giorno, senz'aver sposato quell'altro, Carla m'avesse regalato un figlio dotato di un grande talento per la musica.
E ricominciarono i ferrei propositi che m'accompagnavano da Carla, per abbandonarmi quand'ero con lei e per riprendermi quando non l'avevo ancora lasciata.
Tutta roba senza conseguenze di nessun genere.
E non vi furono altre conseguenze da queste novità.
L'estate passò e si portò via mio suocero.
Io ebbi poi un gran da fare nella nuova casa commerciale di Guido ove lavorai piú che in qualunque altro luogo, comprese le varie facoltà universitarie.
Di questa mia attività dirò piú tardi.
Passò anche l'inverno eppoi sbocciarono nel mio giardinetto le prime foglie verdi e queste non mi videro mai tanto accasciato come quelle dell'anno prima.
Nacque mia figlia Antonia.
Il maestro di Carla era sempre a nostra disposizione, ma Carla tuttavia non ne voleva sapere affatto ed io neppure, ancora.
Vi furono invece delle gravi conseguenze nei miei rapporti con Carla per avvenimenti che veramente non si sarebbero creduti importanti.
Passarono quasi inavvertiti e furono rilevati solo dalle conseguenze che lasciarono.
Precisamente agli albori di quella primavera, io dovetti accettare di andar a passeggiare con Carla al Giardino Pubblico.
Mi sembrava una grave compromissione, ma Carla desiderava tanto di camminare al braccio mio al sole, che finii col compiacerla.
Non doveva mai esserci concesso di vivere neppure per brevi istanti da marito e moglie ed anche questo tentativo finí male.
Per gustare meglio il nuovo improvviso tepore che veniva dal cielo nel quale sembrava il sole avesse riacquistato da poco l'imperio, sedemmo su una banchina.
Il giardino, nelle mattine dei giorni feriali, era deserto e a me sembrava, che non movendomi, il rischio di venir osservato fosse ancora diminuito.
Invece, appoggiato con l'ascella alla sua gruccia, a passi lenti, ma enormi, s'avvicinò a noi Tullio, quello dai cinquantaquattro muscoli e, senza guardarci, s'assise proprio accanto a noi.
Poi levò la testa, il suo si scontrò nel mio sguardo e mi salutò:
- Dopo tanto tempo! Come stai? Hai finalmente meno da fare?
S'era messo a sedere proprio accanto a me e nella prima sorpresa io mi movevo in modo da impedirgli la vista di Carla.
Ma lui, dopo di avermi stretta la mano, mi domandò:
- La tua Signora?
S'aspettava di venir presentato.
Mi sottomisi:
- La signorina Carla Gerco, un'amica di mia moglie.
Poi continuai a mentire e so da Tullio stesso che la seconda menzogna bastò a rivelargli tutto.
Con un sorriso forzato, dissi:
- Anche la signorina sedette a questo banco per caso accanto a me senza vedermi.
Il mentitore dovrebbe tener presente che per essere creduto non bisogna dire che le menzogne necessarie.
Col suo buon senso popolare, quando c'incontrammo di nuovo, Tullio mi disse:
- Spiegasti troppe cose ed io indovinai perciò che mentivi e che quella bella signorina era la tua amante.
Io allora avevo già perduta Carla e con grande voluttà gli confermai ch'egli aveva colto nel segno, ma gli raccontai con tristezza che oramai essa m'aveva abbandonato.
Non mi credette ed io gliene fui grato.
Mi pareva che la sua incredulità fosse un buon auspicio.
Carla fu colta da un malumore quale io non le avevo mai visto.
Io so ora che da quel momento cominciò la sua ribellione.
Subito non me ne avvidi perché per stare a sentire Tullio, che s'era messo a raccontarmi della sua malattia e delle cure che intraprendeva, io le volgevo le spalle.
Piú tardi appresi che una donna, quand'anche si lasci trattare con meno gentilezza sempre salvo in certi istanti, non ammette di venir rinnegata in pubblico.
Essa manifestò il suo sdegno piuttosto verso il povero zoppo che verso me e non gli rispose quand'egli le indirizzò la parola.
Neppure io stavo a sentire Tullio perché per il momento non arrivavo ad interessarmi delle sue cure.
Lo guardavo nei suoi piccoli occhi per intendere che cosa egli pensasse di quell'incontro.
Sapevo ch'egli ormai era pensionato e che avendo tutto il giorno libero poteva facilmente invadere con le sue chiacchiere tutto il piccolo ambiente sociale della nostra Trieste di allora.
Poi, dopo una lunga meditazione, Carla si levò per lasciarci.
Mormorò:
- Arrivederci, - e si avviò.
Io sapevo che l'aveva con me e, sempre tenendo conto della presenza di Tullio, cercai di conquistare il tempo necessario per placarla.
Le domandai il permesso di accompagnarla avendo da dirigermi dalla sua parte stessa.
Quel suo saluto secco significava addirittura l'abbandono e fu quella la prima volta in cui seriamente lo temetti.
La dura minaccia mi toglieva il fiato.
Ma Carla stessa ancora non sapeva dove s'avviasse con quel suo passo deciso.
Dava sfogo a una stizza del momento che fra poco l'avrebbe lasciata.
M'attese e poi mi camminò accanto senza parole.
Quando fummo a casa, fu presa da un impeto di pianto che non mi spaventò perché la indusse a rifugiarsi fra le mie braccia.
Io le spiegai chi fosse Tullio e quanto danno sarebbe potuto venirmi dalla sua lingua.
Vedendo che piangeva tuttavia, ma sempre fra le mie braccia, osai un tono piú risoluto: voleva dunque compromettermi? Non avevamo sempre detto che avremmo fatto di tutto per risparmiare dei dolori a quella povera donna ch'era tuttavia mia moglie e la madre di mia figlia?
Parve che Carla si ravvedesse, ma volle restare sola per calmarsi.
Io corsi via contentone.
Dev'essere da quest'avventura che le venne ad ogni istante il desiderio di apparire in pubblico quale mia moglie.
Pareva che, non volendo sposare il maestro, intendesse costringermi di occupare una parte maggiore del posto che a lui rifiutava.
Mi seccò per lungo tempo perché prendessi due sedie ad un teatro, che avremmo poi occupate venendo da parti diverse per trovarci seduti uno accanto all'altro come per caso.
Io con lei raggiunsi soltanto ma varie volte il Giardino Pubblico, quella pietra miliare dei miei trascorsi, cui ora arrivavo dall'altra parte.
Oltre, mai! Perciò la mia amante finí col somigliarmi troppo.
Senz'alcuna ragione, ad ogni istante, se la prendeva con me in scoppi di collera improvvisi.
Presto si ravvedeva, ma bastavano per rendermi tanto eppoi tanto buono e docile.
Spesso la trovavo che si scioglieva in lacrime e non arrivavo mai ad ottenere da lei una spiegazione del suo dolore.
Forse la colpa fu mia perché non insistetti abbastanza per averla.
Quando la conobbi meglio, cioè quand'essa mi abbandonò, non abbisognai di altre spiegazioni.
Essa, stretta dal bisogno, s'era gettata in quell'avventura con me, che proprio non faceva per lei.
Fra le mie braccia era divenuta donna e - amo supporlo - donna onesta.
Naturalmente che ciò non va attribuito ad alcun merito mio, tanto piú che tutto mio fu il danno.
Le capitò un nuovo capriccio che dapprima mi sorprese e subito dopo teneramente mi commosse: volle vedere mia moglie.
Giurava che non le si sarebbe avvicinata e che si sarebbe comportata in modo da non essere scorta da lei.
Le promisi che quando avessi saputo di un'uscita di mia moglie ad un'ora precisa, glel'avrei fatto sapere.
Essa doveva vedere mia moglie non vicino alla mia villa, luogo deserto ove il singolo è troppo osservato, ma in qualche via affollata della città.
In quel torno di tempo mia suocera fu colpita da un malore agli occhi per cui dovette bendarseli per varii giorni.
S'annoiava mortalmente e, per indurla a tenere rigidamente la cura, le sue figliuole si dividevano la guardia presso di lei: mia moglie alla mattina, e Ada fino alle quattro precise del pomeriggio.
Con risoluzione istantanea io dissi a Carla che mia moglie abbandonava la casa di mia suocera ogni giorno alle quattro precise.
Neppure adesso so esattamente perché io abbia presentata Ada a Carla quale mia moglie.
È certo che io, dopo la domanda di matrimonio fattale dal maestro, sentivo il bisogno di vincolare meglio la mia amante a me e può essere abbia creduto che quanto piú bella avesse trovata mia moglie, tanto piú avrebbe apprezzato l'uomo che le sacrificava (per modo di dire) una donna simile.
Augusta in quel tempo non era altro che una buona balia sanissima.
Può avere influito sulla mia decisione anche la prudenza.
Avevo certamente ragione di temere gli umori della mia amante e se essa si fosse lasciata trascinare a qualche atto inconsulto con Ada, ciò non avrebbe avuto importanza visto che questa m'aveva già dato prova che mai avrebbe tentato di diffamarmi presso mia moglie.
Se Carla m'avesse compromesso con Ada, a questa avrei raccontato tutto e per dire il vero con una certa soddisfazione.
Ma la mia politica ebbe un esito non prevedibile davvero.
Indottovi da una certa ansietà, andai la mattina appresso da Carla piú di buon'ora del solito.
La trovai mutata del tutto dal giorno prima.
Una grande serietà aveva invaso il nobile ovale della sua faccina.
Volli baciarla, ma essa mi respinse eppoi si lasciò sfiorare dalle mie labbra le guancie, tanto per indurmi a starla ad ascoltare docilmente.
Sedetti a lei di faccia dall'altra parte del tavolo.
Essa, senza troppo affrettarsi, prese un foglio di carta su cui fino al mio arrivo aveva scritto e lo ripose fra certa musica che giaceva sul tavolo.
Io a quel foglio non feci attenzione e solo piú tardi appresi ch'era una lettera ch'essa scriveva al Lali.
Eppure io ora so che persino in quel momento l'animo di Carla era conteso da dubbi.
Il suo occhio serio si posava su di me indagando; poi lo rivolgeva alla luce della finestra per meglio isolarsi e studiare il proprio animo.
Chissà! Se avessi subito indovinato meglio quello che in lei si dibatteva, avrei potuto ancora conservarmi la mia deliziosa amante.
Mi raccontò del suo incontro con Ada.
L'aveva attesa dinanzi alla casa di mia suocera e, quando la vide arrivare, subito la riconobbe.
- Non c'era il caso di sbagliare.
Tu me l'avevi descritta nei suoi tratti piú importanti.
Oh! Tu la conosci bene!
Tacque per un istante per dominare la commozione che le chiudeva la gola.
Poi continuò:
- Io non so quello che ci sia stato fra di voi, ma io non voglio mai piú tradire quella donna tanto bella e tanto triste! E scrivo oggi al maestro di canto che sono pronta a sposarlo!
- Triste! - gridai io sorpreso.
- Tu t'inganni, oppure in quel momento essa avrà sofferto per una scarpa troppo stretta.
Ada triste! Se rideva e sorrideva sempre; anche quella stessa mattina in cui l'avevo vista per un istante a casa mia.
Ma Carla era meglio informata di me:
- Una scarpa stretta! Essa aveva il passo di una dea quando cammina sulle nubi!
Mi raccontò sempre piú commossa che aveva saputo farsi rivolgere una parola - oh! dolcissima! - da Ada.
Questa aveva lasciato cadere il suo fazzoletto e Carla lo raccolse e glielo porse.
La sua breve parola di ringraziamento commosse Carla fino alle lacrime.
Ci fu poi dell'altro ancora fra le due donne: Carla asseriva che Ada avesse anche notato ch'essa piangeva e che si fosse divisa da lei con un'occhiata accorata di solidarietà.
Per Carla tutto era chiaro: mia moglie sapeva ch'io la tradivo e ne soffriva! Da ciò il proposito di non vedermi piú e di sposare il Lali.
Non sapevo come difendermi! M'era facile di parlare con piena antipatia di Ada ma non di mia moglie, la sana balia che non s'accorgeva affatto di quello che avveniva nell'animo mio, tutt'intenta com'era al suo ministero.
Domandai a Carla se essa non avesse notata la durezza dell'occhio di Ada, e se non si fosse accorta che la sua voce era bassa e rude, priva di alcuna dolcezza.
Per riavere subito l'amore di Carla, io ben volentieri avrei attribuiti a mia moglie molti altri delitti, ma non si poteva perché, da un anno circa, io con la mia amante non facevo altro che portarla ai sette cieli.
Mi salvai altrimenti.
Fui preso io stesso da una grande emozione che mi spinse le lagrime agli occhi.
Mi pareva di poter legittimamente commiserarmi.
Senza volerlo, m'ero gettato in un ginepraio in cui mi sentivo infelicissimo.
Quella confusione fra Ada e Augusta era insopportabile.
La verità era che mia moglie non era tanto bella e che Ada (era di lei che Carla si prendeva di tanta compassione) aveva avuti dei grandi torti verso di me.
Perciò Carla era veramente ingiusta nel giudicarmi.
Le mie lacrime resero Carla piú mite:
- Dario caro! Come mi fanno bene le tue lacrime! Dev'esserci stato qualche malinteso fra voi due e importa ora di chiarirlo.
Io non voglio giudicarti troppo severamente, ma io non tradirò mai piú quella donna, né voglio essere io la causa delle sue lacrime.
L'ho giurato!
Ad onta del giuramento essa finí col tradirla per l'ultima volta.
Avrebbe voluto dividersi da me per sempre con un ultimo bacio, ma io quel bacio lo accordavo in un'unica forma, altrimenti me ne sarei andato pieno di rancore.
Perciò essa si rassegnò.
Mormoravamo ambedue:
- Per l'ultima volta!
Fu un istante delizioso.
Il proposito fatto a due aveva un'efficacia che cancellava qualsiasi colpa.
Eravamo innocenti e beati! Il mio benevolo destino m'aveva riservato un istante di felicità perfetta.
Mi sentivo tanto felice che continuai la commedia fino al momento di dividerci.
Non ci saremmo visti mai piú.
Essa rifiutò la busta che portavo sempre nella mia tasca e non volle neppure un ricordo mio.
Bisognava cancellare dalla nostra nuova vita ogni traccia dei trascorsi passati.
Allora la baciai volentieri paternamente sulla fronte com'essa aveva voluto prima.
Poi, sulle scale, ebbi un'esitazione perché la cosa si faceva un poco troppo seria mentre se avessi saputo ch'essa la dimane sarebbe stata tuttavia a mia disposizione, il pensiero al futuro non mi sarebbe venuto cosí presto.
Essa, dal suo pianerottolo, mi guardava scendere ed io, un po' ridendo, le gridai:
- A domani!
Essa si ritrasse sorpresa e quasi spaventata e si allontanò dicendo:
- Mai piú!
Io mi sentii tuttavia sollevato di aver osato di dire la parola che poteva avviarmi ad un altro ultimo abbraccio quando l'avrei desiderato.
Privo di desiderii e privo d'impegni, passai tutta una bella giornata con mia moglie eppoi nell'ufficio di Guido.
Devo dire che la mancanza d'impegni m'avvicinava a mia moglie e a mia figlia.
Ero per loro qualche cosa piú del solito: non solo gentile, ma un vero padre che dispone e comanda serenamente, tutta la mente rivolta alla sua casa.
Andando a letto mi dissi in forma di proponimento:
- Tutte le giornate dovrebbero somigliare a questa.
Prima di addormentarsi, Augusta sentí il bisogno di confidarmi un grande segreto: essa lo aveva saputo dalla madre quel giorno stesso.
Alcuni giorni prima Ada aveva sorpreso Guido mentre abbracciava una loro domestica.
Ada aveva voluto fare la superba, ma poi la fantesca s'era fatta insolente e Ada l'aveva messa alla porta.
Il giorno prima erano stati ansiosi di sentire come Guido avrebbe presa la cosa.
Se si fosse lagnato, Ada avrebbe domandata la separazione.
Ma Guido aveva riso e protestato che Ada non aveva visto bene; però non aveva niente in contrario che, anche innocente, quella donna, per cui diceva di sentire una sincera antipatia, fosse stata allontanata di casa.
Pareva che ora le cose si fossero appianate.
A me importava di sapere se Ada avesse avute le traveggole quando aveva sorpreso il marito in quella posizione.
C'era ancora la possibilità di un dubbio? Perché bisognava ricordare che quando due s'abbracciano, hanno tutt'altra posizione che quando l'una netta le scarpe dell'altro.
Ero di ottimo umore.
Sentivo persino il bisogno di dimostrarmi giusto e sereno nel giudicare Guido.
Ada era certamente di carattere geloso e poteva avvenire ch'essa avesse viste diminuite le distanze e spostate le persone.
Con voce accorata Augusta mi disse ch'essa era sicura che Ada aveva visto bene e che ora per troppo affetto giudicava male.
Aggiunse:
- Essa avrebbe fatto ben meglio di sposare te!
Io, che mi sentivo sempre piú innocente, le regalai la frase:
- Sta a vedere se io avrei fatto un miglior affare sposando lei invece di te!
Poi, prima d'addormentarmi, mormorai:
- Una bella canaglia! Insudiciare cosí la propria casa!
Ero abbastanza sincero di rimproverargli esattamente quella parte della sua azione ch'io non avevo da rimproverare a me stesso.
La mattina appresso io mi levai col desiderio vivo che almeno quella prima giornata avesse a somigliare esattamente a quella precedente.
Era probabile che i proponimenti deliziosi del giorno prima non avrebbero impegnata Carla piú di me, ed io me ne sentivo del tutto libero.
Erano stati troppo belli per essere impegnativi.
Certo l'ansia di sapere quello che ne pensasse Carla mi faceva correre.
Il mio desiderio sarebbe stato di trovarla pronta per un altro proponimento.
La vita sarebbe corsa via, ricca bensí di godimenti, ma anche piú di sforzi per migliorarsi, ed ogni mio giorno sarebbe stato dedicato in gran parte al bene ed in piccolissima al rimorso.
L'ansia c'era, perché in tutto quell'anno per me tanto ricco di propositi, Carla non ne aveva avuto che uno: dimostrare di volermi bene.
L'aveva mantenuto e c'era una certa difficoltà d'inferirne se ora le sarebbe stato facile di tenere il nuovo proposito che rompeva il vecchio.
Carla non c'era a casa.
Fu una grande disillusione e mi morsi le dita dal dispiacere.
La vecchia mi fece entrare in cucina.
Mi raccontò che Carla sarebbe ritornata prima di sera.
Le aveva detto che avrebbe mangiato fuori e perciò su quel focolare non c'era neppure quel piccolo fuoco che vi ardeva di solito:
- Lei non lo sapeva? - mi domandò la vecchia facendo gli occhi grandi per la sorpresa.
Pensieroso e distratto, mormorai:
- Ieri lo sapevo.
Non ero però sicuro che la comunicazione di Carla valesse proprio per oggi.
Me ne andai dopo di aver salutato gentilmente.
Digrignavo i denti, ma di nascosto.
Ci voleva del tempo per darmi il coraggio di arrabbiarmi pubblicamente.
Entrai nel Giardino Pubblico e vi passeggiai per una mezz'ora per prendermi il tempo d'intendere meglio le cose.
Erano tanto chiare che non ci capivo piú niente.
Tutt'ad un tratto, senz'alcuna pietà, venivo costretto di tenere un proposito simile.
Stavo male, realmente male.
Zoppicavo e lottavo anche con una specie di affanno.
Io ne ho di quegli affanni: respiro benissimo, ma conto i singoli respiri, perché devo farli uno dopo l'altro di proposito.
Ho la sensazione che se non stessi attento, morrei soffocato.
A quell'ora avrei dovuto andare al mio ufficio o meglio a quello di Guido.
Ma non era possibile di allontanarmi cosí da quel posto.
Che cosa avrei fatto poi? Ben dissimile era questa dalla giornata precedente! Almeno avessi conosciuto l'indirizzo di quel maledetto maestro che a forza di cantare a mie spese m'aveva portata via la mia amante.
Finii col ritornare dalla vecchia.
Avrei trovata una parola da mandare a Carla per indurla a rivedermi.
Già il piú difficile era di averla al piú presto a tiro.
Il resto non avrebbe offerto delle grandi difficoltà.
Trovai la vecchia seduta accanto ad una finestra della cucina intenta a rammendare una calza.
Essa si levò gli occhiali e, quasi timorosa, mi mandò uno sguardo interrogatore.
Io esitai! Poi le domandai:
- Lei sa che Carla ha deciso di sposare il Lali?
A me pareva di raccontare tale nuova a me stesso.
Carla me l'aveva detta ben due volte, ma io il giorno prima vi avevo fatta poca attenzione.
Quelle parole di Carla avevano colpito l'orecchio e ben chiaramente perché ve le avevo ritrovate, ma erano scivolate via senza penetrare oltre.
Adesso appena arrivavano ai visceri che si contorcevano dal dolore.
La vecchia mi guardò anch'essa esitante.
Certamente aveva paura di commettere delle indiscrezioni che avrebbero potuto esserle rimproverate.
Poi scoppiò, tutta gioia evidente:
- Glielo ha detto Carla? Allora dovrebbe essere cosí! Io credo che farebbe bene! Che cosa gliene sembra a lei?
Ora rideva di gusto, la maledetta vecchia, che io avevo sempre creduto informata dei miei rapporti con Carla.
L'avrei picchiata volentieri, ma poi mi limitai a dire che prima avrei atteso che il maestro si facesse una posizione.
A me, insomma, pareva che la cosa fosse precipitata.
Nella sua gioia la signora divenne per la prima volta loquace con me.
Non era del mio parere.
Quando ci si sposava da giovani, si doveva fare la carriera dopo di essersi sposati.
Perché occorreva farla prima? Carla aveva cosí pochi bisogni.
La sua voce, ora, sarebbe costata meno, visto che nel marito avrebbe avuto il maestro.
Queste parole che potevano significare un rimprovero alla mia avarizia, mi diedero un'idea che mi parve magnifica e che per il momento mi sollevò.
Nel plico che portavo sempre nella mia tasca di petto, doveva esserci oramai un bell'importo.
Lo trassi di tasca, lo chiusi e lo consegnai alla vecchia perché lo desse a Carla.
Avevo forse anche il desiderio di pagare finalmente in modo decoroso la mia amante, ma il desiderio piú forte era di rivederla e riaverla.
Carla m'avrebbe rivisto tanto nel caso in cui avesse voluto restituirmi il denaro quanto in quello in cui le fosse stato comodo di tenerlo, perché allora avrebbe sentito il bisogno di ringraziarmi.
Respirai: tutto non era ancora finito per sempre!
Dissi alla vecchia che la busta conteneva poco denaro residuo di quello consegnatomi per loro dagli amici del povero Copler.
Poi, molto rasserenato, mandai a dire a Carla che io restavo il suo buon amico per tutta la vita e che, se essa avesse avuto bisogno di un appoggio, avrebbe potuto rivolgersi liberamente a me.
Cosí potei mandarle il mio indirizzo ch'era quello dell'ufficio di Guido.
Partii con un passo molto piú elastico di quello che m'aveva condotto colà.
Ma quel giorno ebbi un violento litigio con Augusta.
Si trattava di cosa da poco.
Io dicevo che la minestra era troppo salata ed essa pretendeva di no.
Ebbi un accesso folle d'ira perché mi sembrava ch'essa mi deridesse e trassi a me con violenza la tovaglia cosí che tutte le stoviglie dalla tavola volarono a terra.
La piccina ch'era in braccio della bambinaia si mise a strillare, ciò che mi mortificò grandemente perché la piccola bocca sembrava mi rimproverasse.
Augusta impallidí come sapeva impallidire lei, prese la fanciulla in braccio e uscí.
A me parve che anche il suo fosse un eccesso: mi avrebbe ora lasciato mangiare solo come un cane? Ma subito essa, senza la bambina, rientrò, riapparecchiò la tavola, sedette dinanzi al proprio piatto nel quale mosse il cucchiaio come se avesse voluto accingersi a mangiare.
Io, fra me e me, bestemmiavo, ma già sapevo d'essere stato un giocattolo in mano di forze sregolate della natura.
La natura che non trovava difficoltà nell'accumularle, ne trovava ancor meno nello scatenarle.
Le mie bestemmie andavano ora contro Carla che fingeva di agire solo a vantaggio di mia moglie.
Ecco come me l'aveva conciata!
Augusta, per un sistema cui rimase fedele fino ad oggi, quando mi vede in quelle condizioni, non protesta, non piange, non discute.
Quand'io mitemente mi misi a domandarle scusa, essa volle spiegare una cosa: non aveva riso, aveva soltanto sorriso nello stesso modo che m'era piaciuto tante volte e che tante volte avevo vantato.
Mi vergognai profondamente.
Supplicai che la bambina fosse portata subito con noi e quando l'ebbi fra le mie braccia, lungamente giuocai con lei.
Poi la feci sedere sulla mia testa e sotto la sua vesticciuola che mi copriva la faccia, asciugai i miei occhi che s'erano bagnati delle lacrime che Augusta non aveva sparse.
Giuocavo con la bambina, sapendo che cosí, senz'abbassarmi a fare delle scuse, mi riavvicinavo ad Augusta e infatti le sue guancie avevano già riacquistato il loro colore consueto.
Poi anche quella giornata finí molto bene e il pomeriggio somigliò a quello precedente.
Era proprio la stessa cosa come se alla mattina avessi trovata Carla al solito posto.
Non m'era mancato lo sfogo.
Avevo ripetutamente domandato scusa perché dovevo indurre Augusta di ritornare al suo sorriso materno quando dicevo o facevo delle bizzarrie.
Guai se avesse dovuto forzarsi ad avere in mia presenza un dato contegno o se avesse dovuto sopprimere anche uno dei soliti suoi sorrisi affettuosi che mi parevano il giudizio piú completo e benevolo che si potesse dare su me.
Alla sera riparlammo di Guido.
Pareva che la sua pace con Ada fosse completa.
Augusta si meravigliava della bontà di sua sorella.
Questa volta però toccava a me di sorridere perché era evidente ch'ella non ricordava la propria bontà che era enorme.
Le domandai:
- E se io insudiciassi la nostra casa, non mi perdoneresti? - Ella esitò:
- Noi abbiamo la nostra bambina, - esclamò - mentre Ada non ha dei figliuoli che la leghino a quell'uomo.
Ella non amava Guido; penso talvolta che gli tenesse rancore perché m'aveva fatto soffrire.
Pochi mesi dopo, Ada regalò a Guido due gemelli e Guido non comprese mai perché gli facessi delle congratulazioni tanto calorose.
Ecco che avendo dei figlioli, anche secondo il giudizio di Augusta, le serve di casa potevano essere sue senza pericolo per lui.
Alla mattina seguente, però, quando in ufficio trovai sul mio tavolo una busta al mio indirizzo scritto da Carla, respirai.
Ecco che niente era finito e che si poteva continuare a vivere munito di tutti gli elementi necessarii.
In brevi parole Carla mi dava un appuntamento per le undici della mattina al Giardino Pubblico, all'ingresso posto di faccia alla sua casa.
Ci saremmo trovati non nella sua stanza, ma tuttavia in un posto vicinissimo alla stessa.
Non seppi aspettare e arrivai all'appuntamento un quarto d'ora prima.
Se Carla non fosse stata al posto indicato, io mi sarei recato dritto dritto a casa sua, ciò che sarebbe stato ben piú comodo.
Anche quella era una giornata pregna della nuova primavera dolce e luminosa.
Quando abbandonai la rumorosa Corsia Stadion ed entrai nel giardino, mi trovai nel silenzio della campagna che non si può dire interrotto dal lieve, continuo stormire delle piante lambite dalla brezza.
Con passo celere m'avviavo ad uscire dal giardino quando Carla mi venne incontro.
Aveva in mano la mia busta e mi si avvicinava senza un sorriso di saluto, anzi con una rigida decisione sulla faccina pallida.
Portava un semplice vestito di tela dal tessuto grosso traversato da striscie azzurre, che le stava molto bene.
Pareva anch'essa una parte del giardino.
Piú tardi, nei momenti in cui piú la odiai, le attribuii l'intenzione di essersi vestita cosí per rendersi piú desiderabile nel momento stesso in cui mi si rifiutava.
Era invece il primo giorno di primavera che la vestiva.
Bisogna anche ricordare che nel mio lungo ma brusco amore, l'adornamento della mia donna aveva avuto piccolissima parte.
Io ero sempre andato direttamente a quella sua stanza da studio, e le donne modeste sono proprio molto semplici quando restano in casa.
Essa mi porse la mano ch'io strinsi dicendole:
- Ti ringrazio di essere venuta!
Come sarebbe stato piú decoroso per me se durante tutto quel colloquio io fossi rimasto cosí mite!
Carla pareva commossa e, quando parlava, una specie di convulso le faceva tremare le labbra.
Talvolta anche nel cantare quel movimento delle labbra le impediva la nota.
Mi disse:
- Vorrei compiacerti e accettare da te questo denaro, ma non posso, assolutamente non posso.
Te ne prego, riprendilo.
Vedendola vicina alle lacrime, subito la compiacqui prendendo la busta che mi ritrovai poi in mano, lungo tempo dopo di aver abbandonato quel luogo.
- Veramente non ne vuoi piú sapere di me?
Feci questa domanda non pensando ch'essa vi aveva risposto il giorno prima.
Ma era possibile che, desiderabile come la vedevo, essa si contendesse a me?
- Zeno! - rispose la fanciulla con qualche dolcezza, - non avevamo noi promesso che non ci saremmo rivisti mai piú? In seguito a quella nostra promessa ho assunti degl'impegni che somigliano a quelli che tu avevi già prima di conoscermi.
Sono altrettanto sacri dei tuoi.
Io spero che a quest'ora tua moglie si sarà accorta che sei tutto suo.
Nel suo pensiero continuava dunque ad avere importanza la bellezza di Ada.
Se io fossi stato sicuro che il suo abbandono era causato da lei, avrei avuto il modo di correre al riparo.
Le avrei fatto sapere che Ada non era mia moglie e le avrei fatto vedere Augusta col suo occhio sbilenco e la sua figura di balia sana.
Ma non erano oramai piú importanti gl'impegni presi da lei? Bisognava discutere quelli.
Cercai di parlare calmo mentre anche a me le labbra tremavano, ma dal desiderio.
Le raccontai che ancora ella non sapeva quanto mia essa fosse e come non avesse piú il diritto di disporre di sé.
Nella mia testa si moveva la prova scientifica di quanto volevo dire, cioè quel celebre esperimento di Darwin su una cavalla araba, ma, grazie al Cielo, sono quasi sicuro di non averne parlato.
Devo però aver parlato di bestie e della loro fedeltà fisica, in un balbettio senza senso.
Abbandonai poi gli argomenti piú difficili che non erano accessibili né a lei né a me in quel momento e dissi: - Quali impegni puoi avere presi? E quale importanza possono avere in confronto a un affetto come quello che ci legò per piú di un anno?
L'afferrai rudemente per la mano sentendo il bisogno di un atto energico, non trovando nessuna parola che sapesse supplirvi.
Essa si levò con tanta energia dalla mia stretta come se fosse stata la prima volta ch'io mi fossi permessa una cosa simile.
- Mai - disse con l'atteggiamento di chi giura - ho preso un impegno piú sacro! L'ho preso con un uomo che a sua volta ne assunse uno identico verso di me.
Non v'era dubbio! Il sangue che le colorí improvvisamente le guancie vi era spinto dal rancore per l'uomo che verso di lei non aveva assunto alcun impegno.
E si spiegò anche meglio:
- Ieri abbiamo camminato per le strade, uno a braccio dell'altra in compagnia di sua madre.
Era evidente che la mia donna correva via, sempre piú lontano da me.
Io le corsi dietro follemente, con certi salti simili a quelli di un cane cui venga conteso un saporito pezzo di carne.
Ripresi la sua mano con violenza:
- Ebbene, - proposi - camminiamo cosí, tenendoci per mano, traverso tutta la città.
In questa posizione insolita, per farci meglio osservare, passiamo la Corsia Stadion eppoi i volti di Chiozza e giú giú traverso il Corso fino a Sant'Andrea per ritornare alla camera nostra per tutt'altra parte, perché tutta la città ci veda.
Ecco che per la prima volta rinunziavo ad Augusta! E mi parve una liberazione perché era dessa che voleva togliermi Carla.
Essa si tolse di nuovo alla mia stretta e disse seccamente:
- Sarebbe circa la stessa via che abbiamo fatta noi ieri!
Saltai ancora:
- Ed egli sa, sa tutto? Sa che anche ieri fosti mia?
- Sí - essa disse con orgoglio.
- Egli sa tutto, tutto.
Mi sentivo perduto e nella mia rabbia, simile al cane che, quando non può piú raggiungere il boccone desiderato, addenta le vesti di chi glielo contende, dissi:
- Questo tuo sposo ha uno stomaco eccellente.
Oggi digerisce me e domani potrà digerire tutto ciò che vorrai.
Non sentivo l'esatto suono delle mie parole.
Sapevo di gridare dal dolore.
Essa ebbe invece un'espressione d'indignazione di cui non avrei creduto capace il suo occhio bruno e mite di gazzella:
- A me lo dici? E perché non hai il coraggio di dirlo a lui?
Mi volse le spalle e con passo celere s'avviò verso l'uscita.
Io già avevo rimorso delle parole dette, offuscato però dalla grande sorpresa che oramai mi fosse interdetto di trattare Carla con meno dolcezza.
Quella mi teneva inchiodato al posto.
La piccola figurina azzurra e bianca, con un passo breve e celere, raggiungeva già l'uscita, quando mi decisi di correrle dietro.
Non sapevo quello che le avrei detto, ma era impossibile che ci si separasse cosí.
La fermai al portone di casa sua e le dissi solo sinceramente il grande dolore di quel momento:
- Ci separeremo proprio cosí, dopo tanto amore?
Essa procedette oltre senza rispondermi ed io la seguii anche sulle scale.
Poi mi guardò con quel suo occhio nemico:
- Se lei vuol vedere il mio sposo, venga con me.
Non lo sente? È lui che suona il piano.
Sentii appena allora le note sincopate del «Saluto» dello Schubert ridotto dal Liszt.
Quantunque dalla mia infanzia io non abbia maneggiata né una sciabola né un bastone, io non sono un uomo pauroso.
Il grande desiderio che m'aveva commosso fino ad allora, era improvvisamente sparito.
Del maschio non restava in me che la combattività.
Avevo domandato imperiosamente una cosa che non mi competeva.
Per diminuire il mio errore adesso bisognava battersi, perché altrimenti il ricordo di quella donna che minacciava di farmi punire dal suo sposo, sarebbe stato atroce.
- Ebbene! - le dissi.
- Se lo permetti vengo con te.
Mi batteva il cuore non per paura, ma per il timore di non comportarmi bene.
Continuai a salire accanto a lei.
Ma improvvisamente essa si fermò, s'appoggiò al muro e si mise a piangere senza parole.
Lassú continuavano ad echeggiare le note del «Saluto» su quel pianoforte che io avevo pagato.
Il pianto di Carla rese quel suono molto commovente.
- Io farò quello che vuoi! Vuoi che me ne vada? - domandai.
- Sí, - disse essa appena capace di articolare quella breve parola.
- Addio! - le dissi.
- Giacché lo vuoi, addio per sempre!
Scesi lentamente le scale, fischiettando anch'io il «Saluto» di Schubert.
Non so se sia stata un'illusione, ma a me parve ch'essa mi chiamasse:
- Zeno!
In quel momento essa avrebbe potuto chiamarmi anche con quello strano nome di Dario ch'essa sentiva quale un vezzeggiativo e non mi sarei fermato.
Avevo un grande desiderio di andarmene e ritornavo anche una volta, puro, ad Augusta.
Anche il cane cui a forza di pedate si impedisce l'approccio alla femmina, corre via purissimo, per il momento.
Quando il giorno dopo fui ridotto nuovamente allo stato in cui m'ero trovato al momento d'avviarmi al Giardino Pubblico, mi parve semplicemente di essere stato un vigliacco: essa m'aveva chiamato sebbene non col nome dell'amore, ed io non avevo risposto! Fu il primo giorno di dolore cui seguirono molti altri di desolazione amara.
Non comprendendo piú perché mi fossi allontanato cosí, mi attribuivo la colpa di aver avuto paura di quell'uomo o paura dello scandalo.
Avrei ora nuovamente accettata qualunque compromissione, come quando avevo proposto a Carla quella lunga passeggiata traverso alla città.
Avevo perduto un momento favorevole e sapevo benissimo che certe donne ne hanno per una volta sola.
A me sarebbe bastata quella sola volta.
Decisi subito di scrivere a Carla.
Non m'era possibile di lasciar trascorrere neppure un solo giorno di piú senza fare un tentativo per riavvicinarmi a lei.
Scrissi e riscrissi quella lettera per mettere in quelle poche parole tutto l'accorgimento di cui ero capace.
La riscrissi tante volte anche perché lo scriverla era un grande conforto per me; era lo sfogo di cui abbisognavo.
Le domandavo perdono per l'ira che le avevo dimostrata, asserendo che il grande mio amore abbisognava di tempo per calmarsi.
Aggiungevo: «Ogni giorno che passa m'apporta un altro briciolo di calma» e scrissi questa frase tante volte sempre digrignando i denti.
Poi le dicevo che non sapevo perdonarmi le parole che le avevo dirette e sentivo il bisogno di domandarle scusa.
Io non potevo, purtroppo, offrirle quello che il Lali le offriva e di cui ella era tanto degna.
Io mi figuravo che la lettera avrebbe avuto un grande effetto.
Giacché il Lali sapeva tutto, Carla gliel'avrebbe fatta vedere e per il Lali avrebbe potuto esser vantaggioso di avere un amico della mia qualità.
Sognai persino che ci si sarebbe potuti avviare a una dolce vita a tre, perché il mio amore era tale che per il momento io avrei vista raddolcita la mia sorte se mi fosse stato permesso di fare anche solo la corte a Carla.
Il terzo giorno ricevetti da lei un breve biglietto.
Non vi venivo invocato affatto né come Zeno né come Dario.
Mi diceva soltanto: «Grazie! Sia anche lei felice con la consorte Sua, tanto degna di ogni bene!».
Parlava di Ada, naturalmente.
Il momento favorevole non aveva continuato e dalle donne non continua mai se non lo si ferma prendendole per le treccie.
Il mio desiderio si condensò in una bile furiosa.
Non contro Augusta! L'animo mio era tanto pieno di Carla che ne avevo rimorso e mi costringevo con Augusta ad un sorriso ebete, stereotipato, che a lei pareva autentico.
Ma dovevo fare qualche cosa.
Non potevo mica aspettare e soffrire cosí ogni giorno! Non volevo piú scriverle.
La carta scritta per le donne ha troppo poca importanza.
Bisognava trovare di meglio.
Senza un proposito esatto, m'avviai di corsa al Giardino Pubblico.
Poi, molto piú lentamente, alla casa di Carla e, giunto a quel pianerottolo, bussai alla porta della cucina.
Se ve n'era la possibilità, avrei evitato di vedere il Lali, ma non mi sarebbe dispiaciuto d'imbattermi in lui.
Sarebbe stata la crisi di cui sentivo di aver bisogno.
La vecchia signora, come al solito, era al focolare su cui ardevano due grandi fuochi.
Fu stupita al vedermi, ma poi rise da quella buona innocente ch'essa era.
Mi disse:
- Mi fa piacere di vederla! Era tanto abituata lei di vederci ogni giorno, che si capisce non le riesca di evitarci del tutto.
Mi fu facile di farla ciarlare.
Mi raccontò che gli amori di Carla con Vittorio erano grandi.
Quel giorno lui e la madre venivano a desinare da loro.
Aggiunse ridendo: - Presto egli finirà con l'indurla ad accompagnarlo persino alle tante lezioni di canto cui egli è obbligato ogni giorno.
Non sanno restar divisi neppure per brevi istanti.
Sorrideva di quella felicità, maternamente.
Mi raccontò che di lí a poche settimane si sarebbero sposati.
Avevo un cattivo sapore in bocca, e quasi mi sarei avviato alla porta per andarmene.
Poi mi trattenni sperando che la ciarla della vecchia avrebbe potuto suggerirmi qualche buona idea o darmi qualche speranza.
L'ultimo errore, ch'io avevo commesso con Carla, era stato proprio di correre via prima di avere studiato tutte le possibilità che potevano essermi offerte.
Per un istante credetti anche di avere la mia idea.
Domandai alla vecchia se proprio avesse deciso di fare da serva alla figlia fino alla propria morte.
Le dissi ch'io sapevo che Carla non era molto dolce con lei.
Essa continuò a lavorare assiduamente accanto al focolare, ma stava a sentirmi.
Fu di un candore ch'io non meritavo.
Si lagnò di Carla che perdeva la pazienza per cose da niente.
Si scusava:
- Certamente io divento ogni giorno piú vecchia e dimentico tutto.
Non ne ho colpa!
Ma sperava che adesso le cose sarebbero andate meglio.
I malumori di Carla sarebbero diminuiti, ora ch'era felice.
Eppoi Vittorio, da bel principio, s'era messo a dimostrarle un grande rispetto.
Infine, sempre intenta a foggiare certe forme con un intruglio di pasta e di frutta, aggiunse:
- È mio dovere di restare con mia figlia.
Non si può fare altrimenti.
Con una certa ansia tentai di convincerla.
Le dissi che poteva benissimo liberarsi da tanta schiavitú.
Non c'ero io? Avrei continuato a passarle il mensile che fino ad allora avevo concesso a Carla.
Io volevo oramai mantenere qualcuno! Volevo tenere con me la vecchia che mi pareva parte della figlia.
La vecchia mi manifestò la sua riconoscenza.
Ammirava la mia bontà, ma si mise a ridere all'idea che le si potesse proporre di lasciare la figlia.
Era una cosa che non si poteva pensare.
Ecco una dura parola che andò a battere contro la mia fronte che si curvò! Ritornavo a quella grande solitudine dove non c'era Carla e neppure visibile una via che conducesse a lei.
Ricordo che feci un ultimo sforzo per illudermi che quella via potesse rimanere almeno segnata.
Dissi alla vecchia, prima di andarmene, che poteva avvenire che di lí a qualche tempo essa fosse di altro umore.
La pregavo allora di voler ricordarsi di me.
Uscendo da quella casa ero pieno di sdegno e di rancore, proprio come se fossi stato maltrattato quando m'accingevo ad una buona azione.
Quella vecchia m'aveva proprio offeso con quel suo scoppio di riso.
Lo sentivo risonare ancora nelle orecchie e significava non mica solo l'irrisione alla mia ultima proposta.
Non volli andare da Augusta in quello stato.
Prevedevo il mio destino.
Se fossi andato da lei, avrei finito col maltrattarla ed essa si sarebbe vendicata con quel suo grande pallore che mi faceva tanto male.
Preferii di camminare le vie con un passo ritmico che avrebbe potuto avviare ad un poco d'ordine il mio animo.
E infatti l'ordine venne! Cessai di lagnarmi del mio destino e vidi me stesso come se una grande luce m'avesse proiettato intero sul selciato che guardavo.
Io non domandavo Carla, io volevo il suo abbraccio e preferibilmente il suo ultimo abbraccio.
Una cosa ridicola! Mi ficcai i denti nelle labbra per gettare il dolore, cioè un poco di serietà, sulla mia ridicola immagine.
Sapevo tutto di me stesso ed era imperdonabile che soffrissi tanto perché mi veniva offerta una opportunità unica di svezzamento.
Carla non c'era piú proprio come tante volte l'avevo desiderato.
Con tale chiarezza nell'animo, quando poco dopo, in una via eccentrica della città, cui ero pervenuto senz'alcun proposito, una donna imbellettata mi fece un cenno, io corsi senz'esitazione a lei.
Arrivai ben tardi a colazione, ma fui tanto dolce con Augusta ch'essa fu subito lieta.
Non fui però capace di baciare la bimba mia e per varie ore non seppi neppure mangiare.
Mi sentivo ben sudicio! Non finsi alcuna malattia come avevo fatto altre volte per celare e attenuare il delitto e il rimorso.
Non mi pareva di poter trovare conforto in un proposito per l'avvenire, e per la prima volta non ne feci affatto.
Occorsero molte ore per ritornare al ritmo solito che mi traeva dal fosco presente al luminoso avvenire.
Augusta s'accorse che c'era qualche cosa di nuovo in me.
Ne rise:
- Con te non ci si può mai annoiare.
Sei ogni giorno un uomo nuovo.
Sí! Quella donna del sobborgo non somigliava a nessun'altra e io l'avevo in me.
Passai anche il pomeriggio e la sera con Augusta.
Essa era occupatissima ed io le stavo accanto inerte.
Mi pareva di essere trasportato cosí, inerte, da una corrente, una corrente di acqua limpida: la vita onesta della mia casa.
M'abbandonavo a quella corrente che mi trasportava ma non mi nettava.
Tutt'altro! Rilevava la mia sozzura.
Naturalmente nella lunga notte che seguí arrivai al proposito.
Il primo fu il piú ferreo.
Mi sarei procurata un'arma per abbattermi subito quando mi fossi sorpreso avviato a quella parte della città.
Mi fece bene quel proposito e mi mitigò.
Non gemetti mai nel mio letto ed anzi simulai il respiro regolare del dormente.
Cosí ritornai all'antica idea di purificarmi con una confessione a mia moglie, proprio come quand'ero stato in procinto di tradirla con Carla.
Ma era oramai una confessione ben difficile e non per la gravità del misfatto, ma per la complicazione da cui era risultato.
Di fronte a un giudice quale era mia moglie, avrei pur dovuto accampare le circostanze attenuanti e queste sarebbero risultate solo se avessi potuto dire della violenza impensata con cui era stata spezzata la mia relazione con Carla.
Ma allora sarebbe occorso di confessare anche quel tradimento oramai antico.
Era piú puro di questo, ma (chissà?) per una moglie piú offensivo.
A forza di studiarmi arrivai a dei propositi sempre piú ragionevoli.
Pensai di evitare il ripetersi di un trascorso simile affrettandomi ad organizzare un'altra relazione quale quella che avevo perduta e di cui si vedeva avevo bisogno.
Ma anche la donna nuova mi spaventava.
Mille pericoli avrebbero insidiato me e la mia famigliuola.
A questo mondo un'altra Carla non c'era, e con lacrime amarissime la rimpiansi, lei, la dolce, la buona, che aveva persino tentato di amare la donna ch'io amavo e che non vi era riuscita solo perché io le avevo messa dinanzi un'altra donna e proprio quella che non amavo affatto!
7.
Un'associazione
Fu Guido che mi volle con lui nella sua nuova casa commerciale.
Io morivo dalla voglia di farne parte, ma son sicuro di non avergli mai lasciato indovinare tale mio desiderio.
Si capisce che, nella mia inerzia, la proposta di quell'attività in compagnia di un amico, mi fosse simpatica.
Ma c'era dell'altro ancora.
Io non avevo ancora abbandonata la speranza di poter divenire un buon negoziante e mi pareva piú facile di progredire insegnando a Guido, che facendomi insegnare dall'Olivi.
Tanti a questo mondo apprendono soltanto ascoltando se stessi o almeno non sanno apprendere ascoltando gli altri.
Per desiderare quell'associazione avevo anche altre ragioni.
Io volevo essere utile a Guido! Prima di tutto gli volevo bene e benché egli volesse sembrare forte e sicuro, a me pareva un inerme abbisognante di una protezione che io volentieri volevo accordargli.
Poi anche nella mia coscienza e non solo agli occhi di Augusta, mi pareva che piú m'attaccavo a Guido e piú chiara risultasse la mia assoluta indifferenza per Ada.
Insomma io non aspettavo che una parola di Guido per mettermi a sua disposizione, e questa parola non venne prima, solo perché egli non mi credeva tanto inclinato al commercio visto che non avevo voluto saperne di quello che mi veniva offerto in casa mia.
Un giorno mi disse:
- Io ho fatta tutta la Scuola Superiore di Commercio, ma pur mi dà un po' di pensiero di dover regolare sanamente tutti quei particolari che garantiscono il sano funzionamento di una casa commerciale.
Sta bene che il commerciante non ha bisogno di saper di nulla, perché se ha bisogno di una bilancia chiama il bilanciaio, se ha bisogno di legge invoca l'avvocato e per la propria contabilità si rivolge ad un contabile.
Ma è ben duro dover consegnare da bel principio la propria contabilità ad un estraneo!
Fu la sua prima allusione chiara al suo proposito di tenermi con lui.
Veramente io non avevo fatta altra pratica di contabilità che in quei pochi mesi in cui avevo tenuto il libro mastro per l'Olivi, ma ero certo d'essere il solo contabile che non fosse stato un estraneo per Guido.
Si parlò chiaramente per la prina volta dell'eventualità di una nostra associazione quand'egli andò a scegliere i mobili per il suo ufficio.
Ordinò senz'altro due scrivanie per la stanza della direzione.
Gli domandai arrossendo:
- Perché due?
Rispose:
- L'altra è per te.
Sentii per lui una tale riconoscenza che quasi l'avrei abbracciato.
Quando fummo usciti dalla bottega, Guido, un po' imbarazzato, mi spiegò che ancora non era al caso di offrirmi una posizione in casa sua.
Lasciava a mia disposizione quel posto nella sua stanza, solo per indurmi a venir a tenergli compagnia ogni qualvolta mi fosse piaciuto.
Non voleva obbligarmi a nulla ed anche lui restava libero.
Se il suo commercio fosse andato bene m'avrebbe concesso un posto nella direzione della sua casa.
Parlando del suo commercio, la bella faccia bruna di Guido si faceva molto seria.
Pareva ch'egli avesse già pensate tutte le operazioni a cui voleva dedicarsi.
Guardava lontano, al disopra della mia testa, ed io mi fidai tanto della serietà delle sue meditazioni, che mi volsi anch'io a guardare quello ch'egli vedeva, cioè quelle operazioni che dovevano portargli la fortuna.
Egli non voleva camminare né la via percorsa con tanto successo da nostro suocero né quella della modestia e della sicurezza battuta dall'Olivi.
Tutti costoro, per lui, erano dei commercianti all'antica.
Bisognava seguire tutt'altra via, ed egli volentieri si associava a me perché mi riteneva non ancora rovinato dai vecchi.
Tutto ciò mi parve vero.
Mi veniva regalato il mio primo successo commerciale ed arrossii dal piacere una seconda volta.
Fu cosí e per la gratitudine della stima ch'egli m'aveva dimostrato, ch'io lavorai con lui e per lui, ora piú ora meno intensamente, per ben due anni, senz'altro compenso che la gloria di quel posto nella stanza direttoriale.
Fino ad allora fu quello certamente il piú lungo periodo ch'io avessi dedicato ad una stessa occupazione.
Non posso vantarmene solo perché tale mia attività non diede alcun frutto né a me né a Guido ed in commercio - tutti lo sanno - non si può giudicare che dal risultato.
Io conservai la fiducia d'esser avviato ad un grande commercio per circa tre mesi, il tempo occorrente a fondare quella ditta.
Seppi che a me sarebbe toccato non solo di regolare dei particolari come la corrispondenza e la contabilità, ma anche di sorvegliare gli affari.
Guido conservò tuttavia un grande ascendente su di me, tanto che avrebbe potuto anche rovinarmi e solo la mia buona fortuna glielo impedí.
Bastava un suo cenno perché accorressi a lui.
Ciò desta la mia stupefazione ancora adesso che ne scrivo, dopo che ho avuto il tempo di pensarci per tanta parte della mia vita.
E scrivo ancora di questi due anni perché il mio attaccamento a lui mi sembra una chiara manifestazione della mia malattia.
Che ragione c'era di attaccarsi a lui per apprendere il grande commercio e subito dopo restare attaccato a lui per insegnargli quello piccolo? Che ragione c'era di sentirsi bene in quella posizione solo perché mi sembrava significasse una grande indifferenza per Ada la mia grande amicizia per Guido? Chi esigeva da me tutto questo? Non bastava a provare la nostra indifferenza reciproca l'esistenza di tutti quei marmocchi cui davamo assiduamente la vita? Io non volevo male a Guido, ma non sarebbe stato certamente l'amico che avrei liberamente prescelto.
Ne vidi sempre tanto chiaramente i difetti che il suo pensiero spesso mi irritava, quando non mi commoveva qualche suo atto di debolezza.
Per tanto tempo gli portai il sacrificio della mia libertà e mi lasciai trascinare da lui nelle posizioni piú odiose solo per assisterlo! Una vera e propria manifestazione di malattia o di grande bontà, due qualità che stanno in rapporto molto intimo fra di loro.
Ciò rimane vero se anche col tempo fra noi si sviluppò un grande affetto come succede sempre fra gente dabbene che si vede ogni giorno.
E fu un grande affetto il mio! Allorché egli scomparve, per lungo tempo sentii com'egli mi mancava ed anzi l'intera mia vita mi sembrò vuota poiché tanta parte ne era stata invasa da lui e dai suoi affari.
Mi viene da ridere al ricordare che subito, nel nostro primo affare, l'acquisto dei mobili, sbagliammo in certo qual modo un termine.
Ci eravamo accollati i mobili e non ci decidevamo ancora a stabilire l'ufficio.
Per la scelta dell'ufficio, fra me a Guido c'era una divergenza di opinione che la ritardò.
Da mio suocero e dall'Olivi io avevo sempre visto che per rendere possibile la sorveglianza del magazzino, l'ufficio vi era contiguo.
Guido protestava con una smorfia di disgusto:
- Quegli uffici triestini che puzzano di baccalà o di pellami! - Egli assicurava che avrebbe saputo organizzare la sorveglianza anche da lontano, ma intanto esitava.
Un bel giorno il venditore dei mobili gl'intimò di ritirarli perché altrimenti li avrebbe gettati sulla strada e allora lui corse a stabilire un ufficio, l'ultimo che gli era stato offerto, privo di un magazzino nelle vicinanze, ma proprio al centro della città.
È perciò che il magazzino non lo ebbimo mai piú.
L'ufficio si componeva di due vaste stanze bene illuminate e di uno stanzino privo di finestre.
Sulla porta di questo stanzino inabitabile fu appiccicato un bollettino con l'iscrizione in lettere lapidarie: Contabilità; poi, delle altre due porte l'una ebbe il bollettino: Cassa e l'altra fu addobbata dalla designazione tanto inglese di Privato.
Anche Guido aveva studiato il commercio in Inghilterra e ne aveva riportate delle nozioni utili.
La Cassa fu, come di dovere, fornita di una magnifica cassa di ferro e del cancello tradizionale.
La nostra stanza Privata divenne una camera di lusso splendidamente tappezzata in un colore bruno vellutato e fornita delle due scrivanie, di un sofà e di varie comodissime poltrone.
Poi venne l'acquisto dei libri e dei varii utensili.
Qui la mia parte di direttore fu indiscussa.
Io ordinavo e le cose arrivavano.
Invero avrei preferito di non essere seguito tanto prontamente, ma era mio dovere di dire tutte le cose che occorrevano in un ufficio.
Allora credetti di scoprire la grande differenza che c'era fra me e Guido.
Quanto sapevo io, mi serviva per parlare e a lui per agire.
Quand'egli arrivava a sapere quello che sapevo io e non piú, lui comperava.
È vero che talvolta in commercio fu ben deciso a non far nulla, cioè a non comperare né vendere, ma anche questa mi parve una risoluzione di persona che crede di saper molto.
Io sarei stato piú dubbioso anche nell'inerzia.
In quegli acquisti fui molto prudente.
Corsi dall'Olivi a prendere le misure per i copialettere e per i libri di contabilità.
Poi il giovine Olivi m'aiutò ad aprire i libri e mi spiegò anche una volta la contabilità a partita doppia, tutta roba non difficile, ma che si dimentica tanto facilmente.
Quando si sarebbe arrivati al bilancio, egli m'avrebbe spiegato anche quello.
Non sapevamo ancora quello che avremmo fatto in quell'ufficio (adesso so che neppure Guido allora lo sapeva) e si discuteva di tutta la nostra organizzazione.
Ricordo che per giorni si parlò dove avremmo messi gli altri impiegati se di essi avessimo avuto bisogno.
Guido suggeriva di metterne quanti potessero capirvi nella Cassa.
Ma il piccolo Luciano, l'unico nostro impiegato per il momento, dichiarava che là dove c'era la cassa, non potessero esserci altre persone fuori di quelle addette alla cassa stessa.
Era ben dura di dover accettare delle lezioni dal nostro galoppino! Io ebbi un'ispirazione:
- A me sembra di ricordare che in Inghilterra si paghi tutto con assegni.
Era una cosa che m'era stata detta a Trieste.
- Bravo! - disse Guido.
- Anch'io lo ricordo ora.
Curioso che l'avevo dimenticato!
Si mise a spiegare a Luciano in lungo e in largo come non si usasse piú di maneggiare tanto denaro.
Gli assegni giravano dall'uno all'altro in tutti gl'importi che si voleva.
Fu una bella vittoria la nostra, e Luciano tacque.
Costui ebbe un grande vantaggio da quanto apprese da Guido.
Il nostro galoppino è oggidí un commerciante di Trieste assai rispettato.
Egli mi saluta ancora con una certa umiltà attenuata da un sorriso.
Guido spendeva sempre una parte della giornata ad insegnare dapprima a Luciano, poi a me e quindi all'impiegata.
Ricordo ch'egli aveva accarezzato per lungo tempo l'idea di fare il commercio in commissione per non arrischiare il proprio denaro.
Spiegò l'essenza di tale commercio a me e, visto che evidentemente io capivo troppo presto, si mise a spiegarlo a Luciano che per molto tempo stette a sentirlo coi segni della piú viva attenzione, i grandi occhi lucenti nella faccia ancora imberbe.
Non si può dire che Guido abbia perduto il suo tempo, perché Luciano è il solo fra di noi che sia riuscito in quel genere di commercio.
Eppoi si dice che la scienza è quella che vince!
Intanto da Buenos Aires arrivarono i pesos.
Fu un affare serio! A me era parsa dapprima una cosa facile, ma invece il mercato di Trieste non era preparato a quella moneta esotica.
Ebbimo di nuovo bisogno del giovine Olivi che c'insegnò il modo di realizzare quegli assegni.
Poi, perché a un dato punto fummo lasciati soli, sembrando all'Olivi di averci condotti a buon porto, Guido si trovò per varii giorni con le tasche gonfie di corone, finché non trovammo la via ad una Banca che ci sbrigò dell'incomodo fardello consegnandoci un libretto assegni di cui presto apprendemmo a far uso.
Guido sentí il bisogno di dire all'Olivi che gli facilitava il cosidetto impianto:
- Le assicuro che non farò mai la concorrenza alla ditta del mio amico!
Ma il giovinotto che del commercio aveva un altro concetto, rispose:
- Magari ci fosse un maggior numero di contraenti nei nostri articoli.
Si starebbe meglio!
Guido restò a bocca aperta, comprese troppo bene come gli succedeva sempre e si attaccò a quella teoria che propinò a chi la volle.
Ad onta della sua Scuola Superiore, Guido aveva un concetto poco preciso del dare e dell'avere.
Stette a guardare con sorpresa come io costituii il Conto Capitale ed anche come registrai le spese.
Poi fu tanto dotto di contabilità che quando gli si proponeva un affare, lo analizzava prima di tutto dal punto di vista contabile.
Gli pareva addirittura che la conoscenza della contabilità conferisse al mondo un nuovo aspetto.
Egli vedeva nascere debitori e creditori dappertutto anche quando due si picchiavano o si baciavano.
Si può dire ch'egli entrò in commercio armato della massima prudenza.
Rifiutò una quantità di affari ed anzi per sei mesi li rifiutò tutti con l'aria tranquilla di chi sa meglio:
- No! - diceva, e il monosillabo pareva il risultato di un calcolo preciso anche quando si trattava di un articolo ch'egli non aveva mai visto.
Ma tutta quella riflessione era stata sprecata a vedere come l'affare eppoi il suo eventuale beneficio o la sua perdita avrebbe dovuto passare traverso ad una contabilità.
Era l'ultima cosa ch'egli avesse appreso e s'era sovrapposta a tutte le sue nozioni.
Mi duole di dover dire tanto male del mio povero amico, ma devo essere veritiero anche per intendere meglio me stesso.
Ricordo quanta intelligenza egli impiegò per ingombrare il nostro piccolo ufficio di fantasticherie che c'impedivano ogni sana operosità.
A un dato punto, per iniziare il lavoro in commissione, lanciammo per posta un migliaio di circolari.
Guido fece questa riflessione:
- Quanti francobolli risparmiati se prima di spedire queste circolari sapessimo quali di esse raggiungeranno le persone che le considereranno!
La frase sola non avrebbe impedito nulla, ma egli se ne compiacque troppo e cominciò a gettare per aria le circolari chiuse per spedire solo quelle che cadevano dalla parte dell'indirizzo.
L'esperimento ricordava qualche cosa di simile ch'io avevo fatto in passato, ma tuttavia a me sembra di non essere mai arrivato a tale punto.
Naturalmente io non raccolsi né spedii le circolari da lui eliminate, perché non potevo essere certo che non ci fosse stata realmente una seria ispirazione che lo avesse diretto in quell'eliminazione e dovessi perciò non sprecare i francobolli che toccava di pagare a lui.
La mia buona sorte m'impedí di venir rovinato da Guido, ma la stessa buona sorte m'impedí pure di prendere una parte troppo attiva nei suoi affari.
Lo dico ad alta voce perché altri a Trieste pensa che non sia stato cosí: durante il tempo che passai con lui, non intervenni mai con un'ispirazione qualunque, del genere di quelle della frutta secca.
Mai lo spinsi ad un affare e mai gliene impedii alcuno.
Ero l'ammonitore! Lo spingevo all'attività, all'oculatezza.
Ma non avrei osato di gettare sul tavolo da giuoco i suoi denari.
Accanto a lui io mi feci molto inerte.
Cercai di metterlo sulla retta via e forse non ci riuscii per troppa inerzia.
Del resto, quando due si trovano insieme, non spetta loro di decidere chi dei due deve essere Don Quijote e chi Sancio Panza.
Egli faceva l'affare ed io da buon Sancio lo seguivo lento lento nei miei libri dopo di averlo esaminato e criticato come dovevo.
Il commercio in commissione fiascheggiò completamente, ma senz'arrecarci alcun danno.
Il solo che c'inviò delle merci fu un cartolaio di Vienna, e una parte di quegli oggetti di cancelleria furono venduti da Luciano che pian pianino arrivò a sapere quanta commissione ci spettasse e se la fece concedere quasi tutta da Guido.
Guido finí con l'accondiscendere perché erano piccolezze, eppoi perché il primo affare liquidato cosí doveva portare fortuna.
Questo primo affare ci lasciò lo strascico nel camerino dei ripostigli di una quantità di oggetti di cancelleria che dovemmo pagare e tenere.
Ne avevamo per il consumo di molti anni di una casa commerciale ben piú attiva della nostra.
Per un paio di mesi quel piccolo ufficio luminoso, nel centro della città, fu per noi un ritrovo gradevole.
Vi si lavorava ben poco (io credo vi si abbiano conchiusi in tutto due affari in imballaggi usati vuoti per i quali nello stesso giorno s'incontrarono da noi la domanda e l'offerta e da cui ricavammo un piccolo utile) e vi si chiacchierava molto, da buoni ragazzi, anche con quell'innocente di Luciano, il quale, quando si parlava d'affari, s'agitava come altri della sua età quando sente dire di donne.
Allora m'era facile di divertirmi da innocente con gl'innocenti perché non avevo ancora perduta Carla.
E di quell'epoca ricordo con piacere la giornata intera.
La sera, a casa, avevo molte cose da raccontare ad Augusta e potevo dirle tutte quelle che si riferivano all'ufficio, senz'alcun'eccezione e senza dover aggiungervi qualche cosa per falsarle.
Non mi preoccupava affatto quando Augusta impensierita esclamava:
- Ma quando comincerete a guadagnare dei denari?
Denari? A quelli non ci avevamo ancora neppur pensato.
Noi sapevamo che prima bisognava fermarsi a guardare, studiare le merci, il paese e anche il nostro Hinterland.
Non s'improvvisava mica cosí una casa di commercio! E anche Augusta s'acquietava alle mie spiegazioni.
Poi nel nostro ufficio fu ammesso un ospite molto rumoroso.
Un cane da caccia di pochi mesi, agitato e invadente.
Guido lo amava molto e aveva organizzato per lui un approvvigionamento regolare di latte e di carne.
Quando non avevo da fare né da pensare, lo vedevo anch'io con piacere saltellare per l'ufficio in quei quattro o cinque atteggiamenti che noi sappiamo interpretare dal cane e che ce lo rendono tanto caro.
Ma non mi pareva fosse al suo posto con noi, cosí rumoroso e sudicio! Per me la presenza di quel cane nel nostro ufficio, fu la prima prova che Guido forní di non essere degno di dirigere una casa commerciale.
Ciò provava un'assenza assoluta di serietà.
Tentai di spiegargli che il cane non poteva promovere i nostri affari, ma non ebbi il coraggio di insistere ed egli con una risposta qualunque mi fece tacere.
Perciò mi parve di dover dedicarmi io all'educazione di quel mio collega e gli assestai con grande voluttà qualche calcio quando Guido non c'era.
Il cane guaiva e dapprima ritornava a me credendo io l'avessi urtato per errore.
Ma un secondo calcio gli spiegava meglio il primo ed allora egli si rincantucciava e finché Guido non arrivava nell'ufficio non v'era pace.
Mi pentii poi di aver imperversato su di un innocente, ma troppo tardi.
Colmai il cane di gentilezze, ma esso non si fidò piú di me ed in presenza di Guido diede chiaro segno della sua antipatia.
- Strano! - disse Guido.
- Fortuna che so chi tu sia, perché altrimenti diffiderei di te.
I cani di solito non sbagliano con le loro antipatie.
Per far dileguare i sospetti di Guido, quasi quasi gli avrei raccontato in quale modo io avevo saputo conquistarmi l'antipatia del cane.
Ebbi presto una scaramuccia con Guido su una questione che veramente non avrebbe dovuto importarmi tanto.
Occupatosi con tanta passione di contabilità, egli si mise in capo di mettere le sue spese di famiglia nel conto delle spese generali.
Dopo di essermi consultato con l'Olivi, io mi vi opposi e difesi gl'interessi del vecchio Cada.
Non era infatti possibile di mettere in quel conto tutto ciò che spendeva Guido, Ada eppoi anche quello che costarono i due gemelli quando nacquero.
Erano delle spese che incombevano personalmente a Guido e non alla ditta.
Poi, in compenso, suggerii di scrivere a Buenos Aires per accordarsi per un salario per Guido.
Il padre si rifiutò di concederlo osservando che Guido percepiva già il settantacinque per cento dei benefici mentre a lui non toccava che il residuo.
A me parve una risposta giusta mentre Guido si mise a scrivere delle lunghe lettere al padre per discutere la questione da un punto di vista superiore, come egli diceva.
Buenos Aires era molto lontana e cosí la corrispondenza durò finché durò la nostra casa.
Ma io vinsi il mio punto! Il conto spese generali rimase puro e non fu inquinato dalle spese particolari di Guido e il capitale fu compromesso intero dal crollo della casa, ma proprio intero senza deduzioni.
La quinta persona ammessa nel nostro ufficio (calcolando anche Argo) fu Carmen.
Io assistetti alla sua assunzione all'impiego.
Ero venuto all'ufficio dopo di essere stato da Carla e mi sentivo molto sereno, di quella serenità delle otto di mattina del principe di Taillerand.
Nell'oscuro corridoio vidi una signorina, e Luciano mi disse ch'essa voleva parlare con Guido in persona.
Io avevo qualche cosa da fare e la pregai di attendere là fuori.
Guido entrò poco dopo nella nostra stanza evidentemente senz'aver vista la signorina e Luciano venne a porgergli il biglietto di presentazione di cui la signorina era fornita.
Guido lo lesse eppoi:
- No! - disse seccamente levandosi la giubba perché faceva caldo.
Ma subito dopo ebbe un'esitazione:
- Bisognerà che le parli per riguardo a chi la raccomanda.
La fece entrare ed io la guardai soltanto quando vidi che Guido s'era gettato con un balzo sulla propria giubba per indossarla e s'era rivolto alla fanciulla con la bella faccia bruna arrossata e gli occhi scintillanti.
Ora io sono sicuro di aver viste delle fanciulle altrettanto belle di Carmen, ma non di una bellezza tanto aggressiva cioè tanto evidente alla prima occhiata.
Di solito le donne prima si creano per il proprio desiderio mentre questa non aveva il bisogno di tale prima fase.
Guardandola sorrisi e anche risi.
Mi pareva simile ad un industriale che corresse per il mondo gridando l'eccellenza dei suoi prodotti.
Si presentava per avere un impiego, ma io avrei avuto voglia d'intervenire nelle trattative per domandarle: - Quale impiego? Per un'alcova?
Io vidi che la sua faccia non era tinta, ma i colori ne erano tanto precisi, tanto azzurro il candore e tanto simile a quello delle frutta mature il rossore, che l'artificio vi era simulato alla perfezione.
I suoi grandi occhi bruni rifrangevano una tale quantità di luce che ogni loro movimento aveva una grande importanza.
Guido l'aveva fatta sedere ed essa modestamente guardava la punta del proprio ombrellino o piú probabilmente il proprio stivaletto verniciato.
Quand'egli le parlò, essa levò rapidamente gli occhi e glieli rivolse sulla faccia cosí luminosi, che il mio povero principale ne fu proprio abbattuto.
Era vestita modestamente, ma ciò non le giovava perché ogni modestia sul suo corpo s'annullava.
Solo gli stivaletti erano di lusso e ricordavano un po' la carta bianchissima che Velasquez metteva sotto ai piedi dei suoi modelli.
Anche Velasquez, per staccare Carmen dall'ambiente, l'avrebbe poggiata sul nero di lacca.
Nella mia serenità io stetti a sentire curiosamente, Guido le domandò se conoscesse la stenografia.
Essa confessò di non conoscerla affatto, ma aggiunse che aveva una grande pratica di scrivere sotto dettatura.
Curioso! Quella figura alta, slanciata e tanto armonica, produceva una voce roca.
Non seppi celare la mia sorpresa:
- È raffreddata? - le domandai.
- No! - mi rispose - Perché me lo domanda? - e fu tanto sorpresa che l'occhiata in cui m'avvolse fu anche piú intensa.
Non sapeva di avere una voce tanto stonata ed io dovetti supporre che anche il suo piccolo orecchio non fosse tanto perfetto come appariva.
Guido le domandò se conoscesse l'inglese, il francese o il tedesco.
Egli le lasciava la scelta visto che noi ancora non sapevamo di quale lingua avremmo avuto bisogno.
Carmen rispose che sapeva un po' di tedesco, ma pochissimo.
Guido non prendeva mai alcuna decisione senza ragionare:
- Noi non abbiamo bisogno del tedesco perché lo so molto bene io.
La signorina aspettava la parola decisiva che a me pareva fosse già stata detta e, per affrettarla, raccontò ch'essa nel nuovo impiego cercava anche la possibilità d'impratichirsi e che perciò si sarebbe contentata di un salario ben modesto.
Uno dei primi effetti della bellezza femminile su di un uomo è quello di levargli l'avarizia.
Guido si strinse nelle spalle per significare che di cose tanto insignificanti non si occupava, le stabilí il salario ch'essa riconoscente accettò e le raccomandò con grande serietà di studiare la stenografia.
Questa raccomandazione egli la fece solo per riguardo a me col quale s'era compromesso dichiarando che il primo impiegato ch'egli avrebbe assunto sarebbe stato uno stenografo perfetto.
Quella sera stessa raccontai del mio nuovo collega a mia moglie.
Essa ne fu oltremodo spiacente.
Senza ch'io gliel'avessi detto, essa pensò subito che Guido avesse assunta al suo servizio quella fanciulla per farsene un'amante.
Io discussi con lei e, pur ammettendo che Guido si comportava un poco da innamorato, asserii ch'egli avrebbe potuto riaversi da quel colpo di fulmine senza che vi fossero delle conseguenze.
La fanciulla, in complesso, pareva dabbene.
Pochi giorni dopo - non so se per caso - ebbimo in ufficio la visita di Ada.
Guido non c'era ancora ed essa si fermò con me per un istante per domandarmi a che ora sarebbe venuto.
Poi, con passo esitante, si recò nella stanza vicina ove in quel momento non c'erano che Carmen e Luciano.
Carmen stava esercitandosi alla macchina da scrivere, tutt'assorta a rintracciarvi le singole lettere.
Alzò i begli occhi per guardare Ada che la fissava.
Come erano differenti le due donne! Si somigliavano un poco, ma Carmen pareva un'Ada caricata.
Io pensai che veramente l'una che pur era vestita piú riccamente, fosse fatta per divenire una moglie o una madre mentre all'altra, ad onta che in quell'istante portasse un modesto grembiule per non insudiciare il suo vestito alla macchina, toccava la parte di amante.
Non so se a questo mondo vi sieno dei dotti che saprebbero dire perché il bellissimo occhio di Ada adunasse meno luce di quello di Carmen e fosse perciò un vero organo per guardare le cose e le persone e non per sbalordirle.
Cosí Carmen ne sopportò benissimo l'occhiata sdegnosa, ma anche curiosa; v'era dentro fors'anche un poco d'invidia, o ve la misi io?
Questa fu l'ultima volta in cui io vidi Ada ancora bella, proprio quale s'era rifiutata a me.
Poi venne la sua disastrosa gravidanza e i due gemelli ebbero bisogno dell'intervento del chirurgo per venire all'aria.
Subito dopo fu colpita da quella malattia che le tolse ogni bellezza.
Perciò io ricordo tanto bene quella visita.
Ma la ricordo anche perché in quel momento tutta la mia simpatia andò a lei dalla bellezza mite e modesta abbattuta da quella tanto differente dell'altra.
Io non amavo certo Carmen e non ne sapevo altro che i magnifici occhi, gli splendidi colori, poi la voce roca e infine il modo - di cui essa era innocente - come era stata ammessa lí dentro.
Volli invece proprio bene ad Ada in quel momento, ed è una cosa ben strana di voler bene ad una donna che si desiderò ardentemente, che non si ebbe e di cui ora non importa niente.
In complesso si arriva cosí alle stesse condizioni in cui ci si troverebbe qualora essa avesse aderito ai nostri desiderii, ed è sorprendente di poter constatare ancora una volta come certe cose per cui viviamo hanno una ben piccola importanza.
Volli abbreviarle il dolore e la precedetti all'altra stanza.
Guido, che subito dopo entrò, si fece molto rosso alla vista della moglie.
Ada gli disse una ragione plausibilissima per cui era venuta, ma subito dopo e in atto di lasciarci, gli domandò:
- Avete assunto in ufficio una nuova impiegata?
- Si! - disse Guido e, per celare la sua confusione, non trovò di meglio che d'interrompersi per domandare se qualcuno fosse venuto a cercarlo.
Poi, avuta la mia risposta negativa, ebbe ancora una smorfia di dispiacere come se avesse sperata una visita importante, mentre io sapevo che non aspettavamo proprio nessuno e appena allora disse ad Ada con un aspetto d'indifferenza che finalmente gli riuscí di assumere:
- Avevamo bisogno di uno stenografo!
Io mi divertii moltissimo all'udire ch'egli sbagliava anche il sesso della persona di cui aveva bisogno.
La venuta di Carmen apportò una grande vita nel nostro ufficio.
Non parlo della vivacità che veniva dai suoi occhi, dalla gentile sua figura e dai colori della sua faccia; parlo proprio di affari.
Guido ebbe una spinta al lavoro dalla presenza di quella fanciulla.
Prima di tutto volle dimostrare a me e a tutti gli altri che la nuova impiegata era necessaria, ed ogni giorno inventava dei nuovi lavori cui partecipava anche lui.
Poi, per lungo tempo, la sua attività fu un mezzo per corteggiare piú efficacemente la fanciulla.
Raggiunse un'efficacia inaudita.
Doveva insegnarle la forma della lettera ch'egli dettava e correggerle l'ortografia di molte moltissime parole.
Lo fece sempre dolcemente.
Qualunque compenso da parte della fanciulla non sarebbe stato eccessivo.
Pochi degli affari inventati da lui in amore gli diedero un frutto.
Una volta lavorò lungamente intorno ad un affare in un articolo che risultò essere proibito.
Ci trovammo ad un certo punto di fronte ad un uomo dalla faccia contratta dal dolore sui cui calli noi, senza saperlo, eravamo montati.
Voleva sapere quest'uomo che cosa c'entrassimo noi in quell'articolo e supponeva fossimo stati mandatarii di potenti concorrenti esteri.
La prima volta era sconvolto e temeva il peggio.
Quando indovinò la nostra ingenuità, ci rise in faccia e ci assicurò che non saremmo riusciti a nulla.
Finí ch'ebbe ragione, ma prima che ci acconciassimo alla condanna durò non poco tempo e da Carmen furono scritte non poche lettere.
Trovammo che l'articolo era irraggiungibile perché circondato da trincee.
Io non dissi nulla di tale affare ad Augusta, ma essa ne parlò a me perché Guido ne aveva parlato ad Ada per dimostrarle quanto da fare avesse il nostro stenografo.
Ma l'affare che non fu fatto, rimase molto importante per Guido.
Ne parlò ogni giorno.
Era convinto che in nessun'altra città del mondo sarebbe avvenuta una cosa simile.
Il nostro ambiente commerciale era miserabile ed ogni commerciante intraprendente vi veniva strangolato.
Cosí toccava anche a lui
Nella folle, disordinata sequela di affari che in quell'epoca passò per le nostre mani, ve ne fu uno che addirittura ce le bruciò.
Non lo cercammo noi; fu l'affare che ci assaltò.
Vi fummo cacciati dentro da un dalmata, certo Tacich, il cui padre aveva lavorato all'Argentina col padre di Guido.
Venne dapprima a trovarci solo per avere da noi delle informazioni commerciali che noi seppimo procurargli.
Il Tacich era un bellissimo giovine, anzi troppo bello.
Alto, forte, aveva una faccia olivastra in cui si fondevano in un'intonazione deliziosa l'azzurro fosco degli occhi, le lunghe sopracciglia e i brevi folti mustacchi bruni dai riflessi aurei.
Insomma v'era in lui un tale intonato studio di colore che a me parve l'uomo nato per accompagnarsi a Carmen.
Anche a lui parve cosí e venne a trovarci ogni giorno.
La conversazione nel nostro ufficio durava ogni giorno per delle ore, ma non fu mai noiosa.
I due uomini lottavano per conquistare la donna e, come tutti gli animali in amore, sfoggiavano le loro migliori qualità.
Guido era un po' trattenuto dal fatto che il dalmata veniva a trovarlo anche a casa sua e conosceva perciò Ada, ma niente poteva piú danneggiarlo agli occhi di Carmen; io, che conoscevo tanto bene quegli occhi, lo seppi subito, mentre il Tacich lo apprese molto piú tardi e, per avere piú frequente il pretesto di vederla, comperò da noi anziché dal fabbricante, varii vagoni di sapone che pagò per qualche percento piú cari.
Poi, sempre per amore, ci ficcò in quell'affare disastroso.
Suo padre aveva osservato che, costantemente, in certe stagioni, il solfato di rame saliva e in altre calava di prezzo.
Decise perciò di comperarne per speculazione nel momento piú favorevole, in Inghilterra, una sessantina di tonnellate.
Noi parlammo a lungo di quell'affare ed anzi lo preparammo mettendoci in relazione con una casa inglese.
Poi il padre telegrafò al figlio che il buon momento gli sembrava giunto e disse anche il prezzo al quale sarebbe stato disposto di concludere l'affare.
Il Tacich, innamorato com'era, corse da noi e ci consegnò l'affare avendone in premio una bella, grande, carezzevole occhiata da Carmen.
Il povero dalmata incassò riconoscente l'occhiata non sapendo ch'era una manifestazione d'amore per Guido.
Mi ricordo la tranquillità e la sicurezza con cui Guido s'accinse all'affare che infatti si presentava facilissimo perché in Inghilterra si poteva fissare la merce per consegna al nostro porto donde veniva ceduta, senz'esserne rimossa, al nostro compratore.
Egli fissò esattamente l'importo che voleva guadagnare e col mio aiuto stabilí quale limite dovesse stabilire al nostro amico inglese per l'acquisto.
Con l'aiuto del vocabolario combinammo insieme il dispaccio in inglese.
Una volta speditolo, Guido si fregò le mani e si mise a calcolare quante corone gli sarebbero piovute in cassa in premio di quella lieve e breve fatica.
Per tenersi favorevoli gli dei, trovò giusto di promettere una piccola provvigione a me e quindi, con qualche malizia, anche a Carmen che all'affare aveva collaborato con i suoi occhi.
Ambedue volemmo rifiutare, ma egli ci supplicò di fingere almeno di accettare.
Temeva altrimenti il nostro malocchio ed io lo compiacqui subito per rassicurarlo.
Sapevo con certezza matematica che da me non potevano venirgli che i migliori auguri, ma capivo ch'egli potesse dubitarne.
Quaggiú quando non ci vogliamo male ci amiamo tutti, ma però i nostri vivi desideri accompagnano solo gli affari cui partecipiamo.
L'affare fu vagliato in tutti i sensi ed anzi ricordo che Guido calcolò persino per quanti mesi, col beneficio che ne avrebbe tratto, avrebbe potuto mantenere la sua famiglia e l'ufficio, cioè le sue due famiglie, come egli diceva talvolta o i suoi due uffici come diceva tale altra quando si seccava molto in casa.
Fu vagliato troppo, quell'affare, e non riuscí forse per questo.
Da Londra capitò un breve dispaccio: Notato eppoi l'indicazione del prezzo di quel giorno del solfato, piú elevato di molto di quello concessoci dal nostro compratore.
Addio affare.
Il Tacich ne fu informato e poco dopo abbandonò Trieste.
In quell'epoca io cessai per circa un mese di frequentare l'ufficio e perciò, per le mie mani, non passò una lettera che giunse alla ditta, dall'aspetto inoffensivo, ma che doveva avere gravi conseguenze per Guido.
Con essa, quella ditta inglese ci confermava il suo dispaccio e finiva con l'informarci che notava il nostro ordine valido sino a revoca.
Guido non ci pensò affatto di dare tale revoca ed io, quando ritornai in ufficio, non ricordai piú quell'affare.
Cosí varii mesi appresso, una sera, Guido venne a cercarmi a casa con un dispaccio ch'egli non intendeva e che credeva fosse stato indirizzato a noi per errore ad onta che portasse chiaro il nostro indirizzo telegrafico che io avevo fatto regolarmente notare non appena fummo installati nel nostro ufficio.
Il dispaccio conteneva solo tre parole: 60 tons settled, ed io lo intesi subito, ciò che non era difficile perché quello del solfato di rame era il solo affare grosso che avessimo trattato.
Glielo dissi: si capiva da quel dispaccio che il prezzo, che noi avevamo fissato per l'esecuzione del nostro ordine, era stato raggiunto e che perciò eravamo felici proprietari di sessanta tonnellate di solfato di rame.
Guido protestò:
- Come si può pensare ch'io accetti tanto in ritardo l'esecuzione del mio ordine?
Pensai subito io che nel nostro ufficio dovesse esserci la lettera di conferma del primo dispaccio, mentre Guido non ricordava di averla ricevuta.
Lui, inquieto, propose di correre subito all'ufficio per vedere se ci fosse, ciò che mi fu molto gradito perché mi seccava quella discussione dinanzi ad Augusta la quale ignorava che io per un mese non m'ero fatto vedere in ufficio.
Corremmo all'ufficio.
Guido era tanto dispiacente di vedersi costretto a quel primo grande affare che, per esimersene, sarebbe corso fino a Londra.
Aprimmo l'ufficio; poi, a tastoni nell'oscurità, trovammo la via alla nostra stanza e raggiungemmo il gas, per accenderlo.
Allora la lettera fu subito trovata ed era fatta come io l'avevo supposta; c'informava cioè che il nostro ordine valido sino a revoca era stato eseguito.
Guido guardò la lettera con la fronte contratta non so se dal dispiacere o dallo sforzo di voler annientare col suo sguardo quanto si annunciava esistente con tanta semplicità di parola.
- E pensare - osservò - che sarebbe bastato di scrivere due parole per risparmiarsi un danno simile.
Non era certo un rimprovero diretto a me perché io ero stato assente dall'ufficio e, per quanto avessi saputo trovare subito la lettera sapendo ove doveva trovarsi, prima di allora non l'avevo mai vista.
Ma per nettarmi piú radicalmente da ogni rimprovero, lo rivolsi deciso a lui:
- Durante la mia assenza avresti pur dovuto leggere accuratamente tutte le lettere!
La fronte di Guido si spianò.
Alzò le spalle e mormorò:
- Può ancora finire coll'essere una fortuna quest'affare.
Poco dopo mi lasciò ed io ritornai a casa mia.
Ma il Tacich ebbe ragione: in certe stagioni il solfato di rame andava giú, giú, ogni giorno piú giú e noi avevamo nell'esecuzione del nostro ordine e nella immediata impossibilità di cedere la merce a quel prezzo ad altri, l'opportunità di studiare tutto il fenomeno.
La nostra perdita aumentò.
Il primo giorno Guido mi domandò consiglio.
Avrebbe potuto vendere con una perdita piccola in confronto di quella che dovette sopportare poi.
Io non volli dare dei consigli, ma non trascurai di ricordargli la convinzione del Tacich secondo la quale il ribasso avrebbe dovuto continuare per oltre cinque mesi.
Guido rise:
- Adesso non mi mancherebbe altro che farmi dirigere nei miei affari da un provinciale!
Ricordo che tentai pure di correggerlo, dicendogli che quel provinciale da molti anni passava il suo tempo nella piccola cittadina dalmata a guardare il solfato di rame.
Io non posso avere alcun rimorso per la perdita che Guido subí in quell'affare.
Se mi avesse ascoltato gli sarebbe stata risparmiata.
Piú tardi discutemmo l'affare del solfato di rame con un agente, un uomo piccolo, grassoccio, vivo e accorto, che ci biasimò di aver fatto quell'acquisto, ma che non sembrava di dividere l'opinione del Tacich.
Secondo lui il solfato di rame, per quanto facesse un mercato a sé, pur risentiva la fluttuazione del prezzo del metallo.
Guido da quell'intervista acquistò una certa sicurezza.
Pregò l'agente di tenerlo informato di ogni movimento nel prezzo; avrebbe aspettato volendo vendere non soltanto senza perdita, ma con un piccolo utile.
L'agente rise discretamente eppoi nel corso del discorso disse una parola ch'io notai perché mi parve molto vera:
- Curioso come a questo mondo vi sia poca gente che si rassegni a perdite piccole; sono le grandi che inducono immediatamente alla grande rassegnazione.
Guido non ne fece caso.
Io ammirai però anche lui, perché all'agente non raccontò per quale via noi fossimo arrivati a quell'acquisto.
Glielo dissi ed egli ne menò vanto.
Avrebbe temuto, mi disse, di screditare noi e anche la nostra merce raccontando la storia di quell'acquisto.
Poi, per parecchio tempo, non parlammo piú del solfato, finché cioè non venne da Londra una lettera con la quale ci si invitava al pagamento e a dare istruzioni per la spedizione.
Ricevere, immagazzinare sessanta tonnellate! A Guido cominciò a girare la testa.
Facemmo i calcoli di quanto avremmo speso per conservare tale merce per varii mesi.
Una somma enorme! Io non dissi niente, ma il sensale che volontieri avrebbe vista la merce arrivare a Trieste perché allora prima o poi avrebbe avuto lui l'incarico di venderla, fece osservare a Guido che quella somma che a lui pareva enorme, non era gran cosa se espressa in «percenti» sul valore della merce.
Guido si mise a ridere perché l'osservazione gli pareva strana:
- Io non ho mica soli cento chili di solfato; ne ho sessanta tonnellate, purtroppo!
Egli avrebbe finito col lasciarsi convincere dal calcolo dell'agente, evidentemente giusto, visto che con un piccolo movimento in sú del prezzo, le spese sarebbero state coperte ad usura, se in quel momento non fosse stato arrestato da una sua cosidetta ispirazione.
Quando gli avveniva di avere un'idea commerciale proprio sua, egli ne era addirittura allucinato e non c'era posto nella sua mente per altre considerazioni.
Ecco la sua idea: la merce gli era stata venduta franco Trieste da gente che doveva pagarne il trasporto dall'Inghilterra.
Se egli ora avesse ceduta la merce ai suoi stessi venditori che avrebbero perciò risparmiate le spese per tale trasporto, egli avrebbe potuto fruire di un prezzo ben piú vantaggioso di quello che gli veniva offerto a Trieste.
La cosa non era tanto vera, ma, per fargli piacere, nessuno la discusse.
Una volta liquidata la faccenda, egli ebbe un sorriso un po' amarognolo sulla sua faccia che allora parve proprio di pensatore pessimista e disse:
- Non ne parliamo piú.
La lezione fu alquanto cara; bisogna ora saperne approfittare.
Invece se ne parlò ancora.
Egli non ebbe mai piú quella sua bella sicurezza nel rifiutare degli affari e, quando alla fine d'anno gli feci vedere quanti denari avevamo perduti, egli mormorò:
- Quel maledetto solfato di rame fu la mia disgrazia! Sentivo sempre il bisogno di rimettermi di quella perdita!
La mia assenza dall'ufficio era stato provocato dall'abbandono di Carla.
Non avevo piú potuto assistere agli amori di Carmen e Guido.
Essi si guardavano, si sorridevano, in mia presenza.
Me ne andai sdegnosamente con una risoluzione che presi di sera al momento di chiudere l'ufficio e senza dirne nulla a nessuno.
M'aspettavo che Guido m'avrebbe chiesta la ragione di tale abbandono e mi preparavo allora di dargli il fatto suo.
Io potevo essere molto severo con lui visto ch'egli non sapeva assolutamente nulla delle mie gite al Giardino Pubblico.
Era una specie di gelosia la mia, perché Carmen m'appariva quale la Carla di Guido, una Carla piú mite e sottomessa.
Anche con la seconda donna egli era stato piú fortunato di me, come con la prima.
Ma forse - e ciò mi forniva la ragione ad un nuovo rimprovero per lui - egli doveva anche tale fortuna a quelle sue qualità ch'io gl'invidiavo e che continuavo a considerare quali inferiori: parallelamente alla sua sicurezza sul violino, correva anche la sua disinvoltura nella vita.
Io oramai sapevo con certezza di aver sacrificata Carla ad Augusta.
Quando riandavo col pensiero a quei due anni di felicità che Carla m'aveva concessi, m'era difficile d'intendere come essa - essendo fatta nel modo che ora sapevo - avesse potuto sopportarmi per tanto tempo.
Non l'avevo io offesa ogni giorno per amore ad Augusta? Di Guido invece sapevo con certezza ch'egli avrebbe saputo godersi Carmen senza neppur ricordarsi di Ada.
Nel suo animo disinvolto due donne non erano di troppo.
Confrontandomi con lui, a me pareva di essere addirittura innocente.
Io avevo sposata Augusta senz'amore e tuttavia non sapevo tradirla senza soffrirne.
Forse anche lui aveva sposata Ada senz'amarla, ma - per quanto ora di Ada non m'importasse affatto - ricordavo l'amore ch'essa mi aveva ispirato e mi pareva che poiché io l'avevo amata tanto, al suo posto sarei stato anche piú delicato di quanto non lo fossi ora al mio.
Non fu Guido che venne a cercarmi.
Fui io che da solo ritornai a quell'ufficio a cercare il sollievo ad una grande noia.
Egli si comportò in conformità ai patti del nostro contratto secondo i quali io non avevo alcun obbligo ad un'attività regolare nei suoi affari e quando s'imbatteva in me a casa o altrove, mi dimostrava la solita grande amicizia di cui gli ero sempre grato e non sembrava ricordare ch'io avessi lasciato vuoto il posto a quel tavolo ch'egli aveva comperato per me.
Fra noi due non c'era che un solo imbarazzo: il mio.
Quando ritornai al mio posto m'accolse come se dall'ufficio io fossi stato assente per un giorno solo, m'espresse con calore il suo piacere di aver riconquistata la mia compagnia e, sentito il mio proposito di riprendere il mio lavoro, esclamò:
- Ho fatto dunque bene a non permettere a nessuno di toccare i tuoi libri!
Infatti trovai il mastro ed anche il giornale al punto ove li avevo lasciati.
Luciano mi disse:
- Speriamo che ora che lei è qui, ci moveremo di nuovo.
Penso che il signor Guido sia scoraggiato per un paio di affari che tentò e che non gli riuscirono.
Non gli dica nulla che io le parlo cosí, ma guardi se può incoraggiarlo.
M'accorsi infatti che in quell'ufficio si lavorava ben poco e finché la perdita subita col solfato di rame non ci vivificò, vi si menò una vita veramente idillica.
Io ne conclusi subito che Guido non sentisse piú tanto urgente il bisogno di lavorare per far muovere Carmen sotto la sua direzione e, altrettanto presto, che il periodo della corte da loro fosse passato e che oramai essa fosse divenuta la sua amante.
L'accoglienza di Carmen mi portò una sorpresa perché essa subito sentí il bisogno di ricordarmi una cosa che io avevo completamente dimenticata.
Pare che prima di abbandonare quell'ufficio, in quei giorni in cui ero corso dietro a tante donne perché non m'era stato piú possibile di raggiungere la mia, io avessi aggredita anche Carmen.
Essa mi parlò con grande serietà e con qualche imbarazzo: aveva piacere di rivedermi perché pensava io volessi bene a Guido e che i miei consigli potrebbero essergli utili, e voleva intrattenere con me - se io vi consentivo - una bella, una fraterna amicizia.
Mi disse proprio qualche cosa di simile porgendomi con gesto largo la sua destra.
Sulla sua faccia tanto bella che sempre pareva dolce, vi fu un atteggiamento molto severo per rilevare la pura fraternità della relazione che mi veniva offerta.
Allora ricordai e arrossii.
Forse se avessi ricordato prima, non sarei ritornato a quell'ufficio mai piú.
Era stata una cosa tanto breve e ficcata in mezzo a tante altre azioni dello stesso valore, che se ora non fosse stata ricordata, si avrebbe potuto credere non fosse esistita mai.
Pochi giorni dopo l'abbandono di Carla, io m'ero messo a esaminare i libri facendomi aiutare da Carmen e pian pianino, per veder meglio nella stessa pagina, avevo passato il mio braccio intorno alla sua vita che poi avevo stretta sempre piú.
Con un balzo Carmen s'era sottratta a me ed io allora avevo abbandonato l'ufficio.
Io avrei potuto difendermi con un sorriso inducendola a sorridere con me perché le donne sono tanto propense a sorridere di delitti siffatti! Avrei potuto dirle:
- Ho tentato una cosa che non m'è riuscita e me ne duole, ma non vi tengo rancore e voglio esservi amico finché non vi piacerà altrimenti.
O avrei potuto rispondere anche da persona seria, scusandomi con lei e anche con Guido:
- Scusatemi e non giudicatemi prima di sapere in quali condizioni io mi sia trovato allora.
Invece mi mancò la parola.
La mia gola - credo - era chiusa dal rancore solidificatovisi e non potevo parlare.
Tutte queste donne che mi respingevano risolutamente davano addirittura una tinta tragica alla mia vita.
Non avevo mai avuto un periodo tanto disgraziato.
Invece di una risposta non mi sarei trovato pronto che a digrignare i denti, cosa poca comoda dovendo celarla.
Forse mi mancò la parola anche pel dolore di veder cosí recisamente esclusa una speranza che tuttavia accarezzavo.
Non posso fare a meno di confessarlo: meglio che con Carmen non avrei potuto rimpiazzare l'amante ch'io avevo perduta, quella fanciulla tanto poco compromettente che non m'aveva chiesto altro che il permesso di vivermi accanto finché non domandò quello di non vedermi piú.
Un'amante in due è l'amante meno compromettente.
Certamente allora non avevo chiarite tanto bene le mie idee, ma le sentivo e adesso le so.
Divenendo l'amante di Carmen, io avrei fatto il bene di Ada e non avrei danneggiato di troppo Augusta.
Ambedue sarebbero state tradite molto meno che se Guido ed io avessimo avuta una donna intera per ciascuno.
La risposta a Carmen io la diedi varii giorni appresso, ma ancor oggidí ne arrossisco.
L'orgasmo in cui m'aveva gettato l'abbandono di Carla doveva sussistere tuttavia per farmi arrivare ad un punto simile.
Ne ho rimorso come di nessun'altra azione della mia vita.
Le parole bestiali che ci lasciamo scappare rimordono piú fortemente delle azioni piú nefande cui la nostra passione c'induca.
Naturalmente designo come parole solo quelle che non sono azioni, perché so benissimo che le parole di Jago, per esempio, sono delle vere e proprie azioni.
Ma le azioni, comprese le parole di Jago, si commettono per averne un piacere o un beneficio e allora tutto l'organismo, anche quella parte che poi dovrebbe erigersi a giudice, vi partecipa e diventa dunque un giudice molto benevolo.
Ma la stupida lingua agisce a propria e a soddisfazione di qualche piccola parte dell'organismo che senza di essa si sente vinta e procede alla simulazione di una lotta quando la lotta è finita e perduta.
Vuole ferire o vuole accarezzare.
Si muove sempre in mezzo a dei traslati mastodontici.
E quando son roventi, le parole scottano chi le ha dette.
Io avevo osservato ch'essa non aveva piú i colori che l'avevano fatta ammettere tanto prontamente nel nostro ufficio.
Mi figurai fossero andati perduti per una sofferenza che non ammisi avesse potuto essere fisica e l'attribuii all'amore per Guido.
Del resto noi uomini siamo molto inclinati a compiangere le donne che si abbandonarono agli altri.
Non vediamo mai quale vantaggio se ne possano aspettare.
Possiamo magari amare l'uomo di cui si tratta - come avveniva nel caso mio - ma non sappiamo neppur allora dimenticare come di solito vadano a finire quaggiú le avventure d'amore.
Sentii una sincera compassione per Carmen come non l'avevo sentita mai per Augusta o per Carla.
Le dissi: - E giacché avete avuta la gentilezza d'invitarmi ad esservi amico, mi permettereste di farvi degli ammonimenti?
Essa non me lo permise, perché, come tutte le donne in quei frangenti, anch'essa credette che ogni ammonimento sia un'aggressione.
Arrossí e balbettò: - Non capisco! Perché dice cosí? - E subito dopo, per farmi tacere: - Se avessi bisogno di consigli ricorrerei certamente a lei, signor Cosini.
Perciò non mi fu concesso di predicarle la morale e fu un danno per me.
Predicandole la morale certamente sarei arrivato ad un grado superiore di sincerità, magari tentando di prenderla di nuovo fra le mie braccia.
Non m'arrovellerei piú di aver voluto assumere quell'aspetto bugiardo di Mentore.
Per varii giorni di ogni settimana, Guido non si faceva neppur vedere in ufficio perché s'era appassionato alla caccia e alla pesca.
Io, invece, dopo il mio ritorno, per qualche tempo vi fui assiduo, occupatissimo nel mettere a giorno i libri.
Ero spesso solo con Carmen e Luciano che mi consideravano quale il loro capo ufficio.
Non mi pareva che Carmen soffrisse per l'assenza di Guido e mi figurai ch'essa l'amasse tanto da gioire al sapere che si divertiva.
Doveva anche essere avvisata dei giorni in cui egli sarebbe stato assente, perché non tradiva alcuna attesa ansiosa.
Sapeva da Augusta che Ada invece non era fatta cosí, perché si lagnava amaramente delle frequenti assenze del marito.
Del resto non era questa la sua unica lagnanza.
Come tutte le donne non amate, essa si lagnava con lo stesso calore delle offese grandi e di quelle piccole.
Non soltanto Guido la tradiva, ma quando era in casa suonava sempre il violino.
Quel violino, che m'aveva fatto tanto soffrire, era una specie di lancia di Achille per la varietà delle sue prestazioni.
Appresi ch'era passato anche per il nostro ufficio ove aveva promossa la corte a Carmen con delle bellissime variazioni sul «Barbiere».
Poi era ripartito perché in ufficio non occorreva piú ed era ritornato a casa ove risparmiava a Guido la noia di dover conversare con la moglie.
Fra me e Carmen non ci fu mai piú nulla.
Ben presto io ebbi per lei un sentimento d'indifferenza assoluta come se essa avesse cambiato di sesso, qualche cosa di simile a quello che provavo per Ada.
Una viva compassione per ambedue e nient'altro.
Proprio cosí!
Guido mi colmava di gentilezze.
Io credo che in quel mese in cui l'avevo lasciato solo, avesse imparato ad apprezzare la mia conpagnia.
Una donnina come Carmen può essere gradevole di tempo in tempo, ma non si può mica sopportarla per giornate intere.
Egli m'invitò a caccia e a pesca.
Aborro la caccia e decisamente mi rifiutai di accompagnarvelo.
Invece, una sera, spintovi dalla noia, finii con l'andare con lui a pesca.
Al pesce manca ogni mezzo di comunicazione con noi e non può destare la nostra compassione.
Se boccheggia anche quand'è sano e salvo in acqua! Persino la morte non ne altera l'aspetto.
Il suo dolore, se esiste, è celato perfettamente sotto le sue squame.
Quando un giorno m'invitò ad una pesca notturna, mi riservai di vedere se Augusta m'avrebbe permesso di uscire quella sera e di restar fuori tanto tardi.
Gli dissi che avrei ricordato che la sua barchetta si sarebbe staccata dal molo Sartorio alle nove di sera e che, potendo, mi vi sarei trovato.
Pensai perciò che anche lui dovette sapere subito che per quella sera non m'avrebbe riveduto e che come avevo fatto tante altre volte, non mi sarei recato all'appuntamento.
Invece quella sera fui cacciato di casa dalle strida della mia piccola Antonia.
Piú la madre l'accarezzava e piú la piccina strillava.
Allora tentai un mio sistema che consisteva nel gridar delle insolenze nel piccolo orecchio di quella scimmietta urlante.
N'ebbi il solo risultato di far cambiare il ritmo alle sue strida, perché si mise a gridare dallo spavento.
Poi avrei voluto tentare un altro sistema un poco piú energico, ma Augusta ricordò in tempo l'invito di Guido e m'accompagnò alla porta promettendomi di coricarsi sola se io non fossi rincasato che tardi.
Anzi, pur di mandarmi via, si sarebbe anche adattata di prendere senza di me il caffè la mattina appresso, se fossi rimasto fuori fino allora.
C'è un piccolo dissidio tra me e Augusta - l'unico - sul modo di trattare i bambini fastidiosi: a me pare che il dolore del bambino sia meno importante del nostro e che valga la pena d'infliggerglielo pur di risparmiare un grande disturbo all'adulto; a lei invece sembra che noi, che abbiamo fatti i bambini, dobbiamo anche subirli.
Avevo tutto il tempo per arrivare all'appuntamento e attraversai lentamente la città guardando le donne e nello stesso tempo inventando un ordigno speciale che avrebbe impedito ogni dissidio fra me ed Augusta.
Ma per il mio ordigno l'umanità non era abbastanza evoluta! Esso era destinato al futuro lontano e non poteva piú giovare a me se non dimostrandomi per quale piccola ragione si rendevano possibili le mie dispute con Augusta: la mancanza di un piccolo ordigno! Esso sarebbe stato semplice, un tramvai casalingo, una sediola fornita di ruote e rotaie sulla quale la mia bimba avrebbe passata la sua giornata: poi un bottone elettrico toccando il quale la sediola con la bimba urlante si sarebbe messa a correre via fino a raggiungere il punto piú lontano della casa donde la sua voce affievolita dalla lontananza ci sarebbe sembrata perfino gradevole.
Ed io ed Augusta saremmo rimasti insieme tranquilli ed affettuosi.
Era una notte ricca di stelle e priva di luna, una di quelle notti in cui si vede molto lontano e perciò addolcisce e quieta.
Guardai le stelle che avrebbero potuto ancora portare il segno dell'occhiata d'addio di mio padre moribondo.
Sarebbe passato il periodo orrendo in cui i miei bimbi sporcavano e urlavano.
Poi sarebbero stati simili a me; io li avrei amati secondo il mio dovere e senza sforzo.
Nella bella, vasta notte mi rasserenai del tutto e senz'aver bisogno di fare dei propositi.
Alla punta del molo Sartorio le luci provenienti dalla città erano tagliate dall'antica casetta da cui sporge la punta stessa quale una breve fondamenta.
L'oscurità era perfetta e l'acqua alta e fosca e quieta mi pareva pigramente gonfia.
Non guardai piú né il cielo né il mare.
A pochi passi da me c'era una donna che destò la mia curiosità per uno stivaletto verniciato che per un istante brillò nell'oscurità.
Nel breve spazio e nel buio, a me parve che quella donna alta e forse elegante, si trovasse chiusa in una stanza con me.
Le avventure piú gradevoli possono capitare quando meno ci si pensa, e vedendo che quella donna tutt'ad un tratto deliberatamente s'avvicinava, ebbi per un istante un sentimento piacevolissimo, che sparve subito quando sentii la voce roca di Carmen.
Voleva fingere di aver piacere d'apprendere ch'ero anch'io della partita.
Ma nell'oscurità e con quella specie di voce non si poteva fingere.
Le dissi rudemente:
- Guido m'ha invitato.
Ma se volete, io trovo altro da fare e vi lascio soli!
Ella protestò dichiarando che anzi era felice di vedermi per la terza volta in quel giorno.
Mi raccontò che in quella piccola barchetta si sarebbe trovato riunito l'ufficio intero perché c'era anche Luciano.
Guai per i nostri affari se fosse andata a picco! M'aveva detto che c'era anche Luciano, certo per darmi la prova dell'innocenza del ritrovo.
Poi chiacchierò ancora volubilmente, dapprima dicendomi ch'era la prima volta che andava con Guido a pesca eppoi confessando ch'era la seconda.
S'era lasciato sfuggire che non le dispiaceva di star seduta «a pagliolo» in una barchetta e a me era sembrato strano ch'essa conoscesse quel termine.
Cosí dovette confessarmi di averlo appreso la prima volta ch'era stata a pesca con Guido.
- Quel giorno - aggiunse per rivelare la completa innocenza di quella prima gita - andammo alla pesca degli sgombri e non delle orate.
Di mattina.
Peccato che non abbia avuto il tempo di farla chiacchierare di piú, perché avrei potuto sapere tutto quello che m'importava, ma dall'oscurità della Sacchetta uscí e s'approssimò a noi rapidamente la barchetta di Guido.
Io ero sempre in dubbio: dal momento che c'era Carmen, non avrei dovuto allontanarmi? Forse Guido non aveva neppur avuto l'intenzione d'invitarci ambedue perché io ricordavo di aver quasi rifiutato il suo invito.
Intanto la barchetta approdò e, giovanilmente sicura anche nell'oscurità, Carmen vi scese trascurando di appoggiarsi alla mano che Luciano le aveva offerta.
Poiché esitavo, Guido urlò:
- Non farci perder tempo!
Con un balzo fui anch'io nella barchetta.
Il balzo mio era quasi involontario: un prodotto dell'urlo di Guido.
Guardavo con grande desiderio la terra, ma bastò un istante di esitazione per rendermi impossibile lo sbarco.
Finii col sedermi a prua della non grande barchetta.
Quando m'abituai all'oscurità, vidi che a poppa, di faccia a me, sedeva Guido e ai suoi piedi, a pagliolo, Carmen.
Luciano, che vogava, ci divideva.
Io non mi sentivo né molto sicuro né molto comodo nella piccola barca, ma presto mi vi abituai e guardai le stelle che di nuovo mi mitigarono.
Era vero che in presenza di Luciano - un servo devoto delle famiglie delle nostre mogli - Guido non si sarebbe rischiato di tradire Ada e non c'era perciò niente di male che io fossi con loro.
Desideravo vivamente di poter godere di quel cielo, quel mare e la vastissima quiete.
Se avessi dovuto sentirne rimorso e perciò soffrire, avrei fatto meglio di restare a casa mia a farmi torturare dalla piccola Antonia.
L'aria fresca notturna mi gonfiò i polmoni e compresi ch'io potevo divertirmi in compagnia di Guido e Carmen, cui in fondo volevo bene.
Passammo dinanzi al faro e arrivammo al mare aperto.
Qualche miglio piú in là brillavano le luci d'innumerevoli velieri: là si tendevano ben altre insidie al pesce.
Dal Bagno Militare, - una mole poderosa nereggiante sui suoi pali, - cominciammo a moverci su e giú lungo la riviera di Sant'Andrea.
Era il posto prediletto dei pescatori.
Accanto a noi, silenziosamente, molte altre barche facevano la stessa nostra manovra.
Guido preparò le tre lenze e inescò gli ami configgendovi dei gamberelli per la coda.
Consegnò una lenza ad ognuno di noi dicendo che la mia, a prua, - la sola munita di piombino - sarebbe stata preferita dal pesce.
Scorsi nell'oscurità il mio gamberello dalla coda trafitta e mi parve che movesse lentamente la parte superiore del corpo, quella parte che non era diventata una guaina.
Per questo movimento mi parve piuttosto meditabondo che spasimante dal dolore.
Forse ciò che produce il dolore nei grandi organismi, nei piccolissimi può ridursi fino a divenire un'esperienza nuova, un solletico al pensiero.
Lo ficcai nell'acqua calandovelo, come mi fu detto da Guido, per dieci braccia.
Dopo di me Carmen e Guido calarono le loro lenze.
Guido aveva ora a poppa anche un remo col quale spingeva la barca con l'arte che occorreva perché le lenze non s'aggrovigliassero.
Pare che Luciano non fosse ancora al caso di dirigere in tale modo la barchetta.
Del resto Luciano aveva ora l'incarico della piccola rete con la quale avrebbe levato dall'acqua il pesce portato dall'amo fino alla superficie.
Per lungo tempo egli non ebbe nulla da fare.
Guido ciarlava molto.
Chissà che non sia stato attaccato a Carmen dalla sua passione per l'insegnamento piuttosto che dall'amore.
Io avrei voluto non starlo a sentire per continuare a pensare al piccolo animaletto che tenevo esposto alla voracità dei pesci, sospeso nell'acqua e che coi cenni della testolina - se li continuava anche in acqua - avrebbe adescato meglio il pesce.
Ma Guido mi chiamò ripetute volte e dovetti star a sentire la sua teoria sulla pesca.
Il pesce avrebbe toccato varie volte l'esca e noi l'avremmo sentito, ma dovevamo guardarci dal tirare la lenza finché non si fosse tesa.
Allora dovevamo essere pronti per dare lo strappo che avrebbe infilzato sicuramente l'amo nella bocca del pesce.
Guido, come al solito, fu lungo nelle sue spiegazioni.
Voleva spiegarci chiaramente quello che avremmo sentito nella mano quando il pesce avrebbe annusato l'amo.
E continuava le sue spiegazioni quando io e Carmen conoscevamo già per esperienza la quasi sonora ripercussione sulla mano di ogni contatto che l'amo subiva.
Piú volte dovemmo raccogliere la lenza per rinnovare l'esca.
Il piccolo animaluccio pensieroso finiva invendicato nelle fauci di qualche pesce accorto che sapeva evitare l'amo.
A bordo c'era della birra e dei panini.
Guido condiva tutto ciò con la sua chiacchiera inesauribile.
Parlava ora delle enormi ricchezze che giacevano nel mare.
Non si trattava, come Luciano credeva, né del pesce né delle ricchezze immersevi dall'uomo.
Nell'acqua del mare c'era disciolto dell'oro.
Improvvisamente ricordò ch'io avevo studiato chimica e mi disse:
- Anche tu devi sapere qualche cosa di quest'oro.
Io non ne ricordavo molto, ma annuii arrischiando un'osservazione della cui verità non potevo essere sicuro.
Dichiarai:
- L'oro del mare è il piú costoso di tutti.
Per avere uno di quei napoleoni che giacciono qui disciolti, bisognerebbe spenderne cinque.
Luciano che ansiosamente s'era rivolto a me per sentirmi confermare le ricchezze su cui nuotavamo, mi volse disilluso la schiena.
A lui di quell'oro non importava piú.
Guido invece mi diede ragione credendo di ricordare che il prezzo di quell'oro era esattamente di cinque volte tanto, proprio come avevo detto io.
Mi glorificava addirittura confermando la mia asserzione, che io sapevo del tutto cervellotica.
Si vedeva che mi sentiva poco pericoloso e che in lui non c'era ombra di gelosia per quella donna coricata ai suoi piedi.
Pensai per un istante di metterlo in imbarazzo dichiarando che ricordavo ora meglio e che per trarre dal mare uno di quei napoleoni ne sarebbero bastati tre o che ne sarebbero abbisognati addirittura dieci.
Ma in quell'istante fui chiamato dalla mia lenza che improvvisamente s'era tesa per uno strappo poderoso.
Strappai anch'io e gridai.
Con un balzo Guido mi fu vicino e mi prese di mano la lenza.
Gliel'abbandonai volentieri.
Egli si mise a tirarla su, prima a piccoli tratti, poi, essendo diminuita la resistenza, a grandissimi.
E nell'acqua fosca si vide brillare l'argenteo corpo del grosso animale.
Correva oramai rapidamente e senza resistenza dietro al suo dolore.
Perciò compresi anche il dolore dell'animale muto, perché era gridato da quella fretta di correre alla morte.
Presto l'ebbi boccheggiante ai miei piedi.
Luciano l'aveva tratto dall'acqua con la rete e, strappandonelo senza riguardo, gli aveva levato di bocca l'amo.
Palpò il grosso pesce:
- Un'orata di tre chilogrammi!
Ammirando, disse il prezzo che se ne sarebbe domandato in pescheria.
Poi Guido osservò che l'acqua era ferma a quell'ora e che sarebbe stato difficile di pigliare dell'altro pesce.
Raccontò che i pescatori ritenevano che quando l'acqua non cresceva né calava, i pesci non mangiavano e perciò non potevano essere presi.
Fece della filosofia sul pericolo che risultava ad un animale dal suo appetito.
Poi, mettendosi a ridere, senz'accorgersi che si comprometteva, disse:
- Tu sei l'unico che sappia pescare questa sera.
La mia preda si dibatteva tuttavia nella barca, quando Carmen diede uno strido.
Guido domandò senza muoversi e con una gran voglia di ridere nella voce:
- Un'altra orata?
Carmen confusa rispose:
- Mi pareva! Ma ha già abbandonato l'amo!
Io sono sicuro che, trascinato dal suo desiderio, egli le aveva dato un pizzicotto.
Io oramai mi sentivo a disagio in quella barca.
Non accompagnavo piú col desiderio l'opera del mio amo, anzi agitavo la lenza in modo che i poveri animali non potessero abboccare.
Dichiarai che avevo sonno e pregai Guido di sbarcarmi a Sant'Andrea.
Poi mi preoccupai di togliergli il sospetto ch'io me ne andassi perché infastidito da quanto doveva avermi rivelato lo strido di Carmen, e gli raccontai della scena che aveva fatta la mia piccina quella sera e il mio desiderio di accertarmi presto che non stesse male.
Compiacente come sempre, Guido accostò la barca alla riva.
M'offerse l'orata ch'io avevo pescata, ma io rifiutai.
Proposi di ridarle la libertà gettandola in mare, ciò che fece dare un urlo di protesta a Luciano, mentre Guido bonariamente disse:
- Se sapessi di poter ridarle la vita e la salute lo farei.
Ma a quest'ora la povera bestia non può servire che in piatto!
Li seguii con gli occhi e potei accertarmi che non approfittarono dello spazio lasciato libero da me.
Stavano bene serrati insieme e la barchetta andò via un po' sollevata a prua dal troppo peso a poppa.
Mi parve una punizione divina all'apprendere che la mia bambina era stata colta dalla febbre.
Non l'avevo resa malata io, simulando con Guido una preoccupazione che non sentivo per la sua salute? Augusta non s'era ancora coricata, ma poco prima c'era stato il dottor Paoli che l'aveva rassicurata dicendo di essere sicuro che una febbre improvvisa tanto violenta non poteva annunziare una malattia grave.
Restammo lungamente a guardare Antonia che giaceva abbandonata sul piccolo giaciglio, la faccina dalla pelle asciutta arrossata intensamente sotto i bruni ricci scomposti.
Non gridava, ma si lamentava di tempo in tempo con un lamento breve che veniva interrotto da un torpore imperioso.
Dio mio! Come il male me la portava vicina! Avrei data una parte della mia vita per liberarle il respiro.
Come togliermi il rimorso di aver pensato di non saper amarla, eppoi di aver passato tutto quel tempo in cui soffriva, lontano da lei e in quella compagnia?
- Somiglia ad Ada! - disse Augusta con un singulto.
Era vero! Ce ne accorgemmo allora per la prima volta e quella somiglianza divenne sempre piú evidente a mano a mano che Antonia crebbe, tanto che io talvolta mi sento tremare il cuore al pensiero che le potrebbe toccare il destino della poverina a cui assomiglia.
Ci coricammo dopo di aver posto il letto della bambina accanto a quello di Augusta.
Ma io non potevo dormire: avevo un peso al cuore come quelle sere in cui i miei trascorsi della giornata si specchiavano in immagini notturne di dolore e di rimorso.
La malattia della bambina mi pesava come un'opera mia.
Mi ribellai! Io ero puro e potevo parlare, potevo dire tutto.
E dissi tutto.
Raccontai ad Augusta dell'incontro con Carmen, della posizione ch'essa occupava nella barca, eppoi del suo strido che io dubitai fosse stato provocato da una carezza brutale di Guido senza però poter esserne sicuro.
Ma Augusta ne era sicura.
Perché altrimenti, subito dopo, la voce di Guido sarebbe stata alterata dall'ilarità? Cercai di attenuare la sua convinzione, ma poi dovetti ancora raccontare.
Feci una confessione anche per quanto concerneva me, descrivendo la noia che m'aveva cacciato di casa e il mio rimorso di non amare meglio Antonia.
Mi sentii subito meglio e m'addormentai profondamente.
La mattina appresso, Antonia stava meglio; era quasi priva di febbre.
Giaceva calma e libera di affanno, ma era pallida e affranta come se si fosse consunta in uno sforzo sproporzionato al suo piccolo organismo; evidentemente essa era già uscita vittoriosa dalla breve battaglia.
Nella calma che ne derivò anche a me, ricordai, dolendomene, di aver compromesso orribilmente Guido e volli da Augusta la promessa ch'essa non avrebbe comunicato a nessuno i miei sospetti.
Ella protestò che non si trattava di sospetti, ma di evidenza certa ciò che io negai senza riuscire a convincerla.
Poi essa mi promise tutto quello che volli ed io me ne andai tranquillamente in ufficio.
Guido non c'era ancora e Carmen mi raccontò ch'erano stati ben fortunati dopo la mia partenza.
Avevano prese altre due orate, piú piccole della mia, ma di un peso considerevole.
Io non volli crederlo e pensai che essa volesse convincermi che alla mia partenza avessero abbandonata l'occupazione a cui avevano atteso finché c'ero stato io.
L'acqua non s'era fermata? Fino a che ora erano stati in mare?
Carmen per convincermi mi fece confermare anche da Luciano la pesca delle due orate ed io da quella volta pensai che Luciano per ingraziarsi Guido sia stato capace di qualunque azione.
Sempre durante la calma idillica che precorse l'affare del solfato di rame, avvenne in quell'ufficio una cosa abbastanza strana che non so dimenticare, tanto perché mette in evidenza la smisurata presunzione di Guido, quanto perché pone me in una luce nella quale m'è difficile di ravvisarmi.
Un giorno eravamo tutt'e quattro in ufficio e il solo che fra di noi parlasse di affari era, come sempre, Luciano.
Qualche cosa nelle sue parole suonò all'orecchio di Guido quale una rampogna che, in presenza di Carmen, gli era difficile di sopportare.
Ma altrettanto difficile era difendersene, perché Luciano aveva le prove che un affare ch'egli aveva consigliato mesi prima e che da Guido era stato rifiutato, aveva finito col rendere una quantità di denaro a chi se ne era occupato.
Guido finí col dichiarare di disprezzare il commercio e asserire che se la fortuna non l'avesse assistito in questo, egli avrebbe trovato il mezzo di guadagnare del denaro con altre attività molto piú intelligenti.
Col violino, per esempio.
Tutti furono d'accordo con lui ed anch'io, ma con la riserva:
- A patto di studiare molto.
La mia riserva gli dispiacque e disse subito che se si trattava di studiare, egli allora avrebbe potuto fare molte altre cose, per esempio, della letteratura.
Anche qui gli altri furono d'accordo, ed io stesso, ma con qualche esitazione.
Non ricordavo bene le fisonomie dei nostri grandi letterati e le evocavo per trovarne una che somigliasse a Guido.
Egli allora urlò:
- Volete delle buone favole? Io ve ne improvviso come Esopo!
Tutti risero, meno lui.
Si fece dare la macchina da scrivere e, correntemente, come se avesse scritto sotto dettatura, con gesti piú ampi di quanto esigesse un lavoro utile alla macchina, stese la prima favola.
Porgeva già il foglietto a Luciano, ma si ricredette, lo riprese e lo rimise a posto nella macchina, scrisse una seconda favola, ma questa gli costò piú fatica della prima tanto che dimenticò di continuare a simulare con gesti l'ispirazione e dovette correggere il suo scritto piú volte.
Perciò io ritengo che la prima delle due favole non sia stata sua e che invece la seconda sia veramente uscita dal suo cervello di cui mi sembra degna.
La prima favola diceva di un uccelletto al quale avvenne d'accorgersi che lo sportellino della sua gabbia era rimasto aperto.
Dapprima pensò di approfittarne per volar via, ma poi si ricredette temendo che se, durante la sua assenza, lo sportellino fosse stato rinchiuso egli avrebbe perduta la sua libertà.
La seconda trattava di un elefante ed era veramente elefantesca.
Soffrendo di debolezza alle gambe, il grosso animale andava a consultare un uomo, celebre medico, il quale al vedere quegli arti poderosi gridava: - Non vidi giammai delle gambe tanto forti.
Luciano non si lasciò imporre da quelle favole anche perché non le capiva.
Rideva abbondantemente, ma si vedeva che gli sembrava comico che una cosa simile gli fosse presentata come commerciabile.
Rise poi anche per compiacenza quando gli fu spiegato che l'uccellino temeva di essere privato della libertà di ritornare in gabbia e l'uomo ammirava le gambe per quanto deboli dell'elefante.
Ma poi chiese:
- Quanto si ricava da due favole cosí?
Guido fece da uomo superiore:
- Il piacere d'averle fatte eppoi, volendo farne di piú, anche molti denari.
Carmen invece era agitata dall'emozione.
Domandò il permesso di poter copiare quelle due favole e ringraziò riconoscente quando Guido le offerse in dono il foglietto ch'egli aveva scritto dopo di averlo anche firmato a penna.
Che cosa c'entravo io? Non avevo da battermi per l'ammirazione di Carmen della quale, come ho detto, non m'importava nulla, ma ricordando il mio modo di fare, devo credere che anche una donna che non sia rilevata dal nostro desiderio possa spingerci alla lotta.
Infatti non si battevano gli eroi medievali anche per donne che non avevano mai viste? A me quel giorno avvenne che i dolori lancinanti del mio povero organismo improvvisamente si facessero acuti e mi parve di non poterli attenuare altrimenti che battendomi con Guido facendo subito delle favole anch'io.
Mi feci consegnare la macchina ed io veramente improvvisai.
Vero è che la prima delle favole che feci, stava da molti giorni nel mio animo.
Ne improvvisai il titolo: «Inno alla vita».
Poi, dopo breve riflessione, scrissi di sotto: «Dialogo».
Mi pareva piú facile di far parlare le bestie che descriverle.
Cosí nacque la mia favola dal dialogo brevissimo:
Il gamberello meditabondo: - La vita è bella ma bisogna badare al posto dove ci si siede.
L'orata, correndo dal dentista: - La vita è bella ma bisognerebbe eliminare quegli animalucci traditori che celano nella carne saporita il metallo acuminato.
Ora bisognava fare la seconda favola ma mi mancavano le bestie.
Guardai il cane che giaceva nel suo cantuccio ed anch'esso guardò me.
Da quegli occhi timidi trassi un ricordo: pochi giorni prima Guido era ritornato da caccia pieno di pulci ed era andato a nettarsi nel nostro ripostiglio.
Ebbi allora subito la favola e la scrissi correntemente: «C'era una volta un principe morso da molte pulci.
S'appellò agli dei che affliggessero una sola pulce, grossa e famelica, ma una sola, e destinassero le altre agli altri uomini.
Ma nessuna delle pulci accettò di restare sola con quella bestia d'uomo, ed egli dovette tenersele tutte».
In quel momento le mie favole mi parvero splendide.
Le cose ch'escono dal nostro cervello hanno un aspetto sovranamente amabile specie quando si esaminano non appena nate.
Per dire la verità il mio dialogo mi piace anche adesso, che ho fatta tanta pratica nel comporre.
L'inno alla vita fatto dal morituro è una cosa molto simpatica per coloro che lo guardano morire ed è anche vero che molti moribondi spendono l'ultimo fiato per dire quella che a loro sembra la causa per cui muoiono, innalzando cosí un inno alla vita degli altri che sapranno evitare quell'accidente.
In quanto alla seconda favola non voglio parlarne e fu commentata argutamente da Guido stesso che gridò ridendo:
- Non è una favola, ma un modo di darmi della bestia.
Risi con lui e i dolori che m'avevano spinto a scrivere s'attenuarono subito.
Luciano rise quando gli spiegai quello che avevo voluto dire e trovò che nessuno avrebbe pagato qualche cosa né per le mie né per le favole di Guido.
Ma a Carmen le mie favole non piacquero.
Mi diede un'occhiataccia indagatrice ch'era veramente nuova per quegli occhi e che io intesi come se fosse stata una parola detta:
- Tu non ami Guido!
Ne fui addirittura sconvolto perché in quel momento essa certamente non sbagliava.
Pensai che avevo torto di comportarmi come se non amassi Guido, io che poi lavoravo disinteressatamente per lui.
Dovevo far attenzione al mio modo di comportarmi.
Dissi mitemente a Guido:
- Riconosco volentieri che le tue favole sono migliori delle mie.
Bisogna però ricordare che sono le prime favole che ho fatte in vita mia.
Egli non s'arrese:
- Credi forse ch'io ne abbia fatte delle altre?
Lo sguardo di Carmen s'era già raddolcito e, per ottenerlo piú dolce ancora, io dissi a Guido:
- Tu hai certamente un talento speciale per le favole.
Ma il complimento fece ridere tutti e due e subito dopo anche me, ma tutti bonariamente perché si vedeva che avevo parlato senz'alcuna intenzione maligna.
L'affare del solfato di rame diede una maggiore serietà al nostro ufficio.
Non c'era piú tempo per le favole.
Quasi tutti gli affari che ci venivano proposti erano ormai da noi accettati.
Alcuni diedero qualche utile, ma piccolo; altri delle perdite, ma grandi.
Una strana avarizia era il principale difetto di Guido che fuori degli affari era tanto generoso.
Quando un affare si dimostrava buono, egli lo liquidava frettolosamente, avido d'incassare il piccolo utile che gliene derivava.
Quando invece si trovava involto in un affare sfavorevole, non si decideva mai ad uscirne pur di ritardare il momento in cui doveva toccare la propria tasca.
Per questo io credo che le sue perdite sieno state sempre rilevanti e i suoi utili piccoli.
Le qualità di un commerciante non sono altro che le risultanti di tutto il suo organismo, dalla punta dei capelli fino alle unghie dei piedi.
A Guido si sarebbe adattata una parola che hanno i Greci: «astuto imbecille».
Veramente astuto, ma anche veramente uno scimunito.
Era pieno di accortezze che non servivano ad altro che ad ungere il piano inclinato sul quale scivolava sempre piú in giú.
Assieme al solfato di rame gli capitarono tra capo e collo i due gemelli.
La sua prima impressione fu di sorpresa tutt'altro che piacevole, ma subito dopo di avermi annunziato l'avvenimento, gli riuscí di dire una facezia che mi fece ridere molto, per cui, compiacendosi del successo, non seppe conservare il cipiglio.
Associando i due bambini alle sessanta tonnellate di solfato, disse:
- Sono condannato a lavorare all'ingrosso, io!
Per confortarlo gli ricordai che Augusta era di nuovo nel settimo mese e che ben presto in fatto di bambini avrei raggiunto il suo tonnellaggio.
Rispose sempre argutamente:
- A me, da buon contabile, non sembra la stessa cosa.
Dopo qualche giorno, per qualche tempo, fu preso da un grande affetto per i due marmocchi.
Augusta che passava una parte della sua giornata dalla sorella, mi raccontò ch'egli dedicava loro ogni giorno qualche ora.
Li carezzava, e ninnava e Ada gliene era tanto riconoscente che fra i due coniugi sembrava rifiorire un nuovo affetto.
In quei giorni egli versò un importo abbastanza vistoso ad una società d'Assicurazioni per far trovare ai figli a vent'anni una piccola sostanza.
Lo ricordo per aver io registrato quell'importo a suo debito.
Fui invitato anch'io a vedere i due gemelli; anzi da Augusta m'era stato detto che avrei potuto salutare anche Ada, che invece non poté ricevermi dovendo stare a letto ad onta che fossero passati già dieci giorni dal parto.
I due bambini giacevano in due culle in un gabinetto attiguo alla stanza da letto dei genitori.
Ada, dal suo letto, mi gridò:
- Sono belli, Zeno?
Restai sorpreso dal suono di quella voce.
Mi parve piú dolce: era un vero grido perché vi si sentiva uno sforzo, eppure rimaneva tanto dolce.
Senza dubbio la dolcezza in quella voce veniva dalla maternità, ma io ne fui commosso perché ve la scoprivo proprio quand'era rivolta a me.
Quella dolcezza mi fece sentire come se Ada non m'avesse chiamato col solo mio nome, ma premettendovi anche qualche qualificativo affettuoso come «caro» o «fratello mio»! Ne sentii una viva riconoscenza e divenni buono ed affettuoso.
Risposi festosamente:
- Belli, cari, somiglianti, due meraviglie.
- Mi parevano invece due morticini scoloriti.
Vagivano ambedue e non andavano d'accordo.
Presto Guido ritornò alla vita di prima.
Dopo l'affare del solfato veniva piú assiduo in ufficio, ma ogni settimana, al sabato, partiva per la caccia e non ritornava che al lunedí mattina tardi e giusto in tempo per dare un'occhiata all'ufficio prima di colazione.
Alla pesca andava di sera e passava spesso la notte in mare.
Augusta mi raccontava dei dispiaceri di Ada, la quale soffriva bensí di una frenetica gelosia, ma anche di trovarsi sola per tanta parte della giornata.
Augusta tentava di calmarla ricordandole che a caccia e a pesca non c'erano donne.
Però - non si sapeva da chi - Ada era stata informata che Carmen talvolta aveva accompagnato Guido a pesca.
Guido, poi, l'aveva confessato aggiungendo che non c'era niente di male in una gentilezza ch'egli usava ad un'impiegata che gli era tanto utile.
Eppoi non c'era stato sempre presente Luciano? Egli finí col promettere che non l'avrebbe invitata piú, visto che ad Ada ciò dispiaceva.
Dichiarava di non voler rinunciare né alla sua caccia che gli costava tanti denari né alla pesca.
Diceva di lavorare molto (e infatti in quell'epoca nel nostro ufficio c'era molto da fare) e gli pareva che un po' di svago gli spettasse.
Ada non era di tale parere e le sembrava che il miglior svago egli l'avrebbe avuto in famiglia, e trovava in ciò l'assenso incondizionato di Augusta, mentre a me quello sembrava uno svago troppo sonoro.
Augusta allora esclamava:
- E tu non sei forse a casa ogni giorno, ad ore debite?
Era vero ed io dovevo confessare che fra me e Guido c'era una grande differenza, ma non sapevo vantarmene.
Dicevo ad Augusta accarezzandola:
- Il merito è tuo perché hai usato dei metodi molto drastici di educazione.
D'altronde per il povero Guido le cose andavano peggiorandosi ogni giorno di piú: dapprima c'erano stati bensí due bambini, ma una balia sola perché si sperava che Ada avrebbe potuto nutrire uno dei bambini.
Invece essa non lo poté e dovettero far venire un'altra balia.
Quando Guido voleva farmi ridere, camminava su e giú per l'ufficio battendosi il tempo con le parole: - Una moglie...
due bambini...
due balie!
C'era una cosa che Ada specialmente odiava: Il violino di Guido.
Essa sopportava i vagiti dei bambini, ma soffriva orrendamente per il suono del violino.
Aveva detto ad Augusta:
- Mi sentirei di abbaiare come un cane contro quei suoni!
Strano! Augusta invece era beata quando passando dinanzi al mio studiolo sentiva uscirne i miei suoni aritmici!
- Eppure anche il matrimonio di Ada è stato un matrimonio d'amore, - dicevo io stupito.
- Non è il violino la miglior parte di Guido?
Tali chiacchiere furono del tutto dimenticate quando io rividi per la prima volta Ada.
Fui proprio io che per il primo m'accorsi della sua malattia.
Uno dei primi giorni del Novembre - una giornata fredda, priva di sole, umida, - abbandonai eccezionalmente l'ufficio alle tre del pomeriggio e corsi a casa pensando di riposare e sognare per qualche ora nel mio studiolo caldo.
Per recarmivi dovevo passare il lungo corridoio, e dinanzi alla stanza di lavoro di Augusta mi fermai perché sentii la voce di Ada.
Era dolce o malsicura (ciò che si equivale, io credo) come quel giorno in cui era stata indirizzata a me.
Entrai in quella stanza spintovi dalla strana curiosità di vedere come la serena, la calma Ada, potesse vestirsi di quella voce che ricordava un po' quella di qualche nostra attrice quando vuol far piangere senza saper piangere essa stessa.
Infatti era una voce falsa o io la sentivo cosí, solo perché senza neppur aver visto chi la emetteva, la percepivo per la seconda volta dopo tanti giorni sempre ugualmente commossa e commovente.
Pensai parlassero di Guido, perché quale altro argomento avrebbe potuto commuovere a quel modo Ada?
Invece le due donne, prendendo una tazza di caffè insieme, parlavano di cose domestiche: biancheria, servitú eccetera.
Ma mi bastò di aver vista Ada per intendere che quella voce non era falsa.
Commovente era anche la sua faccia ch'io per primo scoprivo tanto alterata, e quella voce, se non si accordava con un sentimento, rispecchiava esattamente tutto un organismo, ed era perciò vera e sincera.
Questo io sentii subito.
Io non sono un medico e perciò non pensai ad una malattia, ma cercai di spiegarmi l'alterazione nell'aspetto di Ada come un effetto della convalescenza dopo il parto.
Ma come si poteva spiegare che Guido non si fosse accorto di tanto mutamento avvenuto nella sua donna? Intanto io, che sapevo a mente quell'occhio, quell'occhio ch'io tanto avevo temuto perché subito m'ero accorto che freddamente esaminava cose e persone per ammetterle o respingerle, potei constatare subito ch'era mutato, ingrandito, come se per vedere meglio avesse forzata l'orbita.
Stonava quell'occhio grande nella faccina immiserita e scolorita.
Mi stese con grande affetto la mano:
- Già lo so, - mi disse - tu approfitti di ogni istante per venir a riveder tua moglie e la tua bambina.
Aveva la mano madida di sudore ed io so che ciò denota debolezza.
Tanto piú mi figurai che, rimettendosi, avrebbe riacquistati gli antichi colori e le linee sicure delle guancie e dell'incassatura dell'occhio.
Interpretai le parole che m'aveva indirizzate quale un rimprovero rivolto a Guido, e bonariamente risposi che Guido, quale proprietario della ditta, aveva maggiori responsabilità delle mie che lo legavano all'ufficio.
Mi guardò indagatrice per assicurarsi ch'io parlavo sul serio.
- Ma pure - disse - mi sembra che potrebbe trovare un po' di tempo per sua moglie e i suoi figli, - e la sua voce era piena di lacrime.
Si rimise con un sorriso che domandava indulgenza e soggiunse:
- Oltre agli affari ci sono anche la caccia e la pesca! Quelle, quelle portano via tanto tempo.
Con una volubilità che mi stupí raccontò dei cibi prelibati che si mangiavano alla loro tavola in seguito alla caccia e alla pesca di Guido.
- Tuttavia vi rinunzierei volentieri! - soggiunse poi con un sospiro e una lagrima.
Non si diceva però infelice, anzi! Raccontava che ormai non sapeva neppur figurarsi che non le fossero nati i due bambini ch'essa adorava! Con un po' di malizia aggiungeva sorridendo che li amava di piú ora che ciascuno aveva la sua balia.
Essa non dormiva molto, ma almeno, quando arrivava a prender sonno, nessuno la disturbava.
E quando le chiesi se davvero dormisse tanto poco, si rifece seria e commossa per dirmi ch'era il suo maggior disturbo.
Poi, lieta, aggiunse:
- Ma va già meglio!
Poco dopo ci lasciò per due ragioni: prima di sera doveva andar a salutare la madre eppoi non sapeva sopportare la temperatura delle nostre stanze munite di grandi stufe.
Io, che ritenevo quella temperatura appena gradevole, pensai fosse un segno di forza quello di sentirla eccessivamente calda:
- Non pare che tu sia tanto debole, - dissi sorridendo, - vedrai come sentirai diversamente alla mia età.
Essa si compiacque molto di sentirsi designare come troppo giovine.
Io ed Augusta l'accompagnammo fino al pianerottolo.
Pareva sentisse un grande bisogno della nostra amicizia perché per fare quei pochi passi camminò in mezzo a noi e si prese prima al braccio di Augusta eppoi al mio che io subito irrigidii per paura di cedere ad un'antica abitudine di premere ogni braccio femminile che s'offrisse al mio contatto.
Sul pianerottolo parlò ancora molto e, avendo ricordato il padre suo, ebbe gli occhi di nuovo umidi, per la terza volta in un quarto d'ora.
Quando se ne fu andata, io dissi ad Agusta che quella non era una donna ma una fontana.
Benché avessi vista la malattia di Ada, non vi diedi alcun'importanza.
Aveva l'occhio ingrandito; aveva la faccina magra; la sua voce s'era trasformata ed anche il carattere in quell'affettuosità che non era sua, ma io attribuivo tutto ciò alla doppia maternità e alla debolezza.
Insomma io mi dimostrai un magnifico osservatore perché vidi tutto, ma un grande ignorante perché non dissi la vera parola: malattia!
Il giorno appresso l'ostetrico, che curava Ada, domandò l'assistenza del dottor Paoli il quale subito pronunziò la parola ch'io non avevo saputo dire: Morbus Basedowii.
Guido me lo raccontò descrivendomi con grande dottrina la malattia e compiangendo Ada che soffriva molto.
Senz'alcuna malizia io penso che la sua compassione e la sua scienza non fossero grandi.
Assumeva un aspetto accorato quando parlava della moglie, ma quando dettava delle lettere a Carmen manifestava tutta la gioia di vivere e insegnare; credeva poi che colui che aveva dato il suo nome alla malattia fosse il Basedow ch'era stato l'amico di Goethe, mentre quando io studiai quella malattia in un'enciclopedia, m'accorsi subito che si trattava di un altro.
Grande, importante malattia quella di Basedow! Per me fu importantissimo di averla conosciuta.
La studiai in varie monografie e credetti di scoprire appena allora il segreto essenziale del nostro organismo.
Io credo che da molti come da me vi sieno dei periodi di tempo in cui certe idee occupino e ingombrino tutto il cervello chiudendolo a tutte le altre.
Ma se anche alla collettività succede la stessa cosa! Vive di Darwin dopo di essere vissuta di Robespierre e di Napoleone eppoi di Liebig o magari di Leopardi quando su tutto il cosmo non troneggi Bismark!
Ma di Basedow vissi sol io! Mi parve ch'egli avesse portate alla luce le radici della vita la quale è fatta cosí: tutti gli organismi si distribuiscono su una linea, ad un capo della quale sta la malattia di Basedow che implica il generosissimo, folle consumo della forza vitale ad un ritmo precipitoso, il battito di un cuore sfrenato, e all'altro stanno gli organismi immiseriti per avarizia organica, destinati a perire di una malattia che sembrerebbe di esaurimento ed è invece di poltronaggine.
Il giusto medio fra le due malattie si trova al centro e viene designato impropriamente come la salute che non è che una sosta.
E fra il centro ed un'estremità - quella di Basedow - stanno tutti coloro ch'esasperano e consumano la vita in grandi desiderii.
ambizioni, godimenti e anche lavoro, dall'altra quelli che non gettano sul piatto della vita che delle briciole e risparmiano preparando quegli abietti longevi che appariscono quale un peso per la società.
Pare che questo peso sia anch'esso necessario.
La società procede perché i Basedowiani la sospingono, e non precipita perché gli altri la trattengono.
Io sono convinto che volendo costruire una società, si poteva farlo piú semplicemente, ma è fatta cosí, col gozzo ad uno dei suoi capi e l'edema all'altro, e non c'è rimedio.
In mezzo stanno coloro che hanno incipiente o gozzo o edema e su tutta la linea, in tutta l'umanità, la salute assoluta manca.
Anche ad Ada il gozzo mancava a quanto mi diceva Augusta, ma aveva tutti gli altri sintomi della malattia.
Povera Ada! M'era apparsa come la figurazione della salute e dell'equilibrio, tanto che per lungo tempo avevo pensato avesse scelto il marito con lo stesso animo freddo col quale suo padre sceglieva la sua merce, ed ora era stata afferrata da una malattia che la trascinava a tutt'altro regime: le perversioni psichiche! Ma io ammalai con lei di una malattia lieve, ma lunga.
Per troppo tempo pensai a Basedow.
Già credo che in qualunque punto dell'universo ci si stabilisca si finisce coll'inquinarsi.
Bisogna moversi.
La vita ha dei veleni, ma poi anche degli altri veleni che servono di contravveleni.
Solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri.
La mia malattia fu un pensiero dominante, un sogno, e anche uno spavento.
Deve aver avuto origine da un ragionamento: con la designazione di perversione si vuole intendere una deviazione dalla salute, quella specie di salute che ci accompagnò per un tratto della vita.
Ora sapevo che cosa fosse stata la salute da Ada.
Non poteva la sua perversione portarla ad amare me, che da sana aveva respinto?
Io non so come questo terrore (o questa speranza) sia nato nel mio cervello!
Forse perché la voce dolce e spezzata di Ada mi parve di amore quando s'indirizzò a me? La povera Ada s'era fatta ben brutta ed io non sapevo piú desiderarla.
Ma andavo rivedendo i nostri rapporti passati e mi pareva che se essa fosse stata còlta da un improvviso amore per me, mi sarei trovato nelle brutte condizioni che ricordavano un poco quelle di Guido verso l'amico inglese dalle sessanta tonnellate di solfato di rame.
Proprio lo stesso caso! Pochi anni prima io le avevo dichiarato il mio amore e non avevo fatto alcun atto di revoca fuori di quello di sposarne la sorella.
In tale contratto essa non era protetta dalla legge ma dalla cavalleria.
A me pareva di essere tanto fortemente impegnato con lei, che se essa si fosse presentata da me molti ma molti anni piú tardi, perfezionata magari nella malattia di Basedow da un bel gozzo, io avrei dovuto far onore alla mia firma.
Ricordo però che tale prospettiva rese il mio pensiero piú affettuoso per Ada.
Fino ad allora, quando m'avevano informato dei dolori di Ada causati da Guido, io non ne avevo certamente goduto, ma pure avevo rivolto il pensiero con una certa soddisfazione alla mia casa nella quale Ada aveva rifiutato di entrare ed ove non si soffriva affatto.
Ora le cose avevano cambiato: quell'Ada che m'aveva respinto con disdegno non c'era piú, a meno che i miei testi di medicina non sbagliassero.
La malattia di Ada era grave.
Il dottor Paoli, pochi giorni dopo, consigliò di allontanarla dalla famiglia e di mandarla in una casa di salute a Bologna.
Seppi ciò da Guido, ma Augusta poi mi raccontò che alla povera Ada anche in quel momento non furono risparmiati dei grandi dispiaceri.
Guido aveva avuto la sfacciataggine di proporre di metter Carmen alla direzione della famiglia durante l'assenza di sua moglie.
Ada non ebbe il coraggio di dire apertamente quello che pensava di una simile proposta, ma dichiarò che non si sarebbe mossa di casa se non le fosse stato permesso di affidarne la direzione alla zia Maria, e Guido si adattò senz'altro.
Egli però continuò ad accarezzare l'idea di poter aver Carmen a sua disposizione al posto lasciato libero da Ada.
Un giorno disse a Carmen che se essa non fosse stata tanto occupata in ufficio, egli le avrebbe volentieri affidata la direzione della sua casa.
Luciano ed io ci guardammo, e certamente scoprimmo ognuno nella faccia dell'altro un'espressione maliziosa.
Carmen arrossí e mormorò che non avrebbe potuto accettare.
- Già - disse Guido con ira - per quegli sciocchi riguardi al mondo non si può fare quello che gioverebbe tanto!
Però tacque anche lui presto ed era sorprendente abbreviasse una predica tanto interessante.
Tutta la famiglia accompagnò Ada alla stazione.
Augusta m'aveva pregato di portare dei fiori per la sorella.
Arrivai un po' in ritardo con un bel mazzo di orchidee che porsi ad Augusta.
Ada ci sorvegliava e quando Augusta le offerse i fiori ci disse:
- Vi ringrazio di cuore!
Voleva significare di aver ricevuto i fiori anche da me, ma io sentii ciò come una manifestazione di affetto fraterno, dolce e anche un po' fredda.
Basedow certo non ci entrava.
Pareva una sposina, la povera Ada con quegli occhi ingranditi smisuratamente dalla felicità.
La sua malattia sapeva simulare tutte le emozioni.
Guido partiva con lei per accompagnarla e ritornare dopo pochi giorni.
Aspettammo sulla banchina la partenza del treno.
Ada rimase affacciata alla finestra della sua vettura e continuò ad agitare il fazzoletto finché poté vederci.
Poi accompagnammo la signora Malfenti lacrimante a casa.
Al momento di dividerci mia suocera dopo di aver baciata Augusta, baciò anche me.
- Scusa! - desse ridendo fra le lacrime - l'ho fatto senza proposito, ma se lo permetti ti dò anche un altro bacio.
Anche la piccola Anna, ormai dodicenne, volle baciarmi.
Alberta, ch'era in procinto di abbandonare il teatro nazionale per fidanzarsi, e che di solito era un po' sostenuta con me, quel giorno mi porse calorosamente la mano.
Tutte mi volevano bene perché mia moglie era fiorente, e facevano cosí delle manifestazioni di antipatia per Guido, la cui moglie era malata.
Ma proprio allora corsi il rischio di divenire un marito meno buono.
Diedi un grande dolore a mia moglie, senza mia colpa, per un sogno cui innocentemente la feci addirittura partecipare.
Ecco il sogno: eravamo in tre, Augusta, Ada ed io che ci eravamo affacciati ad una finestra e precisamente alla piú piccola che ci fosse stata nelle nostre tre abitazioni, cioè la mia, quella di mia suocera e quella di Ada.
Eravamo cioè alla finestra della cucina della casa di mia suocera che veramente si apre sopra un piccolo cortile mentre nel sogno dava proprio sul Corso.
Al piccolo davanzale c'era tanto poco spazio che Ada, che stava in mezzo a noi tenendosi alle nostre braccia, aderiva proprio a me.
Io la guardai e vidi che il suo occhio era ridivenuto freddo e preciso e le linee della sua faccia purissime fino alla nuca ch'io vedevo coperta dei suoi riccioli lievi, quei riccioli ch'io avevo visti tanto spesso quando Ada mi volgeva le spalle.
Ad onta di tanta freddezza (tale mi pareva la sua salute) essa rimaneva aderente a me come avevo creduto lo fosse quella sera del mio fidanzamento intorno al tavolino parlante.
Io, giocondamente, dissi ad Augusta (certo facendo uno sforzo per occuparmi anche di lei): «Vedi com'è risanata? Ma dov'è Basedow?».
«Non vedi?», domandò Augusta ch'era la sola fra di noi che arrivasse a guardare sulla via.
Con uno sforzo ci sporgemmo anche noi e scorgemmo una grande folla che s'avanzava minacciosa urlando.
«Ma dov'è Basedow?» domandai ancora una volta.
Poi lo vidi.
Era lui che s'avanzava inseguito da quella folla: un vecchio pezzente coperto di un grande mantello stracciato, ma di broccato rigido, la grande testa coperta di una chioma bianca disordinata, svolazzante all'aria, gli occhi sporgenti dall'orbita che guardavano ansiosi con uno sguardo ch'io avevo notato in bestie inseguite, di paura e di minaccia.
E la folla urlava: «Ammazzate l'untore!».
Poi ci fu un intervallo di notte vuota.
Indi, subito, Ada ed io ci trovavamo soli sulla piú erta scala che ci fosse nelle nostre tre case, quella che conduce alla soffitta della mia villa.
Ada era posta per alcuni scalini piú in alto, ma rivolta a me ch'ero in atto di salire, mentre lei sembrava volesse scendere.
Io le abbracciavo le gambe e lei si piegava verso di me non so se per debolezza o per essermi piú vicina.
Per un istante mi parve sfigurata dalla sua malattia, ma poi, guardandola con affanno, riuscivo a rivederla come m'era apparsa alla finestra, bella e sana.
Mi diceva con la sua voce soda: «Precedimi, ti seguo subito!» Io, pronto, mi volgevo per precederla correndo, ma non abbastanza presto per non scorgere che la porta della mia soffitta veniva aperta pian pianino e ne sporgeva la testa chiomata e bianca di Basedow con quella sua faccia fra timorosa e minacciosa.
Ne vidi anche le gambe malsicure e il povero misero corpo che il mantello non arrivava a celare.
Arrivai a correre via, ma non so se per precedere Ada o per fuggirla.
Ora pare che trafelato io mi sia destato nella notte, e nell'assopimento abbia raccontato tutto o parte del sogno ad Augusta per riprendere poi il sonno piú tranquillo e piú profondo.
Credo che nella mezza coscienza io abbia seguito ciecamente l'antico desiderio di confessare i miei trascorsi.
Alla mattina, sulla faccia di Augusta, c'era il cereo pallore delle grandi occasioni.
Io ricordavo perfettamente il sogno, ma non esattamente quello che gliene avessi riferito.
Con un aspetto di rassegnazione dolorosa essa mi disse:
- Ti senti infelice perché essa è malata ed è partita e perciò sogni di lei.
Io mi difesi ridendo ed irridendo.
Non Ada era importante per me, ma Basedow, e le raccontai dei miei studi e anche delle applicazioni che avevo fatte.
Ma non so se riuscii di convincerla.
Quando si viene colti nel sogno è difficile di difendersi.
È tutt'altra cosa che arrivare alla moglie freschi freschi dall'averla tradita in piena coscienza.
Del resto, per tali gelosie di Augusta, io non avevo nulla da perdere perché essa amava tanto Ada che da quel lato la sua gelosia non gettava alcun'ombra e, in quanto a me, essa mi trattava con un riguardo anche piú affettuoso e m'era anche piú grata di ogni mia piú lieve manifestazione di affetto.
Pochi giorni dopo, Guido ritornò da Bologna con le migliori notizie.
Il direttore della casa di salute garantiva una guarigione definitiva a patto che Ada trovasse poi in casa una grande quiete.
Guido riferí con semplicità e bastevole incoscienza la prognosi del sanitario non avvedendosi che in famiglia Malfenti quel verdetto veniva a confermare molti sospetti sul suo conto.
Ed io dissi ad Augusta:
- Ecco che sono minacciato di altri baci di tua madre.
Pare che Guido non si trovasse molto bene nella casa diretta da zia Maria.
Talvolta camminava su e giú per l'ufficio mormorando:
- Due bambini...
tre balie...
nessuna moglie.
Anche dall'ufficio rimaneva piú spesso assente perché sfogava il suo malumore imperversando sulle bestie a caccia e a pesca.
Ma quando verso la fine dell'anno, ebbimo da Bologna la notizia che Ada veniva considerata guarita e che s'accingeva a rimpatriare, non mi parve che egli ne fosse troppo felice.
S'era abituato a zia Maria oppure la vedeva tanto poco che gli era facile e gradevole di sopportarla? Con me naturalmente non manifestò il suo malumore se non esprimendo il dubbio che forse Ada s'affrettava troppo a lasciare la casa di salute prima di essersi assicurata contro una ricaduta.
Infatti quand'essa, dopo breve tempo e ancora nel corso di quello stesso inverno, dovette ritornare a Bologna, egli mi disse trionfante:
- L'avevo detto io?
Non credo però che in quel trionfo ci fosse stata altra gioia che quella da lui tanto viva di aver saputo prevedere qualche cosa.
Egli non augurava del male ad Ada, ma l'avrebbe tenuta volentieri per lungo tempo a Bologna.
Quando Ada ritornò, Augusta era relegata a letto per la nascita del mio piccolo Alfio e in quell'occasione fu veramente commovente.
Volle io andassi alla stazione con dei fiori e dicessi ad Ada ch'essa voleva vederla quello stesso giorno.
E se Ada non avesse potuto venire da lei addirittura dalla stazione, mi pregava ritornassi subito a casa, per saperle descrivere Ada e dirle se la sua bellezza, di cui in famiglia erano tanto orgogliosi, le fosse stata restituita intera.
Alla stazione eravamo io, Guido e la sola Alberta, perché la signora Malfenti passava una gran parte delle sue giornate presso Augusta.
Sulla banchina, Guido cercava di convincerci della sua grande gioia per l'arrivo di Ada, ma Alberta lo ascoltava fingendo una grande distrazione allo scopo - come poi mi disse - di non dover rispondergli.
In quanto a me la simulazione con Guido mi costava oramai poca fatica.
M'ero abituato a fingere di non accorgermi delle sue preferenze per Carmen e non avevo mai osato alludere ai suoi torti verso la moglie.
Non m'era perciò difficile di avere un atteggiamento d'attenzione come se ammirassi la sua gioia per il ritorno della sua amata moglie.
Quando il treno in punto a mezzodí entrò in stazione, egli ci precedette per raggiungere la moglie che ne scendeva.
La prese fra le braccia e la baciò affettuosamente.
Io, che gli vedevo il dorso piegato per arrivare a baciare la moglie piú piccola di lui, pensai: «Un bravo attore!».
Poi prese Ada per mano e la condusse a noi:
- Eccola riconquistata al nostro affetto!
Allora si rivelò quale era, cioè falso e simulatore, perché se egli avesse guardata meglio in faccia la povera donna, si sarebbe accorto che invece che al nostro affetto essa veniva consegnata alla nostra indifferenza.
La faccia di Ada era male costruita perché aveva riconquistate delle guancie ma fuori di posto come se la carne, quando ritornò, avesse dimenticato dove apparteneva e si fosse poggiata troppo in basso.
Avevano perciò l'aspetto di gonfiezze anziché di guancie.
E l'occhio era ritornato nell'orbita, ma nessuno aveva saputo riparare i danni ch'esso aveva prodotto uscendone.
Aveva spostate o distrutte delle linee precise e importanti.
Quando ci congedammo fuori della stazione, al sole invernale abbacinante vidi che tutto il colorito di quella faccia non era piú quello che io avevo tanto amato.
Era impallidito e sulle parti carnose si arrossava per chiazzette rosse.
Pareva che la salute non appartenesse piú a quella faccia e si fosse riusciti di fingervela.
Raccontai subito ad Augusta che Ada era bellissima proprio come era stata da fanciulla ed essa ne fu beata.
Poi, dopo di averla vista, a mia sorpresa essa confermò piú volte come se fossero state evidenti verità le mie pietose bugie.
Essa diceva:
- È bella com'era da fanciulla e come lo sarà mia figlia!
Si vede che l'occhio di una sorella non è molto acuto.
Per lungo tempo non rividi Ada.
Essa aveva troppi figliuoli e cosí pure noi.
Tuttavia Ada e Augusta facevano in modo di trovarsi insieme varie volte alla settimana, ma sempre in ore in cui io ero fuori di casa.
Si approssimava l'epoca del bilancio ed io avevo molto da fare.
Fu anzi quella l'epoca della mia vita in cui lavorai di piú.
Qualche giorno restai a tavolino persino per dieci ore.
Guido m'aveva offerto di farmi assistere da un contabile, ma io non ne volli sapere.
Avevo assunto un incarico e dovevo corrispondervi.
Intendevo compensare Guido di quella mia funesta assenza di un mese, e mi piaceva anche dimostrare a Carmen la mia diligenza, che non poteva essere ispirata da altro che dal mio affetto per Guido.
Ma come procedetti nel regolare i conti, incominciai a scoprire la grossa perdita in cui eravamo incorsi in quel primo anno di esercizio.
Impensierito ne dissi a quattr'occhi qualche cosa a Guido, ma lui, che s'apprestava a partire per la caccia, non volle starmi a sentire:
- Vedrai che non è tanto grave come ti sembra eppoi l'anno non è ancora finito.
Infatti mancavano ancora otto giorni interi a capo d'anno.
Allora mi confidai ad Augusta.
Dapprima essa vide in quella faccenda solo il danno che ne avrebbe potuto derivare a me.
Le donne sono sempre fatte cosí, ma Augusta era straordinaria persino fra le donne quando qui si doleva del proprio danno.
Non avrei finito anch'io - essa domandava - con l'essere ritenuto un po' responsabile delle perdite subite da Guido? Voleva si consultasse subito un avvocato.
Bisognava intanto staccarsi da Guido e cessare dal frequentare quell'ufficio.
Non mi fu facile di convincerla ch'io non potevo essere tenuto responsabile di niente non essendo io altra cosa che un impiegato di Guido.
Essa sosteneva che chi non ha un emolumento fisso non possa essere considerato quale un impiegato, ma qualche cosa di simile ad un padrone.
Quando fu ben convinta, naturalmente restò della sua opinione perché allora scoprí che non avrei perduto niente se avessi cessato di frequentare quell'ufficio dove sicuramente avrei finito col diffamarmi commercialmente.
Diamine: la mia fama commerciale! Fui anch'io d'accordo ch'era importante di salvarla e, per quanto essa avesse avuto torto negli argomenti, si conchiuse che dovevo fare com'ella voleva.
Consentí ch'io terminassi il bilancio poiché l'avevo iniziato, ma poi avrei dovuto trovare il modo di ritornare al mio studiolo nel quale non si guadagnavano dei denari, ma nemmeno se ne perdevano.
Feci però allora una curiosa esperienza su me stesso.
Io non fui capace di abbandonare quella mia attività per quanto lo avessi deciso.
Ne fui stupito! Per intendere bene le cose, occorre lavorare di immagini.
Ricordai allora che una volta in Inghilterra la condanna ai lavori forzati veniva applicata appendendo il condannato al disopra di una ruota azionata a forza d'acqua, obbligando cosí la vittima a muovere in un certo ritmo le gambe che altrimenti gli sarebbero state sfracellate.
Quando si lavora si ha sempre il senso di una costrizione di quel genere.
È vero che quando non si lavora la posizione è la stessa e credo giusto di asserire che io e l'Olivi fummo sempre ugualmente appesi; soltanto che io lo fui in modo da non dover movere le gambe.
La nostra posizione dava bensí un risultato differente, ma ora so con certezza ch'esso non legittimava né un biasimo né una lode.
Insomma dipende dal caso se si viene attaccati ad una ruota mobile o ad una immobile.
Staccarsene è sempre difficile.
Per varii giorni, dopo chiuso il bilancio, continuai ad andare all'ufficio pur avendo deciso di non andarci affatto.
Uscivo di casa incerto; incerto prendevo una direzione ch'era quasi sempre quella dell'ufficio e, come procedevo, tale direzione si precisava finché non mi trovavo seduto sulla solita sedia in faccia a Guido.
Per fortuna a un dato momento fui pregato di non lasciare il mio posto ed io subito vi accondiscesi visto che nel frattempo m'ero accorto d'esservi inchiodato.
Per il quindici di Gennaio il mio bilancio era chiuso.
Un vero disastro! Chiudevamo con la perdita di metà del capitale.
Guido non avrebbe voluto farlo vedere al giovine Olivi temendone qualche indiscrezione, ma io insistetti nella speranza che costui, con la sua grande pratica, vi avesse trovato qualche errore tale da mutare tutta la posizione.
Poteva esserci qualche importo spostato dal dare, ove apparteneva, all'avere, e con una rettifica si sarebbe arrivati ad una differenza importante.
Sorridendo, l'Olivi promise a Guido la massima discrezione e lavorò poi con me per una giornata intera.
Disgraziatamente non trovò alcun errore.
Devo dire che io da quella revisione fatta in due, appresi molto e che oramai saprei affrontare e chiudere dei bilanci anche piú importanti di quello.
- E che cosa farete ora? - domandò l'occhialuto giovinotto prima di andarsene.
Io sapevo già quello ch'egli avrebbe suggerito.
Mio padre, che spesso mi aveva parlato di commercio nella mia infanzia, me l'aveva già insegnato.
Secondo le leggi vigenti, data la perdita di metà del capitale, noi si avrebbe dovuto liquidare la ditta e magari ristabilirla subito su nuove basi.
Lasciai ch'egli mi ripetesse il consiglio.
Aggiunse:
- Si tratta di una formalità.
- Poi, sorridendo:
- Può costare caro il non attenervisi!
Alla sera anche Guido si mise a rivedere il bilancio cui non sapeva adattarsi ancora.
Lo fece senz'alcun metodo, verificando questo o quell'importo a casaccio.
Volli interrompere quel lavoro inutile e gli comunicai il consiglio dell'Olivi di liquidare subito, ma pro forma, la gestione.
Fino ad allora Guido aveva avuto la faccia contratta dallo sforzo di trovare in quei conti l'errore liberatore: un cipiglio complicato dalla contrazione di chi ha in bocca un sapore disgustoso.
Alla mia comunicazione alzò la faccia che si spianò in uno sforzo d'attenzione.
Non comprese subito, ma quando capí si mise subito a ridere di cuore.
Io interpretai l'espressione della sua faccia cosí: aspra, acida finché si trovava di fronte a quelle cifre che non si potevano alterare; lieta e risoluta quando il doloroso problema fu spinto in disparte da una proposta che gli dava agio di riavere il sentimento di padrone e arbitro.
Non comprendeva.
Gli pareva il consiglio di un nemico.
Gli spiegai che il consiglio dell'Olivi aveva il suo valore specialmente per il pericolo, che incombeva in modo evidente sulla ditta, di perdere degli altri denari e fallire.
Un'eventuale bancarotta sarebbe stata colposa se dopo questo bilancio, oramai consegnato nei nostri libri, non si fossero prese le misure consigliate dall'Olivi.
E aggiunsi:
- La pena comminata dalle nostre leggi per il fallimento colposo è il carcere!
La faccia di Guido si coperse di tanto rosso che temetti egli fosse minacciato da una congestione cerebrale.
Urlò:
- In questo caso l'Olivi non ha bisogno di darmi dei consigli! Se mai ciò dovesse avverarsi saprei risolvere da solo!
La sua decisione m'impose ed ebbi il sentimento di trovarmi di fronte a persona perfettamente conscia della propria responsabilità.
Abbassai il tono d
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