LA COSCIENZA DI ZENO, di Italo Svevo - pagina 20
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Ridendo di gusto le domandai.
- Abbisogna di un cordiale? - Ella ebbe un lieve movimento di disprezzo con le labbra:
- Non sembrerebbe un uomo! - disse chiaramente.
Io mi lusingai che la mia vittoria potesse avere un'importanza decisiva.
Ada non poteva pensare altrimenti della madre.
La vittoria ebbe subito l'effetto che non poteva mancare in un uomo fatto come son io.
Mi sparí ogni rancore e non volli che Guido soffrisse ulteriormente.
Certo il mondo sarebbe meno aspro se molti mi somigliassero.
Sedetti a lui da canto e, senza guardare gli altri, gli dissi:
- Dovete scusarmi, signor Guido.
Mi sono permesso uno scherzo di cattivo genere.
Sono stato io che ho fatto dichiarare al tavolino di essere mosso da uno spirito portante il vostro stesso nome.
Non l'avrei fatto se avessi saputo che anche vostro nonno aveva quel nome.
Guido tradí nella sua cera, che si schiarí, come la mia comunicazione fosse importante per lui.
Non volle però ammetterlo e mi disse:
- Queste signore sono troppo buone! Io non ho mica bisogno di conforto.
La cosa non ha alcun'importanza.
Vi ringrazio per la vostra sincerità, ma io avevo già indovinato che qualcuno aveva indossata la parrucca di mio nonno.
Rise, soddisfatto, dicendomi:
- Siete molto robusto, voi! Avrei dovuto indovinare che il tavolo veniva mosso dal solo altro uomo della compagnia.
M'ero dimostrato piú forte di lui, infatti, ma presto dovetti sentirmi di lui piú debole.
Ada mi guardava con occhio poco amico e m'aggredí, le belle guancie infiammate:
- Mi dispiace per voi che abbiate potuto credervi autorizzato ad uno scherzo simile.
Mi mancò il fiato e, balbettando, dissi:
- Volevo ridere! Credevo che nessuno di noi avrebbe presa sul serio quella storia del tavolino.
Era un po' tardi per attaccare Guido ed anzi, se avessi avuto un orecchio sensibile, avrei sentito che, mai piú, in una lotta con lui, la vittoria avrebbe potuto essere mia.
L'ira che Ada mi dimostrava era ben significativa.
Come non intesi ch'essa era già tutta sua? Ma io m'ostinavo nel pensiero ch'egli non la meritava perché non era l'uomo ch'essa cercava col suo occhio serio.
Non l'aveva sentito persino la signora Malfenti?
Tutti mi protessero e aggravarono la mia situazione.
La signora Malfenti disse ridendo:
- Non fu che uno scherzo riuscito benissimo.
- La zia Rosina aveva tuttavia il grosso corpo virante dal ridere e diceva ammirando:
- Magnifica!
Mi spiacque che Guido fosse tanto amichevole.
Già, a lui non importava altro che di essere sicuro che le cattive notizie che il tavolino gli aveva date, non fossero state portate da uno spirito.
Mi disse:
- Scommetto che dapprima non avete mosso il tavolo di proposito.
L'avrete mosso la prima volta senza volerlo, eppoi appena avrete deciso di moverlo con malizia.
Cosí la cosa conserverebbe una certa importanza, cioè soltanto fino al momento in cui non decideste di sabotare la vostra ispirazione.
Ada si volse e mi guardò con curiosità.
Essa stava per manifestare a Guido una devozione eccessiva perdonandomi perché Guido m'aveva concesso il suo perdono.
Glielo impedii:
- Ma no! - dissi deciso.
- Io ero stanco d'aspettare quegli spiriti che non volevano venire e li sostituii per divertirmi.
Ada mi volse le spalle arcuandole in modo ch'ebbi tutto il sentimento d'essere stato schiaffeggiato.
Persino i riccioli alla sua nuca mi parve significassero disdegno.
Come sempre, invece che guardare e ascoltare, ero tutt'occupato dal mio proprio pensiero.
M'opprimeva il fatto che Ada si comprometteva orribilmente.
Ne provavo un forte dolore come dinanzi alla rivelazione che la donna mia mi tradisse.
Ad onta di quelle sue manifestazioni d'affetto per Guido, essa tuttavia poteva ancora essere mia, ma sentivo che non le avrei mai perdonato il suo contegno.
È il mio pensiero troppo lento per saper seguire gli avvenimenti che si svolgono senz'attendere che nel mio cervello si sieno cancellate le impressioni lasciatevi dagli avvenimenti precedenti? Io dovevo tuttavia movermi sulla via segnatami dal mio proposito.
Una vera, una cieca ostinazione.
Volli anzi rendere il mio proposito piú forte registrandolo un'altra volta.
Andai ad Augusta che mi guardava ansiosamente con un sincero sorriso incoraggiante sulla faccia e le dissi serio e accorato:
- È forse l'ultima volta ch'io vengo in casa vostra perché io, questa sera stessa, dichiarerò il mio amore ad Ada.
- Non dovete farlo, - mi disse essa supplice.
- Non v'accorgete di quello che qui succede? Mi dispiacerebbe se aveste a soffrirne.
Essa continuava a frapporsi fra me e Ada.
Le dissi proprio per farle dispetto:
- Parlerò con Ada perché lo debbo.
M'è poi del tutto indifferente quello ch'essa risponderà.
Zoppicai di nuovo verso Guido.
Giunto accanto a lui, guardandomi in uno specchio, accesi una sigaretta.
Nello specchio mi vidi molto pallido ciò che per me è una ragione per impallidire di piú.
Lottai per sentirmi meglio ed apparire disinvolto.
Nel duplice sforzo la mia mano distratta afferrò il bicchiere di Guido.
Una volta afferratolo non seppi far di meglio che vuotarlo.
Guido si mise a ridere:
- Cosí saprete tutti i miei pensieri perché poco fa ho bevuto anch'io da quel bicchiere.
Il sapore del limone m'è sempre sgradito.
Quello dovette apparirmi velenoso addirittura perché, prima di tutto, per aver bevuto dal suo bicchiere a me parve d'aver subito un contatto odioso con Guido eppoi perché fui colpito nello stesso tempo dall'espressione d'impazienza iraconda che si stampò sulla faccia di Ada.
Chiamò subito la cameriera per ordinarle un altro bicchiere di limonata e insistette nel suo ordine ad onta che Guido dichiarasse di non aver piú sete.
Allora fui veramente compassionevole.
Essa si comprometteva sempre piú.
- Scusatemi, Ada, - le dissi sommessamente e guardandola come se mi fossi aspettata qualche spiegazione.
- Io non volevo spiacervi.
Poi fui invaso dal timore che i miei occhi si bagnassero di lagrime.
Volli salvarmi dal ridicolo.
Gridai:
- Mi sono spruzzato del limone nell'occhio.
Mi coprii gli occhi col fazzoletto e perciò non ebbi piú bisogno di sorvegliare le mie lagrime e bastò che badassi a non singhiozzare.
Non dimenticherò mai quell'oscurità dietro di quel fazzoletto.
Vi celavo le mie lagrime, ma anche un momento di pazzia.
Pensavo ch'io le avrei detto tutto, ch'essa m'avrebbe inteso e amato e ch'io non le avrei perdonato mai piú.
Allontanai dalla mia faccia il fazzoletto, lasciai che tutti vedessero i miei occhi lagrimosi e feci uno sforzo per ridere e far ridere:
- Scommetto che il signor Giovanni manda a casa dell'acido citrico per fare le spremute.
In quel momento giunse Giovanni che mi salutò con la sua solita grande cordialità.
Ne ebbi un piccolo conforto, che non durò a lungo, perché egli dichiarò ch'era venuto prima del solito per il desiderio di sentir suonare Guido.
S'interruppe per domandare ragione delle lagrime che mi bagnavano gli occhi.
Gli raccontarono dei miei sospetti sulla qualità delle sue spremute, ed egli ne rise.
Io fui tanto vile d'associarmi con calore alle preghiere che Giovanni rivolgeva a Guido perché suonasse.
Ricordavo: non ero io venuto quella sera per sentire il violino di Guido? Ed il curioso è che so d'aver sperato di rabbonire Ada con le mie sollecitazioni a Guido.
La guardai sperando d'essere finalmente associato a lei per la prima volta in quella sera.
Quale stranezza! Non avevo da parlarle e da non perdonarle? Invece non vidi che le sue spalle e i riccioli sdegnosi alla sua nuca.
Era corsa a trarre il violino dalla busta.
Guido domandò di essere lasciato in pace ancora per un quarto d'ora.
Pareva esitante.
Poi nei lunghi anni in cui lo conobbi feci l'esperienza ch'egli sempre esitava prima di fare le cose anche piú semplici di cui veniva pregato.
Egli non faceva che ciò che gli piaceva e, prima di consentire ad una preghiera, procedeva ad un'indagine nelle proprie cavità per vedere quello che laggiú si desiderava.
Poi in quella memoranda serata ci fu per me il quarto d'ora piú felice.
La mia chiacchierata capricciosa fece divertire tutti, Ada compresa.
Era certamente dovuta alla mia eccitazione, ma anche al mio sforzo supremo di vincere quel violino minaccioso che s'avvicinava, s'avvicinava...
E quel piccolo tratto di tempo che gli altri per opera mia sentirono come tanto divertente, io lo ricordo dedicato ad una lotta affannosa.
Giovanni aveva raccontato che nel tram, sul quale era rincasato, aveva assistito ad una scena penosa.
Una donna ne era scesa quando il veicolo era ancora in movimento e tanto malamente da cadere e ferirsi.
Giovanni descriveva con un poco di esagerazione la sua ansia all'accorgersi che quella donna s'apprestava a fare quel salto e in modo tale che era evidente sarebbe stata atterrata e forse travolta.
Era ben doloroso di prevedere e di non essere piú in tempo di salvare.
Io ebbi una trovata.
Raccontai che per quelle vertigini che in passato m'avevano fatto soffrire, avevo scoperto un rimedio.
Quando vedevo un ginnasta fare i suoi esercizi troppo in alto, o quando assistevo alla discesa da un tram in corsa di persona troppo vecchia o poco abile, mi liberavo da ogni ansia augurando loro dei malanni.
Arrivavo persino a modulare le parole con cui auguravo loro di precipitare e sfracellarsi.
Ciò mi tranquillava enormemente per cui potevo assistere del tutto inerte alla minaccia della disgrazia.
Se i miei augurii poi non si compivano, potevo dirmi ancora piú contento.
Guido fu incantato della mia idea che gli pareva una scoperta psicologica.
L'analizzava come faceva di tutte le inezie, non vedeva l'ora di poter provare il rimedio.
Ma faceva una riserva: che i malaugurii non facessero aumentare le disgrazie.
Ada s'associò al suo riso ed ebbe per me persino un'occhiata d'ammirazione.
Io, baggeo, ne ebbi una grande soddisfazione.
Ma scoprii che non era vero ch'io non avrei piú saputo perdonarle: anche questo era un grande vantaggio.
Si rise insieme moltissimo, da buoni ragazzi che si vogliono bene.
Ad un certo momento ero rimasto da una parte del salotto, solo con zia Rosina.
Essa parlava ancora del tavolino.
Abbastanza grassa, stava immobile sulla sua sedia e mi parlava senza guardarmi.
Io trovai il modo di far capire agli altri che mi seccavo e tutti mi guardavano, senza farsi vedere dalla zia, ridendo discretamente.
Per aumentare l'ilarità mi pensai di dirle senz'alcuna preparazione:
- Ma Lei, signora, è molto rimessa, la trovo ringiovanita.
Ci sarebbe stato da ridere se essa si fosse arrabbiata.
Ma la signora invece di arrabbiarsi mi si dimostrò gratissima e mi raccontò che infatti s'era molto rimessa dopo di una recente malattia.
Fui tanto stupito da quella risposta che la mia faccia dovette assumere un aspetto molto comico cosí che l'ilarità che aveva sperata non mancò.
Poco dopo l'enigma mi fu spiegato.
Seppi, cioè, che non era zia Rosina, ma zia Maria, una sorella della signora Malfenti.
Avevo cosí eliminato da quel salotto una fonte di malessere per me, ma non la maggiore.
A un dato momento Guido domandò il violino.
Faceva a meno per quella sera dell'accompagnamento del piano, eseguendo la Chaconne.
Ada gli porse il violino con un sorriso di ringraziamento.
Egli non la guardò, ma guardò il violino come se avesse voluto segregarsi seco e con l'ispirazione.
Poi si mise in mezzo al salotto volgendo la schiena a buona parte della piccola società, toccò lievemente le corde con l'arco per accordarle e fece anche qualche arpeggio.
S'interruppe per dire con un sorriso:
- Un bel coraggio il mio, quando si pensi che non ho toccato il violino dall'ultima volta in cui suonai qui!
Ciarlatano! Egli volgeva le spalle anche ad Ada.
Io la guardai ansiosamente per vedere se essa ne soffrisse.
Non pareva! Aveva poggiato il gomito su un tavolino e il mento sulla mano raccogliendosi per ascoltare.
Poi, contro di me, si mise il grande Bach in persona.
Giammai, né prima né poi, arrivai a sentire a quel modo la bellezza di quella musica nata su quelle quattro corde come un angelo di Michelangelo in un blocco di marmo.
Solo il mio stato d'animo era nuovo per me e fu desso che m'indusse a guardare estatico in su, come a cosa novissima.
Eppure io lottavo per tenere quella musica lontana da me.
Mai cessai di pensare: «Bada! Il violino è una sirena e si può far piangere con esso anche senz'avere il cuore di un eroe!».
Fui assaltato da quella musica che mi prese.
Mi parve dicesse la mia malattia e i miei dolori con indulgenza e mitigandoli con sorrisi e carezze.
Ma era Guido che parlava! Ed io cercavo di sottrarmi alla musica dicendomi: «Per saper fare ciò, basta disporre di un organismo ritmico, una mano sicura e una capacità d'imitazione; tutte cose che io non ho, ciò che non è un'inferiorità, ma una sventura».
Io protestavo, ma Bach procedeva sicuro come il destino.
Cantava in alto con passione e scendeva a cercare il basso ostinato che sorprendeva per quanto l'orecchio e il cuore l'avessero anticipato: proprio al suo posto! Un attimo piú tardi e il canto sarebbe dileguato e non avrebbe potuto essere raggiunto dalla risonanza; un attimo prima e si sarebbe sovrapposto al canto, strozzandolo.
Per Guido ciò non avveniva: non gli tremava il braccio neppure affrontando Bach e ciò era una vera inferiorità.
Oggi che scrivo ho tutte le prove di ciò.
Non gioisco per aver visto allora tanto esattamente.
Allora ero pieno di odio e quella musica, ch'io accettavo come la mia anima stessa, non seppe addolcirlo.
Poi venne la vita volgare di ogni giorno e l'annullò senza che da parte mia vi fosse alcuna resistenza.
Si capisce! La vita volgare sa fare tante di quelle cose.
Guai se i geni se ne accorgessero!
Guido cessò di suonare sapientemente.
Nessuno plaudí fuori di Giovanni, e per qualche istante nessuno parlò.
Poi, purtroppo, sentii io il bisogno di parlare.
Come osai di farlo davanti a gente che il mio violino conosceva? Pareva parlasse il mio violino che invano anelava alla musica e biasimasse l'altro sul quale - non si poteva negarlo - la musica era divenuta vita, luce ed aria.
- Benissimo! - dissi e aveva tutto il suono di una concessione piú che di un applauso.
- Ma però non capisco perché, verso la chiusa, abbiate voluto scandere quelle note che il Bach segnò legate.
Io conoscevo la Chaconne nota per nota.
C'era stata un'epoca in cui avevo creduto che, per progredire, avrei dovuto affrontare di simili imprese e per lunghi mesi passai il tempo a compitare battuta per battuta alcune composizioni del Bach.
Sentii che in tutto il salotto non v'era per me che biasimo e derisione.
Eppure parlai ancora lottando contro quell'ostilità.
- Bach - aggiunsi - è tanto modesto nei suoi mezzi che non ammette un arco fatturato a quel modo.
Io avevo probabilmente ragione, ma era anche certo ch'io non avrei neppur saputo fatturare l'arco a quel modo.
Guido fu subito altrettanto spropositato quanto lo ero stato io.
Dichiarò:
- Forse Bach non conosceva la possibilità di quell'espressione.
Gliela regalo io!
Egli montava sulle spalle di Bach, ma in quell'ambiente nessuno protestò mentre mi si aveva deriso perché io avevo tentato di montare soltanto sulle sue.
Allora avvenne una cosa di minima importanza, ma che fu per me decisiva.
Da una stanza abbastanza lontana da noi echeggiarono le urla della piccola Anna.
Come si seppe poi, era caduta insanguinandosi le labbra.
Fu cosí ch'io per qualche minuto mi trovai solo con Ada perché tutti uscirono di corsa dal salotto.
Guido, prima di seguire gli altri, aveva posto il suo prezioso violino nelle mani di Ada.
- Volete dare a me quel violino? - domandai io ad Ada vedendola esitante se seguire gli altri.
Davvero che non m'ero ancora accorto che l'occasione tanto sospirata s'era finalmente presentata.
Ella esitò, ma poi una sua strana diffidenza ebbe il sopravvento.
Trasse il violino ancora meglio a sé:
- No - rispose, - non occorre ch'io vada con gli altri.
Non credo che Anna si sia fatta tanto male.
Essa strilla per nulla.
Sedette col suo violino e a me parve che con quest'atto essa m'avesse invitato di parlare.
Del resto, come avrei potuto io andar a casa senz'aver parlato? Che cosa avrei poi fatto in quella lunga notte? Mi vedevo ribaltarmi da destra a sinistra nel mio letto o correre per le vie o le bische in cerca di svago.
No! Non dovevo abbandonare quella casa senz'essermi procurata la chiarezza e la calma.
Cercai di essere semplice e breve.
Vi ero anche costretto perché mi mancava il fiato.
Le dissi:
- Io vi amo, Ada.
Perché non mi permettereste di parlarne a vostro padre?
Ella mi guardò stupita e spaventata.
Temetti che si mettesse a strillare come la piccina, là fuori.
Io sapevo che il suo occhio sereno e la sua faccia dalle linee tanto precise non sapevano l'amore, ma tanto lontana dall'amore come ora, non l'avevo mai vista.
Incominciò a parlare e disse qualcosa che doveva essere come un esordio.
Ma io volevo la chiarezza: un sí o un no! Forse m'offendeva già quanto mi pareva un'esitazione.
Per fare presto e indurla a decidersi, discussi il suo diritto di prendersi tempo:
- Ma come non ve ne sareste accorta? A voi non era possibile di credere ch'io facessi la corte ad Augusta!
Volli mettere dell'enfasi nelle mie parole, ma, nella fretta, la misi fuori di posto e finí che quel povero nome di Augusta fu accompagnato da un accento e da un gesto di disprezzo.
Fu cosí che levai Ada dall'imbarazzo.
Essa non rilevò altro che l'offesa fatta ad Augusta:
- Perché credete di essere superiore ad Augusta? Io non penso mica che Augusta accetterebbe di divenire vostra moglie!
Poi appena ricordò che mi doveva una risposta:
- In quanto a me...
mi meraviglia che vi sia capitata una cosa simile in testa.
La frase acre doveva vendicare l'Augusta.
Nella mia grande confusione pensai che anche il senso della parola non avesse avuto altro scopo; se mi avesse schiaffeggiato credo che sarei stato esitante a studiarne la ragione.
Perciò ancora insistetti:
- Pensateci, Ada.
Io non sono un uomo cattivo.
Sono ricco...
Sono un po' bizzarro, ma mi sarà facile di correggermi.
Anche Ada fu piú dolce, ma parlò di nuovo di Augusta.
- Pensateci anche voi, Zeno: Augusta è una buona fanciulla e farebbe veramente al caso vostro.
Io non posso parlare per conto suo, ma credo...
Era una grande dolcezza di sentirmi invocare da Ada per la prima volta col mio prenome.
Non era questo un invito a parlare ancora piú chiaro? Forse era perduta per me, o almeno non avrebbe accettato subito di sposarmi, ma intanto bisognava evitare che si compromettesse di piú con Guido sul conto del quale dovevo aprirle gli occhi.
Fui accorto, e prima di tutto le dissi che stimavo e rispettavo Augusta, ma che assolutamente non volevo sposarla.
Lo dissi due volte per farmi intendere chiaramente: «io non volevo sposarla».
Cosí potevo sperare di aver rabbonita Ada che prima aveva creduto io volessi offendere Augusta.
- Una buona, una cara, un'amabile ragazza quell'Augusta; ma non fa per me.
Poi appena precipitai le cose, perché c'era del rumore sul corridoio e mi poteva essere tagliata la parola da un momento all'altro.
- Ada! Quell'uomo non fa per voi.
È un imbecille! Non v'accorgeste come sofferse per i responsi del tavolino? Avete visto il suo bastone? Suona bene il violino, ma vi sono anche delle scimmie che sanno suonarlo.
Ogni sua parola tradisce il bestione...
Essa, dopo d'esser stata ad ascoltarmi con l'aspetto di chi non sa risolversi ad ammettere nel loro senso le parole che gli sono dirette, m'interruppe.
Balzò in piedi sempre col violino e l'arco in mano e mi soffiò addosso delle parole offensive.
Io feci del mio meglio per dimenticarle e vi riuscii.
Ricordo solo che cominciò col domandarmi ad alta voce come avevo potuto parlare cosí di lui e di lei! Io feci gli occhi grandi dalla sorpresa perché mi pareva di non aver parlato che di lui solo.
Dimenticai le tante parole sdegnose ch'essa mi diresse, ma non la sua bella, nobile e sana faccia arrossata dallo sdegno e dalle linee rese piú precise, quasi marmoree, dall'indignazione.
Quella non dimenticai piú e quando penso al mio amore e alla mia giovinezza, rivedo la faccia bella e nobile e sana di Ada nel momento in cui essa m'eliminò definitivamente dal suo destino.
Ritornarono tutti in gruppo intorno alla signora Malfenti che teneva in braccio Anna ancora piangente.
Nessuno si occupò di me o di Ada ed io, senza salutare nessuno, uscii dal salotto; nel corridoio presi il mio cappello.
Curioso! Nessuno veniva a trattenermi.
Allora mi trattenni da solo, ricordando ch'io non dovevo mancare alle regole della buona educazione e che perciò prima di andarmene dovevo salutare compitamente tutti.
Vero è che non dubito io non sia stato impedito di abbandonare quella casa dalla convinzione che troppo presto sarebbe cominciata per me la notte ancora peggiore delle cinque notti che l'avevano preceduta.
Io che finalmente avevo la chiarezza, sentivo ora un altro bisogno: quello della pace, la pace con tutti.
Se avessi saputo eliminare ogni asprezza dai miei rapporti con Ada e con tutti gli altri, mi sarebbe stato piú facile di dormire.
Perché aveva da sussistere tale asprezza? Se non potevo prendermela neppure con Guido il quale se anche non ne aveva alcun merito, certamente non aveva nessuna colpa di essere stato preferito da Ada!
Essa era la sola che si fosse accorta della mia passeggiata sul corridoio e, quando mi vide ritornare, mi guardò ansiosa.
Temeva di una scena? Subito volli rassicurarla.
Le passai accanto e mormorai:
- Scusate se vi ho offesa!
Essa prese la mia mano e, rasserenata, la strinse.
Fu un grande conforto.
Io chiusi per un istante gli occhi per isolarmi con la mia anima e vedere quanta pace gliene fosse derivata.
Il mio destino volle che mentre tutti ancora si occupavano della bimba, io mi trovassi seduto accanto ad Alberta.
Non l'avevo vista e di lei non m'accorsi che quando essa mi parlò dicendomi:
- Non s'è fatta nulla.
Il grave è la presenza di papà il quale, se la vede piangere, le fa un bel regalo.
Io cessai dall'analizzarmi perché mi vidi intero! Per avere la pace io avrei dovuto fare in modo che quel salotto non mi fosse mai piú interdetto.
Guardai Alberta! Somigliava ad Ada! Era un po' di lei piú piccola e portava sul suo organismo evidenti dei segni non ancora cancellati dell'infanzia.
Facilmente alzava la voce, e il suo riso spesso eccessivo le contraeva la faccina e gliel'arrossava.
Curioso! In quel momento ricordai una raccomandazione di mio padre: «Scegli una donna giovine e ti sarà piú facile di educarla a modo tuo».
Il ricordo fu decisivo.
Guardai ancora Alberta.
Nel mio pensiero m'industriavo di spogliarla e mi piaceva cosí dolce e tenerella come supposi fosse.
Le dissi:
- Sentite, Alberta! Ho un'idea: avete mai pensato che siete nell'età di prendere marito?
- Io non penso di sposarmi! - disse essa sorridendo e guardandomi mitemente, senz'imbarazzo o rossore.
- Penso invece di continuare i miei studii.
Anche mamma lo desidera.
- Potreste continuare gli studii anche dopo sposata.
Mi venne un'idea che mi parve spiritosa e le dissi subito:
- Anch'io penso d'iniziarli dopo essermi sposato.
Essa rise di cuore, ma io m'accorsi che perdevo il mio tempo, perché non era con tali scipitezze che si poteva conquistare una moglie e la pace.
Bisognava essere serii.
Qui poi era facile perché venivo accolto tutt'altrimenti che da Ada.
Fui veramente serio.
La mia futura moglie doveva intanto sapere tutto.
Con voce commossa le dissi:
- Io, poco fa, ho indirizzata ad Ada la stessa proposta che ora feci a voi.
Essa rifiutò con sdegno.
Potete figurarvi in quale stato io mi trovi.
Queste parole accompagnate da un atteggiamento di tristezza non erano altro che la mia ultima dichiarazione d'amore per Ada.
Divenivo troppo serio e, sorridendo, aggiunsi:
- Ma credo che se voi accettaste di sposarmi, io sarei felicissimo e dimenticherei per voi tutto e tutti.
Essa si fece molto seria per dirmi:
- Non dovete offendervene, Zeno, perché mi dispiacerebbe.
Io faccio una grande stima di voi.
So che siete un buon diavolo eppoi, senza saperlo, sapete molte cose, mentre i miei professori sanno esattamente tutto quello che sanno.
Io non voglio sposarmi.
Forse mi ricrederò, ma per il momento non ho che una mèta: vorrei diventare una scrittrice.
Vedete quale fiducia vi dimostro.
Non lo dissi mai a nessuno e spero non mi tradirete.
Dal canto mio, vi prometto che non ripeterò a nessuno la vostra proposta.
- Ma anzi potete dirlo a tutti! - la interruppi io con stizza.
Mi sentivo di nuovo sotto la minaccia di essere espulso da quel salotto e corsi al riparo.
C'era poi un solo modo per attenuare in Alberta l'orgoglio di aver potuto respingermi ed io l'adottai non appena lo scopersi.
Le dissi:
- Io ora farò la stessa proposta ad Augusta e racconterò a tutti che la sposai perché le sue due sorelle mi rifiutarono!
Ridevo di un buon umore eccessivo che m'aveva colto in seguito alla stranezza del mio procedere.
Non era nella parola che mettevo lo spirito di cui ero tanto orgoglioso, ma nelle azioni.
Mi guardai d'intorno per trovare Augusta.
Era uscita sul corridoio con un vassoio sul quale non v'era che un bicchiere semivuoto contenente un calmante per Anna.
La seguii di corsa chiamandola per nome ed essa s'addossò alla parete per aspettarmi.
Mi misi a lei di faccia e subito le dissi:
- Sentite, Augusta, volete che noi due ci sposiamo?
La proposta era veramente rude.
Io dovevo sposare lei e lei me, ed io non domandavo quello ch'essa pensasse né pensavo potrebbe toccarmi di essere io costretto di dare delle spiegazioni.
Se non facevo altro che quello che tutti volevano!
Essa alzò gli occhi dilatati dalla sorpresa.
Cosí quello sbilenco era anche piú differente del solito dall'altro.
La sua faccia vellutata e bianca, dapprima impallidí di piú, eppoi subito si congestionò.
Con un filo di voce mi disse:
- Voi scherzate e ciò è male.
Temetti si mettesse a piangere ed ebbi la curiosa idea di consolarla dicendole della mia tristezza.
- Io non scherzo, - dissi serio e triste.
- Domandai dapprima la sua mano ad Ada che me la rifiutò con ira, poi domandai ad Alberta di sposarmi ed essa, con belle parole, vi si rifiutò anch'essa.
Non serbo rancore né all'una né all'altra.
Solo mi sento molto, ma molto infelice.
Dinanzi al mio dolore essa si ricompose e si mise a guardarmi commossa, riflettendo intensamente.
Il suo sguardo somigliava ad una carezza che non mi faceva piacere.
- Io devo dunque sapere e ricordare che voi non mi amate? - domandò.
Che cosa significava questa frase sibillina? Preludiava ad un consenso? Voleva ricordare! Ricordare per tutta la vita da trascorrersi con me? Ebbi il sentimento di chi per ammazzarsi si sia messo in una posizione pericolosa ed ora sia costretto a faticare per salvarsi.
Non sarebbe stato meglio che anche Augusta m'avesse rifiutato e che mi fosse stato concesso di ritornare sano e salvo nel mio studiolo nel quale neppure quel giorno stesso m'ero sentito troppo male? Le dissi:
- Sí! Io non amo che Ada e sposerei ora voi...
Stavo per dirle che non potevo rassegnarmi di divenire un estraneo per Ada e che perciò mi contentavo di divenirle cognato.
Sarebbe stato un eccesso, ed Augusta avrebbe di nuovo potuto credere che volessi dileggiarla.
Perciò dissi soltanto:
- Io non so piú rassegnarmi di restar solo.
Essa rimaneva tuttavia poggiata alla parete del cui sostegno forse sentiva il bisogno; però pareva piú calma ed il vassoio era ora tenuto da una sola mano.
Ero salvo e cioè dovevo abbandonare quel salotto, o potevo restarci e dovevo sposarmi? Dissi delle altre parole, solo perché impaziente di aspettare le sue che non volevano venire:
- Io sono un buon diavolo e credo che con me si possa vivere facilmente anche senza che ci sia un grande amore.
Questa era una frase che nei lunghi giorni precedenti avevo preparata per Ada per indurla a dirmi di sí anche senza sentire per me un grande amore.
Augusta ansava leggermente e taceva ancora.
Quel silenzio poteva anche significare un rifiuto, il piú delicato rifiuto che si potesse immaginare: io quasi sarei scappato in cerca del mio cappello, in tempo per porlo su una testa salva.
Invece Augusta, decisa, con un movimento dignitoso che mai dimenticai, si rizzò e abbandonò il sostegno della parete.
Nel corridoio non largo essa si avvicinò cosí ancora di piú a me che le stavo di faccia.
Mi disse:
- Voi, Zeno, avete bisogno di una donna che voglia vivere per voi e vi assista.
Io voglio essere quella donna.
Mi porse la mano paffutella ch'io quasi istintivamente baciai.
Evidentemente non c'era piú la possibilità di fare altrimenti.
Devo poi confessare che in quel momento fui pervaso da una soddisfazione che m'allargò il petto.
Non avevo piú da risolvere niente, perché tutto era stato risolto.
Questa era la vera chiarezza.
Fu cosí che mi fidanzai.
Fummo subito festeggiatissimi.
Il mio somigliava un poco al grande successo del violino di Guido, tanti furono gli applausi di tutti.
Giovanni mi baciò e mi diede subito del tu.
Con eccessiva espressione di affetto mi disse:
- Mi sentivo tuo padre da molto tempo, dacché cominciai a darti dei consigli per il tuo commercio.
La mia futura suocera mi porse anch'essa la guancia che sfiorai.
A quel bacio non sarei sfuggito neppure se avessi sposato Ada.
- Vede ch'io avevo indovinato tutto, - mi disse con una disinvoltura incredibile e che non fu punita perché io non seppi né volli protestare.
Essa poi abbracciò Augusta e la grandezza del suo affetto si rivelò in un singhiozzo che le sfuggí interrompendo le sue manifestazioni di gioia.
Io non potevo soffrire la signora Malfenti, ma devo dire che quel singhiozzo colorí, almeno per tutta quella sera, di una luce simpatica e importante il mio fidanzamento.
Alberta, raggiante, mi strinse la mano:
- Io voglio essere per voi una buona sorella.
- E Ada:
- Bravo, Zeno! - Poi, a bassa voce: - Sappiatelo: giammai un uomo che creda di aver fatta una cosa con precipitazione, ha agito piú saviamente di voi.
Guido mi diede una grande sorpresa:
- Da questa mattina avevo capito che volevate una o l'altra delle signorine Malfenti, ma non arrivavo a sapere quale.
Non dovevano dunque essere molto intimi se Ada non gli aveva parlato della mia corte! Che avessi davvero agito precipitosamente?
Poco dopo però, Ada mi disse ancora:
- Vorrei che mi voleste bene come un fratello.
Il resto sia dimenticato: io non dirò mai nulla a Guido.
Era del resto bello di aver provocata tanta gioia in una famiglia.
Non potevo goderne molto, solo perché ero molto stanco.
Ero anche assonnato.
Ciò provava che avevo agito con grande accortezza.
La mia notte sarebbe stata buona.
A cena Augusta ed io assistemmo muti ai festeggiamenti che ci venivano fatti.
Essa sentí il bisogno di scusarsi della sua incapacità di prender parte alla conversazione generale:
- Non so dir nulla.
Dovete ricordare che, mezz'ora fa, io non sapevo quello che stava per succedermi.
Essa diceva sempre l'esatta verità.
Si trovava fra il riso e il pianto e mi guardò.
Volli accarezzarla anch'io con l'occhio e non so se vi riuscii.
Quella stessa sera a quel tavolo subii un'altra lesione.
Fui ferito proprio da Guido.
Pare che poco prima ch'io fossi giunto per prendere parte alla seduta spiritistica, Guido avesse raccontato che nella mattina io avevo dichiarato di non essere una persona distratta.
Gli diedero subito tante di quelle prove ch'io avevo mentito che, per vendicarsi, (o forse per far vedere ch'egli sapeva disegnare) fece due mie caricature.
Nella prima ero rappresentato come, col naso in aria, mi poggiavo su un ombrello puntato a terra.
Nella seconda l'ombrello s'era spezzato e il manico m'era penetrato nella schiena.
Le due caricature raggiungevano lo scopo e facevano ridere col mezzuccio semplice che l'individuo che doveva rappresentarmi - invero affatto somigliante, ma caratterizzato da una grande calvizie - era identico nel primo e nel secondo schizzo e si poteva perciò figurarselo tanto distratto da non aver cambiato di aspetto per il fatto che un ombrello lo aveva trafitto.
Tutti risero molto e anzi troppo.
Mi dolse intensamente il tentativo tanto ben riuscito di gettare su me del ridicolo.
E fu allora che per la prima volta fui colto dal mio dolore lancinante.
Quella sera mi dolsero l'avambraccio destro e l'anca.
Un intenso bruciore, un formicolio nei nervi come se avessero minacciato di rattrappirsi.
Stupito portai la mano destra all'anca e con la mano sinistra afferrai l'avambraccio colpito.
Augusta mi domandò:
- Che hai?
Risposi che sentivo un dolore al posto contuso da quella caduta al caffè della quale s'era parlato anche quella sera stessa.
Feci subito un energico tentativo per liberarmi da quel dolore.
Mi parve che ne sarei guarito se avessi saputo vendicarmi dell'ingiuria che m'era stata fatta.
Domandai un pezzo di carta ed una matita e tentai di disegnare un individuo che veniva oppresso da un tavolino ribaltatoglisi addosso.
Misi poi accanto a lui un bastone sfuggitogli di mano in seguito alla catastrofe.
Nessuno riconobbe il bastone e perciò l'offesa non riuscí quale io l'avrei voluta.
Perché poi si riconoscesse chi fosse quell'individuo e come fosse capitato in quella posizione, scrissi di sotto: «Guido Speier alle prese col tavolino».
Del resto di quel disgraziato sotto al tavolino non si vedevano che le gambe, che avrebbero potuto somigliare a quelle di Guido se non le avessi storpiate ad arte, e lo spirito di vendetta non fosse intervenuto a peggiorare il mio disegno già tanto infantile.
Il dolore assillante mi fece lavorare in grande fretta.
Certo giammai il mio povero organismo fu talmente pervaso dal desiderio di ferire e se avessi avuta in mano la sciabola invece di quella matita che non sapevo muovere, forse la cura sarebbe riuscita.
Guido rise sinceramente del mio disegno, ma poi osservò mitemente:
- Non mi pare che il tavolino m'abbia nociuto!
Non gli aveva infatti nociuto ed era questa l'ingiustizia di cui mi dolevo.
Ada prese i due disegni di Guido e disse di voler conservarli.
Io la guardai per esprimerle il mio rimprovero ed essa dovette stornare il suo sguardo dal mio.
Avevo il diritto di rimproverarla perché faceva aumentare il mio dolore.
Trovai una difesa in Augusta.
Essa volle che sul mio disegno mettessi la data del nostro fidanzamento perché voleva conservare anche lei quello sgorbio.
Un'onda calda di sangue inondò le mie vene a tale segno d'affetto che per la prima volta riconobbi tanto importante per me.
Il dolore però non cessò e dovetti pensare che se quell'atto d'affetto mi fosse venuto da Ada, esso avrebbe provocata nelle mie vene una tale ondata di sangue che tutti i detriti accumulatisi nei miei nervi ne sarebbero stati spazzati via.
Quel dolore non m'abbandonò piú.
Adesso, nella vecchiaia, ne soffro meno perché, quando mi coglie, lo sopporto con indulgenza: «Ah! Sei qui, prova evidente che sono stato giovine?».
Ma in gioventú fu altra cosa.
Io non dico che il dolore sia stato grande, per quanto talvolta m'abbia impedito il libero movimento o mi abbia tenuto desto per notti intere.
Ma esso occupò buona parte della mia vita.
Volevo guarirne! Perché avrei dovuto portare per tutta la vita sul mio corpo stesso lo stigma del vinto? Divenire addirittura il monumento ambulante della vittoria di Guido? Bisognava cancellare dal mio corpo quel dolore.
Cosí cominciarono le cure.
Ma, subito dopo, l'origine rabbiosa della malattia fu dimenticata e mi fu ora persino difficile di ritrovarla.
Non poteva essere altrimenti: io avevo una grande fiducia nei medici che mi curarono e credetti loro sinceramente quando attribuirono quel dolore ora al ricambio ed ora alla circolazione difettosa, poi alla tubercolosi o a varie infezioni di cui qualcuna vergognosa.
Devo poi confessare che tutte le cure m'arrecarono qualche sollievo temporaneo per cui ogni volta l'eventuale nuova diagnosi sembrava confermata.
Prima o poi risultava meno esatta, ma non del tutto erronea, perché da me nessuna funzione è idealmente perfetta.
Una volta sola ci fu un vero errore: una specie di veterinario nelle cui mani m'ero posto, s'ostinò per lungo tempo ad attaccare il mio nervo sciatico coi suoi vescicanti e finí coll'essere beffato dal mio dolore che improvvisamente, durante una seduta, saltò dall'anca alla coppa, lungi perciò da ogni connessione col nervo sciatico.
Il cerusico s'arrabbiò e mi mise alla porta ed io me ne andai - me lo ricordo benissimo - niente affatto offeso, ammirato invece che il dolore al nuovo posto non avesse cambiato per nulla.
Rimaneva rabbioso e irraggiungibile come quando m'aveva torturata l'anca.
È strano come ogni parte del nostro corpo sappia dolere allo stesso modo.
Tutte le altre diagnosi vivono esattissime nel mio corpo e si battono fra di loro per il primato.
Vi sono delle giornate in cui vivo per la diatesi urica ed altre in cui la diatesi è uccisa, cioè guarita, da un'infiammazione delle vene.
Io ho dei cassetti interi di medicinali e sono i soli cassetti miei che tengo io stesso in ordine.
Io amo le mie medicine e so che quando ne abbandono una, prima o poi vi ritornerò.
Del resto non credo di aver perduto il mio tempo.
Chissà da quanto tempo e di quale malattia io sarei già morto se il mio dolore in tempo non le avesse simulate tutte per indurmi a curarle prima ch'esse m'afferrassero.
Ma pur senza saper spiegarne l'intima natura, io so quando il mio dolore per la prima volta si formò.
Proprio per quel disegno tanto migliore del mio.
Una goccia che fece traboccare il vaso! Io sono sicuro di non aver mai prima sentito quel dolore.
Ad un medico volli spiegarne l'origine, ma non m'intese.
Chissà? Forse la psico-analisi porterà alla luce tutto il rivolgimento che il mio organismo subí in quei giorni e specialmente nelle poche ore che seguirono al mio fidanzamento.
Non furono neppure poche, quelle ore!
Quando, tardi, la compagnia si sciolse, Augusta lietamente mi disse:
- A domani!
L'invito mi piacque perché provava che avevo raggiunto il mio scopo e che niente era finito e tutto avrebbe continuato il giorno appresso.
Essa mi guardò negli occhi e trovò i miei vivamente annuenti cosí da confortarla.
Scesi quegli scalini, che non contai piú, domandandomi:
- Chissà se l'amo?
È un dubbio che m'accompagnò per tutta la vita e oggidí posso pensare che l'amore accompagnato da tanto dubbio sia il vero amore.
Ma neppure dopo abbandonata quella casa, mi fu concesso di andar a coricarmi e raccogliere il frutto della mia attività di quella serata in un sonno lungo e ristoratore.
Faceva caldo.
Guido sentí il bisogno di un gelato e m'invitò ad accompagnarlo ad un caffè.
S'aggrappò amichevolmente al mio braccio ed io, altrettanto amichevolmente, sostenni il suo.
Egli era una persona molto importante per me e non avrei saputo rifiutargli niente.
La grande stanchezza che avrebbe dovuto cacciarmi a letto, mi rendeva piú arrendevole del solito.
Entrammo proprio nella bottega ove il povero Tullio m'aveva infettato con la sua malattia, e ci mettemmo a sedere ad un tavolo appartato.
Sulla via il mio dolore che io ancora non sapevo quale compagno fedele mi sarebbe stato, m'aveva fatto soffrire molto e, per qualche istante, mi parve si attenuasse perché mi fu concesso di sedere.
La compagnia di Guido fu addirittura terribile.
S'informava con grande curiosità della storia dei miei amori con Augusta.
Sospettava ch'io lo ingannassi? Gli dissi sfacciatamente che io di Augusta m'ero innamorato subito alla mia prima visita in casa Malfenti.
Il mio dolore mi rendeva ciarliero, quasi avessi voluto gridare piú di esso.
Ma parlai troppo e se Guido fosse stato piú attento si sarebbe accorto che io non ero tanto innamorato di Augusta.
Parlai della cosa piú interessante nel corpo di Augusta, cioè quell'occhio sbilenco che a torto faceva credere che anche il resto non fosse al suo vero posto.
Poi volli spiegare perché non mi fossi fatto avanti prima.
Forse Guido era meravigliato di avermi visto capitare in quella casa all'ultimo momento per fidanzarmi.
Urlai:
- Intanto le signorine Malfenti sono abituate ad un grande lusso ed io non potevo sapere se ero al caso di addossarmi una cosa simile.
Mi dispiacque di aver cosí parlato anche di Ada, ma non v'era piú rimedio; era tanto difficile di isolare Augusta da Ada! Continuai abbassando la voce per sorvegliarmi meglio:
- Dovetti perciò fare dei calcoli.
Trovai che il mio denaro non bastava.
Allora mi misi a studiare se potevo allargare il mio commercio.
Dissi poi che, per fare quei calcoli, avevo avuto bisogno di molto tempo e che perciò m'ero astenuto dal far visita ai Malfenti per cinque giorni.
Finalmente la lingua abbandonata a se stessa era arrivata ad un po' di sincerità.
Ero vicino al pianto e, premendomi l'anca, mormorai:
- Cinque giorni son lunghi!
Guido disse che si compiaceva di scoprire in me una persona tanto previdente.
Io osservai seccamente:
- La persona previdente non è piú gradevole della stordita!
Guido rise:
- Curioso che il previdente senta il bisogno di difendere lo stordito!
Poi, senz'altra transizione, mi raccontò seccamente ch'egli era in procinto di domandare la mano di Ada.
M'aveva trascinato al caffè per farmi quella confessione oppure s'era seccato di aver dovuto starmi a sentire per tanto tempo a parlare di me e si procurava la rivincita?
Io sono quasi sicuro d'esser riuscito a dimostrare la massima sorpresa e la massima compiacenza.
Ma subito dopo trovai il modo di addentarlo vigorosamente:
- Adesso capisco perché ad Ada piacque tanto quel Bach svisato a quel modo! Era ben suonato, ma gli Otto proibiscono di lordare in certi posti.
La botta era forte e Guido arrossí dal dolore.
Fu mite nella risposta perché ora gli mancava l'appoggio di tutto il suo piccolo pubblico entusiasta.
- Dio mio! - cominciò per guadagnar tempo.
- Talvolta suonando si cede ad un capriccio.
In quella stanza pochi conoscevano il Bach ed io lo presentai loro un poco modernizzato.
Parve soddisfatto della sua trovata, ma io ne fui soddisfatto altrettanto perché mi parve una scusa e una sommissione.
Ciò bastò a mitigarmi e, del resto, per nulla al mondo avrei voluto litigare col futuro marito di Ada.
Proclamai che raramente avevo sentito un dilettante che suonasse cosí bene.
A lui non bastò: osservò ch'egli poteva essere considerato quale un dilettante, solo perché non accettava di presentarsi come professionista.
Non voleva altro? Gli diedi ragione.
Era evidente ch'egli non poteva essere considerato quale un dilettante.
Cosí fummo di nuovo buoni amici.
Poi, di punto in bianco, egli si mise a dir male delle donne.
Restai a bocca aperta! Ora che lo conosco meglio, so ch'egli si lancia a un discorrere abbondante in qualsiasi direzione quando si crede sicuro di piacere al suo interlocutore.
Io, poco prima, avevo parlato del lusso delle signorine Malfenti, ed egli ricominciò a parlare di quello per finire col dire di tutte le altre cattive qualità delle donne.
La mia stanchezza m'impediva d'interromperlo e mi limitavo a continui segni d'assenso ch'erano già troppo faticosi per me.
Altrimenti, certo, avrei protestato.
Io sapevo ch'io avevo ogni ragione di dir male delle donne rappresentate per me da Ada, Augusta e dalla mia futura suocera; ma lui non aveva alcuna ragione di prendersela col sesso rappresentato per lui dalla sola Ada che l'amava.
Era ben dotto, e ad onta della mia stanchezza stetti a sentirlo con ammirazione.
Molto tempo dopo scopersi ch'egli aveva fatte sue le geniali teorie del giovine suicida Weininger.
Per allora subivo il peso di un secondo Bach.
Mi venne persino il dubbio ch'egli volesse curarmi.
Perché altrimenti avrebbe voluto convincermi che la donna non sa essere né geniale né buona? A me parve che la cura non riuscí perché somministrata da Guido.
Ma conservai quelle teorie e le perfezionai con la lettura del Weininger.
Non guariscono però mai, ma sono una comoda compagnia quando si corre dietro alle donne.
Finito il suo gelato, Guido sentí il bisogno di una boccata d'aria fresca e m'indusse ad accompagnarlo ad una passeggiata verso la periferia della città.
Ricordo: da giorni, in città, si anelava ad un poco di pioggia da cui si sperava qualche sollievo al caldo anticipato.
Io non m'ero neppure accorto di quel caldo.
Quella sera il cielo aveva cominciato a coprirsi di leggere nubi bianche, di quelle da cui il popolo spera la pioggia abbondante, ma una grande luna s'avanzava nel cielo intensamente azzurro dov'era ancora limpido, una di quelle lune dalle guancie gonfie che lo stesso popolo crede capaci di mangiare le nubi.
Era infatti evidente che là dov'essa toccava, scioglieva e nettava.
Volli interrompere il chiacchierio di Guido che mi costringeva ad un annuire continuo, una tortura, e gli descrissi il bacio nella luna scoperto dal poeta Zamboni: com'era dolce quel bacio nel centro delle nostre notti in confronto all'ingiustizia che Guido accanto a me commetteva! Parlando e scotendomi dal torpore in cui ero caduto a forza di assentire, mi parve che il mio dolore s'attenuasse.
Era il premio per la mia ribellione e vi insistetti.
Guido dovette adattarsi di lasciare per un momento in pace le donne e guardare in alto.
Ma per poco! Scoperta, in seguito alle mie indicazioni, la pallida immagine di donna nella luna, ritornò al suo argomento con uno scherzo di cui rise fortemente, ma solo lui, nella via deserta:
- Vede tante cose quella donna! Peccato ch'essendo donna non sa ricordarle.
Faceva parte della sua teoria (o di quella del Weininger) che la donna non può essere geniale perché non sa ricordare.
Arrivammo sotto la via Belvedere.
Guido disse che un po' di salita ci avrebbe fatto bene.
Anche questa volta lo compiacqui.
Lassú, con uno di quei movimenti che si confanno meglio ai giovanissimi ragazzi, egli si sdraiò sul muricciuolo che arginava la via da quella sottostante.
Gli pareva di fare un atto di coraggio esponendosi ad una caduta di una diecina di metri.
Sentii dapprima il solito ribrezzo al vederlo esposto a tanto pericolo, ma poi ricordai il sistema da me escogitato quella sera stessa, in uno slancio d'improvvisazione, per liberarmi da quell'affanno e mi misi ad augurare ferventemente ch'egli cadesse.
In quella posizione egli continuava a predicare contro le donne.
Diceva ora che abbisognavano di giocattoli come i bambini, ma di alto prezzo.
Ricordai che Ada diceva di amare molto i gioielli.
Era dunque proprio di lei ch'egli parlava? Ebbi allora un'idea spaventosa! Perché non avrei fatto fare a Guido quel salto di dieci metri? Non sarebbe stato giusto di sopprimere costui che mi portava via Ada senz'amarla? In quel momento mi pareva che quando l'avessi ucciso, avrei potuto correre da Ada per averne subito il premio.
Nella strana notte piena di luce, a me era parso ch'essa stesse a sentire come Guido l'infamava.
Debbo confessare ch'io in quel momento m'accinsi veramente ad uccidere Guido! Ero in piedi accanto a lui ch'era sdraiato sul basso muricciuolo ed esaminai freddamente come avrei dovuto afferrarlo per essere sicuro del fatto mio.
Poi scopersi che non avevo neppur bisogno di afferrarlo.
Egli giaceva sulle proprie braccia incrociate dietro la testa, e sarebbe bastata una buona spinta improvvisa per metterlo senza rimedio fuori d'equilibrio.
Mi venne un'altra idea che mi parve tanto importante da poter compararla alla grande luna che s'avanzava nel cielo nettandolo: avevo accettato di fidanzarmi ad Augusta per essere sicuro di dormir bene quella notte.
Come avrei potuto dormire se avessi ammazzato Guido? Quest'idea salvò me e lui.
Volli subito abbandonare quella posizione nella quale sovrastavo a Guido e che mi seduceva a quell'azione.
Mi piegai sulle ginocchia abbattendomi su me stesso e arrivando quasi a toccare il suolo con la mia testa:
- Che dolore, che dolore! - urlai.
Spaventato, Guido balzò in piedi a domandarmi delle spiegazioni.
Io continuai a lamentarmi piú mitemente senza rispondere.
Sapevo perché mi lamentavo: perché avevo voluto uccidere e forse, anche, perché non avevo saputo farlo.
Il dolore e il lamento scusavano tutto.
Mi pareva di gridare ch'io non avevo voluto uccidere e mi pareva anche di gridare che non era colpa mia se non avevo saputo farlo.
Tutto era colpa della mia malattia e del mio dolore.
Invece ricordo benissimo che proprio allora il mio dolore scomparve del tutto e che il mio lamento rimase una pura commedia cui io invano cercai di dare un contenuto evocando il dolore e ricostruendolo per sentirlo e soffrirne.
Ma fu uno sforzo vano perché esso non ritornò che quando volle.
Come al solito Guido procedeva per ipotesi.
Fra altro mi domandò se non si fosse trattato dello stesso dolore prodotto da quella caduta al caffè.
L'idea mi parve buona e assentii.
Egli mi prese per il braccio e, amorevolmente, mi fece rizzare.
Poi, con ogni riguardo, sempre appoggiandomi, mi fece scendere la piccola erta.
Quando fummo giú, dichiarai che mi sentivo un poco meglio e che credevo che, appoggiato a lui, avrei potuto procedere piú spedito.
Cosí si andava finalmente a letto! Poi era la prima vera grande soddisfazione che quel giorno mi fosse stata accordata.
Egli lavorava per me, perché quasi mi portava.
Ero io che finalmente gl'imponevo il mio volere.
Trovammo una farmacia ancora aperta ed egli ebbe l'idea di mandarmi a letto accompagnato da un calmante.
Costruí tutta una teoria sul dolore reale e sul sentimento esagerato dello stesso: un dolore si moltiplicava per l'esasperazione ch'esso stesso aveva prodotta.
Con quella bottiglietta s'iniziò la mia raccolta di medicinali, e fu giusto fosse stata scelta da Guido.
Per dar base piú solida alla sua teoria, egli suppose ch'io avessi sofferto di quel dolore da molti giorni.
Mi spiacque di non poter compiacerlo.
Dichiarai che quella sera, in casa dei Malfenti, io non avevo sentito alcun dolore.
Nel momento in cui m'era stata concessa la realizzazione del mio lungo sogno, evidentemente non avevo potuto soffrire.
E per essere sincero volli proprio essere come avevo asserito ch'io fossi e dissi piú volte a me stesso: «Io amo Augusta, io non amo Ada.
Amo Augusta e questa sera arrivai alla realizzazione del mio lungo sogno».
Cosí procedemmo nella notte lunare.
Suppongo che Guido fosse affaticato dal mio peso, perché finalmente ammutolí.
Mi propose però di accompagnarmi fino a letto.
Rifiutai e quando mi fu concesso di chiudere la porta di casa dietro di me, diedi un sospiro di sollievo.
Ma certamente anche Guido dovette emettere lo stesso sospiro.
Feci gli scalini della mia villa a quattro a quattro e in dieci minuti fui a letto.
M'addormentai presto e, nel breve periodo che precede il sonno, non ricordai né Ada né Augusta, ma il solo Guido, cosí dolce e buono e paziente.
Certo, non avevo dimenticato che poco prima avevo voluto ucciderlo, ma ciò non aveva alcun'importanza perché le cose di cui nessuno sa e che non lasciarono delle tracce, non esistono.
Il giorno seguente mi recai alla casa della mia sposa un po' titubante.
Non ero sicuro se gl'impegni presi la sera prima avessero il valore ch'io credevo di dover conferire loro.
Scopersi che l'avevano per tutti.
Anche Augusta riteneva d'essersi fidanzata, anzi piú sicuramente di quanto lo credessi io.
Fu un fidanzamento laborioso.
Io ho il senso di averlo annullato varie volte e ricostituito con grande fatica e sono sorpreso che nessuno se ne sia accorto.
Mai non ebbi la certezza d'avviarmi proprio al matrimonio, ma pare che tuttavia io mi sia comportato da fidanzato abbastanza amoroso.
Infatti io baciavo e stringevo al seno la sorella di Ada ogni qualvolta ne avevo la possibilità.
Augusta subiva le mie aggressioni come credeva che una sposa dovesse ed io mi comportai relativamente bene, solo perché la signora Malfenti non ci lasciò soli che per brevi istanti.
La mia sposa era molto meno brutta di quanto avessi creduto, e la sua piú grande bellezza la scopersi baciandola: il suo rossore! Là dove baciavo sorgeva una fiamma in mio onore ed io baciavo piú con la curiosità dello sperimentatore che col fervore dell'amante.
Ma il desiderio non mancò e rese un po' piú lieve quella grave epoca.
Guai se Augusta e sua madre non m'avessero impedito di bruciare quella fiamma in una sola volta come io spesso ne avrei avuto il desiderio.
Come si avrebbe continuato a vivere allora? Almeno cosí il mio desiderio continuò a darmi sulle scale di quella casa la stessa ansia come quando le salivo per andare alla conquista di Ada.
Gli scalini dispari mi promettevano che quel giorno avrei potuto far vedere ad Augusta che cosa fosse il fidanzamento ch'essa aveva voluto.
Sognavo un'azione violenta che m'avrebbe ridato tutto il sentimento della mia libertà.
Non volevo mica altro io ed è ben strano che quando Augusta intese quello ch'io volevo, l'abbia interpretato quale un segno di febbre d'amore.
Nel mio ricordo quel periodo si divide in due fasi.
Nella prima la signora Malfenti ci faceva spesso sorvegliare da Alberta o cacciava nel salotto con noi la piccola Anna con una sua maestrina.
Ada non fu allora mai associata in alcun modo a noi ed io dicevo a me stesso che dovevo compiacermene, mentre invece ricordo oscuramente di aver pensato una volta che sarebbe stata una bella soddisfazione per me di poter baciare Augusta in presenza di Ada.
Chissà con quale violenza l'avrei fatto.
La seconda fase s'iniziò quando Guido ufficialmente si fidanzò con Ada e la signora Malfenti da quella pratica donna che era, uní le due coppie nello stesso salotto perché si sorvegliassero a vicenda.
Della prima fase so che Augusta si diceva perfettamente soddisfatta di me.
Quando non l'assaltavo, divenivo di una loquacità straordinaria.
La loquacità era un mio bisogno.
Me ne procurai l'opportunità figgendomi in capo l'idea che giacché dovevo sposare Augusta, dovessi anche imprenderne l'educazione.
L'educavo alla dolcezza, all'affetto e sopra tutto alla fedeltà.
Non ricordo esattamente la forma che davo alle mie prediche di cui taluna m'è ricordata da lei che giammai le obliò.
M'ascoltava attenta e sommessa.
Io, una volta, nella foga dell'insegnamento, proclamai che se essa avesse scoperto un mio tradimento, ne sarebbe conseguito il suo diritto di ripagarmi della stessa moneta.
Essa, indignata, protestò che neppure col mio permesso avrebbe saputo tradirmi e che, da un mio tradimento, a lei non sarebbe risultata che la libertà di piangere.
Io credo che tali prediche fatte per tutt'altro scopo che di dire qualche cosa, abbiano avuta una benefica influenza sul mio matrimonio.
Di sincero v'era l'effetto ch'esse ebbero sull'animo di Augusta.
La sua fedeltà non fu mai messa a prova perché dei miei tradimenti essa mai seppe nulla, ma il suo affetto e la sua dolcezza restarono inalterati nei lunghi anni che passammo insieme, proprio come l'avevo indotta a promettermelo.
Quando Guido si promise, la seconda fase del mio fidanzamento s'iniziò con un mio proponimento che fu espresso cosí: «Eccomi ben guarito del mio amore per Ada!».
Fino ad allora avevo creduto che il rossore di Augusta fosse bastato per guarirmi, ma si vede che non si è mai guariti abbastanza! Il ricordo di quel rossore mi fece pensare ch'esso oramai ci sarebbe stato anche fra Guido e Ada.
Questo, molto meglio di quell'altro, doveva abolire ogni mio desiderio.
È della prima fase il desiderio di violare Augusta.
Nella seconda fui molto meno eccitato.
La signora Malfenti non aveva certo sbagliato organizzando cosí la nostra sorveglianza con tanto piccolo suo disturbo.
Mi ricordo che una volta scherzando mi misi a baciare Augusta.
Invece di scherzare con me, Guido si mise a sua volta a baciare Ada.
Mi parve poco delicato da parte sua, perché egli non baciava castamente come avevo fatto io per riguardo a loro, ma baciava Ada proprio nella bocca che addirittura suggeva.
Sono certo che in quell'epoca io m'ero già assueffatto a considerare Ada quale una sorella, ma non ero preparato a vederne far uso a quel modo.
Dubito anche che ad un vero fratello piacerebbe di veder manipolare cosí la sorella.
Perciò, in presenza di Guido, io non baciai mai piú Augusta.
Invece Guido, in mia presenza, tentò un'altra volta di attirare a sé Ada, ma fu dessa che se ne schermí ed egli non ripeté piú il tentativo.
Molto confusamente mi ricordo delle tante e tante sere che passammo insieme.
La scena che si ripeté all'infinito, s'impresse nella mia mente cosí: tutt'e quattro eravamo seduti intorno al fine tavolo veneziano su cui ardeva una grande lampada a petrolio coperta da uno schermo di stoffa verde che metteva tutto nell'ombra, meno i lavori di ricamo cui le due fanciulle attendevano, Ada su un fazzoletto di seta che teneva libero in mano, Augusta su un piccolo telaio rotondo.
Vedo Guido perorare e dev'essere successo di spesso che sia stato io solo a dargli ragione.
Mi ricordo ancora della testa di capelli neri lievemente ricciuti di Ada, rilevati da un effetto strano che vi produceva la luce gialla e verde.
Si discusse di quella luce e anche del colore vero di quei capelli.
Guido, che sapeva anche dipingere, ci spiegò come si dovesse analizzare un colore.
Neppure questo suo insegnamento non dimenticai piú e ancora oggidí, quando voglio intendere meglio il colore di un paesaggio, socchiudo gli occhi finché non spariscano molte linee e non si vedano che le sole luci che anch'esse s'abbrunano nel solo e vero colore.
Però, quando mi dedico ad un'analisi simile, sulla mia retina, subito dopo le immagini reali, quasi una reazione mia fisica, riappare la luce gialla e verde e i capelli bruni sui quali per la prima volta educai il mio occhio.
Non so dimenticare una sera che fra tutte fu rilevata da un'espressione di gelosia di Augusta e subito dopo anche da una mia riprovevole indiscrezione.
Per farci uno scherzo, Guido e Ada erano andati a sedere lontano da noi, dall'altra parte del salotto, al tavolo Luigi XIV.
Cosí io ebbi presto un dolore al collo che torcevo per parlare con loro.
Augusta mi disse:
- Lasciali! Là si fa veramente all'amore.
Ed io, con una grande inerzia di pensiero, le dissi a bassa voce che non doveva crederlo perché Guido non amava le donne.
Cosí m'era sembrato di scusarmi di essermi ingerito nei discorsi dei due amanti.
Era invece una malvagia indiscrezione quella di riferire ad Augusta i discorsi sulle donne cui Guido s'abbandonava in mia compagnia, ma giammai in presenza di alcun altro della famiglia delle nostre spose.
Il ricordo di quelle mie parole m'amareggiò per varii giorni, mentre posso dire che il ricordo di aver voluto uccidere Guido non m'aveva turbato neppure per un'ora.
Ma uccidere e sia pure a tradimento, è cosa piú virile che danneggiare un amico riferendo una sua confidenza.
Già allora Augusta aveva torto di essere gelosa di Ada.
Non era per vedere Ada ch'io a quel modo torcevo il mio collo.
Guido, con la sua loquacità, m'aiutava a trascorrere quel lungo tempo.
Io gli volevo già bene e passavo una parte delle mie giornate con lui.
Ero legato a lui anche dalla gratitudine che gli portavo per la considerazione in cui egli mi teneva e che comunicava agli altri.
Persino Ada stava ora a sentirmi attentamente quando parlavo.
Ogni sera aspettavo con una certa impazienza il suono del gong che ci chiamava a cena, e di quelle cene ricordo principalmente la mia perenne indigestione.
Mangiavo troppo per un bisogno di tenermi attivo.
A cena abbondavo di parole affettuose per Augusta; proprio quanto la mia bocca piena me lo permetteva, e i genitori suoi potevano aver solo la brutta impressione che il grande mio affetto fosse diminuito dalla mia bestiale voracità.
Si sorpresero che al mio ritorno dal viaggio di nozze non avessi riportato con me tanto appetito.
Sparí quando non si esigette piú da me di dimostrare una passione che non sentivo.
Non è permesso di farsi veder freddo con la sposa dai suoi genitori nel momento in cui ci si accinge di andar a letto con essa! Augusta ricorda specialmente le affettuose parole che le mormoravo a quel tavolo.
Fra boccone e boccone devo averne inventate di magnifiche e resto stupito, quando mi vengono ricordate, perché non mi sembrerebbero mie.
Lo stesso mio suocero, Giovanni il furbo, si lasciò ingannare e, finché visse, quando voleva dare un esempio di una grande passione amorosa, citava la mia per sua figlia, cioè per Augusta.
Ne sorrideva beato da quel buon padre ch'egli era, ma gliene derivava un aumento di disprezzo per me, perché secondo lui, non era un vero uomo colui che metteva tutto il proprio destino nelle mani di una donna e che sopra tutto non s'accorgeva che all'infuori della propria v'erano a questo mondo anche delle altre donne.
Da ciò si vede che non sempre fui giudicato con giustizia.
Mia suocera, invece, non credette nel mio amore neppure quando la stessa Augusta vi si adagiò piena di fiducia.
Per lunghi anni essa mi squadrò con occhio diffidente, dubbiosa del destino della figliuola sua prediletta.
Anche per questa ragione io sono convinto ch'essa deve avermi guidato nei giorni che mi condussero al fidanzamento.
Era impossibile d'ingannare anche lei che deve aver conosciuto il mio animo meglio di me stesso.
Venne finalmente il giorno del mio matrimonio e proprio quel giorno ebbi un'ultima esitazione.
Avrei dovuto essere dalla sposa alle otto del mattino, e invece alle sette e tre quarti mi trovavo ancora a letto fumando rabbiosamente e guardando la mia finestra su cui brillava, irridendo, il primo sole che durante quell'inverno fosse apparso.
Meditavo di abbandonare Augusta! Diveniva evidente l'assurdità del mio matrimonio ora che non m'importava piú di restar attaccato ad Ada.
Non sarebbero mica avvenute di grandi cose se io non mi fossi presentato all'appuntamento! Eppoi: Augusta era stata una sposa amabile, ma non si poteva mica sapere come si sarebbe comportata la dimane delle nozze.
E se subito m'avesse dato della bestia perché m'ero lasciato prendere a quel modo?
Per fortuna venne Guido, ed io, nonché resistere, mi scusai del mio ritardo asserendo di aver creduto che fosse stata stabilita un'altra ora per le nozze.
Invece di rimproverarmi, Guido si mise a raccontare di sé e delle tante volte ch'egli, per distrazione, aveva mancato a degli appuntamenti.
Anche in fatto di distrazione egli voleva essere superiore a me e dovetti non dargli altro ascolto per arrivare a uscir di casa.
Cosí avvenne che andai al matrimonio a passo di corsa.
Arrivai tuttavia molto tardi.
Nessuno mi rimproverò e tutti meno la sposa s'accontentarono di certe spiegazioni che Guido diede in vece mia.
Augusta era tanto pallida che persino le sue labbra erano livide.
Se anche non potevo dire di amarla, pure è certo che non avrei voluto farle del male.
Tentai di riparare e commisi la bestialità d'attribuire al mio ritardo ben tre cause.
Erano troppe e raccontavano con tanta chiarezza quello ch'io avevo meditato là nel mio letto, guardando il sole invernale, che si dovette ritardare la nostra partenza per la chiesa onde dar tempo ad Augusta di rimettersi.
All'altare dissi di sí distrattamente perché nella mia viva compassione per Augusta stavo escogitando una quarta spiegazione al mio ritardo e mi pareva la migliore di tutte.
Invece, quando uscimmo dalla chiesa, m'accorsi che Augusta aveva ricuperati tutti i suoi colori.
Ne ebbi una certa stizza perché quel mio sí non avrebbe mica dovuto bastare a rassicurarla del mio amore.
E mi preparavo a trattarla molto rudemente se si fosse rimessa da tanto da darmi della bestia perché m'ero lasciato prendere a quel modo.
Invece, a casa sua, approfittò di un momento in cui ci lasciarono soli, per dirmi piangendo:
- Non dimenticherò mai che, pur non amandomi, mi sposasti.
Io non protestai perché la cosa era stata tanto evidente che non si poteva.
Ma, pieno di compassione, l'abbracciai.
Poi di tutto questo non si parlò piú fra me ed Augusta perché il matrimonio è una cosa ben piú semplice del fidanzamento.
Una volta sposati non si discute piú d'amore e, quando si sente il bisogno di dirne, l'animalità interviene presto a rifare il silenzio.
Ora tale animalità può essere divenuta tanto umana da complicarsi e falsificarsi ed avviene che, chinandosi su una capigliatura femminile, si faccia anche lo sforzo di evocarvi una luce che non c'è.
Si chiudono gli occhi e la donna diventa un'altra per ridivenire lei quando la si abbandona.
A lei s'indirizza tutta la gratitudine e maggiore ancora se lo sforzo riuscí.
È per questo che se io avessi da nascere un'altra volta (madre natura è capace di tutto!) accetterei di sposare Augusta, ma mai di promettermi con lei.
Alla stazione Ada mi porse la guancia al bacio fraterno.
Io la vidi solo allora, frastornato com'ero dalla tanta gente ch'era venuta ad accompagnarci e subito pensai: «Sei proprio tu che mi cacciasti in questi panni!» Avvicinai le mie labbra alla sua guancia vellutata badando di non sfiorarla neppure.
Fu la prima soddisfazione di quel giorno, perché per un istante sentii quale vantaggio mi derivasse dal mio matrimonio: m'ero vendicato rifiutando d'approfittare dell'unica occasione che m'era stata offerta di baciare Ada! Poi, mentre il treno correva, seduto accanto ad Augusta, dubitai di non aver fatto bene.
Temevo ne fosse compromessa la mia amicizia con Guido.
Però soffrivo di piú quando pensavo che forse Ada non s'era neppure accorta che non avevo baciata la guancia che mi aveva offerta.
Essa se ne era accorta, ma io non lo seppi che quando, a sua volta, molti mesi dopo, partí con Guido da quella stessa stazione.
Tutti essa baciò.
A me solo offerse con grande cordialità la mano.
Io gliela strinsi freddamente.
La sua vendetta arrivava proprio in ritardo perché le circostanze erano del tutto mutate.
Dal ritorno dal mio viaggio di nozze avevamo avuti dei rapporti fraterni e non si poteva spiegare perché mi avesse escluso dal bacio.
6.
Moglie e amante
Nella mia vita ci furono varii periodi in cui credetti di essere avviato alla salute e alla felicità.
Mai però tale fede fu tanto forte come nel tempo in cui durò il mio viaggio di nozze eppoi qualche settimana dopo il nostro ritorno a casa.
Cominciò con una scoperta che mi stupí: io amavo Augusta com'essa amava me.
Dapprima diffidente, godevo intanto di una giornata e m'aspettavo che la seguente fosse tutt'altra cosa.
Ma una seguiva e somigliava all'altra, luminosa, tutta gentilezza di Augusta ed anche - ciò ch'era la sorpresa - mia.
Ogni mattina ritrovavo in lei lo stesso commosso affetto e in me la stessa riconoscenza che, se non era amore, vi somigliava molto.
Chi avrebbe potuto prevederlo quando avevo zoppicato da Ada ad Alberta per arrivare ad Augusta? Scoprivo di essere stato non un bestione cieco diretto da altri, ma un uomo abilissimo.
E vedendomi stupito, Augusta mi diceva:
- Ma perché ti sorprendi? Non sapevi che il matrimonio è fatto cosí? Lo sapevo pur io che sono tanto piú ignorante di te!
Non so piú se dopo o prima dell'affetto, nel mio animo si formò una speranza, la grande speranza di poter finire col somigliare ad Augusta ch'era la salute personificata.
Durante il fidanzamento io non avevo neppur intravvista quella salute, perché tutto immerso a studiare me in primo luogo eppoi Ada e Guido.
La lampada a petrolio in quel salotto non era mai arrivata ad illuminare gli scarsi capelli di Augusta.
Altro che il suo rossore! Quando questo sparve con la semplicità con cui i colori dell'aurora spariscono alla luce diretta del sole, Augusta batté sicura la via per cui erano passate le sue sorelle su questa terra, quelle sorelle che possono trovare tutto nella legge e nell'ordine o che altrimenti a tutto rinunziano.
Per quanto la sapessi mal fondata perché basata su di me, io amavo, io adoravo quella sicurezza.
Di fronte ad essa io dovevo comportarmi almeno con la modestia che usavo quando si trattava di spiritismo.
Questo poteva essere e poteva perciò esistere anche la fede nella vita.
Però mi sbalordiva; da ogni sua parola, da ogni suo atto risultava che in fondo essa credeva la vita eterna.
Non che la dicessi tale: si sorprese anzi che una volta io, cui gli errori ripugnavano prima che non avessi amati i suoi, avessi sentito il bisogno di ricordargliene la brevità.
Macché! Essa sapeva che tutti dovevano morire, ma ciò non toglieva che oramai ch'eravamo sposati, si sarebbe rimasti insieme, insieme, insieme.
Essa dunque ignorava che quando a questo mondo ci si univa, ciò avveniva per un periodo tanto breve, breve, breve, che non s'intendeva come si fosse arrivati a darsi del tu dopo di non essersi conosciuti per un tempo infinito e pronti a non rivedersi mai piú per un altro infinito tempo.
Compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi.
Cercai di esservi ammesso e tentai di soggiornarvi risoluto di non deridere me e lei, perché questo conato non poteva essere altro che la mia malattia ed io dovevo almeno guardarmi dall'infettare chi a me s'era confidato.
Anche perciò, nello sforzo di proteggere lei, seppi per qualche tempo movermi come un uomo sano.
Essa sapeva tutte le cose che fanno disperare, ma in mano sua queste cose cambiavano di natura.
Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal di mare! Tutt'altro! La terra girava, ma tutte le altre cose restavano al loro posto.
E queste cose immobili avevano un'importanza enorme: l'anello di matrimonio, tutte le gemme e i vestiti, il verde, il nero, quello da passeggio che andava in armadio quando si arrivava a casa e quello di sera che in nessun caso si avrebbe potuto indossare di giorno, né quando io non m'adattavo di mettermi in marsina.
E le ore dei pasti erano tenute rigidamente e anche quelle del sonno.
Esistevano, quelle ore, e si trovavano sempre al loro posto.
Di domenica essa andava a Messa ed io ve l'accompagnai talvolta per vedere come sopportasse l'immagine del dolore e della morte.
Per lei non c'era, e quella visita le infondeva serenità per tutta la settimana.
Vi andava anche in certi giorni festivi ch'essa sapeva a mente.
Niente di piú, mentre se io fossi stato religioso mi sarei garantita la beatitudine stando in chiesa tutto il giorno.
C'erano un mondo di autorità anche quaggiú che la rassicuravano.
Intanto quella austriaca o italiana che provvedeva alla sicurezza sulle vie e nelle case ed io feci sempre del mio meglio per associarmi anche a quel suo rispetto.
Poi v'erano i medici, quelli che avevano fatto tutti gli studii regolari per salvarci quando - Dio non voglia - ci avesse a toccare qualche malattia.
Io ne usavo ogni giorno di quell'autorità: lei, invece, mai.
Ma perciò io sapevo il mio atroce destino quando la malattia mortale m'avesse raggiunto, mentre lei credeva che anche allora, appoggiata solidamente lassú e quaggiú, per lei vi sarebbe stata la salvezza.
Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m'accorgo che, analizzandola, la converto in malattia.
E, scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d'istruzione per guarire.
Ma vivendole accanto per tanti anni, mai ebbi tale dubbio.
Quale importanza m'era attribuita in quel suo piccolo mondo! Dovevo dire la mia volontà ad ogni proposito, per la scelta dei cibi e delle vesti, delle compagnie e delle letture.
Ero costretto ad una grande attività che non mi seccava.
Stavo collaborando alla costruzione di una famiglia patriarcale e diventavo io stesso il patriarca che avevo odiato e che ora m'appariva quale il segnacolo della salute.
È tutt'altra cosa essere il patriarca o dover venerare un altro che s'arroghi tale dignità.
Io volevo la salute per me a costo d'appioppare ai non patriarchi la malattia, e, specialmente durante il viaggio, assunsi talvolta volentieri l'atteggiamento di statua equestre.
Ma già in viaggio non mi fu sempre facile l'imitazione che m'ero proposta.
Augusta voleva veder tutto come se si fosse trovata in un viaggio d'istruzione.
Non bastava mica essere stati a palazzo Pitti, ma bisognava passare per tutte quelle innumerevoli sale, fermandosi almeno per qualche istante dinanzi ad ogni opera d'arte.
Io rifiutai d'abbandonare la prima sala e non vidi altro, addossandomi la sola fatica di trovare dei pretesti alla mia infingardaggine.
Passai una mezza giornata dinanzi ai ritratti dei fondatori di casa Medici e scopersi che somigliavano a Carnegie e Vanderbilt.
Meraviglioso! Eppure erano della mia razza! Augusta non divideva la mia meraviglia.
Sapeva che cosa fossero i Yankees, ma non ancora bene chi fossi io.
Qui la sua salute non la vinse ed essa dovette rinunziare ai musei.
Le raccontai che una volta al Louvre, m'imbizzarrii talmente in mezzo a tante opere d'arte, che fui in procinto di mandare in pezzi la Venere.
Rassegnata, Augusta disse:
- Meno male che i musei si incontrano in viaggio di nozze eppoi mai piú!
Infatti nella vita manca la monotonia dei musei.
Passano i giorni capaci di cornice, ma sono ricchi di suoni che frastornano eppoi oltre che di linee e di colori anche di vera luce, di quella che scotta e perciò non annoia.
La salute spinge all'attività e ad addossarsi un mondo di seccature.
Chiusi i musei, cominciarono gli acquisti.
Essa, che non vi aveva mai abitato, conosceva la nostra villa meglio di me e sapeva che in una stanza mancava uno specchio, in un'altra un tappeto e che in una terza v'era il posto per una statuina.
Comperò i mobili di un intero salotto e, da ogni città in cui soggiornammo, fu organizzata almeno una spedizione.
A me pareva che sarebbe stato piú opportuno e meno fastidioso di fare tutti quegli acquisti a Trieste.
Ecco che dovevamo pensare alla spedizione, all'assicurazione e alle operazioni doganali.
- Ma tu non sai che tutte le merci devono viaggiare? Non sei un negoziante, tu? - E rise.
Aveva quasi ragione.
Obbiettai:
- Le merci si fanno viaggiare per vendere e guadagnare! Mancando quello scopo si lasciano tranquille e si sta tranquilli!
Ma l'intraprendenza era una delle cose che in lei piú amavo.
Era deliziosa quell'intraprendenza cosí ingenua! Ingenua perché bisogna ignorare la storia del mondo per poter credere di aver fatto un buon affare col solo acquisto di un oggetto: è alla vendita che si giudica l'accortezza dell'acquisto.
Credevo di trovarmi in piena convalescenza.
Le mie lesioni s'erano fatte meno velenose.
Fu da allora che l'atteggiamento mio immutabile fu di lietezza.
Era come un impegno che in quei giorni indimenticabili avessi preso con Augusta e fu l'unica fede che non violai che per brevi istanti, quando cioè la vita rise piú forte di me.
La nostra fu e rimase una relazione sorridente perché io sorrisi sempre di lei, che credevo non sapesse e lei di me, cui attribuiva molta scienza e molti errori ch'essa - cosí si lusingava - avrebbe corretti.
Io rimasi apparentemente lieto anche quando la malattia mi riprese intero.
Lieto come se il mio dolore fosse stato sentito da me quale un solletico.
Nel lungo cammino traverso l'Italia, ad onta della mia nuova salute, non andai immune da molte sofferenze.
Eravamo partiti senza lettere di raccomandazione e, spessissimo, a me parve che molti degl'ignoti fra cui ci movevamo, mi fossero nemici.
Era una paura ridicola, ma non sapevo vincerla.
Potevo essere assaltato, insultato e sopra tutto calunniato, e chi avrebbe potuto proteggermi?
Ci fu anche una vera crisi di questa paura della quale per fortuna nessuno, neppur Augusta, s'accorse.
Usavo prendere quasi tutti i giornali che m'erano offerti sulla via.
Fermatomi un giorno davanti al banco di un giornalaio, mi venne il dubbio, ch'egli, per odio, avrebbe potuto facilmente farmi arrestare come un ladro avendo io preso da lui un solo giornale e tenendone molti, sotto il braccio, comperati altrove e neppure aperti.
Corsi via seguito da Augusta a cui non dissi la ragione della mia fretta.
Mi legai d'amicizia con un vetturino e un cicerone in compagnia dei quali ero almeno sicuro di non poter essere accusato di furti ridicoli.
Fra me e il vetturino c'era qualche evidente punto di contatto.
Egli amava molto i vini dei Castelli e mi raccontò che ad ogni tratto gli si gonfiavano i piedi.
Andava allora all'ospedale e, guarito, ne veniva congedato con molte raccomandazioni di rinunziare al vino.
Egli allora faceva un proposito che diceva ferreo perché, per materializzarlo, lo accompagnava con un nodo ch'egli allacciava alla catena di metallo del suo orologio.
Ma quando io lo conobbi la sua catena gli pendeva sul panciotto, senza nodo.
Lo invitai di venir a stare con me a Trieste.
Gli descrissi il sapore del nostro vino, tanto differente da quello del suo, per assicurarlo dell'esito della drastica cura.
Non ne volle sapere e rifiutò con una faccia in cui v'era già stampata la nostalgia.
Col cicerone mi legai perché mi parve fosse superiore ai suoi colleghi.
Non è difficile sapere di storia molto piú di me, ma anche Augusta con la sua esattezza e col suo Baedeker verificò l'esattezza di molte sue indicazioni.
Intanto era giovine e si andava di corsa traverso i viali seminati di statue.
Quando perdetti quei due amici, abbandonai Roma.
Il vetturino avendo avuto da me tanto denaro, mi fece vedere come il vino gli attaccasse qualche volta anche la testa e ci gettò contro una solidissima antica costruzione Romana.
Il cicerone poi si pensò un giorno di asserire che gli antichi Romani conoscevano benissimo la forza elettrica e ne facessero largo uso.
Declamò anche dei versi latini che dovevano farne fede.
Ma mi colse allora un'altra piccola malattia da cui non dovevo piú guarire.
Una cosa da niente: la paura d'invecchiare e sopra tutto la paura di morire.
Io credo abbia avuto origine da una speciale forma di gelosia.
L'invecchiamento mi faceva paura solo perché m'avvicinava alla morte.
Finché ero vivo, certamente Augusta non m'avrebbe tradito, ma mi figuravo che non appena morto e sepolto, dopo di aver provveduto acché la mia tomba fosse tenuta in pieno ordine e mi fossero dette le Messe necessarie, subito essa si sarebbe guardata d'intorno per darmi il successore ch'essa avrebbe circondato del medesimo mondo sano e regolato che ora beava me.
Non poteva mica morire la sua bella salute perché ero morto io.
Avevo una tale fede in quella salute che mi pareva non potesse perire che sfracellata sotto un intero treno in corsa.
Mi ricordo che una sera, a Venezia, si passava in gondola per uno di quei canali dal silenzio profondo ad ogni tratto interrotto dalla luce e dal rumore di una via che su di esso improvvisamente s'apre.
Augusta, come sempre, guardava le cose e accuratamente le registrava: un giardino verde e fresco che sorgeva da una base sucida lasciata all'aria dall'acqua che s'era ritirata; un campanile che si rifletteva nell'acqua torbida; una viuzza lunga e oscura con in fondo un fiume di luce e di gente.
Io, invece, nell'oscurità, sentivo, con pieno sconforto, me stesso.
Le dissi del tempo che andava via e che presto essa avrebbe rifatto quel viaggio di nozze con un altro.
Io ne ero tanto sicuro che mi pareva di dirle una storia già avvenuta.
E mi parve fuori di posto ch'essa si mettesse a piangere per negare la verità di quella storia.
Forse m'aveva capito male e credeva io le avessi attribuita l'intenzione di uccidermi.
Tutt'altro! Per spiegarmi meglio le descrissi un mio eventuale modo di morire: le mie gambe, nelle quali la circolazione era certamente già povera, si sarebbero incancrenite e la cancrena dilatata, dilatata, sarebbe giunta a toccare un organo qualunque, indispensabile per poter tener aperti gli occhi.
Allora li avrei chiusi, e addio patriarca! Sarebbe stato necessario stamparne un altro.
Essa continuò a singhiozzare e a me quel suo pianto, nella tristezza enorme di quel canale, parve molto importante.
Era forse provocato dalla disperazione per la visione esatta di quella sua salute atroce? Allora tutta l'umanità avrebbe singhiozzato in quel pianto.
Poi, invece, seppi ch'essa neppur sapeva come fosse fatta la salute.
La salute non analizza se stessa e neppur si guarda nello specchio.
Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi.
Fu allora ch'essa mi raccontò di avermi amato prima di avermi conosciuto.
M'aveva amato dacché aveva sentito il mio nome, presentato da suo padre in questa forma: Zeno Cosini, un ingenuo, che faceva tanto d'occhi quando sentiva parlare di qualunque accorgimento commerciale e s'affrettava a prenderne nota in un libro di comandamenti, che però smarriva.
E se io non m'ero accorto della sua confusione al nostro primo incontro, ciò doveva far credere che fossi stato confuso anch'io.
Mi ricordai che al vedere Augusta ero stato distratto dalla sua bruttezza visto che m'ero atteso di trovare in quella casa le quattro fanciulle dall'iniziale in a tutte bellissime.
Apprendevo ora ch'essa m'amava da molto tempo, ma che cosa provava ciò? Non le diedi la soddisfazione di ricredermi.
Quando fossi stato morto, essa ne avrebbe preso un altro.
Mitigato il pianto, essa s'appoggiò ancora meglio a me e, subito ridendo, mi domandò:
- Dove troverei il tuo successore? Non vedi come sono brutta?
Infatti, probabilmente, mi sarebbe stato concesso qualche tempo di putrefazione tranquilla.
Ma la paura d'invecchiare non mi lasciò piú, sempre per la paura di consegnare ad altri mia moglie.
Non s'attenuò la paura quando la tradii e non s'accrebbe neppure per il pensiero di perdere nello stesso modo l'amante.
Era tutt'altra cosa, che non aveva niente a che fare con l'altra.
Quando la paura di morire m'assillava, mi rivolgevo ad Augusta per averne conforto come quei bambini che porgono al bacio della mamma la manina ferita.
Essa trovava sempre delle nuove parole per confortarmi.
In viaggio di nozze m'attribuiva ancora trent'anni di gioventú ed oggidí altrettanti.
Io invece sapevo che già le settimane di gioia del viaggio di nozze m'avevano sensibilmente accostato alle smorfie orribili dell'agonia.
Augusta poteva dire quello che voleva, il conto era presto fatto: ogni settimana io mi vi accostavo di una settimana.
Quando m'accorsi di esser colto troppo spesso dallo stesso dolore, evitai di stancarla col dirle sempre le stesse cose e, per avvertirla del mio bisogno di conforto, bastò mormorassi: «Povero Cosini!».
Ella sapeva allora esattamente cosa mi turbava e accorreva a coprirmi del suo grande affetto.
Cosí riuscii ad avere il suo conforto anche quand'ebbi tutt'altri dolori.
Un giorno, ammalato dal dolore di averla tradita, mormorai per svista: «Povero Cosini!».
Ne ebbi gran vantaggio perché anche allora il suo conforto mi fu prezioso.
Ritornato dal viaggio di nozze, ebbi la sorpresa di non aver mai abitata una casa tanto comoda e calda.
Augusta v'introdusse tutte le comodità che aveva avute nella propria, ma anche molte altre ch'essa stessa inventò.
La stanza da bagno, che a memoria d'uomo era stata sempre in fondo a un corridoio a mezzo chilometro dalla mia stanza da letto, si accostò alla nostra e fu fornita di un numero maggiore di getti d'acqua.
Poi una stanzuccia accanto al tinello fu convertita in stanza da caffè.
Imbottita di tappeti e addobbata da grandi poltrone in pelle, vi soggiornavamo ogni giorno per un'oretta dopo colazione.
Contro mia voglia, vi era tutto il necessario per fumare.
Anche il mio piccolo studio, per quanto io lo difendessi, subí delle modificazioni.
Io temevo che i mutamenti me lo rendessero odioso e invece subito m'accorsi che solo allora era possibile viverci.
Essa dispose la sua illuminazione in modo che potevo leggere seduto al tavolo, sdraiato sulla poltrona o coricato sul sofà.
Persino per il violino fu provveduto un leggio con la sua brava lampadina che illuminava la musica senza ferire gli occhi.
Anche colà, e contro mia voglia, fui accompagnato da tutti gli ordigni necessarii per fumare tranquillamente.
Perciò in casa si costruiva molto e c'era qualche disordine che diminuiva la nostra quiete.
Per lei, che lavorava per l'eternità, il breve incomodo poteva non importare, ma per me la cosa era ben diversa.
Mi opposi energicamente quando le venne il desiderio d'impiantare nel nostro giardino una piccola lavanderia che implicava addirittura la costruzione di una casuccia.
Augusta asseriva che la lavanderia in casa era una garanzia della salute dei bébés.
Ma intanto i bébés non c'erano ed io non vedevo alcuna necessità di lasciarmi incomodare da loro prima ancora che arrivassero.
Ella invece portava nella mia vecchia casa un istinto che veniva dall'aria aperta, e, in amore, somigliava alla rondinella che subito pensa al nido.
Ma anch'io facevo all'amore e portavo a casa fiori e gemme.
La mia vita fu del tutto mutata dal mio matrimonio.
Rinunziai, dopo un debole tentativo di resistenza, a disporre a mio piacere del mio tempo e m'acconciai al piú rigido orario.
Sotto questo riguardo la mia educazione ebbe un esito splendido.
Un giorno, subito dopo il nostro viaggio di nozze, mi lasciai innocentemente trattenere dall'andar a casa a colazione e, dopo di aver mangiato qualche cosa in un bar, restai fuori fino alla sera.
Rientrato a notte fatta, trovai che Augusta non aveva fatto colazione ed era disfatta dalla fame.
Non mi fece alcun rimprovero, ma non si lasciò convincere d'aver fatto male.
Dolcemente, ma risoluta, dichiarò che se non fosse stata avvisata prima, m'avrebbe atteso per la colazione fino all'ora del pranzo.
Non c'era da scherzare! Un'altra volta mi lasciai indurre da un amico a restar fuori di casa fino alle due di notte.
Trovai Augusta che m'aspettava e che batteva i denti dal freddo avendo trascurata la stufa.
Ne seguí anche una sua lieve indisposizione che rese indimenticabile la lezione inflittami.
Un giorno volli farle un altro grande regalo: lavorare! Essa lo desiderava ed io stesso pensavo che il lavoro sarebbe stato utile per la mia salute.
Si capisce che è meno malato chi ha poco tempo per esserlo.
Andai al lavoro e, se non vi restai, non fu davvero colpa mia.
Vi andai coi migliori propositi e con vera umiltà.
Non reclamai di partecipare alla direzione degli affari e domandai invece di tenere intanto il libro mastro.
Davanti al grosso libro in cui le scritturazioni erano disposte con la regolarità di strade e case, mi sentii pieno di rispetto e cominciai a scrivere con mano tremante.
Il figliuolo dell'Olivi, un giovinotto sobriamente elegante, occhialuto, dotto di tutte le scienze commerciali, assunse la mia istruzione e di lui davvero non ho da lagnarmi.
Mi diede qualche seccatura con la sua scienza economica e la teoria della domanda e dell'offerta che a me pareva piú evidente di quanto egli non volesse ammettere.
Ma si vedeva in lui un certo rispetto per il padrone, ed io gliene ero tanto piú grato in quanto non era ammissibile che l'avesse appreso da suo padre.
Il rispetto della proprietà doveva far parte della sua scienza economica.
Non mi rimproverò giammai gli errori di registrazione che spesso facevo; solo era incline ad attribuirli ad ignoranza e mi dava delle spiegazioni che veramente erano superflue.
Il male si è che a forza di guardare gli affari, mi venne la voglia di farne.
Nel libro, con grande chiarezza, arrivai a raffigurare la mia tasca e quando registravo un importo nel «dare» dei clienti mi pareva di tener in mano invece della penna il bastoncino del croupier che raccoglie i denari sparsi sul tavolo da giuoco.
Il giovine Olivi mi faceva anche vedere la posta che arrivava ed io la leggevo con attenzione e - devo dirlo - in principio con la speranza d'intenderla meglio degli altri.
Un'offerta comunissima conquistò un giorno la mia attenzione appassionata.
Anche prima di leggerla sentii moversi nel mio petto qualche cosa che subito riconobbi come l'oscuro presentimento che talvolta veniva a trovarmi al tavolo da giuoco.
È difficile descrivere tale presentimento.
Esso consiste in una certa dilatazione dei polmoni per cui si respira con voluttà l'aria per quanto sia affumicata.
Ma poi c'è di piú: sapete subito che quando avrete raddoppiata la posta starete ancora meglio.
Però ci vuole della pratica per intendere tutto questo.
Bisogna essersi allontanati dal tavolo da giuoco con le tasche vuote e il dolore di averlo trascurato; allora non sfugge piú.
E quando lo si ha trascurato, non c'è piú salvezza per quel giorno perché le carte si vendicano.
Però al tavolo verde è assai piú perdonabile di non averlo sentito che dinanzi al tranquillo libro mastro, ed infatti io lo percepii chiaramente, mentre gridava in me: «Compera subito quella frutta secca!».
Ne parlai con tutta mitezza all'Olivi, naturalmente senza accennare della mia ispirazione.
L'Olivi rispose che quegli affari non li faceva che per conto di terzi quando poteva realizzare un piccolo beneficio.
Cosí egli eliminava dai miei affari la possibilità dell'ispirazione e la riservava ai terzi.
La notte rafforzò la mia convinzione: il presentimento era dunque in me.
Respiravo tanto bene da non poter dormire.
Augusta sentí la mia inquietudine e dovetti dirgliene la ragione.
Essa ebbe subito la mia stessa ispirazione e nel sonno arrivò a mormorare:
- Non sei forse il padrone?
Vero è che alla mattina, prima che uscissi, mi disse impensierita:
- A te non conviene d'indispettire l'Olivi.
Vuoi che ne parli al babbo?
Non lo volli perché sapevo che anche Giovanni dava assai poco peso alle ispirazioni.
Arrivai all'ufficio ben deciso di battermi per la mia idea anche per vendicarmi dell'insonnia sofferta.
La battaglia durò fino a mezzodí quando spirava il termine utile per accettare l'offerta.
L'Olivi restò irremovibile e mi saldò con la solita osservazione:
- Lei vuole forse diminuire le facoltà attribuitemi dal defunto suo padre?
Risentito, ritornai per il momento al mio mastro, ben deciso di non ingerirmi piú di affari.
Ma il sapore dell'uva sultanina mi restò in bocca ed ogni giorno al Tergesteo m'informavo del suo prezzo.
Di altro non m'importava.
Salí lento, lento come se avesse avuto bisogno di raccogliersi per prendere lo slancio.
Poi in un giorno solo fu un balzo formidabile in alto.
Il raccolto era stato miserabile e lo si sapeva appena ora.
Strana cosa l'ispirazione! Essa non aveva previsto il raccolto scarso ma solo l'aumento di prezzo.
Le carte si vendicarono.
Intanto io non sapevo restare al mio mastro e perdetti ogni rispetto per i miei insegnanti, tanto piú che ora l'Olivi non pareva tanto sicuro di aver fatto bene.
Io risi e derisi; fu la mia occupazione principale.
Arrivò una seconda offerta dal prezzo quasi raddoppiato.
L'Olivi, per rabbonirmi, mi domandò consiglio ed io, trionfante, dissi che non avrei mangiata l'uva a quel prezzo.
L'Olivi, offeso, mormorò:
- Io m'attengo al sistema che seguii per tutta la mia vita.
E andò in cerca del compratore.
Ne trovò uno per un quantitativo molto ridotto e, sempre con le migliori intenzioni, ritornò da me e mi domandò esitante:
- La copro, questa piccola vendita?
Risposi, sempre cattivo:
- Io l'avrei coperta prima di farla.
Finí che l'Olivi perdette la forza della propria convinzione e lasciò la vendita scoperta.
Le uve continuarono a salire e noi si perdette tutto quello che sul piccolo quantitativo si poteva perdere.
Ma l'Olivi si arrabbiò con me e dichiarò che aveva giuocato solo per compiacermi.
Il furbo dimenticava che io l'avevo consigliato di puntare sul rosso e ch'egli, per farmela, aveva puntato sul nero.
La nostra lite fu insanabile.
L'Olivi s'appellò a mio suocero dicendogli che fra lui e me la ditta sarebbe stata sempre danneggiata, e che se la mia famiglia lo desiderava, egli e suo figlio si sarebbero ritirati per lasciarmi il campo libero.
Mio suocero decise subito in favore dell'Olivi.
Mi disse:
- L'affare della frutta secca è troppo istruttivo.
Siete due uomini che non potete stare insieme.
Ora chi ha da ritirarsi? Chi senza l'altro avrebbe fatto un solo buon affare, o chi da mezzo secolo dirige da solo la casa?
Anche Augusta fu indotta dal padre a convincermi di non ingerirmi piú nei miei propri affari.
- Pare che la tua bontà e la tua ingenuità - mi disse - ti rendano disadatto agli affari.
Resta a casa con me.
Io, irato, mi ritirai nella mia tenda, ossia nel mio studiolo.
Per qualche tempo leggiucchiai e suonai, poi sentii il desiderio di una attività piú seria e poco mancò non ritornassi alla chimica eppoi alla giurisprudenza.
Infine, e non so veramente perché, per qualche tempo mi dedicai agli studi di religione.
Mi parve di riprendere lo studio che avevo iniziato alla morte di mio padre.
Forse questa volta fu per un tentativo energico di avvicinarmi ad Augusta e alla sua salute.
Non bastava andare a messa con lei; io dovevo andarci altrimenti, leggendo cioè Renan e Strauss, il primo con diletto, il secondo sopportandolo come una punizione.
Ne dico qui solo per rilevare quale grande desiderio m'attaccasse ad Augusta.
E lei questo desiderio non indovinò quando mi vide nelle mani i Vangeli in edizione critica.
Preferiva l'indifferenza alla scienza e cosí non seppe apprezzare il massimo segno d'affetto che le avevo dato.
Quando, come soleva, interrompendo la sua toilette o le sue occupazioni in casa, s'affacciava alla porta della mia stanza per dirmi una parola di saluto, vedendomi chino su quei testi, torceva la bocca:
- Sei ancora con quella roba?
La religione di cui Augusta abbisognava non esigeva del tempo per acquisirsi o per praticarsi.
Un inchino e l'immediato ritorno alla vita! Nulla di piú.
Da me la religione acquistava tutt'altro aspetto.
Se avessi avuto la fede vera, io a questo mondo non avrei avuto che quella.
Poi nella mia stanzetta magnificamente organizzata venne talvolta la noia.
Era piuttosto un'ansia perché proprio allora mi pareva di sentirmi la forza di lavorare, ma stavo aspettando che la vita m'avesse imposto qualche compito.
Nell'attesa uscivo frequentemente e passavo molte ore al Tergesteo o in qualche caffè.
Vivevo in una simulazione di attività.
Un'attività noiosissima.
La visita di un amico d'Università, che aveva dovuto rimpatriare in tutta furia da un piccolo paese della Stiria per curarsi di una grave malattia, fu la mia Nemesi, benché non ne avesse avuto l'aspetto.
Arrivò a me dopo di aver fatto a Trieste un mese di letto ch'era valso a convertire la sua malattia, una nefrite, da acuta in cronica e probabilmente inguaribile.
Ma egli credeva di star meglio e s'apprestava lietamente a trasferirsi subito, durante la primavera, in qualche luogo dal clima piú dolce del nostro, dove s'aspettava di essere restituito alla piena salute.
Gli fu fatale forse di essersi indugiato troppo nel rude luogo natio.
Io considero la visita di quell'uomo tanto malato, ma lieto e sorridente, come molto nefasta per me; ma forse ho torto: essa non segna che una data nella mia vita, per la quale bisognava pur passare.
Il mio amico, Enrico Copler, si stupí ch'io nulla avessi saputo né di lui né della sua malattia di cui Giovanni doveva essere informato.
Ma Giovanni, dacché era malato anche lui, non aveva tempo per nessuno e non me ne aveva detto niente ad onta che ogni giorno di sole venisse nella mia villa per dormire qualche ora all'aria aperta.
Fra' due malati si passò un pomeriggio lietissimo.
Si parlò delle loro malattie, ciò che costituisce il massimo svago per un malato ed è una cosa non troppo triste per i sani che stanno a sentire.
Ci fu solo un dissenso perché Giovanni aveva bisogno dell'aria aperta che all'altro era proibita.
Il dissenso si dileguò quando si levò un po' di vento che indusse anche Giovanni di restare con noi, nella piccola stanza calda.
Il Copler ci raccontò della sua malattia che non dava dolore ma toglieva la forza.
Soltanto ora che stava meglio sapeva quanto fosse stato malato.
Parlò delle medicine che gli erano state propinate e allora il mio interesse fu piú vivo.
Il suo dottore gli aveva consigliato fra altro un efficace sistema per procurargli un lungo sonno senza perciò avvelenarlo con veri sonniferi.
Ma questa era la cosa di cui io avevo sopra tutto bisogno!
Il mio povero amico, sentendo il mio bisogno di medicine, si lusingò per un istante ch'io potessi essere affetto della stessa sua malattia e mi consigliò di farmi vedere, ascoltare e analizzare.
Augusta si mise a ridere di cuore e dichiarò ch'io non ero altro che un malato immaginario.
Allora sul volto emaciato del Copler passò qualche cosa che somigliava ad un risentimento.
Subito, virilmente, si liberò dallo stato d'inferiorità a cui pareva fosse condannato, aggredendomi con grande energia:
- Malato immaginario? Ebbene, io preferisco di essere un malato reale.
Prima di tutto un malato immaginario è una mostruosità ridicola eppoi per lui non esistono dei farmachi mentre la farmacia, come si vede in me, ha sempre qualche cosa di efficace per noi malati veri!
La sua parola sembrava quella di un sano ed io - voglio essere sincero - ne soffersi.
Mio suocero s'associò a lui con grande energia, ma le sue parole non arrivavano a gettare un disprezzo sul malato immaginario, perché tradivano troppo chiaramente l'invidia per il sano.
Disse che se egli fosse stato sano come me, invece di seccare il prossimo con le lamentele, sarebbe corso ai suoi cari e buoni affari, specie ora che gli era riuscito di diminuire la sua pancia.
Egli non sapeva neppure che il suo dimagrimento non veniva considerato come un sintomo favorevole.
Causa l'assalto del Copler, io avevo veramente l'aspetto di un malato e di un malato maltrattato.
Augusta sentí il bisogno d'intervenire in mio soccorso.
Carezzando la mano che avevo abbandonata sul tavolo, essa disse che la mia malattia non disturbava nessuno e ch'ella non era neppur convinta ch'io credessi d'esser ammalato, perché altrimenti non avrei avuto tanta gioia di vivere.
Cosí il Copler ritornò allo stato d'inferiorità cui era condannato.
Egli era del tutto solo a questo mondo e se poteva lottare con me in fatto di salute, non poteva contrappormi alcun affetto simile a quello che Augusta m'offriva.
Sentendo vivo il bisogno di un'infermiera, si rassegnò di confessarmi piú tardi quanto egli m'aveva invidiato per questo.
La discussione continuò nei giorni seguenti con un tono piú calmo mentre Giovanni dormiva in giardino.
E il Copler, dopo averci pensato sú, asseriva ora che il malato immaginario era un malato reale, ma piú intimamente di questi ed anche piú radicalmente.
Infatti i suoi nervi erano ridotti cosí da accusare una malattia quando non c'era, mentre la loro funzione normale sarebbe consistita nell'allarmare col dolore e indurre a correre al riparo.
- Sí! - dicevo io.
- Come ai denti, dove il dolore si manifesta solo quando il nervo è scoperto e per la guarigione occorre la sua distruzione.
Si terminò col trovarsi d'accordo sul fatto che un malato e l'altro si valevano.
Proprio nella sua nefrite era mancato e mancava tuttavia un avviso dei nervi, mentre che i miei nervi, invece, erano forse tanto sensibili da avvisarmi della malattia di cui sarei morto qualche ventennio piú tardi.
Erano dunque dei nervi perfetti e avevano l'unico svantaggio di concedermi pochi giorni lieti a questo mondo.
Essendogli riuscito a mettermi fra gli ammalati, il Copler fu soddisfattissimo.
Non so perché il povero malato avesse la mania di parlare di donne e, quando non c'era mia moglie, non si parlava d'altro.
Egli pretendeva che dal malato reale, almeno nelle malattie che noi sapevamo, il sesso s'affievolisse, ciò ch'era una buona difesa dell'organismo, mentre dal malato immaginario che non soffriva che pel disordine di nervi troppo laboriosi (questa era la nostra diagnosi) esso fosse patologicamente vivo.
Io corroborai la sua teoria con la mia esperienza e ci compiangemmo reciprocamente.
Ignoro perché non volli dirgli che io mi trovavo lontano da ogni sregolatezza e ciò da lungo tempo.
Avrei almeno potuto confessare che mi ritenevo convalescente se non sano, per non offenderlo troppo e perché dirsi sano quando si conoscono tutte le complicazioni del nostro organismo è una cosa difficile.
- Tu desideri tutte le donne belle che vedi? - inquisí ancora il Copler.
- Non tutte! - mormorai io per dirgli che non ero tanto malato.
Intanto io non desideravo Ada che vedevo ogni sera.
Quella, per me, era proprio la donna proibita.
Il fruscio delle sue gonne non mi diceva niente e, se mi fosse stato permesso di muoverle con le mie stesse mani, sarebbe stata la stessa cosa.
Per fortuna non l'avevo sposata.
Questa indifferenza era, o mi sembrava, una manifestazione di salute genuina.
Forse il mio desiderio per lei era stato tanto violento da esaurirsi da sé.
Però la mia indifferenza si estendeva anche ad Alberta ch'era pur tanto carina nel suo vestitino accurato e serio da scuola.
Che il possesso di Augusta fosse stato sufficiente a calmare il mio desiderio per tutta la famiglia Malfenti? Ciò sarebbe stato davvero molto morale!
Forse non parlai della mia virtú perché nel pensiero io tradivo sempre Augusta, e anche ora, parlando col Copler, con un fremito di desiderio, pensai a tutte le donne che per lei trascuravo.
Pensai alle donne che correvano le vie, tutte coperte, e dalle quali perciò gli organi sessuali secondarii divenivano tanto importanti mentre dalla donna che si possedeva scomparivano come se il possesso li avesse atrofizzati.
Avevo sempre vivo il desiderio dell'avventura; quell'avventura che cominciava dall'ammirazione di uno stivaletto, di un guanto, di una gonna, di tutto quello che copre e altera la forma.
Ma questo desiderio non era ancora una colpa.
Il Copler però non faceva bene ad analizzarmi.
Spiegare a qualcuno come è fatto, è un modo per autorizzarlo ad agire come desidera.
Ma il Copler fece anche di peggio, solo che tanto quando parlò, come quando agí, egli non poteva prevedere dove mi avrebbe condotto.
Resta cosí importante nel mio ricordo la parola del Copler che, quando la ricordo, essa rievoca tutte le sensazioni che vi si associarono, e le cose e le persone.
Avevo accompagnato in giardino il mio amico che doveva rincasare prima del tramonto.
Dalla mia villa, che giace su una collina, si aveva la vista del porto e del mare, vista che ora è intercettata da nuovi fabbricati.
Ci fermammo a guardare lungamente il mare mosso da una brezza leggera che rimandava in miriadi di luci rosse la luce tranquilla del cielo.
La penisola istriana dava riposo all'occhio con la sua mitezza verde che s'inoltrava in arco enorme nel mare come una penombra solida.
I moli e le dighe erano piccoli e insignificanti nelle loro forme rigidamente lineari, e l'acqua nei bacini era oscurata dalla sua immobilità o era forse torbida? Nel vasto panorama la pace era piccola in confronto a tutto quel rosso animato sull'acqua e noi, abbacinati, dopo poco volgemmo la schiena al mare.
Sulla piccola spianata dinanzi alla casa, incombeva in confronto già la notte.
Dinanzi al portico, su una grande poltrona, il capo coperto da un berretto e anche protetto dal bavero rialzato della pelliccia, le gambe avvolte in una coperta, mio suocero dormiva.
Ci fermammo a guardarlo.
Aveva la bocca spalancata, la mascella inferiore pendente come una cosa morta e la respirazione rumorosa e troppo frequente.
Ad ogni tratto la sua testa ricadeva sul petto ed egli, senza destarsi, la rialzava.
C'era allora un movimento delle sue palpebre come se avesse voluto aprire gli occhi per ritrovare piú facilmente l'equilibrio e la sua respirazione cambiava di ritmo.
Una vera interruzione del sonno.
Era la prima volta che la grave malattia di mio suocero mi si presentasse con tanta evidenza e ne fui profondamente addolorato.
Il Copler a bassa voce mi disse:
- Bisognerebbe curarlo.
Probabilmente è ammalato anche di nefrite.
Il suo non è un sonno: io so che cosa sia quello stato.
Povero diavolo!
Terminò consigliando di chiamare il suo medico.
Giovanni ci sentí e aperse gli occhi.
Parve subito meno malato e scherzò con Copler:
- Lei s'attenta di stare all'aria aperta? Non le farà male?
Gli sembrava di aver dormito saporitamente e non pensava di aver avuto mancanza d'aria in faccia al vasto mare che gliene mandava tanta! Ma la sua voce era fioca e la sua parola interrotta dall'ansare; aveva la faccia terrea e, levatosi dalla poltrona, si sentiva ghiacciare.
Dovette rifugiarsi in casa.
Lo vedo ancora muoversi traverso la spianata, la coperta sotto il braccio, ansante ma ridendo, mentre ci mandava il suo saluto.
- Vedi com'è fatto l'ammalato reale? - disse il Copler che non sapeva liberarsi dalla sua idea dominante.
- È moribondo e non sa d'essere ammalato.
Parve anche a me che l'ammalato reale soffrisse poco.
Mio suocero e anche il Copler riposano da molti anni a Sant'Anna, ma ci fu un giorno in cui passai accanto alle loro tombe e mi parve che per il fatto di trovarsi da tanti anni sotto alle loro pietre, la tesi propugnata da uno di loro non fosse infirmata.
Prima di lasciare il suo antico domicilio, il Copler aveva liquidati i suoi affari e perciò come me non ne aveva affatto.
Però, non appena lasciato il letto, non seppe restar tranquillo e, mancando di affari propri, cominciò ad occuparsi di quelli degli altri che gli parevano molto piú interessanti.
Ne risi allora, ma piú tardi anch'io dovevo apprendere quale sapore gradevole avessero gli affari altrui.
Egli si dedicava alla beneficenza ed essendosi proposto di vivere dei soli interessi del suo capitale, non poteva concedersi il lusso di farla tutta a spese proprie.
Perciò organizzava delle collette e tassava amici e conoscenti.
Registrava tutto da quel bravo uomo d'affari che era, ed io pensai che quel libro fosse il suo viatico e che io, nel caso suo, condannato a breve vita e privo di famiglia com'egli era, l'avrei arricchito intaccando il mio capitale.
Ma egli era il sano immaginario e non toccava che gl'interessi che gli spettavano, non sapendo rassegnarsi di ammettere breve il futuro.
Un giorno mi assalí con la richiesta di alcune centinaia di corone per procurare un pianino ad una povera fanciulla la quale veniva già sovvenzionata da me insieme ad altri, per suo mezzo, con un piccolo mensile.
Bisognava far presto per approfittare di una buona occasione.
Non seppi esimermi, ma, un po' di malagrazia, osservai che avrei fatto un buon affare se quel giorno non fossi uscito di casa.
Io sono di tempo in tempo soggetto ad accessi di avarizia.
Il Copler prese il denaro e se ne andò con una breve parola di ringraziamento, ma l'effetto delle mie parole si vide pochi giorni appresso e fu, purtroppo, importante.
Egli venne ad informarmi che il pianino era a posto e che la signorina Carla Gerco e sua madre mi pregavano di andar a trovarle per ringraziarmi.
Il Copler aveva paura di perdere il cliente e voleva legarmi facendomi assaporare la riconoscenza delle beneficate.
Dapprima volli esimermi da quella noia assicurandolo che ero convinto ch'egli sapesse fare la beneficenza piú accorta, ma insistette tanto che finii con l'accondiscendere:
- È bella? - domandai ridendo.
- Bellissima - egli rispose - ma non è pane per i nostri denti.
Curiosa cosa che egli mettesse i miei denti assieme ai suoi, col pericolo di comunicarmi la sua carie.
Mi raccontò dell'onestà di quella famiglia disgraziata che aveva perduto da qualche anno il suo capo di casa e che nella piú squallida miseria era vissuta nella piú rigida onestà.
Era una giornata sgradevole.
Soffiava un vento diaccio ed io invidiavo il Copler che s'era messa la pelliccia.
Dovevo trattenere con la mano il cappello che altrimenti sarebbe volato via.
Ma ero di buon umore, perché andavo a raccogliere la gratitudine dovuta alla mia filantropia.
Percorremmo a piedi la Corsia Stadion, traversammo il Giardino Pubblico.
Era una parte della città ch'io non vedevo mai.
Entrammo in una di quelle case cosidette di speculazione, che i nostri antenati s'erano messi a fabbricare quarant'anni prima, in posti lontani dalla città che subito li invase; aveva un aspetto modesto ma tuttavia piú cospicuo delle case che si fanno oggidí con le stesse intenzioni.
La scala occupava una piccola area e perciò era molto alta.
Ci fermammo al primo piano dove arrivai molto prima del mio compagno, assai piú lento.
Fui stupito che delle tre porte che davano su quel pianerottolo, due, quelle ai lati, fossero contrassegnate dal biglietto di visita di Carla Gerco, attaccatovi con chiodini, mentre la terza aveva anch'essa un biglietto ma con altro nome.
Il Copler mi spiegò che le Gerco avevano a destra la cucina e la camera da letto mentre a sinistra non c'era che una stanza sola, lo studio della signorina Carla.
Avevano potuto subaffittare una parte del quartiere al centro e cosí l'affitto costava loro pochissimo, ma avevano l'incomodo di dover passare il pianerottolo per recarsi da una stanza all'altra.
Bussammo a sinistra, alla stanza da studio ove madre e figlia, avvisate della nostra visita, ci attendevano.
Il Copler fece le presentazioni.
La signora, una persona timidissima vestita di un povero vestito nero, con la testa rilevata da un biancore di neve, mi tenne un piccolo discorso che doveva aver preparato: erano onorate dalla mia visita e mi ringraziavano del cospicuo dono che avevo fatto loro.
Poi essa non aperse piú bocca.
Il Copler assisteva come un maestro che ad un esame ufficiale stia ad ascoltare la lezione ch'egli con grande fatica ha insegnata.
Corresse la signora dicendole che non soltanto io avevo elargito il denaro per il pianino, ma che contribuivo anche al soccorso mensile ch'egli aveva loro raggranellato.
Amava l'esattezza, lui.
La signorina Carla si alzò dalla sedia ove era seduta accanto al pianino, mi porse la mano e mi disse la semplice parola:
- Grazie!
Ciò almeno era meno lungo.
La mia carica di filantropo cominciava a pesarmi.
Anch'io mi occupavo degli affari altrui come un qualunque ammalato reale! Che cosa doveva vedere in me quella graziosa giovinetta? Una persona di grande riguardo ma non un uomo! Ed era veramente graziosa! Credo che essa volesse sembrare piú giovine di quanto non fosse, con la sua gonna troppo corta per la moda di quell'epoca a meno che non usasse per casa una gonna del tempo in cui non aveva ancora finito di crescere.
La sua testa era però di donna e, per la pettinatura alquanto ricercata, di donna che vuol piacere.
Le ricche treccie brune erano disposte in modo da coprire le orecchie e anche in parte il collo.
Ero tanto compreso della mia dignità e temevo tanto l'occhio inquisitore del Copler che dapprima non guardai neppur bene la fanciulla; ma ora la so tutta.
La sua voce aveva qualche cosa di musicale quando parlava e, con un'affettazione oramai divenuta natura, essa si compiaceva di stendere le sillabe come se avesse voluto carezzare il suono che le riusciva di metterci.
Perciò e anche per certe sue vocali eccessivamente larghe persino per Trieste, il suo linguaggio aveva qualche cosa di straniero.
Appresi poi che certi maestri, per insegnare l'emissione della voce, alterano il valore delle vocali.
Era proprio tutt'altra pronuncia di quella di Ada.
Ogni suo suono mi pareva d'amore.
Durante quella visita la signorina Carla sorrise sempre, forse immaginando di avere cosí stereotipata sulla faccia l'espressione della gratitudine.
Era un sorriso un po' forzato; il vero aspetto della gratitudine.
Poi, quando poche ore dopo cominciai a sognare Carla, immaginai che su quella faccia ci fosse stata una lotta fra la letizia e il dolore.
Nulla di tutto questo trovai poi in lei ed una volta di piú appresi che la bellezza femminile simula dei sentimenti coi quali nulla ha a vedere.
Cosí la tela su cui è dipinta una battaglia non ha alcun sentimento eroico.
Il Copler pareva soddisfatto della presentazione come se le due donne fossero state opera sua.
Me le descriveva: erano sempre liete del loro destino e lavoravano.
Egli diceva delle parole che parevano tolte da un libro scolastico e, annuendo macchinalmente, pareva che io volessi confermare di aver fatti i miei studii e sapessi perciò come dovessero essere fatte le povere donne virtuose prive di denaro.
Poi egli domandò a Carla di cantarci qualche cosa.
Essa non volle dichiarando di essere raffreddata.
Proponeva di farlo un altro giorno.
Io sentivo con simpatia ch'essa temeva il nostro giudizio, ma avevo il desiderio di prolungare la seduta e m'associai nelle preghiere del Copler.
Dissi anche che non sapevo se m'avrebbe rivisto mai piú, perché ero molto occupato.
Il Copler, che pur sapeva ch'io a questo mondo non avevo alcun impegno, confermò con grande serietà quanto dicevo.
Mi fu poi facile d'intendere ch'egli desiderava che io non rivedessi piú Carla.
Questa tentò ancora di esimersi, ma il Copler insistette con una parola che somigliava ad un comando ed essa obbedí: com'era facile costringerla!
Cantò «La mia bandiera».
Dal mio soffice sofà io seguivo il suo canto.
Avevo un ardente desiderio di poterla ammirare.
Come sarebbe stato bello di vederla rivestita di genialità! Ma invece ebbi la sorpresa di sentire che la sua voce, quando cantava, perdeva ogni musicalità.
Lo sforzo l'alterava.
Carla non sapeva neppure suonare e il suo accompagnamento monco rendeva anche piú povera quella povera musica.
Ricordai di trovarmi dinanzi ad una scolara e analizzai se il volume di voce fosse bastevole.
Abbondante anzi! Nel piccolo ambiente ne avevo l'orecchio ferito.
Pensai, per poter continuare ad incoraggiarla, che solo la sua scuola fosse cattiva.
Quando cessò, m'associai all'applauso abbondante e parolaio del Copler.
Egli diceva:
- Figurati quale effetto farebbe questa voce quando fosse accompagnata da una buona orchestra.
Questo era certamente vero.
Un'intera potente orchestra ci voleva su quella voce.
Io dissi con grande sincerità che mi riservavo di riudire la signorina di là a qualche mese e che allora mi sarei pronunciato sul valore della sua scuola.
Meno sinceramente aggiunsi che certamente quella voce meritava una scuola di primo ordine.
Poi, per attenuare quanto di sgradevole ci poteva essere stato nelle mie prime parole, filosofai sulla necessità per una voce eccelsa, di trovare una scuola eccelsa.
Questo superlativo coperse tutto.
Ma poi, restato solo, fui meravigliato di aver sentito la necessità di essere sincero con Carla.
Che già l'avessi amata? Ma se non l'avevo ancora ben vista!
Sulle scale dall'odore dubbio, il Copler disse ancora:
- La voce sua è troppo forte.
È una voce da teatro.
Egli non sapeva che a quell'ora io sapevo qualcosa di piú: quella voce apparteneva ad un ambiente piccolissimo dove si poteva gustare l'impressione d'ingenuità di quell'arte e sognare di portarci dentro l'arte, cioè vita e dolore.
Nel lasciarmi, il Copler mi disse che m'avrebbe avvertito quando il maestro di Carla avrebbe organizzato un concerto pubblico.
Si trattava di un maestro poco noto ancora in città, ma sarebbe certo divenuto una futura grande celebrità.
Il Copler ne era sicuro ad onta che il maestro fosse abbastanza vecchio.
Pareva che la celebrità gli sarebbe venuta ora, dopo che il Copler lo conosceva.
Due debolezze da morituri, quella del maestro e quella del Copler.
Il curioso si è che sentii il bisogno di raccontare tale visita ad Augusta.
Si potrebbe forse credere che sia stato per prudenza, visto che il Copler ne sapeva e che io non mi sentivo di pregarlo di tacere.
Ma però ne parlai troppo volentieri.
Fu un grande sfogo.
Fino ad allora non avevo da rimproverarmi altro che di aver taciuto con Augusta.
Ecco che ora ero innocente del tutto.
Ella mi domandò qualche notizia della fanciulla e se fosse bella.
Mi fu difficile di rispondere: dissi che la povera fanciulla mi era parsa molto anemica.
Poi ebbi una buona idea:
- E se tu ti occupassi un poco di lei?
Augusta aveva tanto da fare nella sua nuova casa e nella sua vecchia famiglia ove la chiamavano per farsi aiutare nell'assistenza al padre malato, che non vi pensò piú.
Ma la mia idea era stata perciò veramente buona.
Il Copler però riseppe da Augusta che io l'avevo avvertita della nostra visita e anche lui dimenticò perciò le qualità ch'egli aveva attribuite al malato immaginario.
Mi disse in presenza di Augusta che di lí a poco tempo avremmo fatta un'altra visita a Carla.
Mi concedeva la sua piena fiducia.
Nella mia inerzia subito fui preso dal desiderio di rivedere Carla.
Non osai correre da lei temendo che il Copler avesse a risaperne.
I pretesti però non mi sarebbero mica mancati.
Potevo andare da lei per offrirle un aiuto maggiore ad insaputa del Copler, ma avrei dovuto prima essere sicuro che, a proprio vantaggio, ella avrebbe accettato di tacere.
E se quell'ammalato reale fosse già l'amante della fanciulla? Io, degli ammalati reali, non sapevo proprio niente e poteva essere benissimo che avessero il costume di farsi pagare dagli altri le loro amanti.
In quel caso sarebbe bastata una sola visita a Carla per compromettermi.
Non potevo mettere a pericolo la pace della mia famigliuola; ossia, non la misi a pericolo finché il mio desiderio di Carla non ingrandí.
Ma esso ingrandí costantemente.
Già conoscevo quella fanciulla molto meglio che non quando le aveva stretta la mano per congedarmi da lei.
Ricordavo specialmente quella treccia nera che copriva il suo collo niveo e che sarebbe stato necessario di allontanare col naso per arrivare a baciare la pelle ch'essa celava.
Per stimolare il mio desiderio bastava io ricordassi che su un dato pianerottolo, nella stessa mia piccola città, era esposta una bella fanciulla e che con una breve passeggiata si poteva andare a prenderla! La lotta col peccato diventa in tali circostanze difficilissima perché bisogna rinnovarla ad ogni ora ed ogni giorno, finché cioè la fanciulla rimanga su quel pianerottolo.
Le lunghe vocali di Carla mi chiamavano, e forse proprio il loro suono m'aveva messo nell'anima la convinzione che quando la mia resistenza fosse sparita, altre resistenze non ci sarebbero state piú.
Però m'era chiaro che potevo ingannarmi e che forse il Copler vedeva le cose con maggior esattezza; anche questo dubbio valeva a diminuire la mia resistenza visto che la povera Augusta poteva essere salvata da un mio tradimento da Carla stessa che, come donna, aveva la missione della resistenza.
Perché il mio desiderio avrebbe dovuto darmi un rimorso quando pareva fosse proprio venuto a tempo per salvarmi dal tedio che in quell'epoca mi minacciava? Non danneggiava affatto i miei rapporti con Augusta, anzi tutt'altro.
Io le dicevo oramai non piú soltanto le parole di affetto che avevo sempre avute per lei, ma anche quelle che nel mio animo andavano formandosi per l'altra.
Non c'era mai stata una simile abbondanza di dolcezza in casa mia e Augusta ne pareva incantata.
Ero sempre esatto in quello che io chiamavo l'orario della famiglia.
La mia coscienza è tanto delicata che, con le mie maniere, già allora mi preparavo ad attenuare il mio futuro rimorso.
Che la mia resistenza non sia mancata del tutto è provato dal fatto che io arrivai a Carla non con uno slancio solo, ma a tappe.
Dapprima per varii giorni giunsi solo fino al Giardino Pubblico e con la sincera intenzione di gioire di quel verde che apparisce tanto puro in mezzo al grigio delle strade e delle case che lo circondano.
Poi, non avendo avuta la fortuna di imbattermi, come speravo, casualmente in lei, uscii dal Giardino per movermi proprio sotto le sue finestre.
Lo feci con una grande emozione che ricordava proprio quella deliziosissima del giovinetto che per la prima volta accosta l'amore.
Da tanto tempo ero privo non d'amore, ma delle corse che vi conducono.
Ero appena uscito dal Giardino Pubblico che m'imbattei proprio faccia a faccia in mia suocera.
Dapprima ebbi un dubbio curioso: di mattina, cosí di buon'ora, da quelle parti tanto lontane dalle nostre? Forse anche lei tradiva il marito ammalato.
Seppi poi subito che le facevo un torto perché essa era stata a trovare il medico per averne conforto dopo una cattiva notte passata accanto a Giovanni.
Il medico le aveva detto delle buone parole, ma essa era tanto agitata che presto mi lasciò dimenticando persino di sorprendersi di avermi trovato in quel luogo visitato di solito da vecchi, bambini e balie.
Ma mi bastò di averla vista per sentirmi riafferrato dalla mia famiglia.
Camminai verso casa mia con un passo deciso, a cui battevo il tempo mormorando: «Mai piú! Mai piú!».
In quell'istante la madre di Augusta con quel suo dolore mi aveva dato il sentimento di tutti i miei doveri.
Fu una buona lezione e bastò per tutto quel giorno.
Augusta non era in casa perché era corsa dal padre col quale rimase tutta la mattina.
A tavola mi disse che avevano discusso se, dato lo stato di Giovanni, non avrebbero dovuto rimandare il matrimonio di Ada ch'era stabilito per la settimana dopo.
Giovanni stava già meglio.
Pare che a cena si fosse lasciato indurre a mangiar troppo e l'indigestione avesse assunto l'aspetto di un aggravamento del male.
Io le raccontai di aver già avute quelle notizie dalla madre in cui m'ero imbattuto la mattina al Giardino Pubblico.
Neppure Augusta si meravigliò della mia passeggiata, ma io sentii il bisogno di darle delle spiegazioni.
Le raccontai che preferivo da qualche tempo il Giardino Pubblico quale meta delle mie passeggiate.
Mi sedevo su una banchina e vi leggevo il mio giornale.
Poi aggiunsi:
- Quell'Olivi! Me l'ha fatta grossa condannandomi a tanta inerzia.
Augusta, che a quel proposito si sentiva un poco colpevole, ebbe un aspetto di dolore e di rimpianto.
Io, allora, mi sentii benissimo.
Ma ero realmente purissimo perché passai il pomeriggio intero nel mio studio e potevo veramente credere di essere definitivamente guarito di ogni desiderio perverso.
Leggevo oramai l'Apocalisse.
E ad onta che fosse oramai assodato ch'io avevo l'autorizzazione di andare ogni mattina al Giardino Pubblico, tanto grande s'era fatta la mia resistenza alla tentazione che quando il giorno appresso uscii, mi diressi proprio dalla parte opposta.
Andavo a cercare certa musica volendo provare un nuovo metodo del violino che m'era stato consigliato.
Prima di uscire seppi che mio suocero aveva passata una notte ottima e che sarebbe venuto da noi in vettura nel pomeriggio.
Ne avevo piacere tanto per mio suocero quanto per Guido, che finalmente avrebbe potuto sposarsi.
Tutto andava bene: io ero salvo ed era salvo anche mio suocero.
Ma fu proprio la musica che mi ricondusse a Carla! Fra i metodi che il venditore m'offerse ve ne fu per errore uno che non era del violino ma del canto.
Ne lessi accuratamente il titolo: «Trattato completo dell'Arte del Canto (Scuola di Garcia) di E.
Garcia (figlio) contenente una Relazione sulla Memoria riguardante la Voce Umana presentata all'Accademia delle Scienze di Parigi».
Lasciai che il venditore s'occupasse di altri clienti e mi misi a leggere l'operetta.
Devo dire che leggevo con un'agitazione che forse somigliava a quella con cui il giovinetto depravato accosta le opere di pornografia.
Ecco: quella era la via per arrivare a Carla; essa abbisognava di quell'opera e sarebbe stato un delitto da parte mia di non fargliela conoscere.
La comperai e ritornai a casa.
L'opera del Garcia constava di due parti di cui una teorica e l'altra pratica.
Continuai la lettura con l'intenzione di intenderla tanto bene da poter poi dare i miei consigli a Carla quando fossi andato da lei col Copler.
Intanto avrei guadagnato del tempo e avrei potuto tuttavia continuare a dormire i miei sonni tranquilli, pur sollazzandomi sempre col pensiero all'avventura che m'aspettava.
Ma Augusta stessa fece precipitare gli avvenimenti.
M'interruppe nella mia lettura per venir a salutarmi, si chinò su di me e sfiorò la mia guancia con le sue labbra.
Mi domandò che cosa facessi e sentito che si trattava di un nuovo metodo, pensò fosse per violino e non si curò di guardare meglio.
Io, quand'essa mi lasciò, esagerai il pericolo che avevo corso e pensai che per la mia sicurezza avrei fatto bene di non tenere nel mio studio quel libro.
Bisognava portarlo subito al suo destino, ed è cosí che fui costretto di andar dritto verso la mia avventura.
Avevo trovato qualche cosa di piú di un pretesto per poter fare quello ch'era il mio desiderio.
Non ebbi piú esitazioni di sorta.
Giunto su quel pianerottolo, mi rivolsi subito alla porta a sinistra.
Però dinanzi a quella porta m'arrestai per un istante ad ascoltare i suoni della ballata «La mia bandiera» ch'echeggiavano gloriosamente sulle scale.
Pareva che, per tutto quel tempo, Carla avesse continuato a cantare la stessa cosa.
Sorrisi pieno di affetto e di desiderio per tanta infantilità.
Apersi poi cautamente la porta senza bussare ed entrai nella stanza in punta di piedi.
Volevo vederla subito, subito.
Nel piccolo ambiente la sua voce era veramente sgradevole.
Essa cantava con grande entusiasmo e maggior calore che non quella volta della mia prima visita.
Era addirittura abbandonata sullo schienale della sedia per poter emettere tutto il fiato dei suoi polmoni.
Io vidi solo la testina fasciata dalle grosse treccie e mi ritirai còlto da un'emozione profonda per aver osato tanto.
Essa intanto era arrivata all'ultima nota che non voleva finire piú ed io potei ritornare sul pianerottolo e chiudere dietro di me la porta senza ch'essa di me s'accorgesse.
Anche quell'ultima nota aveva oscillato in sú e in giú prima di affermarsi sicura.
Carla sentiva dunque la nota giusta e toccava ora al Garcia d'intervenire per insegnarle a trovarla piú presto.
Bussai quando mi sentii piú calmo.
Subito essa accorse ad aprire la porta ed io non dimenticherò giammai la sua figurina gentile, poggiata allo stipite, mentre mi fissava coi suoi grandi occhi bruni prima di saper riconoscermi nell'oscurità.
Ma intanto io m'ero calmato in modo da venir ripreso da tutte le mie esitazioni.
Ero avviato a tradire Augusta, ma pensavo che come nei giorni precedenti avevo potuto contentarmi di giungere fino al Giardino Pubblico, tanto piú facilmente ora avrei potuto fermarmi a quella porta, consegnare quel libro compromettente e andarmene pienamente soddisfatto.
Fu un breve istante pieno di buoni propositi.
Ricordai persino un consiglio strano che m'era stato dato per liberarmi dall'abitudine del fumo e che poteva valere in quell'occasione: talvolta, per contentarsi, bastava accendere il cerino e gettare poi via e sigaretta e cerino.
Mi sarebbe stato anche facile di far cosí, perché Carla stessa, quando mi riconobbe, arrossí e accennò a fuggire vergognandosi - come seppi poi - di farsi trovare vestita di un povero consunto vestitino di casa.
Una volta riconosciuto, sentii il bisogno di scusarmi:
- Le ho portato questo libro ch'io credo la interesserà.
Se vuole, posso lasciarglielo e andarmene subito.
Il suono delle parole - o cosí mi parve - era abbastanza brusco, ma non il significato, perché in complesso la lasciavo arbitra di decidere lei se avessi dovuto andarmene o restare e tradire Augusta.
Essa subito decise, perché afferrò la mia mano per trattenermi piú sicuramente e mi fece entrare.
L'emozione m'oscurò la vista e ritengo sia stata provocata non tanto dal dolce contatto di quella mano, ma da quella familiarità che mi parve decidesse del mio e del destino di Augusta.
Perciò credo di essere entrato con qualche riluttanza e, quando rievoco la storia del mio primo tradimento, ho il sentimento di averlo compiuto perché trascinatovi.
La faccia di Carla era veramente bella cosí arrossata.
Fui deliziosamente sorpreso all'accorgermi che se non ero stato aspettato da lei, essa pur aveva sperata la mia visita.
Essa mi disse con grande compiacenza:
- Lei sentí dunque il bisogno di rivedermi? Di rivedere la poverina che le deve tanto?
Io, certo, se avessi voluto, avrei potuto prenderla subito fra le mie braccia, ma non ci pensavo neppure.
Ci pensavo tanto poco che non risposi neppure alle sue parole che mi parevano compromettenti e mi rimisi a parlare del Garcia e della necessità di quel libro per lei.
Ne parlai con una furia che mi portò a qualche parola meno considerata.
Garcia le avrebbe insegnato il modo di rendere le note solide come il metallo e dolci come l'aria.
Le avrebbe spiegato come una nota non possa rappresentare che una linea retta e anzi un piano, ma un piano veramente levigato.
Il mio fervore sparí solo quand'essa m'interruppe per manifestarmi un suo dubbio doloroso:
- Ma dunque a lei non piace come io canto?
Fui stupito della sua domanda.
Io avevo fatta una critica rude, ma non ne avevo la coscienza e protestai in piena buona fede.
Protestai tanto bene che mi parve di esser ritornato, sempre parlando del solo canto, all'amore che tanto imperiosamente m'aveva trascinato in quella casa.
E le mie parole furono tanto amorose che lasciarono tuttavia trasparire una parte di sincerità:
- Come può credere una cosa simile? Sarei qui se cosí fosse? Io sono stato su quel pianerottolo per lungo tempo a bearmi del suo canto, delizioso ed eccelso canto nella sua ingenuità.
Soltanto io ritengo che alla sua perfezione occorra qualche cosa d'altro e sono venuto a portarglielo.
Quale potenza aveva tuttavia nel mio animo il pensiero di Augusta, se continuavo ostinatamente a protestare di non essere stato trascinato dal mio desiderio!
Carla stette a sentire le mie parole lusinghiere, ch'essa non era neppure al caso di analizzare.
Non era molto colta, ma, con mia grande sorpresa, compresi che non mancava di buon senso.
Mi raccontò ch'essa stessa aveva dei forti dubbii sul suo talento e sulla sua voce: sentiva che non faceva dei progressi.
Spesso, dopo una certa quantità di ore di studio, essa si concedeva lo svago e il premio di cantare «La mia Bandiera» sperando di scoprire nella propria voce qualche nuova qualità.
Ma era sempre la stessa cosa: non peggio e forse sempre abbastanza bene come le assicuravano quanti la udivano ed io anche (e qui mi mandò dai suoi begli occhi bruni un lampo mitemente interrogativo che dimostrava com'essa avesse bisogno di essere rassicurata sul senso delle mie parole che ancora le sembrava dubbio) ma un vero progresso non c'era.
Il maestro diceva che in arte non c'erano progressi lenti, ma grandi salti che portavano alla meta e che un bel giorno essa si sarebbe destata grande artista.
- È una cosa lunga, però, - aggiunse guardando nel vuoto e rivedendo forse tutte le sue ore di noia e di dolore.
Si dice onesto prima di tutto quello ch'è sincero e da parte mia sarebbe stato onestissimo di consigliare alla povera fanciulla di lasciare lo studio del canto e divenire la mia amante.
Ma io non ero ancora giunto tanto lontano dal Giardino Pubblico, eppoi, se non altro, non ero molto sicuro del mio giudizio nell'arte del canto.
Da alcuni istanti io ero fortemente preoccupato da una sola persona: quel noioso Copler che passava ogni festa nella mia villa con me e con mia moglie.
Sarebbe stato quello il momento di trovare un pretesto per pregare la fanciulla di non raccontare al Copler della mia visita.
Ma non lo feci non sapendo come travestire la mia domanda e fu bene, perché pochi giorni appresso il povero mio amico ammalò e subito dopo morí.
Intanto le dissi ch'essa avrebbe trovato nel Garcia tutto quello che cercava, e per un istante solo, ma solo per un istante, essa ansiosamente aspettò dei miracoli da quel libro.
Presto però, trovandosi dinanzi a tante parole, dubitò dell'efficacia della magia.
Io leggevo le teorie del Garcia in italiano, poi in italiano gliele spiegavo e, quando non bastava, gliele traducevo in triestino, ma essa non sentiva moversi niente nella sua gola e una vera efficacia in quel libro essa avrebbe potuto riconoscere solo se si fosse manifestata in quel punto.
Il male è che anch'io, poco dopo, ebbi la convinzione che in mano mia quel libro non valeva molto.
Rivedendo per ben tre volte quelle frasi e non sapendo che farmene, mi vendicai della mia incapacità criticandole liberamente.
Ecco che il Garcia perdeva il suo e il mio tempo per provare che poiché la voce umana sapeva produrre varii suoni non era giusto di considerarla quale uno strumento solo.
Anche il violino allora avrebbe dovuto essere considerato quale un conglomerato di strumenti.
Ebbi forse torto di comunicare a Carla tale mia critica, ma accanto ad una donna che si vuole conquistare è difficile di trattenersi dall'approfittare di un'occasione che si presenti per dimostrare la propria superiorità.
Essa infatti m'ammirò, ma proprio fisicamente allontanò da sé il libro ch'era il nostro Galeotto, ma che non ci accompagnò fino alla colpa.
Io ancora non mi rassegnai di rinunziarvi e lo rimandai ad altra mia visita.
Quando il Copler morí non ve ne fu piú di bisogno.
Era rotto qualunque nesso fra quella casa e la mia e cosí il mio procedere non poteva essere frenato che dalla mia coscienza.
Ma intanto eravamo divenuti abbastanza intimi, di un'intimità maggiore di quanto si avrebbe potuto attendersi da quella mezz'ora di conversazione.
Io credo che l'accordo in un giudizio critico unisca intimamente.
La povera Carla approfittò di tale intimità per mettermi a parte delle sue tristezze.
Dopo l'intervento del Copler, in quella casa si viveva modestamente ma senza grandi privazioni.
Il maggior peso per le due povere donne era il pensiero del futuro.
Perché il Copler portava loro a date ben precise il suo soccorso, ma non permetteva di calcolarvi con sicurezza; egli non voleva pensieri e preferiva li avessero loro.
Poi non dava gratuitamente quei denari: Era il vero padrone in quella casa e intendeva di essere informato di ogni piccolezza.
Guai se si permettevano una spesa non preventivamente approvata da lui! La madre di Carla, poco tempo prima, era stata indisposta e Carla, per poter accudire alle faccende domestiche, aveva trascurato per qualche giorno di cantare.
Informatone dal maestro, il Copler fece una scenata e se ne andò dichiarando che allora non valeva la pena di seccare dei valentuomini per indurli a soccorrerle.
Per varii giorni esse vissero nel terrore temendo di essere abbandonate al loro destino.
Poi, quando ritornò, rinnovò patti e condizioni e stabilí esattamente per quante ore al giorno Carla dovesse sedere al pianoforte e quante ne potesse dedicare alla casa.
Minacciò anche di venir a sorprenderle a tutte le ore del giorno.
- Certo, - concludeva la fanciulla, - egli non vuole altro che il nostro bene, ma s'arrabbia tanto per cose di nessuna importanza, che una volta o l'altra, nell'ira, finirà col gettarci sul lastrico.
Ma ora che anche lei si occupa di noi, non c'è piú questo pericolo, nevvero?
E di nuovo mi strinse la mano.
Poiché io non risposi subito, essa temette ch'io mi sentissi solidale col Copler, e aggiunse:
- Anche il signor Copler dice che lei è tanto buono!
Questa frase voleva essere un complimento diretto a me, ma anche al Copler.
La sua figura presentatami con tanta antipatia da Carla, era nuova per me e destava proprio la mia simpatia.
Avrei voluto somigliargli mentre il desiderio che mi aveva portato in quella casa me ne rendeva tanto dissimile! Era ben vero che alle due donne egli portava i denari altrui, ma dava tutta l'opera propria, una parte della propria vita.
Quella rabbia, ch'egli dedicava loro, era veramente paterna.
Ebbi però un dubbio: e se a tale opera fosse stato indotto dal desiderio? Senz'esitare domandai a Carla:
- Il Copler le ha mai chiesto un bacio?
- Mai! - rispose Carla con vivacità.
- Quand'è soddisfatto del mio comportamento, seccamente impartisce la sua approvazione, mi stringe leggermente la mano e se ne va.
Altre volte, quand'è arrabbiato, mi rifiuta anche la stretta di mano e non s'accorge nemmeno ch'io dallo spavento piango.
Un bacio in quel momento sarebbe per me una liberazione.
Visto ch'io mi misi a ridere, Carla si spiegò meglio:
- Accetterei con riconoscenza il bacio di un uomo tanto vecchio cui devo tanto!
Ecco il vantaggio dei malati reali; appariscono piú vecchi di quanto non sieno.
Feci un debole tentativo di somigliare al Copler.
Sorridendo per non spaventare troppo la povera fanciulla, le dissi che anch'io, quando mi occupavo di qualcuno, finivo col divenire molto imperioso.
In complesso anch'io trovavo che quando si studiava un'arte si dovesse farlo seriamente.
Poi m'investii tanto bene della mia parte che cessai persino di sorridere.
Il Copler aveva ragione d'essere severo con una giovinetta che non poteva intendere il valore del tempo: bisognava anche ricordare quante persone facevano dei sacrifici per aiutarla.
Ero veramente serio e severo.
Venne cosí per me l'ora di andare a colazione e specialmente quel giorno non avrei voluto far aspettare Augusta.
Porsi la mano a Carla e allora m'avvidi com'essa fosse pallida.
Volli confortarla:
- Stia sicura ch'io farò sempre del mio meglio per appoggiarla presso il Copler e tutti gli altri.
Essa ringraziò, ma pareva tuttavia abbattuta.
Poi seppi che vedendomi arrivare, essa subito aveva indovinata quasi la verità e aveva pensato ch'io fossi innamorato di lei e quindi salva.
Poi invece - e proprio quando m'accinsi ad andarmene - essa credette che anch'io fossi innamorato solo dell'arte e del canto e che perciò se essa non avesse cantato bene e fatti dei progressi, l'avrei abbandonata.
Mi parve abbattutissima.
Fui preso da compassione e, visto che non c'era altro tempo da perdere, la rassicurai col mezzo ch'essa stessa aveva designato quale il piú efficace.
Ero già alla porta che l'attrassi a me, spostai accuratamente col naso la grossa treccia dal suo collo cui cosí giunsi con le labbra e sfiorai persino coi denti.
Aveva l'apparenza di uno scherzo ed anch'essa finí col riderne, ma soltanto quando io la lasciai.
Fino a quel momento essa era rimasta inerte e stupita fra le mie braccia.
Mi seguí sul pianerottolo e, quando cominciai a scendere, mi domandò ridendo:
- Quando ritorna?
- Domani o forse piú tardi! - risposi io già incerto.
Poi piú deciso: - Certamente vengo domani! - Quindi, in seguito al desiderio di non compromettermi troppo, aggiunsi: - Continueremo la lettura del Garcia.
Ella non mutò di espressione in quel breve tempo: assentí alla prima malsicura promessa, assentí riconoscente alla seconda e assentí anche al mio terzo proposito, sempre sorridendo.
Le donne sanno sempre quello che vogliono.
Non ci furono esitazioni né per parte di Ada che mi respinse, né dall'Augusta che mi prese, e neppure da Carla, che mi lasciò fare.
Sulla via mi trovai subito piú vicino ad Augusta che non a Carla.
Respirai l'aria fresca, aperta ed ebbi pieno il sentimento della mia libertà.
Io non avevo fatto altro che uno scherzo che non poteva perdere tale suo carattere perché era finito su quel collo e sotto quella treccia.
Infine Carla aveva accettato quel bacio come una promessa di affetto e sopra tutto di assistenza.
Quel giorno a tavola, però, cominciai veramente a soffrire.
Tra me e Augusta stava la mia avventura, come una grande ombra fosca che mi pareva impossibile non fosse vista anche da lei.
Mi sentivo piccolo, colpevole e malato, e sentivo il dolore al fianco come un dolore simpatico che riverberasse dalla grande ferita alla mia coscienza.
Mentre distrattamente fingevo di mangiare, cercai il sollievo in un proposito ferreo: «Non la rivedrò piú - pensai - e se, per riguardo, la dovrò rivedere, sarà per l'ultima volta».
Non si pretendeva poi mica tanto da me: un solo sforzo, quello di non rivedere piú Carla.
Augusta ridendo, mi domandò:
- Sei stato dall'Olivi che ti vedo tanto preoccupato? Mi misi a ridere anch'io.
Era un grande sollievo quello di poter parlare.
Le parole non erano quelle che avrebbero potuto dare la pace intera perché per dire quelle sarebbe occorso di confessare eppoi promettere, ma, non potendo altrimenti, era già un bel sollievo di dirne delle altre.
Parlai abbondantemente, sempre lieto e buono.
Poi trovai ancora di meglio: parlai della piccola lavanderia ch'essa tanto desiderava e che io fino ad allora le avevo rifiutata, e le diedi subito il permesso di costruirla.
Essa fu tanto commossa del mio non sollecitato permesso che si alzò e venne a darmi un bacio.
Ecco un bacio ch'evidentemente cancellava quell'altro, ed io mi sentii subito meglio.
Fu cosí ch'ebbimo la lavanderia e ancora oggidí, quando passo dinanzi alla minuscola costruzione, ricordo che Augusta la volle e Carla la consentí.
Seguí un pomeriggio incantevole riempito dal nostro affetto.
Nella solitudine la mia coscienza era piú seccante.
La parola e l'affetto di Augusta valevano a calmarla.
Uscimmo insieme.
Poi l'accompagnai da sua madre e passai anche tutta la serata con lei.
Prima di mettermi a dormire, come m'avviene di spesso, guardai lungamente mia moglie che già dormiva raccolta nella sua lieve respirazione.
Anche dormendo essa era tutta ordinata, con le coperte fino al mento e i capelli non abbondanti riuniti in una breve treccia annodata alla nuca.
Pensai: «Non voglio procurarle dei dolori.
Mai!».
Mi addormentai tranquillo.
Il giorno seguente avrei chiarita la mia relazione con Carla e avrei trovato il modo di rassicurare la povera fanciulla del suo avvenire, senza perciò essere obbligato di darle dei baci.
Ebbi un sogno bizzarro: non solo baciavo il collo di Carla, ma lo mangiavo.
Era però un collo fatto in modo che le ferite ch'io le infliggevo con rabbiosa voluttà non sanguinavano, e il collo restava perciò sempre coperto dalla sua bianca pelle e inalterato nella sua forma lievemente arcuata.
Carla, abbandonata fra le mie braccia, non pareva soffrisse dei miei morsi.
Chi invece ne soffriva era Augusta che improvvisamente era accorsa.
Per tranquillarla le dicevo: «Non lo mangerò tutto: ne lascerò un pezzo anche a te».
Il sogno ebbe l'aspetto di un incubo soltanto quando in mezzo alla notte mi destai e la mia mente snebbiata poté ricordarlo, ma non prima, perché finché durò, neppure la presenza di Augusta m'aveva levato il sentimento di soddisfazione ch'esso mi procurava.
Non appena desto, ebbi la piena coscienza della forza del mio desiderio e del pericolo ch'esso rappresentava per Augusta e anche per me.
Forse nel grembo della donna che mi dormiva accanto già s'iniziava un'altra vita di cui sarei stato responsabile.
Chissà quello che avrebbe preteso Carla quando fosse stata la mia amante? A me pareva desiderosa del godimento che fino ad allora le era stato conteso, e come avrei io saputo provvedere a due famiglie? Augusta domandava l'utile lavanderia, l'altra avrebbe domandata qualche altra cosa, ma non meno costosa.
Rividi Carla mentre dal pianerottolo mi salutava ridendo dopo di essere stata baciata.
Essa già sapeva ch'io sarei stato la sua preda.
N'ebbi spavento e là, solo e nell'oscurità, non seppi trattenere un gemito.
Mia moglie, subito desta, mi domandò che cosa avessi ed io risposi con una breve parola, la prima che mi si fosse affacciata alla mente quando seppi rimettermi dallo spavento di vedermi interrogato in un momento in cui mi pareva di aver gridata una confessione:
- Penso alla vecchiaia incombente!
Ella rise e cercò di consolarmi senza perciò tagliare il sonno cui s'aggrappava.
M'inviò la frase stessa che sempre mi diceva quando mi vedeva spaventato del tempo che andava via:
- Non pensarci, ora che siamo giovani...
il sonno è tanto buono!
L'esortazione giovò: non ci pensai piú e mi riaddormentai.
La parola nella notte è come un raggio di luce.
Illumina un tratto di realtà in confronto al quale sbiadiscono le costruzioni della fantasia.
Perché avevo tanto da temere della povera Carla di cui ancora non ero l'amante? Era evidente che avevo fatto di tutto per spaventarmi della mia situazione.
Infine, il «bébé» che avevo evocato nel grembo di Augusta finora non aveva dato altro segno di vita che la costruzione della lavanderia.
Mi alzai sempre accompagnato dai migliori propositi.
Corsi al mio studio e preparai in una busta qualche poco di denaro che volevo offrire a Carla nello stesso istante in cui le avrei annunziato il mio abbandono.
Però mi sarei dichiarato pronto di mandarle per posta dell'altro denaro ogni qualvolta essa me ne avesse domandato scrivendomi ad un indirizzo che le avrei fatto sapere.
Proprio quando m'accingevo ad uscire, Augusta m'invitò con un dolce sorriso ad accompagnarla in casa del padre.
Era arrivato da Buenos Aires il padre di Guido per assistere alle nozze, e bisognava andare a farne la conoscenza.
Essa certamente si curava meno del padre di Guido che di me.
Voleva rinnovare la dolcezza del giorno prima.
Ma la cosa non era piú la stessa: a me pareva fosse male lasciar trascorrere del tempo fra il mio buon proposito e la sua esecuzione.
Intanto che noi camminavamo sulla via uno accanto all'altro e, all'apparenza, sicuri del nostro affetto, l'altra si riteneva già amata da me.
Ciò era male.
Sentii quella passeggiata come una vera e propria constrizione.
Trovammo Giovanni che stava realmente meglio.
Solo non poteva mettere gli stivali per una certa gonfiezza ai piedi cui egli non attribuiva importanza ed io in allora neppure.
Si trovava in salotto col padre di Guido cui mi presentò.
Augusta ci lasciò subito per andare a raggiungere la madre e la sorella.
Il Signor Francesco Speier mi parve un uomo molto meno istruito del figlio.
Era piccolo, tozzo, sulla sessantina, di poche idee e di poca vivacità, forse anche perché in seguito ad una malattia aveva l'orecchio molto indebolito.
Ficcava qualche parola spagnuola nel suo italiano:
- Cada volta che vengo a Trieste...
I due vecchi parlavano di affari, e Giovanni ascoltava attentamente perché quegli affari erano molto importanti per il destino di Ada.
Stetti ad ascoltare distrattamente.
Sentii che il vecchio Speier aveva deciso di liquidare i suoi affari nell'Argentina e di consegnare a Guido tutti i suoi duros perché li impiegasse alla fondazione di una ditta a Trieste; poi egli sarebbe ritornato a Buenos Aires per vivere con la moglie e con la figlia con un piccolo podere che gli rimaneva.
Non compresi perché raccontasse in mia presenza a Giovanni tutto ciò, né lo so neppur oggi.
A me parve che ambedue a un dato punto cessassero di parlare, guardandomi come se avessero aspettato da me un consiglio ed io, per essere gentile, osservai:
- Non dev'essere piccolo quel podere se le basta per viverci!
Giovanni urlò subito:
- Ma che cosa vai dicendo? - Lo scoppio di voce ricordava i suoi migliori tempi, ma è certo che se egli non avesse urlato tanto, il signor Francesco non avrebbe rilevata la mia osservazione.
Cosí, invece, impallidí e disse:
- Spero bene che Guido non mancherà di pagarmi gl'interessi del mio capitale.
Giovanni, sempre urlando, cercò di rassicurarlo:
- Altro che gl'interessi! Anche il doppio se le occorrerà! Non è forse suo figlio?
Il signor Francesco tuttavia non parve molto rasserenato ed aspettava proprio da me una parola che lo rassicurasse.
Io la diedi subito e abbondante perché il vecchio ora sentiva meno di prima.
Poi il discorso fra i due uomini di affari continuò, ma io mi guardai bene dall'intervenire piú oltre.
Giovanni mi guardava di tempo in tempo al disopra degli occhiali per sorvegliarmi e il suo respiro pesante pareva una minaccia.
Parlò poi a lungo e mi domandò a un dato punto:
- Ti pare?
Io annuii fervidamente.
Tanto piú fervido dovette apparire il mio consenso in quanto ogni mio atto era reso piú espressivo dalla rabbia che sempre piú mi pervadeva.
Che cosa stavo facendo in quel luogo lasciando trascorrere il tempo utile per effettuare i miei buoni propositi? Mi obbligavano di trascurare un'opera tanto utile a me e ad Augusta! Stavo preparando una scusa per andarmene, ma in quel momento il salotto fu invaso dalle donne accompagnate da Guido.
Questi, subito dopo l'arrivo del padre, aveva regalato alla sposa un magnifico anello.
Nessuno mi guardò o salutò, nemmeno la piccola Anna.
Ada aveva già al dito la gemma splendente e, sempre poggiando il braccio sulla spalla del fidanzato, la faceva vedere al padre.
Le donne guardavano anche loro estatiche.
Neppure gli anelli m'interessavano.
Se non portavo neppure quello matrimoniale perché m'impediva la circolazione del sangue! Senza salutare infilai la porta del salotto, andai alla porta di casa e m'accinsi ad uscire.
Augusta però s'accorse della mia fuga e mi raggiunse in tempo.
Fui stupito del suo aspetto sconvolto.
Le sue labbra erano pallide come il giorno del nostro matrimonio, poco prima che andassimo in chiesa.
Le dissi che avevo un affare di premura.
Poi essendomi in buon punto ricordato che pochi giorni prima, per un capriccio, avevo comperato degli occhiali leggerissimi da presbite che poi non avevo provati dopo di averli posti nel taschino del panciotto dove li sentivo, le dissi che avevo un appuntamento con un oculista per farmi esaminare la vista che da qualche tempo mi pareva indebolita.
Essa rispose che avrei potuto andarmene subito, ma che mi pregava di fare prima i miei convenevoli col padre di Guido.
Mi strinsi nelle spalle dall'impazienza, ma tuttavia la compiacqui.
Rientrai nel salotto e tutti gentilmente mi salutarono.
In quanto a me, sicuro che ora mi mandavano via, ebbi persino un momento di buon umore.
Il padre di Guido che in tanta famiglia non si raccapezzava bene, mi domandò:
- Ci rivedremo ancora prima della mia partenza per Buenos Aires?
- Oh! - dissi io, - cada volta ch'ella verrà in questa casa, probabilmente mi ci troverà!
Tutti risero ed io me ne andai trionfalmente accompagnato anche da un saluto abbastanza lieto da parte di Augusta.
Andavo via tanto ordinatamente dopo di aver corrisposto a tutte le formalità legali, che potevo camminare sicuro.
Ma v'era un altro motivo che mi liberava dai dubbi che fino a quel momento m'avevano trattenuto: io correvo via dalla casa di mio suocero per allontanarmene piú che fosse possibile, cioè fino da Carla.
In quella casa e non per la prima volta (cosí mi pareva) mi sospettavano di congiurare bassamente ai danni di Guido.
Innocentemente e in piena distrazione io avevo parlato di quel podere che si trovava nell'Argentina, e Giovanni subito aveva interpretate le mie parole come se fossero state meditate per danneggiare Guido presso suo padre.
Con Guido mi sarebbe stato facile di spiegarmi se fosse abbisognato: con Giovanni e gli altri, che mi sospettavano capace di simili macchinazioni, bastava la vendetta.
Non che io mi fossi proposto di correre a tradire Augusta.
Facevo però alla luce del sole quello che desideravo.
Una visita a Carla non implicava ancora niente di male ed anzi, se io da quelle parti mi fossi imbattuto ancora una volta in mia suocera, e se essa mi avesse domandato che cosa io fossi andato a farvi, le avrei subito risposto:
- Oh bella! Vado da Carla! - Fu perciò quella la sola volta che andai da Carla senza ricordare Augusta.
Tanto mi aveva offeso il contegno di mio suocero!
Sul pianerottolo non sentii echeggiare la voce di Carla.
Ebbi un istante di terrore: che essa fosse uscita? Bussai e subito entrai prima che qualcuno me ne avesse dato il permesso.
Carla v'era bensí, ma con lei si trovava anche sua madre.
Cucivano assieme in un'associazione che potrà essere frequente, ma che io mai prima avevo vista.
Lavoravano ambedue allo stesso grande lenzuolo, ai suoi lembi, una molto lontana dall'altra.
Ecco ch'io ero corso da Carla e arrivavo a Carla accompagnata dalla madre.
Era tutt'altra cosa.
Non si potevano attuare né i buoni né i cattivi propositi.
Tutto continuava a restare in sospeso.
Molto accesa, Carla si levò in piedi mentre la vecchia lentamente si levò gli occhiali che ripose in una busta.
Io intanto credetti di poter essere indignato per altra ragione che non fosse quella di vedermi interdetto di chiarire subito l'animo mio.
Non erano queste le ore che il Copler aveva destinate allo studio? Salutai gentilmente la vecchia signora e mi fu difficile persino di sottopormi a tale atto di gentilezza.
Salutai anche Carla quasi senza guardarla.
Le dissi:
- Sono venuto per vedere se possiamo cavare da questo libro - e accennai al Garcia che si trovava intatto sul tavolo al posto ove l'avevamo lasciato, - qualche altra cosa di utile.
M'assisi al posto che avevo occupato il giorno prima e subito apersi il libro.
Carla tentò dapprima di sorridermi, ma visto che io non corrisposi alla sua gentilezza, sedette con una certa sollecitudine di obbedienza accanto a me, per guardare.
Era esitante; non comprendeva.
Io la guardai e vidi che sulla sua faccia si distendeva qualche cosa che poteva significare sdegno e ostinazione.
Mi figurai che cosí usasse di accogliere i rimproveri del Copler.
Solo essa non era ancora sicura che i miei rimproveri fossero proprio quelli che il Copler le indirizzava perché - come me lo disse poi - ricordava ch'io il giorno prima l'avevo baciata e perciò credeva di essere per sempre rassicurata sulla mia ira.
Era perciò sempre ancora pronta a convertire quel suo sdegno in un sorriso amichevole.
Debbo dire qui, perché piú tardi non ne avrò il tempo, che questa sua fiducia di avermi addomesticato definitivamente con quel solo bacio che m'aveva concesso, mi dispiacque enormemente: una donna che pensa cosí è molto pericolosa.
Ma in quel momento il mio animo era proprio quello stesso del Copler, carico di rimproveri e di risentimento.
Mi misi a leggere ad alta voce proprio quella parte che il giorno prima avevamo già letta e che io stesso avevo demolita, pedantescamente, e non commentando altrimenti, pesando su alcune parole che mi parevano piú significative.
Con voce un po' tremante Carla m'interruppe:
- Mi pare che questo l'abbiamo già letto!
Cosí fui finalmente obbligato di dire parole mie.
Anche la parola propria può dare un po' di salute.
La mia non soltanto fu piú mite del mio animo e del mio comportamento, ma addirittura mi ricondusse alla vita di società:
- Vede, signorina, - e accompagnai subito l'appellativo vezzeggiativo con un sorriso che poteva essere anche di amante, - vorrei rivedere questa roba prima di passare oltre.
Forse noi ieri l'abbiamo giudicata un po' precipitosamente, ed un mio amico poco fa m'avvertí che per intendere tutto quello che il Garcia dice, bisognava studiarlo tutto.
Sentii finalmente anche il bisogno di usare un riguardo alla povera vecchia signora che certamente nel corso della sua vita e per quanto poco fortunata fosse stata, non s'era mai trovata in un frangente simile.
Inviai anche a lei un sorriso che mi costò piú fatica di quello regalato a Carla:
- La cosa non è molto divertente, - le dissi, - ma può essere sentita con qualche vantaggio anche da chi non si occupa di canto.
Continuai ostinatamente a leggere.
Carla certamente si sentiva meglio, e sulle sue labbra carnose errava qualche cosa che somigliava ad un sorriso.
La vecchia invece appariva sempre come un povero animale catturato e restava in quella stanza solo perché la sua timidezza le impediva di trovare il modo di andarsene.
Io, poi, a nessun prezzo avrei tradito il mio desiderio di buttarla fuori di quella stanza.
Sarebbe stata una cosa grave e compromettente.
Carla fu piú decisa: con molto riguardo mi pregò sospendere per un momento quella lettura e, rivoltasi alla madre, le disse che poteva andarsene e che il lavoro a quel lenzuolo l'avrebbero continuato nel pomeriggio.
La signora s'avvicinò a me, esitante se porgermi la mano.
Io gliela strinsi affettuosamente e le dissi:
- Capisco che questa lettura non è troppo divertente.
Sembrava volessi deplorare ch'essa ci lasciasse.
La signora se ne andò dopo di aver posto su di una sedia il lenzuolo ch'essa fino ad allora aveva tenuto in grembo.
Poi Carla la seguí per un istante sul pianerottolo per dirle qualche cosa mentre io smaniavo di averla finalmente accanto.
Rientrò, chiuse dietro di sé la porta e ritornando al suo posto ebbe di nuovo attorno alla bocca qualche cosa di rigido che ricordava l'ostinazione su una faccia infantile.
Disse:
- Ogni giorno a quest'ora io studio.
Giusto ora doveva capitarmi di attendere a quel lavoro di premura!
- Ma non vede che a me non importa nulla del suo canto? - gridai io e l'aggredii con un abbraccio violento che mi portò a baciarla prima in bocca eppoi subito sul punto stesso ove avevo baciato il giorno prima.
Curioso! Essa si mise a piangere dirottamente e si sottrasse a me.
Disse singhiozzando che aveva sofferto troppo di avermi visto entrare a quel modo.
Essa piangeva per quella solita compassione di sé stesso che tocca a chi vede compianto il proprio dolore.
Le lacrime non sono espresse dal dolore, ma dalla sua storia.
Si piange quando si grida all'ingiustizia.
Era infatti ingiusto di obbligare allo studio questa bella fanciulla che si poteva baciare.
In complesso andava peggio di quanto m'ero figurato.
Dovetti spiegarmi e per far presto non mi presi il tempo necessario per inventare e raccontai l'esatta verità.
Le dissi della mia impazienza di vederla e di baciarla.
Io m'ero proposto di venir da lei di buon'ora; in questo proposito avevo persino passata la notte.
Naturalmente non seppi dire che cosa mi prefiggessi di fare venendo da lei, ma ciò era poco d'importante.
Era vero che la stessa dolorosa impazienza l'avevo sentita quando avevo voluto andare da lei per dirle che volevo abbandonarla per sempre e quand'ero accorso per prenderla fra le mie braccia.
Poi le raccontai degli avvenimenti della mattina e come mia moglie m'avesse obbligato di uscire con lei e m'avesse condotto da mio suocero ove ero stato immobilizzato ad ascoltare come si discorreva di affari che non mi toccavano.
Infine, con grandi sforzi arrivo a svincolarmi e a fare la lunga via a passo celere e che cosa trovo?...
La stanza tutta ingombra di quel lenzuolo!
Carla scoppiò a ridere perché comprese che in me non v'era niente del Copler.
Il riso sulla sua bella faccia pareva l'arcobaleno ed io la baciai ancora.
Essa non rispondeva alle mie carezze, ma le subiva sommessa, un atteggiamento ch'io adoro forse perché amo il sesso debole in proporzione diretta della sua debolezza.
Per la prima volta essa mi raccontò d'aver risaputo dal Copler ch'io amavo tanto mia moglie:
- Perciò - aggiunse ed io vidi passare sulla sua bella faccia l'ombra del proposito serio, - fra noi due non ci può essere che una buona amicizia e niente altro.
Io a quel proposito tanto saggio non credetti molto perché quella stessa bocca che lo esprimeva non sapeva neppur allora sottrarsi ai miei baci.
Carla parlò lungamente.
Voleva evidentemente destare la mia compassione.
Ricordo tutto quello ch'essa mi disse e cui credetti solo quando essa sparí dalla mia vita.
Finché l'ebbi accanto, sempre la paventai come una donna che prima o poi avrebbe approfittato del suo ascendente su di me per rovinare me e la mia famiglia.
Non le credetti quand'essa m'assicurò che non domandava altro che di essere sicura della propria e della vita della madre.
Ora lo so con certezza ch'essa mai ebbe il proposito di ottenere da me piú di quanto le occorresse, e quando penso a lei arrossisco dalla vergogna di averla compresa e amata tanto male.
Essa, poverina, non ebbe nulla da me.
Io le avrei dato tutto, perché io sono di quelli che pagano i proprii debiti.
Ma aspettavo sempre che me lo domandasse.
Mi raccontò dello stato disperato in cui s'era trovata alla morte di suo padre.
Per mesi e mesi lei e la vecchia erano state obbligate a lavorare giorno e notte a certi ricami che venivano commessi loro da un mercante.
Ingenuamente essa credeva che l'aiuto dovesse venire dalla provvidenza divina tant'è vero che talvolta per ore era rimasta alla finestra per guardare sulla via, donde doveva giungere.
Venne invece il Copler.
Ora essa si diceva contenta del suo stato, ma lei e sua madre passavano le notti inquiete perché l'aiuto che veniva concesso era ben precario.
Se un giorno fosse risultato ch'essa non aveva né la voce né il talento per cantare? Il Copler le avrebbe abbandonate.
Poi egli parlava di farla apparire su un teatro di lí a pochi mesi.
E se ci fosse stato un vero e proprio fiasco?
Sempre nello sforzo di destare la mia compassione, essa mi raccontò che la disgrazia finanziaria della sua famiglia aveva anche travolto un suo sogno d'amore: il suo fidanzato l'aveva abbandonata.
Io ero sempre lontano dalla compassione.
Le dissi:
- Quel suo fidanzato l'avrà baciata molto? Come faccio io?
Essa rise perché le impedivo di parlare.
Io vidi cosí dinanzi a me un uomo che mi segnava la via.
Era da lungo tempo trascorsa l'ora in cui avrei dovuto trovarmi a colazione a casa.
Avrei voluto andarmene.
Per quel giorno bastava.
Ero ben lontano da quel rimorso che m'aveva tenuto desto durante la notte, e l'inquietudine che m'aveva trascinato da Carla era del tutto scomparsa.
Ma tranquillo non ero.
È, forse, mio destino di non esserlo mai.
Non avevo rimorsi perché intanto Carla m'aveva promesso tanti baci che volevo a nome di un'amicizia che non poteva offendere Augusta.
Mi parve di scoprire la ragione del malcontento che come al solito faceva serpeggiare vaghi dolori nel mio organismo.
Carla mi vedeva in una luce falsa! Carla poteva disprezzarmi vedendomi tanto desideroso dei suoi baci quando amavo Augusta! Quella stessa Carla che faceva mostra di stimarmi tanto perché di me aveva tanto bisogno!
Decisi di conquistarmi la sua stima e dissi delle parole che dovevano dolermi come il ricordo di un crimine vigliacco, come un tradimento commesso per libera elezione, senza necessità e senza nessun vantaggio.
Ero quasi alla porta e con l'aspetto di persona serena che a malincuore si confessi, dissi a Carla:
- Il Copler le ha raccontato dell'affetto ch'io porto a mia moglie.
È vero: io stimo molto mia moglie.
Poi le raccontai per filo e per segno la storia del mio matrimonio, come mi fossi innamorato della sorella maggiore di Augusta che non aveva voluto saperne di me perché innamorata di un altro, come poi avessi tentato di sposare un'altra delle sue sorelle che pure mi respinse e come infine mi adattassi a sposare lei.
Carla credette subito nell'esattezza di questo racconto.
Poi seppi che il Copler ne aveva appreso qualche cosa a casa mia e le aveva riferito dei particolari non del tutto veri, ma quasi, ch'io avevo ora rettificato e confermato.
- È bella la sua signora? - domandò essa pensierosa.
- Secondo i gusti, - dissi io.
C'era qualche centro proibitivo che agiva ancora in me.
Avevo detto di stimare mia moglie, ma non avevo mica ancora detto di non amarla.
Non avevo detto che mi piacesse, ma neppure che non potesse piacermi.
In quel momento mi pareva di essere molto sincero; ora so di aver tradito con quelle parole tutt'e due le donne e tutto l'amore, il mio e il loro.
A dire il vero non ero ancora tranquillo; dunque mancava ancora qualche cosa.
Mi sovvenni della busta dai buoni propositi e l'offersi a Carla.
Essa l'aperse e me la restituí dicendomi che pochi giorni prima il Copler le aveva portata la mesata e che per il momento essa proprio non aveva bisogno di danaro.
La mia inquietudine aumentò per un'antica idea che m'ero fatta che le donne veramente pericolose non accettano poco denaro.
Essa s'avvide del mio malessere e con un'ingenuità deliziosa e che apprezzo solamente ora che ne scrivo, mi domandò poche corone con le quali avrebbe acquistati dei piatti di cui le due donne erano state private da una catastrofe in cucina.
Poi avvenne una cosa che lasciò un segno indelebile nella mia memoria.
Al momento di andarmene io la baciai, ma questa volta, con tutta intensità, essa rispose al mio bacio.
Il mio veleno aveva agito.
Essa disse con tutta ingenuità:
- Io le voglio bene perché lei è tanto buono che neppure la ricchezza poté guastarla.
Poi aggiunse con malizia:
- Io so ora che non bisogna farla attendere e che fuori di quel pericolo non ce n'è altro con lei.
Sul pianerottolo essa domandò ancora:
- Potrò mandare a quel paese il maestro di canto assieme al Copler?
Scendendo rapidamente le scale io le dissi:
- Vedremo!
Ecco che qualche cosa restava tuttavia in sospeso nei nostri rapporti; tutto il resto era stato chiaramente stabilito.
Me ne derivò tale malessere, che quando arrivai all'aria aperta, indeciso mi mossi nella direzione opposta a quella della mia casa.
Avrei quasi avuto il desiderio di ritornare subito subito da Carla per spiegarle ancora qualche cosa: il mio amore per Augusta.
Si poteva farlo perché io non avevo detto di non amarla.
Soltanto, come conclusione a quella vera storia che avevo raccontata, avevo dimenticato di dire che oramai io amavo veramente Augusta.
Carla, poi, ne aveva dedotto che non l'amavo affatto e perciò aveva corrisposto tanto fervidamente al mio bacio, sottolineandolo con una sua dichiarazione di amore.
Mi pareva che, se non ci fosse stato tale episodio, io avrei potuto sopportare piú facilmente lo sguardo confidente di Augusta.
E pensare che poco prima io ero stato lieto di apprendere che Carla sapesse del mio amore per mia moglie e che cosí, per sua decisione, l'avventura ch'io aveva cercata mi venisse offerta nella forma di un'amicizia condita da baci.
Al Giardino Pubblico sedetti su una panchina e, col bastone, segnai distrattamente sulla ghiaia la data di quel giorno.
Poi risi amaramente: sapevo che quella non era la data che avrebbe segnata la fine dei miei tradimenti.
Anzi, s'iniziavano quel giorno.
Dove avrei potuto trovare io la forza per non ritornare da quella donna tanto desiderabile che m'aspettava? Poi avevo già assunti degl'impegni, degl'impegni d'onore.
Avevo avuto dei baci e non m'era stato concesso di dare che il controvalore di alcune terraglie! Era proprio un conto non saldato quello che ora mi legava a Carla.
La colazione fu triste.
Augusta non aveva domandate delle spiegazioni per il mio ritardo ed io non le diedi.
Avevo paura di tradirmi, tanto piú che nel breve percorso dal Giardino a casa mi ero baloccato con l'idea di raccontarle tutto e la storia del mio tradimento poteva perciò essere segnata sulla mia faccia onesta.
Questo sarebbe stato l'unico mezzo per salvarmi.
Raccontandole tutto mi sarei messo sotto la sua protezione e sotto la sua sorveglianza.
Sarebbe stato un atto di tale decisione che allora in buona fede avrei potuto segnare la data di quel giorno come un avviamento all'onestà e alla salute.
Si parlò di molte cose indifferenti.
Cercai di essere lieto, ma non seppi neppur tentare di essere affettuoso.
A lei mancava il fiato; certo aspettava una spiegazione che non venne.
Poi essa andò a continuare il suo grande lavoro di riporre i panni d'inverno in armadi speciali.
La intravvidi spesso nel pomeriggio, tutta intenta al suo lavoro, là, in fondo al corridoio lungo, aiutata dalla fantesca.
Il suo grande dolore non interrompeva la sua sana attività.
Inquieto, passai spesso dalla mia stanza da letto alla camera da bagno.
Avrei voluto chiamare Augusta e dirle almeno che l'amavo perché a lei - povera sempliciona! - questo sarebbe bastato.
Ma invece continuai a meditare e a fumare.
Passai naturalmente per varie fasi.
Ci fu persino un momento in cui quell'accesso di virtú fu interrotto da una viva impazienza di veder arrivare il giorno appresso per poter correre da Carla.
Può essere che anche questo desiderio fosse stato ispirato da qualche buon proposito.
In fondo la grande difficoltà era di poter, cosí solo, impegnarsi e legarsi al dovere.
La confessione che m'avrebbe procurata la collaborazione di mia moglie era impensabile; restava dunque Carla sulla cui bocca avrei potuto giurare con un ultimo bacio! Chi era Carla? Nemmeno il ricatto era il massimo pericolo che con lei correvo! Il giorno appresso essa sarebbe stata la mia amante: chissà quello che ne sarebbe poi conseguito! Io la conoscevo solo per quanto me ne aveva detto quell'imbecille del Copler e in base ad informazioni provenienti da costui, un uomo piú accorto di me come ad esempio l'Olivi, non avrebbe neppure accettato di contrarre un affare commerciale.
Tutta la sana, bella attività di Augusta intorno alla mia casa era sprecata.
La cura drastica del matrimonio che avevo intrapresa nella mia affannosa ricerca della salute era fallita.
Io rimanevo malato piú che mai e sposato ai danni miei e degli altri.
Piú tardi, quando fui effettivamente l'amante di Carla, riandando col pensiero a quel triste pomeriggio non arrivai a intendere perché prima d'impegnarmi piú oltre, non mi fossi arrestato con un virile proposito.
Avevo tanto pianto il mio tradimento prima di commetterlo, che si sarebbe dovuto credere facile di evitarlo.
Ma del senno di poi si può sempre ridere e anche di quello di prima, perché non serve.
Fu marcata in quelle ore angosciose in caratteri grandi nel mio vocabolario alla lettera C (Carla) la data di quel giorno con l'annotazione: «ultimo tradimento».
Ma il primo tradimento effettivo, che impegnava a tradimenti ulteriori, seguí soltanto il giorno dopo.
A una tarda ora, non sapendo fare di meglio, presi un bagno.
Sentivo una bruttura sul mio corpo e volevo lavarmi.
Ma quando fui in acqua pensai: «Per nettarmi dovrei essere capace di sciogliermi tutto in quest'acqua».
Mi vestii poi, cosí privo di volontà, che neppure m'asciugai accuratamente.
Il giorno sparí ed io restai alla finestra a guardare le nuove foglie verdi degli alberi del mio giardino.
Fui colto da brividi e con una certa soddisfazione pensai fossero di febbre.
Non la morte desiderai ma la malattia, una malattia che mi servisse di pretesto per fare quello che volevo o che me lo impedisse.
Dopo aver esitato per tanto tempo, Augusta venne a cercarmi.
Vedendola tanto dolce e priva di rancore, si aumentarono da me i brividi fino a farmi battere i denti.
Spaventata, essa mi costrinse di mettermi a letto.
Battevo sempre i denti dal freddo, ma già sapevo di non aver la febbre e le impedii di chiamare il medico.
La pregai di spegnere la lampada, di sedere accanto a me e di non parlare.
Non so per quanto tempo restammo cosí: riconquistai il necessario calore e anche qualche fiducia.
Avevo però la mente ancor tanto offuscata che quando essa riparlò di chiamare il medico, le dissi che sapevo la ragione del mio malore e che glielo avrei detto piú tardi.
Ritornavo al proposito di confessare.
Non mi rimaneva aperta altra via per liberarmi da tanta oppressione.
Cosí restammo ancora per vario tempo muti.
Piú tardi m'accorsi che Augusta s'era levata dalla sua poltrona e mi si accostava.
Ebbi paura: forse essa aveva indovinato tutto.
Mi prese la mano, l'accarezzò, poi leggermente poggiò la sua mano sulla mia testa per sentire se scottasse, e infine mi disse:
- Dovevi aspettartelo! Perché tanta dolorosa sorpresa?
Mi meravigliai delle strane parole e nello stesso tempo che passassero traverso un singhiozzo soffocato.
Era evidente che essa non alludeva alla mia avventura.
Come avrei io potuto prevedere di essere fatto cosí? Con una certa rudezza le domandai:
- Ma che cosa vuoi dire? Che cosa dovevo io prevedere?
Confusa essa mormorò:
- L'arrivo del padre di Guido per le nozze di Ada...
Finalmente compresi: essa credeva ch'io soffrissi per l'imminenza del matrimonio di Ada.
A me parve ch'essa veramente mi facesse torto: io non ero colpevole di un simile delitto.
Mi sentii puro e innocente come un neonato e subito liberato da ogni oppressione.
Saltai dal letto:
- Tu credi ch'io soffra per il matrimonio di Ada? Sei pazza! Dacché sono sposato, io non ho piú pensato a lei: Non ricordavo neppure ch'era arrivato quest'oggi il signor Cada!
La baciai e abbracciai con pieno desiderio e il mio accento fu improntato a tale sincerità ch'essa si vergognò del suo sospetto.
Anche lei ebbe la ingenua faccia sgombera da ogni nube e andammo presto a cena ambedue affamati.
A quello stesso tavolo, dove avevamo sofferto tanto, poche ore prima, sedevamo ora come due buoni compagni in vacanza.
Ella mi ricordò che le avevo promesso di dirle la ragione del mio malessere.
Io finsi una malattia, quella malattia che doveva darmi la facoltà di fare senza colpa tutto quello che mi piaceva.
Le raccontai che già in compagnia dei due vecchi signori, alla mattina, m'ero sentito scoraggiato profondamente.
Poi ero andato a prendere gli occhiali che l'oculista m'aveva prescritti.
Forse quel segno di vecchiezza m'aveva avvilito maggiormente.
E avevo camminato per le vie della città per ore ed ore.
Raccontai anche qualche cosa delle immaginazioni che tanto m'avevano fatto soffrire e ricordo che contenevano persino un abbozzo di confessione.
Non so in quale connessione con la malattia immaginaria, parlai anche del nostro sangue che girava, girava, ci teneva eretti, capaci al pensiero e all'azione e perciò alla colpa e al rimorso.
Essa non capí che si trattava di Carla, ma a me parve di averlo detto.
Dopo cena inforcai gli occhiali e finsi lungamente di leggere il mio giornale, ma quei vetri m'annebbiavano la vista.
Ne ebbi un aumento del mio turbamento lieto come di alcolizzato.
Dissi di non poter intendere quello che leggevo.
Continuavo a fare il malato.
La notte la passai pressocché insonne.
Aspettavo l'abbraccio di Carla con pieno grande desiderio.
Desideravo proprio lei, la fanciulla dalle ricche treccie fuori di posto e la voce tanto musicale quando la nota non le era imposta.
Ella era resa desiderabile anche da tutto ciò che per lei avevo già sofferto.
Fui accompagnato tutta la notte da un ferreo proposito.
Sarei stato sincero con Carla prima di farla mia e le avrei detta l'intera verità sui miei rapporti con Augusta.
Nella mia solitudine mi misi a ridere: era molto originale di andare alla conquista di una donna con in bocca la dichiarazione d'amore per un'altra.
Forse Carla sarebbe ritornata alla sua passività! E che perciò? Per il momento nessun suo atto avrebbe potuto diminuire il pregio della sua sottomissione di cui mi sembrava di poter essere sicuro.
La mattina seguente vestendomi mormoravo le parole che le avrei dette.
Prima di essere mia, Carla doveva sapere che Augusta col suo carattere e anche con la sua salute (avrei potuto spendere molte parole per spiegare quello ch'io intendessi per salute ciò che avrebbe anche servito ad educare Carla) aveva saputo conquistare il mio rispetto, ma anche il mio amore.
Prendendo il caffè, ero tanto assorto nel preparare un tanto elaborato discorso, che Augusta non ebbe da me altro segno di affetto che un lieve bacio prima di uscire.
Se ero tutto suo! Andavo da Carla per riaccendere la mia passione per lei.
Non appena entrai nella stanza di studio di Carla, ebbi un tale sollievo al trovarla sola e pronta, che subito l'attirai a me e appassionatamente l'abbracciai.
Fui spaventato dall'energia con la quale essa mi respinse.
Una vera violenza! Essa non voleva saperne ed io rimasi a bocca aperta in mezzo alla stanza, dolorosamente deluso.
Ma Carla subito rimessasi mormorò:
- Non vede che la porta è rimasta aperta e che qualcuno sta scendendo le scale?
Assunsi l'aspetto di un visitatore cerimonioso finché l'importuno non passò.
Poi chiudemmo la porta.
Essa impallidí vedendo che giravo anche la chiave.
Cosí tutto era chiaro.
Poco dopo essa mormorò fra le mie braccia con voce soffocata: - Lo vuoi? Veramente lo vuoi?
M'aveva dato del tu, e questo fu decisivo.
Io poi avevo subito risposto:
- Se non desidero altro!
Avevo dimenticato che avrei voluto prima chiarire qualche cosa.
Subito dopo io avrei voluto cominciare a parlarle dei miei rapporti con Augusta avendo tralasciato di farlo prima.
Ma era difficile per il momento.
Parlando con Carla d'altro in quel momento sarebbe stato come diminuire l'importanza della sua dedizione.
Anche il piú sordo fra gli uomini sa che non si può fare una cosa simile, per quanto tutti sappiano che non c'è confronto fra l'importanza di quella dedizione prima che avvenga e immediatamente dopo.
Sarebbe una grande offesa per una donna, che aperse le braccia per la prima volta, sentirsi dire: «Prima di tutto debbo chiarire quelle parole che ti dissi ieri...
».
Ma che ieri? Tutto quello che avvenne il giorno prima deve apparire indegno di essere menzionato e se ad un gentiluomo avviene di non sentire cosí, tanto peggio per lui e deve fare in modo che nessuno se ne avveda.
È certo che io ero quel gentiluomo che non sentiva cosí perché nella simulazione sbagliai come la sincerità non saprebbe.
Le domandai:
- Com'è che ti concedesti a me? Come meritai una cosa simile?
Volevo dimostrarmi grato o rimproverarla? Probabilmente non era che un tentativo per iniziare delle spiegazioni.
Essa un po' stupita guardò in alto per vedere il mio aspetto:
- A me pare che tu mi abbia presa, - e sorrise affettuosamente per provarmi che non intendeva di rimproverarmi.
Ricordai che le donne esigono si dica che sono state prese.
Poi, essa stessa si accorse di aver sbagliato, che le cose si prendono e le persone si accordano e mormorò:
- Io ti aspettavo! Eri il cavaliere che doveva venire a liberarmi.
Certo è male che tu sia sposato, ma, visto che non ami tua moglie, io so almeno che la mia felicità non distrugge quella di nessun altro.
Fui preso dal mio dolore al fianco con tale intensità che dovetti cessare dall'abbracciarla.
Dunque l'importanza delle mie sconsiderate parole non era stata esagerata da me? Era proprio la mia menzogna che aveva indotta Carla di divenire mia? Ecco che se ora avessi pensato di parlare del mio amore per Augusta, Carla avrebbe avuto il diritto di rimproverarmi nientemeno che di un tranello! Rettifiche e spiegazioni non erano piú possibili per il momento.
Ma in seguito ci sarebbe stata l'opportunità di spiegarsi e di chiarire.
Aspettando che si presentasse, ecco che si costituiva un nuovo legame fra me e Carla.
Lí, accanto a Carla, rinacque intera la mia passione per Augusta.
Ora non avrei avuto che un desiderio: correre dalla mia vera moglie, solo per vederla intenta al suo lavoro di formica assidua, mentre metteva in salvo le nostre cose in un'atmosfera di canfora e di naftalina.
Ma restai al mio dovere, che fu gravissimo per un episodio che mi turbò molto dapprima perché m'apparve come un'altra minaccia della sfinge con la quale aveva da fare.
Carla mi raccontò che subito dopo che me n'ero andato il giorno prima, era venuto il maestro di canto e che essa lo aveva semplicemente messo alla porta.
Non seppi celare un gesto di contrarietà.
Era lo stesso che avvisare il Copler della nostra tresca!
- Che cosa ne dirà il Copler? - esclamai.
Essa si mise a ridere e si rifugiò, questa volta di sua iniziativa, fra le mie braccia:
- Non avevamo detto che l'avremmo buttato fuori della porta anche lui?
Era carina, ma non poteva piú conquistarmi.
Trovai subito anch'io un atteggiamento che mi stava bene, quello del pedagogo, perché mi dava anche la possibilità di sfogare quel rancore che c'era in fondo all'anima mia per la donna che non mi permetteva di parlare come avrei voluto di mia moglie.
- Bisognava lavorare a questo mondo - le dissi - perché, come ella già doveva saperlo, questo era un mondo cattivo dove solamente i validi reggevano.
E se io ora dovessi morire? Che cosa avverrebbe di lei? - Avevo prospettata l'eventualità del mio abbandono in modo ch'essa proprio non poteva offendersene e infatti se ne commosse.
Poi, con l'evidente intenzione di avvilirla, le dissi che con mia moglie bastava io manifestassi un desiderio per vederlo esaudito.
- Ebbene! - disse lei rassegnata - manderemo a dire al maestro che ritorni! - Poi tentò di comunicarmi la sua antipatia per quel maestro.
Ogni giorno doveva subire la compagnia di quel vecchione antipatico che le faceva ripetere per infinite volte gli stessi esercizi che non giovavano a nulla, proprio a nulla.
Essa non ricordava di aver passato qualche bel giorno che quando il maestro si ammalava.
Aveva anche sperato che morisse, ma essa non aveva fortuna.
Divenne infine addirittura violenta nella sua disperazione.
Ripeté, aumentandolo, il suo lamento di non aver fortuna: era disgraziata, irreparabilmente disgraziata.
Quando ricordava che m'aveva subito amato perché le era sembrato che dal mio fare, dal mio dire, dai miei occhi, venisse una promessa di vita meno rigida, meno obbligata, meno noiosa, doveva piangere.
Cosí conobbi subito i suoi singhiozzi e mi seccarono; erano violenti fino a scuotere, pervadendolo, il suo debole organismo.
Mi sembrava di subire immediatamente un brusco assalto alla mia tasca e alla mia vita.
Le domandai:
- Ma credi tu che mia moglie a questo mondo non faccia nulla? Adesso che noi due parliamo, essa ha i polmoni inquinati dalla canfora e dalla naftalina.
Carla singhiozzò:
- Le cose, le masserizie, i vestiti...
beata lei!
Pensai irritato ch'essa volesse che io corressi a comperarle tutte quelle cose, solo per procurarle l'occupazione che prediligeva.
Non dimostrai dell'ira, grazie al cielo e obbedii alla voce del dovere che gridava: «accarezza la fanciulla che si abbandonò a te!».
L'accarezzai.
Passai la mia mano leggermente sui suoi capelli.
Ne risultò che i suoi singhiozzi si calmarono e le sue lagrime fluirono abbondanti e non trattenute come la pioggia che segue ad un temporale.
- Tu sei il mio primo amante - disse essa ancora - ed io spero che continuerai ad amarmi!
Quella sua comunicazione, ch'ero il suo primo amante, designazione che preparava il posto ad un secondo, non mi commosse molto.
Era una dichiarazione che arrivava in ritardo perché da una buona mezz'ora l'argomento era stato abbandonato.
Eppoi era una nuova minaccia.
Una donna crede di avere tutti i diritti verso il suo primo amante.
Dolcemente le mormorai all'orecchio:
- Anche tu sei la mia prima amante...
dacché mi sono sposato.
La dolcezza della voce mascherava il tentativo di pareggiare le due partite.
Poco dopo io la lasciai perché a nessun prezzo avrei voluto arrivare tardi a colazione.
Prima di andarmene trassi di nuovo di tasca la busta che io dicevo dei buoni propositi perché un ottimo proposito l'aveva creata.
Sentivo il bisogno di pagare per sentirmi piú libero.
Carla rifiutò dolcemente di nuovo quel denaro ed io allora m'arrabbiai fortemente, ma seppi trattenermi dal manifestare questa rabbia, se non urlando delle parole dolcissime.
Gridavo per non picchiarla, ma nessuno avrebbe potuto accorgersene.
Dissi che ero arrivato al colmo dei miei desideri possedendola e che adesso volevo aver il senso di possederla ancora piú mantenendola completamente.
Perciò doveva guardarsi dal farmi arrabbiare perché ne soffrivo troppo.
Volendo correre via, riassunsi in poche parole il mio concetto che divenne - cosí gridato - molto brusco.
- Sei la mia amante? Perciò il tuo mantenimento incombe a me.
Essa, spaventata, cessò dal resistere e prese la busta mentre mi guardava ansiosa studiando che cosa fosse la verità, il mio urlo d'odio oppure la parola d'amore con cui le veniva concesso tutto quello ch'essa aveva desiderato.
Si rasserenò un poco quando prima di andarmene sfiorai con le mie labbra la sua fronte.
Sulle scale mi venne il dubbio ch'essa, disponendo di quei denari e avendo sentito ch'io m'incaricavo del suo avvenire, avrebbe messo alla porta anche il Copler nel caso in cui egli nel pomeriggio fosse venuto da lei.
Avrei voluto risalire quelle scale per andare ad esortarla di non compromettermi con un atto simile.
Ma non v'era tempo e dovetti correr via.
Io temo che il dottore che leggerà questo mio manoscritto abbia a pensare che anche Carla sarebbe stata un soggetto interessante alla psico-analisi.
A lui sembrerà che quella dedizione, preceduta dal congedo al maestro di canto, fosse stata troppo rapida.
Anche a me sembrava che in premio del suo amore essa si fosse attese da me troppe concessioni.
Occorsero molti, ma molti mesi, perché io intendessi meglio la povera fanciulla.
Probabilmente essa s'era lasciata prendere per liberarsi dall'inquietante tutela del Copler, e dovette essere per lei una ben dolorosa sorpresa all'accorgersi che s'era concessa invano perché da lei si continuava a pretendere proprio quello che le pesava tanto, cioè il canto.
Si trovava ancora fra le mie braccia e apprendeva che doveva continuare a cantare.
Da ciò un'ira e un dolore che non trovavano le parole giuste.
Per ragioni differenti dicemmo cosí ambedue delle stranissime parole.
Quand'essa mi volle bene, riebbe tutta la naturalezza che il calcolo le aveva tolto.
Io la naturalezza non la ebbi mai con lei.
Correndo via pensai ancora: «Se essa sapesse quanto io ami mia moglie si comporterebbe altrimenti».
Quando lo seppe si comportò infatti altrimenti.
All'aria aperta respirai la libertà e non sentii il dolore di averla compromessa.
Fino al giorno dopo c'era tempo e avrei forse trovato un riparo alle difficoltà che mi minacciavano.
Correndo verso casa ebbi anche il coraggio di prendermela con l'ordine sociale, come se esso fosse stato la colpa dei miei trascorsi.
Mi pareva avrebbe dovuto essere tale da permettere di tempo in tempo (non sempre) di fare all'amore, senz'aver a temerne delle conseguenze, anche con le donne che non si amano affatto.
Di rimorso non v'era traccia in me.
Perciò io penso che il rimorso non nasca dal rimpianto di una mala azione già commessa, ma dalla visione della propria colpevole disposizione.
La parte superiore del corpo si china a guardare e giudicare l'altra parte e la trova deforme.
Ne sente ribrezzo e questo si chiama rimorso.
Anche nella tragedia antica la vittima non ritornava in vita e tuttavia il rimorso passava.
Ciò significava che la deformità era guarita e che oramai il pianto altrui non aveva alcuna importanza.
Dove poteva esserci posto per il rimorso in me che con tanta gioia e tanto affetto correvo dalla mia legittima moglie? Da molto tempo non m'ero sentito tanto puro.
A colazione, senz'altro sforzo, fui lieto ed affettuoso con Augusta.
Non ci fu quel giorno alcuna nota stonata fra di noi.
Niente di eccessivo: ero come dovevo essere con la donna onestamente e sicuramente mia.
Altre volte ci furono degli eccessi d'affettuosità da parte mia, ma solamente quando nel mio animo si combatteva una lotta fra le due donne ed eccedendo nelle manifestazioni d'affetto m'era piú facile di celare ad Augusta che fra di noi c'era l'ombra per il momento abbastanza potente di un'altra donna.
Posso anche dire che perciò Augusta mi preferiva quando non ero tutto e con grande sincerità suo.
Io stesso ero un po' stupito della mia calma e l'attribuivo al fatto ch'ero riuscito di far accettare a Carla quella busta dai buoni propositi.
Non che con quella credessi di averla saldata.
Ma mi pareva che avevo cominciato a pagare un'indulgenza.
Disgraziatamente per tutta la durata della mia relazione con Carla, il denaro restò la mia preoccupazione principale.
Ad ogni occasione ne mettevo in disparte in un posto ben celato della mia biblioteca, per essere preparato a far fronte a qualunque esigenza dell'amante che tanto temevo.
Cosí quel denaro, quando Carla m'abbandonò lasciandomelo, serví per pagare tutt'altra cosa.
Dovevamo passare la sera in casa di mio suocero ad un pranzo cui non erano invitati che i membri della famiglia e che doveva sostituire il tradizionale banchetto, preludio alle nozze che dovevano aver luogo due giorni appresso.
Guido voleva approfittare per sposarsi del miglioramento di Giovanni, ch'egli credeva non avrebbe durato.
Andai con Augusta di buon'ora nel pomeriggio da mio suocero.
Sulla via le ricordai ch'essa il giorno prima aveva sospettato ch'io soffrissi tuttavia per quelle nozze.
Essa si vergognò del suo sospetto ed io parlai molto di quella mia innocenza.
Se ero ritornato a casa non ricordando neppure che quella stessa sera v'era la solennità che doveva preparare quelle nozze!
Quantunque non vi fossero altri invitati che noi di famiglia, i vecchi Malfenti volevano che il banchetto fosse preparato solennemente.
Augusta era stata pregata di aiutare a preparare la sala e la tavola.
Alberta non ne voleva sapere.
Poco tempo prima essa aveva ottenuto un premio ad un concorso per una commedia in un atto e s'accingeva ora alacremente alla riforma del teatro nazionale.
Cosí restammo intorno a quella tavola io ed Augusta coadiuvati da una cameriera e da Luciano un ragazzo dell'ufficio di Giovanni che dimostrava altrettanto talento per l'ordine in casa quanto per quello d'ufficio.
Aiutai a trasportare sulla tavola dei fiori e a distribuirli in bell'ordine.
- Vedi - dissi scherzando ad Augusta - che contribuisco anch'io alla loro felicità.
Se mi domandassero di preparare per loro anche il letto nuziale, lo farei con lo stesso aspetto sereno!
Piú tardi andammo a trovare gli sposi ritornati allora da una visita ufficiale.
S'erano messi nel cantuccio piú riposto del salotto e suppongo che fino al nostro arrivo si fossero baciucchiati.
La sposina non aveva neppur smesso il suo abito da passeggio ed era tanto bellina, cosí arrossata dal caldo.
Io credo che gli sposi, per celare ogni traccia dei baci che si erano scambiati, volessero darci ad intendere che avessero discusso di scienza.
Era una sciocchezza, forse anche sconveniente! Volevano allontanarci dalla loro intimità o credevano che i loro baci potessero dolere a qualcuno? Ciò però non guastò il mio buon umore.
Guido m'aveva detto che Ada non voleva credergli che certe vespe sapevano paralizzare con una puntura altri insetti anche piú forti di loro per conservarli cosí paralizzati, vivi e freschi, quale nutrimento per la loro discendenza.
Io credevo di ricordare ch'esisteva qualche cosa di tanto mostruoso in natura, ma in quel momento non volli concedere una soddisfazione a Guido:
- Mi credi una vespa che ti dirigi a me? - gli dissi ridendo.
Lasciammo gli sposi per permettere loro di occuparsi di cose piú liete.
Io però cominciavo a trovare alquanto lungo il pomeriggio e avrei voluto andare a casa ad aspettare nel mio studio l'ora del pranzo.
Nell'anticamera trovammo il dottor Paoli che usciva dalla stanza da letto di mio suocero.
Era un medico giovine che aveva però già saputo conquistarsi una buona clientela.
Era biondissimo e bianco e rosso come un ragazzone.
Nel potente organismo il suo occhio era però tanto importante da rendere seria ed imponente tutta la sua persona.
Gli occhiali lo facevano apparire piú grande e il suo sguardo s'attaccava alle cose come una carezza.
Ora che conosco bene tanto lui che il Dottor S.
- quello della psico-analisi - mi pare che l'occhio di questi sia indagatore per intenzione, mentre nel dottor Paoli lo è per una sua instancabile curiosità.
Il Paoli vede esattamente il suo cliente, ma anche la moglie di questi e la sedia su cui poggia.
Dio sa quale dei due conci meglio i suoi clienti! Durante la malattia di mio suocero io andai spesso dal Paoli per indurlo a non fare intendere alla famiglia che la catastrofe che la minacciava era imminente, e ricordo che un giorno, guardandomi piú a lungo di quanto mi fosse piaciuto, mi disse sorridendo:
- Ma Lei adora sua moglie!
Egli era un buon osservatore perché infatti io in quel momento adoravo mia moglie che soffriva tanto per la malattia del padre e che io giornalmente tradivo.
Ci disse che Giovanni stava anche meglio del giorno prima.
Adesso egli non aveva altre preoccupazioni perché la stagione era molto favorevole, e riteneva che gli sposi serenamente potessero mettersi in viaggio.
- Naturalmente - aggiunse cautamente - salvo complicazioni imprevedibili.
- La sua prognosi s'avverò perché intervennero le complicazioni imprevedibili.
Al momento di congedarsi si ricordò che noi conoscevamo certo Copler al cui letto egli era stato chiamato quel giorno stesso a consulto.
Lo aveva trovato colpito da una paralisi renale.
Raccontò che la paralisi s'era annunciata con un orrendo male di denti.
Qui fece una prognosi grave, ma, secondo il solito, attenuata da un dubbio:
- La sua vita può anche prolungarsi a patto ch'egli arrivi a vedere il sole di domani.
Augusta, dalla compassione, ebbe le lagrime agli occhi e mi pregò di correre subito dal nostro povero amico.
Dopo un'esitazione, ottemperai al suo desiderio, e volentieri, perché la mia anima improvvisamente si riempí di Carla.
Com'ero stato duro con la povera fanciulla! Ecco che, sparito il Copler, essa rimaneva là, solitaria su quel pianerottolo, nient'affatto compromettente perché tagliata da ogni comunicazione col mio mondo.
Era necessario correre da lei per cancellare l'impressione che doveva averle fatto il mio duro contegno della mattina.
Ma, prudentemente, andai prima di tutto dal Copler.
Dovevo pur poter dire ad Augusta che lo avevo visto.
Conoscevo già il modesto ma comodo e decente quartiere che il Copler abitava in Corsia Stadion.
Un vecchio pensionato gli aveva cedute tre delle sue cinque stanze.
Fui ricevuto da questi, un grosso uomo, ansante, dagli occhi rossi, che camminava inquieto su e giú per un breve corridoio oscuro.
Mi raccontò che il medico curante se ne era andato da poco, dopo di aver constatato che il Copler si trovava in agonia.
Il vecchio parlava a bassa voce, sempre ansando, come se avesse temuto di turbare la quiete del moribondo.
Anch'io abbassai la mia.
È una forma di rispetto come lo sentiamo noi uomini, mentre non è ben certo se al moribondo non piacerebbe di piú di venir accompagnato per l'ultimo tratto di via da voci chiare e forti che gli ricorderebbero la vita.
Il vecchio mi disse che il moribondo era assistito da una suora.
Pieno di rispetto mi fermai per qualche tempo dinanzi alla porta di quella camera nella quale il povero Copler col suo rantolo, dal ritmo tanto esatto, misurava il suo ultimo tempo.
La sua respirazione rumorosa era composta da due suoni: esitante pareva quello prodotto dall'aria ch'egli ispirava, precipitoso quello che nasceva dall'aria espulsa.
Fretta di morire? Una pausa seguiva ai due suoni ed io pensai che quando quella pausa si fosse allungata, allora si sarebbe iniziata la nuova vita.
Il vecchio voleva ch'io entrassi in quella stanza, ma io non volli.
Troppi moribondi m'avevano guatato con un'espressione di rimprovero.
Non attesi che quella pausa s'allungasse e corsi da Carla.
Bussai alla porta del suo studio ch'era chiusa a chiave, ma nessuno rispose.
Impazientito presi la porta a calci e allora dietro di me si aperse la porta del quartiere.
La voce della madre di Carla domandò:
- Ma chi è? - Poi la vecchia timorosa si sporse e, quando alla luce gialla che veniva dalla sua cucina m'ebbe riconosciuto, m'accorsi che la sua faccia si era coperta di un intenso rossore rilevato dalla nitida bianchezza dei suoi capelli.
Carla non c'era, ed essa si profferse di andar a prendere la chiave dello studio per ricevermi in quella stanza ch'essa riteneva fosse la sola degna di ricevermi.
Ma io le dissi di non scomodarsi, entrai nella sua cucina e sedetti senz'altro su una sedia di legno.
Sul focolare, sotto ad una pentola, ardeva un modesto mucchio di carbone.
Le dissi di non trascurare per causa mia la cucinatura della cena.
Essa mi rassicurò.
Cucinava dei fagiuoli, che non erano mai troppo cotti.
La povertà del cibo che si preparava nella casa le cui spese dovevo oramai sostenere io solo, m'ammorbidí e smorzò la stizza che provavo per non aver trovata pronta la mia amante.
La signora rimase in piedi ad onta ch'io ripetutamente l'avessi invitata di sedere.
Bruscamente le raccontai ch'ero venuto a portare alla signorina Carla una bruttissima notizia: il Copler era moribondo.
Alla vecchia caddero le braccia e subito sentí il bisogno di sedere.
- Dio mio! - mormorò - che cosa faremo ora noi?
Poi si ricordò che quello che toccava al Copler era peggio di quello che toccava a lei e aggiunse un compianto:
- Il povero signore! Tanto buono!
Aveva già la faccia irrorata dalle lagrime.
Essa, evidentemente, non sapeva che se il pover'uomo non fosse morto a tempo, sarebbe stato buttato fuori di quella casa.
Anche questo mi rassicurò.
Com'ero circondato dalla piú assoluta discrezione!
Volli tranquillarla e le dissi che quello che il Copler aveva fatto per loro fino ad allora, avrei continuato a farlo io.
Essa protestò che non era per sé stessa ch'essa piangeva, visto che sapeva ch'esse erano circondate da tanta buona gente, ma per il destino del loro grande benefattore.
Volle sapere di quale malattia morisse.
Raccontandole come la catastrofe s'era annunciata, ricordai quella discussione ch'io tempo prima avevo avuta col Copler sull'utilità del dolore.
Ecco che da lui i nervi dei denti s'erano agitati e s'erano messi a chiamare aiuto perché, ad un metro di distanza da loro, i reni avevano cessato di funzionare.
Ero tanto indifferente al fato del mio amico di cui avevo sentito poco prima il rantolo, che continuavo a giocherellare con le sue idee.
Se fosse stato ancora a sentirmi, gli avrei detto che si capiva cosí come dall'ammalato immaginario i nervi potessero legittimamente dolere per una malattia scoppiata a qualche chilometro di distanza.
Fra la vecchia e me c'era ben poco ancora da discorrere ed accettai di andar ad aspettare Carla nel suo studio.
Presi in mano il Garcia e tentai di leggerne qualche pagina.
Ma l'arte del canto mi toccava poco.
La vecchia mi raggiunse di nuovo.
Era inquieta perché non vedeva giungere Carla.
Mi raccontò ch'era andata a comperare dei piatti di cui avevano urgente bisogno.
La mia pazienza stava proprio per esaurirsi.
Irosamente le domandai:
- Avete rotti dei piatti? Non potreste usare maggior attenzione?
Cosí mi liberai della vecchia che borbottò andandosene:
- Due soli...
li ho rotti io...
Ciò mi procurò un momento d'ilarità perché io sapevo ch'erano stati distrutti tutti quelli che c'erano in casa e non dalla vecchia, ma proprio da Carla.
Poi seppi che Carla era tutt'altro che dolce con la madre che perciò aveva una paura folle di parlare troppo dei fatti della figlia coi suoi protettori.
Pare che una volta, ingenuamente, avesse raccontato al Copler del fastidio che risultava a Carla dalle lezioni di canto.
Il Copler se ne adirò con Carla e questa se la prese con la madre.
Ed è cosí che quando la mia deliziosa amante finalmente mi raggiunse, io l'amai violentemente e irosamente.
Essa, incantata, balbettava:
- E io che dubitavo del tuo amore! Il giorno intero fui perseguitata dal desiderio di uccidermi per essermi abbandonata ad un uomo che subito dopo mi trattò cosí male!
Le spiegai che spesso io venivo preso da gravi mali di testa e, quando mi ritrovai nello stato che, se non avessi valorosamente resistito, m'avrebbe ricondotto di corsa da Augusta, riparlai di quei mali e seppi domarmi.
Andavo facendomi.
Intanto piangemmo insieme il povero Copler; proprio assieme!
Del resto Carla non era indifferente all'atroce fine del suo benefattore.
Parlandone si scolorí:
- Io so come son fatta! - disse.
- Per lungo tempo avrò paura di restare sola.
Da vivo già mi faceva tanta paura!
E per la prima volta, timidamente, mi propose di restare con lei la notte intera.
Io non ci pensavo neppure e non avrei saputo prolungare nemmeno di mezz'ora il mio soggiorno in quella stanza.
Ma, sempre attento di non rivelare alla povera fanciulla il mio animo di cui ero il primo io a dolermi, feci delle obbiezioni dicendole che una cosa simile non era possibile perché in quella casa c'era anche sua madre.
Con vero disdegno essa arcuò le labbra:
- Avremmo trasportato qui il letto; la mamma non s'arrischia di spiarmi.
Allora le raccontai del banchetto di nozze che m'aspettava a casa, ma poi sentii il bisogno di dirle che mai mi sarebbe stato possibile di passare una notte con lei.
Nel proposito di bontà che avevo fatto poco prima, arrivavo a domare ogni mio accento che perciò restò sempre affettuoso, ma mi pareva che ogni altra concessione che le avessi fatta od anche soltanto fatta sperare, sarebbe equivaluta ad un nuovo tradimento ad Augusta che io non volevo commettere.
In quel momento sentivo quali erano i miei piú forti legami con Carla: il mio proposito d'affettuosità eppoi le menzogne dette da me sui miei rapporti con Augusta e che pian pianino, nel corso del tempo, bisognava attenuare ed anzi cancellare.
Perciò iniziai quella stessa sera tale opera, naturalmente con la debita prudenza perché era tuttavia troppo facile di ricordare il frutto che aveva avuto la mia bugia.
Le dissi che io sentivo fortemente i miei obblighi verso mia moglie ch'era una donna tanto stimabile che certamente avrebbe meritato di essere amata meglio e cui mai avrei voluto far sapere come la tradivo.
Carla m'abbracciò:
- Cosí ti amo: buono e dolce come ti sentii subito la prima volta.
Non tenterò mai di fare del male a quella poverina.
A me spiaceva sentir dare della poverina ad Augusta, ma ero riconoscente alla povera Carla della sua mitezza.
Era una buona cosa ch'essa non odiasse mia moglie.
Volli dimostrarle la mia riconoscenza e mi guardai d'attorno alla ricerca di un segno di affetto.
Finii col trovarlo.
Regalai anche a lei la sua lavanderia: le permisi di non richiamare il maestro di canto.
Carla ebbe un impeto di affetto che mi seccò abbastanza, ma che sopportai valorosamente.
Poi mi raccontò ch'essa non avrebbe mai abbandonato il canto.
Cantava tutto il giorno, ma a modo suo.
Voleva anzi farmi sentire subito una sua canzone.
Ma io non ne volli sapere e alquanto villanamente corsi via.
Perciò penso che anche quella notte essa abbia meditato il suicidio, ma io non le lasciai mai il tempo di dirmelo.
Ritornai dal Copler perché dovevo portare ad Augusta le ultime notizie dell'ammalato per farle credere che io avessi passate con lui tutte quelle ore.
Il Copler era morto da due ore circa, subito dopo ch'io me n'ero andato.
Accompagnato dal vecchio pensionato che aveva continuato a misurare col suo passo il piccolo corridoio, entrai nella stanza mortuaria.
Il cadavere, già vestito, giaceva sul nudo materazzo del letto.
Teneva nelle mani il crocifisso.
A bassa voce il pensionato mi raccontò che tutte le formalità erano state compiute e che una nipote dell'estinto sarebbe venuta a passare la notte presso il cadavere.
Cosí avrei potuto andarmene sapendo che al mio povero amico si dava tutto quel poco che ancora poteva occorrergli, ma restai per qualche minuto a guardarlo.
Avrei amato di sentirmi sgorgare dagli occhi una lacrima sincera di compianto per il poverino che tanto aveva lottato con la malattia fino a tentar di trovare un accordo con essa.
- È doloroso! - dissi.
La malattia per la quale esistevano tanti farmachi, l'aveva brutalmente ucciso.
Pareva un'irrisione.
Ma la mia lacrima mancò.
La faccia emaciata del Copler non era mai apparsa tanto forte come nella rigidezza della morte.
Pareva prodotta dallo scalpello in un marmo colorato e nessuno avrebbe potuto prevedere che vi sovrastasse imminente la putrefazione.
Era tuttavia una vera vita che quella faccia manifestava: disapprovava sdegnosamente forse me, l'ammalato immaginario, o fors'anche Carla, che non voleva cantare.
Trasalii un momento sembrandomi che il morto ricominciasse a rantolare.
Subito ritornai alla mia calma di critico quando m'accorsi che quello che m'era sembrato un rantolo non era che l'ansare, aumentato dall'emozione, del pensionato.
Il quale poi m'accompagnò alla porta e mi pregò di raccomandarlo se avessi conosciuto chi avrebbe potuto aver bisogno di un quartierino come quello.
- Vede che anche in una circostanza simile ho saputo fare il mio dovere e anche piú, molto di piú!
Alzò per la prima volta la voce in cui echeggiò un risentimento ch'era senza dubbio destinato al povero Copler che gli aveva lasciato libero il quartiere senza il debito preavviso.
Corsi via promettendo tutto quello che voleva.
Da mio suocero trovai che la compagnia s'era messa in quel momento a tavola.
Mi domandarono delle notizie ed io, per non compromettere la gaiezza di quel convitto, dissi che il Copler viveva tuttavia e che c'era dunque ancora qualche speranza.
A me parve che quell'adunanza fosse ben triste.
Forse tale impressione si fece in me alla vista di mio suocero condannato ad una minestrina e ad un bicchiere di latte, mentre attorno a lui tutti si caricavano dei cibi piú prelibati.
Aveva tutto il suo tempo libero, lui, e lo impiegava per guardare in bocca agli altri.
Vedendo che il signor Francesco si dedicava attivamente all'antipasto, mormorò:
- E pensare che ha due anni piú di me!
Poi, quando il signor Francesco giunse al terzo bicchierino di vino bianco, brontolò sottovoce:
- È il terzo! Che gli andasse in tanto fiele!
L'augurio non m'avrebbe disturbato se non avessi mangiato e bevuto anch'io a quel tavolo, e non avessi saputo che la medesima metamorfosi sarebbe stata augurata anche al vino che passava per la mia bocca.
Perciò mi misi a mangiare e a bere di nascosto.
Approfittavo di qualche momento in cui mio suocero ficcava il grosso naso nella tazza del latte o rispondeva a qualche parola che gli era stata rivolta, per inghiottire dei grossi bocconi o per tracannare dei grandi bicchieri di vino.
Alberta, solo per il desiderio di far ridere la gente, avvisò Augusta ch'io bevevo troppo.
Mia moglie, scherzosamente, mi minacciò coll'indice.
Questo non fu male ma fu male perché cosí non valeva piú la pena di mangiare di nascosto.
Giovanni, che fino ad allora non s'era quasi ricordato di me, mi guardò sopra gli occhiali con un'occhiataccia di vero odio.
Disse:
- Io non ho mai abusato di vino o di cibo.
Chi ne abusa non è un vero uomo ma un...
- e ripeté piú volte l'ultima parola che non significava proprio un complimento.
Per l'effetto del vino, quella parola offensiva accompagnata da una risata generale, mi cacciò nell'animo un desiderio veramente irragionevole di vendetta.
Attaccai mio suocero dal suo lato piú debole: la sua malattia.
Gridai che non era un vero uomo non chi abusava dei cibi ma colui che supinamente s'adattava alle prescrizioni del medico.
Io, nel caso suo, sarei stato ben altrimenti indipendente.
Alle nozze di mia figlia - se non altro per affetto - non avrei mica permesso che mi si impedisse di mangiare e di bere.
Giovanni osservò con ira:
- Vorrei vederti nei miei panni!
- E non ti basta di vedermi nei miei? lascio io forse di fumare?
Era la prima volta che mi riusciva di vantarmi della mia debolezza, e accesi subito una sigaretta per illustrare le mie parole.
Tutti ridevano e raccontavano al signor Francesco come la mia vita fosse piena di ultime sigarette.
Ma quella non era l'ultima e mi sentivo forte e combattivo.
Però perdetti subito l'appoggio degli altri quando versai del vino a Giovanni nel suo grande bicchiere d'acqua.
Avevano paura che Giovanni bevesse e urlavano per impedirglielo finché la signora Malfenti non poté afferrare e allontanare quel bicchiere.
- Proprio, vorresti uccidermi? - domandò mitemente Giovanni guardandomi con curiosità.
- Hai il vino cattivo, tu! - Egli non aveva fatto un solo gesto per approfittare del vino che gli avevo offerto.
Mi sentii veramente avvilito e vinto.
Mi sarei quasi gettato ai piedi di mio suocero per chiedergli perdono.
Ma anche quello mi parve un suggerimento del vino e lo respinsi.
Domandando perdono avrei confessata la mia colpa, mentre il banchetto continuava e sarebbe durato abbastanza per offrirmi l'opportunità di riparare a quel primo scherzo tanto mal riuscito.
C'è tempo a tutto a questo mondo.
Non tutti gli ubriachi sono preda immediata di ogni suggerimento del vino.
Quando ho bevuto troppo, io analizzo i miei conati come quando sono sereno e probabilmente con lo stesso risultato.
Continuai ad osservarmi per intendere come fossi arrivato a quel pensiero malvagio di danneggiare mio suocero.
E m'accorsi d'essere stanco, mortalmente stanco.
Se tutti avessero saputo quale giornata io avevo trascorsa, m'avrebbero scusato.
Avevo presa e violentemente abbandonata per ben due volte una donna ed ero ritornato due volte a mia moglie per rinnegare anche lei per due volte.
La mia fortuna fu che allora, per associazione, nel mio ricordo fece capolino quel cadavere su cui invano avevo tentato di piangere, e il pensiero alle due donne sparve; altrimenti avrei finito col parlare di Carla.
Non avevo sempre il desiderio di confessarmi anche quando non ero reso piú magnanimo dall'azione del vino? Finii col parlare del Copler.
Volevo che tutti sapessero che quel giorno avevo perduto il mio grande amico.
Avrebbero scusato il mio contegno.
Gridai che il Copler era morto, veramente morto e che fino ad allora ne avevo taciuto per non rattristarli.
Guarda! Guarda! Ecco che finalmente sentii salirmi le lacrime agli occhi e dovetti volgere altrove lo sguardo per celarle.
Tutti risero perché non mi credettero e allora intervenne l'ostinazione ch'è proprio il carattere piú evidente del vino.
Descrissi il morto:
- Pareva scolpito da Michelangelo, cosí rigido, nella pietra piú incorruttibile.
Ci fu un silenzio generale interrotto da Guido che esclamò:
- E adesso non senti piú il bisogno di non rattristarci?
L'osservazione era giusta.
Avevo mancato ad un proponimento che ricordavo! Non ci sarebbe stato il verso di riparare? Mi misi a ridere sgangheratamente:
- Ve l'ho fatta! È vivo e sta meglio.
Tutti mi guardavano per raccapezzarsi.
- Sta meglio, - soggiunsi seriamente - mi riconobbe e mi sorrise persino.
Tutti mi credettero, ma l'indignazione fu generale.
Giovanni proclamò che se non avesse temuto di farsi del male sottoponendosi ad uno sforzo, m'avrebbe gettato un piatto sulla testa.
Era infatti imperdonabile ch'io avessi turbata la festa con una simile notizia inventata.
Se fosse stata vera non ci sarebbe stata colpa.
Non avrei fatto meglio di dire loro di nuovo la verità? Il Copler era morto, e non appena fossi stato solo, avrei trovate le lacrime pronte per piangerlo, spontanee e abbondanti.
Cercai le parole, ma la signora Malfenti, con quella sua gravità di gran signora m'interruppe:
- Lasciamo stare per ora quel povero malato.
Ci penseremo domani!
Obbedii subito persino col pensiero che si staccò definitivamente dal morto: «Addio! Aspettami! Ritornerò a te subito dopo!».
Era venuta l'ora del brindisi.
Giovanni aveva ottenuta la concessione dal medico di sorbire a quell'ora un bicchiere di champagne.
Gravemente sorvegliò come gli versarono il vino, e rifiutò di portare il bicchiere alle labbra finché non fosse stato colmo.
Dopo di aver fatto un augurio serio e disadorno ad Ada e a Guido, lo vuotò lentamente fino all'ultima goccia.
Guardandomi biecamente mi disse che l'ultimo sorso l'aveva votato proprio alla mia salute.
Per annullare l'augurio, che io sapevo non buono, con ambe le mani sotto la tovaglia feci le corna.
Il ricordo del resto della serata è per me un poco confuso.
So che per iniziativa di Augusta, a quel tavolo, poco dopo si disse un mondo di bene di me citandomi quale un modello di marito.
Mi fu perdonato tutto e persino mio suocero si fece piú gentile.
Soggiunse però che sperava che il marito di Ada si dimostrasse buono come me, ma anche nello stesso tempo un miglior negoziante e soprattutto una persona...
e cercava la parola.
Non la trovò e nessuno intorno a noi la reclamò; neppure il signor Francesco che per avermi visto per la prima volta quella stessa mattina, poco poteva conoscermi.
Dal canto mio non mi offesi.
Come mitiga il proprio animo il sentimento di avere dei grossi torti da riparare! Accettavo con grato animo tutte le insolenze a patto fossero accompagnate da quell'affetto che non meritavo.
E nella mia mente, confusa dalla stanchezza e dal vino, sereno del tutto, accarezzai la mia immagine di buon marito che non diviene meno buono per essere adultero.
Bisognava essere buoni, buoni, buoni, e il resto non importava.
Mandai con la mano un bacio ad Augusta che lo accolse con un sorriso riconoscente.
Poi vi fu a quel tavolo chi volle approfittare della mia ebbrezza per ridere e fui costretto di dire un brindisi.
Avevo finito con l'accettare perché in quel momento mi pareva che sarebbe stata una cosa decisiva di poter fare cosí in pubblico dei buoni propositi.
Non che io dubitassi in quel momento di me, perché mi sentivo proprio quale ero stato descritto, ma sarei divenuto anche migliore quando avessi affermato un proposito dinanzi a tante persone che in certo modo l'avrebbero sottoscritto.
Ed è cosí che nel brindisi parlai solo di me e di Augusta.
Feci per la seconda volta in quei giorni la storia del mio matrimonio.
L'avevo falsificata per Carla tacendo del mio innamoramento per mia moglie; qui la falsificai altrimenti perché non parlai delle due persone tanto importanti nella storia del mio matrimonio, cioè Ada e Alberta.
Raccontai le mie esitazioni di cui non sapevo consolarmi perché m'avevano derubato di tanto tempo di felicità.
Poi, per cavalleria, attribuii anche ad Augusta delle esitazioni.
Ma essa negò ridendo vivacemente.
Ritrovai il filo del discorso con qualche difficoltà.
Raccontai come finalmente fossimo arrivati al viaggio di nozze e come avessimo fatto all'amore in tutti i musei d'Italia.
Ero tanto bene immerso fino al collo nella menzogna che vi cacciai dentro anche quel dettaglio bugiardo che non serviva ad alcuno scopo.
Eppoi si dice che nel vino ci sia la verità.
Augusta m'interruppe una seconda volta per mettere le cose a posto e raccontò come essa avesse dovuto evitare i musei per il pericolo che, per causa mia, correvano i capolavori.
Non s'accorgeva che cosí rivelava non la falsità di quel particolare soltanto! Se ci fosse stato a quel tavolo un osservatore, avrebbe presto fatto a scoprire di quale natura fosse quell'amore ch'io prospettavo in un ambiente ove non aveva potuto svolgersi.
Ripresi il lungo, slavato discorso raccontando l'arrivo in casa nostra e come ambedue ci fossimo messi a perfezionarla facendo questo e quello e fra altro anche una lavanderia.
Sempre ridendo, Augusta m'interruppe di nuovo:
- Questa non è mica una festa data in nostro onore, ma in onore di Ada e Guido! Parla di loro!
Tutti annuirono rumorosamente.
Risi anch'io accorgendomi che per opera mia si era arrivati ad una vera lietezza rumorosa quale è di prammatica in simili occasioni.
Ma non trovai piú nulla da dire.
Mi pareva di aver parlato per ore.
Ingoiai vari altri bicchieri di vino uno dopo l'altro:
- Questo per Ada! - Mi rizzai per un momento per vedere se essa avesse fatte le corna sotto la tovaglia.
- Questo per Guido! - e aggiunsi, dopo aver tracannato il vino:
- Di tutto cuore! - obliando che al primo bicchiere non era stata aggiunta tale dichiarazione.
- Questo per il vostro figliolo maggiore!
E ne avrei bevuti parecchi di quei bicchieri per i loro figliuoli, se non ne fossi stato finalmente impedito.
Per quei poveri innocenti io avrei bevuto tutto il vino che si trovava su quel tavolo.
Poi tutto divenne anche piú oscuro.
Chiaramente ricordo una cosa sola: la mia principale preoccupazione era di non apparire ubriaco.
Mi tenevo eretto e parlavo poco.
Diffidavo di me stesso, sentivo il bisogno di analizzare ogni parola prima di dirla.
Mentre il discorso generale si svolgeva, io dovevo rinunziare a prendervi parte perché non mi si lasciava il tempo di chiarire il mio torbido pensiero.
Volli iniziare un discorso io stesso e dissi a mio suocero:
- Hai sentito che l'Extérieur è caduto di due punti?
Avevo detto una cosa che non mi concerneva affatto e che avevo sentita dire in Borsa; volevo solo parlare di affari, roba seria di cui un ubbriaco di solito non si ricorda.
Ma pare che per mio suocero la cosa fosse meno indifferente e mi diede del corvo dalle male nuove.
Con lui non ne indovinavo una.
Allora mi occupai della mia vicina, Alberta.
Si parlò di amore.
A lei interessava in teoria e a me, per il momento, non interessava affatto in pratica.
Perciò era bello parlarne.
Mi domandò delle idee ed io ne scopersi subito una che mi parve risultare evidente dalla mia esperienza della giornata stessa.
Una donna era un oggetto che variava di prezzo ben piú di qualunque valore di Borsa.
Alberta mi fraintese e credette che io volessi dire una cosa saputa da tutti, cioè che una donna di una certa età aveva tutt'altro valore che ad un'altra.
Mi spiegai piú chiaramente: una donna poteva avere un alto valore ad una certa ora della mattina, nessunissimo a mezzodí, per valere nel pomeriggio il doppio che alla mattina e finire alla sera con un valore addirittura negativo.
Spiegai il concetto di valore negativo: una donna aveva tale valore quando un uomo calcolava quale somma sarebbe pronto di pagare per mandarla molto ma molto lontano da lui.
Tuttavia la povera commediografa non vedeva la giustezza della mia scoperta mentre io, ricordando il movimento di valore che quel giorno stesso avevano subito Carla e Augusta, ne ero sicuro.
Intervenne il vino quando volli spiegarmi meglio e deviai assolutamente:
- Vedi, - le dissi - supponendo che tu ora abbia il valore di X e mi permetta di premere il tuo piedino col mio, tu aumenti immediatamente almeno di un altro X.
Accompagnai subito alle parole l'atto.
Rossa, rossa ella sottrasse il piede e, volendo apparire spiritosa, disse:
- Ma questa è pratica e non piú teoria.
Me ne appellerò ad Augusta.
Devo confessare che anch'io sentivo quel piedino ben altrimenti che un'arida teoria, ma protestai gridando con l'aria piú candida del mondo:
- È pura teoria, purissima, ed è male da parte tua di sentirla altrimenti.
Le fantasie del vino sono veri avvenimenti.
Per lungo tempo io ed Alberta non dimenticammo che io avevo toccato una parte del suo corpo avvisandola che lo facevo per goderne.
La parola aveva rilevato l'atto e l'atto la parola.
Finché essa non si sposò ebbe per me un sorriso e un rossore, poi, invece, rossore ed ira.
Le donne son fatte cosí.
Ogni giorno che sorge porta loro una nuova interpretazione del passato.
Dev'essere una vita poco monotona la loro.
Da me, invece, l'interpretazione di quel mio atto fu sempre la stessa: il furto di piccolo oggetto dal sapore intenso e fu colpa di Alberta se in certa epoca cercai di far ricordare quell'atto mentre invece piú tardi avrei pagato qualche cosa perché fosse dimenticato del tutto.
Ricordo anche che prima di lasciare quella casa avvenne un'altra cosa e ben piú grave.
Restai, per un istante, solo con Ada.
Giovanni si era coricato da tempo e gli altri prendevano congedo dal signor Francesco che andava all'albergo accompagnato da Guido.
Io guardai Ada lungamente vestita tutta di pizzi bianchi, le spalle e le braccia nude.
Restai lungamente muto benché sentissi il bisogno di dirle qualche cosa; ma, dopo analizzata, sopprimevo qualunque frase che mi venisse alle labbra.
Ricordo che analizzai anche se mi fosse stato permesso di dirle: «Come mi fa piacere che finalmente ti sposi e sposi il mio grande amico Guido.
Ora appena sarà tutto finito fra di noi.
» Volevo dire una bugia perché tutti sapevano che fra di noi tutto era finito da varii mesi, ma mi pareva che quella bugia fosse un bellissimo complimento ed è certo che una donna, vestita cosí, domanda complimenti e se ne compiace.
Però dopo lunga riflessione non ne feci nulla.
Soppressi quelle parole perché nel mare di vino in cui nuotavo, trovai una tavola che mi salvò.
Pensai che avevo torto di rischiare l'affetto di Augusta per fare un piacere ad Ada che non mi voleva bene.
Ma, nel dubbio che per qualche istante mi turbò la mente, eppoi anche quando con uno sforzo da quelle parole mi staccai, diedi ad Ada una tale occhiata ch'essa si alzò e uscí dopo di essersi voltata a sorvegliarmi con spavento, pronta forse di mettersi a correre.
Anche una propria occhiata si ricorda quanto e forse meglio di una parola; è piú importante di una parola perché non v'è in tutto il vocabolario una parola che sappia spogliare una donna.
Io so ora che quella mia occhiata falsò le parole che avevo ideate, semplificandole.
Essa per gli occhi di Ada, aveva tentato di penetrare al di là dei vestiti e anche della sua epidermide.
E aveva certamente significato: «Vuoi venire intanto subito a letto con me?».
Il vino è un grande pericolo specie perché non porta a galla la verità.
Tutt'altro che la verità anzi: rivela dell'individuo specialmente la storia passata e dimenticata e non la sua attuale volontà; getta capricciosamente alla luce anche tutte le ideuccie con le quali in epoca piú o meno recente ci si baloccò e che si è dimenticate; trascura le cancellature e legge tutto quello ch'è ancora percettibile nel nostro cuore.
E si sa che non v'è modo di cancellarvi niente tanto radicalmente, come si fa di un giro errato su di una cambiale.
Tutta la nostra storia vi è sempre leggibile e il vino la grida, trascurando quello che poi la vita vi aggiunse.
Per andare a casa, Augusta ed io prendemmo una vettura.
Nell'oscurità mi parve fosse mio dovere di baciare e abbracciare mia moglie perché in simili incontri molte volte avevo usato cosí e temevo che, se non l'avessi fatto, essa avrebbe potuto pensare che fra di noi ci fosse qualche cosa di mutato.
Non v'era nulla di cambiato fra di noi: il vino gridava anche questo! Ella aveva sposato Zeno Cosini che, immutato, le stava accanto.
Che cosa importava se quel giorno io avevo possedute delle altre donne di cui il vino, per rendermi piú lieto, aumentava il numero ponendo fra di esse non so piú se Ada o Alberta?
Ricordo che, addormentandomi, rividi per un istante la faccia marmorea del Copler sul letto di morte.
Pareva domandasse giustizia, cioè le lacrime ch'io gli avevo promesse.
Ma non le ebbe neppure allora perché il sonno mi abbracciò annientandomi.
Prima però mi scusai col fantasma: «Aspetta ancora per poco.
Sono subito con te!».
Con lui non fui piú, giammai, perché non assistetti neppure al suo funerale.
Avevamo tanto da fare in casa ed io anche fuori, che non ci fu tempo per lui.
Se ne parlò talvolta, ma solo per ridere ricordando che il mio vino l'aveva tante volte ammazzato e fatto risuscitare.
Anzi egli restò proverbiale in famiglia e quando i giornali, come avviene spesso, annunziano e smentiscono la morte di qualcuno, noi diciamo: «Come il povero Copler».
La mattina dopo mi levai con un po' di male di testa.
Mi affannò un poco il mio dolore al fianco, probabilmente perché, finché era durato l'effetto del vino, non lo avevo sentito affatto e subito ne avevo perduta l'abitudine.
Ma in fondo non ero triste.
Augusta contribuí alla mia serenità dicendomi che sarebbe stato male se io non fossi andato a quella cena di nozze, perché prima del mio arrivo le era sembrato di assistere ad un mortorio.
Non avevo dunque da aver rimorso del mio contegno.
Poi sentii che una cosa sola non mi era stata perdonata: l'occhiataccia ad Ada!
Quando c'incontrammo nel pomeriggio, Ada mi porse la mano con un'ansietà che aumentò la mia.
Forse però le pesava sulla coscienza quella sua fuga ch'era stata tutt'altro che gentile.
Ma anche la mia occhiata era stata una gran brutta azione.
Ricordavo esattamente il movimento del mio occhio e capivo come non sapesse dimenticare chi ne era stato trafitto.
Bisognava riparare con un contegno accuratamente fraterno.
Si dice che quando si soffre per aver bevuto troppo, non ci sia miglior cura che di berne dell'altro.
Io, quella mattina, andai a rianimarmi da Carla.
Andai da lei proprio col desiderio di vivere piú intensamente ed è quello che riconduce all'alcool, ma camminando verso di lei, avrei desiderato ch'essa m'avesse fornita tutt'altra intensità di vita del giorno prima.
Mi accompagnavano dei propositi poco precisi ma tutti onesti.
Sapevo di non poter abbandonarla subito, ma potevo avviarmi a quell'atto tanto morale pian pianino.
Intanto avrei continuato a parlarle di mia moglie.
Senza sorprendersene, un bel giorno essa avrebbe saputo com'io amassi mia moglie.
Avevo nella mia giubba un'altra busta con del denaro per essere pronto ad ogni evenienza.
Arrivai da Carla, e un quarto d'ora dopo essa mi rimproverò con una parola che per la sua giustezza lungamente mi risonò all'orecchio: «Come sei rude, tu, in amore!».
Non sono conscio di essere stato rude proprio allora.
Avevo cominciato a parlarle di mia moglie, e le lodi tributate ad Augusta erano risonate all'orecchio di Carla come tanti rimproveri rivolti a lei.
Poi fu Carla che mi ferí.
Per passare il tempo, le avevo raccontato come mi fossi seccato al banchetto, specie per un brindisi che avevo detto e ch'era stato assolutamente spropositato.
Carla osservò:
- Se tu amassi tua moglie non sbaglieresti i brindisi al tavolo di suo padre.
E mi diede anche un bacio per rimeritarmi del poco amore che portavo a mia moglie.
Intanto lo stesso desiderio d'intensificare la mia vita, che m'aveva tratto da Carla, m'avrebbe riportato subito da Augusta, ch'era la sola con cui avrei potuto parlare del mio amore per lei.
Il vino preso come cura era già di troppo o volevo oramai tutt'altro vino.
Ma quel giorno la mia relazione con Carla doveva ingentilirsi, coronarsi finalmente di quella simpatia che - come seppi piú tardi - la povera giovinetta meritava.
Essa piú volte m'aveva offerto di cantarmi una canzonetta, desiderosa di avere il mio giudizio.
Ma io non avevo voluto saperne di quel canto di cui non m'importava nemmeno piú l'ingenuità.
Le dicevo che giacché essa rifiutava di studiare, non valeva la pena di cantare piú.
La mia era proprio una grave offesa ed essa ne sofferse.
Seduta accanto a me, per non farmi vedere le sue lacrime essa guardava immota le mani che teneva intrecciate in grembo.
Ripeté il suo rimprovero:
- Come devi essere rude con chi non ami, se lo sei tanto con me!
Buon diavolo come sono, mi lasciai intenerire da quelle lacrime e pregai Carla di squarciarmi le orecchie con la sua grande voce nel piccolo ambiente.
Essa ora se ne schermiva e dovetti persino minacciare di andarmene se non fossi stato compiaciuto.
Devo riconoscere che mi sembrò per un istante anche di aver trovato un pretesto per riconquistare almeno temporaneamente la mia libertà, ma, alla minaccia, la mia umile serva si recò con gli occhi bassi a sedere al pianoforte.
Dedicò poi un istante breve breve al raccoglimento e si passò la mano sul viso quasi a scacciarne ogni nube.
Vi riuscí con una prontezza che mi sorprese e la sua faccia, quando fu scoperta da quella mano, non ricordava affatto il dolore di prima.
Ebbi subito una grande sorpresa.
Carla diceva la sua canzonetta, la raccontava, non la gridava.
Le grida - come essa poi mi disse - le erano state imposte dal suo maestro; ora le aveva congedate insieme a lui.
La canzonetta triestina:
Fazzo l'amor xe vero
Cossa ghe xe de mal
Volè che a sedes'ani
Stio là come un cocal...
è una specie di racconto o di confessione.
Gli occhi di Carla brillavano di malizia e confessavano anche piú delle parole.
Non c'era paura di sentirsi leso il timpano ed io m'avvicinai a lei, sorpreso e incantato.
Sedetti accanto a lei ed essa allora raccontò la canzonetta proprio a me, socchiudendo gli occhi per dirmi con la nota piú lieve e piú pura che quei sedici anni volevano la libertà e l'amore.
Per la prima volta vidi esattamente la faccina di Carla: un ovale purissimo interrotto dalla profonda e arcuata incavatura degli occhi e degli zigomi tenui, reso anche piú puro da un biancore niveo, ora ch'essa teneva la faccia rivolta a me e alla luce, e perciò non offuscata da alcun'ombra.
E quelle linee dolci in quella carne che pareva trasparente, e celava tanto bene il sangue e le vene forse troppo deboli per poter apparire, domandavano affetto e protezione.
Ora ero pronto di accordarle tanto affetto e protezione, incondizionatamente, ed anche nel momento in cui mi sarei sentito tanto disposto di ritornare ad Augusta, perché essa in quel momento non domandava che un affetto paterno che potevo concedere senza tradire.
Quale soddisfazione! Restavo là con Carla, le accordavo quello che la sua faccina ovale domandava e non mi allontanavo da Augusta! Il mio affetto per Carla si ingentilí.
Da allora, quando sentivo il bisogno di onestà e purezza, non occorse piú abbandonarla, ma potei restare con lei e cambiare discorso.
Questa nuova dolcezza era dovuta alla sua faccina ovale ch'io allora avevo scoperto o al suo talento musicale? Innegabile il talento! La strana canzonetta triestina finisce con una strofe in cui la stessa giovinetta proclama di essere vecchia e malandata e che oramai non ha piú bisogno di altra libertà che di morire.
Carla continuava a profondere malizia e lietezza nel verso povero.
Era tuttavia la giovinezza che si fingeva vecchia per proclamare meglio da quel nuovo punto di vista il suo diritto.
Quando terminò e mi trovò in piena ammirazione, anch'essa per la prima volta oltre che amarmi mi volle veramente bene.
Sapeva che a me quella canzonetta sarebbe piaciuta di piú del canto che le insegnava il suo maestro:
- Peccato - aggiunse con tristezza, - che se non si vuole andare pei cafés chantants, non si possa trarre da ciò il necessario per vivere.
La convinsi facilmente che le cose non stavano cosí.
V'erano a questo mondo molte grandi artiste che dicevano e non cantavano.
Essa si fece dire dei nomi.
Era beata di apprendere quanto importante avrebbe potuto divenire la sua arte.
- Io so - aggiunse ingenuamente, - che questo canto è ben piú difficile dell'altro per il quale basta gridare a perdifiato.
Io sorrisi e non discussi.
La sua arte era anch'essa certamente difficile ed essa lo sapeva perché era quella la sola arte che conoscesse.
Quella canzonetta le era costata uno studio lunghissimo.
L'aveva detta e ridetta correggendo l'intonazione di ogni parola, di ogni nota.
Adesso ne studiava un'altra, ma l'avrebbe saputa soltanto di lí a qualche settimana.
Prima non voleva farla sentire.
Seguirono dei momenti deliziosi in quella stanza ove fino ad allora non s'erano svolte che delle scene di brutalità.
Ecco che a Carla s'apriva anche una carriera.
La carriera che m'avrebbe liberato di lei.
Molto simile a quella che per lei aveva sognato il Copler! Le proposi di trovarle un maestro.
Essa dapprima si spaventò della parola, ma poi si lasciò convincere facilmente quando le dichiarai che si poteva provare, e ch'essa sarebbe rimasta libera di congedarlo quando le fosse sembrato noioso o poco utile.
Anche con Augusta mi trovai quel giorno molto bene.
Avevo l'animo tranquillo come se fossi ritornato da una passeggiata e non dalla casa di Carla o come avrebbe dovuto averlo il povero Copler quando abbandonava quella casa nei giorni in cui non gli avevano dato motivo ad arrabbiarsi.
Ne godetti come se fossi giunto a un'oasi.
Per me e per la mia salute sarebbe stato gravissimo se tutta la mia lunga relazione con Carla si fosse svolta in un'eterna agitazione.
Da quel giorno, come risultato della bellezza estetica, le cose si svolsero piú calme con le lievi interruzioni necessarie a rianimare tanto il mio amore per Carla, quanto quello per Augusta.
Ogni mia visita a Carla significava bensí un tradimento per Augusta, ma tutto era presto dimenticato in un bagno di salute e di buoni propositi.
Ed il buon proposito non era brutale ed eccitante come quando avevo nella strozza il desiderio di dichiarare a Carla che non l'avrei rivista mai piú.
Ero dolce e paterno: ecco che di nuovo io pensavo alla sua carriera.
Abbandonare ogni giorno una donna per correrle dietro il giorno appresso, sarebbe stata una fatica a cui il mio povero cuore non avrebbe saputo reggere.
Cosí, invece, Carla restava sempre in mio potere ed io l'avviavo ora in una direzione ed ora in un'altra.
Per lungo tempo i propositi buoni non furono tanto forti da indurmi a correre per la città in cerca del maestro che avrebbe fatto per Carla.
Mi baloccavo col proposito buono, restando sempre seduto.
Poi un bel giorno Augusta mi confidò che si sentiva madre ed allora il mio proposito per un istante ingigantí e Carla ebbe il suo maestro.
Avevo esitato tanto anche perché era evidente che, anche senza maestro, Carla aveva saputo avviarsi ad un lavoro veramente serio nella sua nuova arte.
Ogni settimana essa sapeva dirmi una canzonetta nuova, analizzata accuratamente nell'atteggiamento e nella parola.
Certe note avrebbero abbisognato di essere levigate un poco, ma forse avrebbero finito con l'affinarsi da sé.
Una prova decisiva che Carla era una vera artista, io l'avevo nel modo com'essa perfezionava continuamente le sue canzonette senza mai rinunziare alle cose migliori ch'essa aveva saputo far sue di prim'acchito.
La indussi spesso a ridirmi il suo primo lavoro e vi trovavo aggiunto ogni volta qualche accento nuovo ed efficace.
Data la sua ignoranza, era meraviglioso che nel grande sforzo di scoprire una forte espressione, non le fosse mai capitato di cacciare nella canzonetta dei suoni falsi o esagerati.
Da vera artista, essa aggiungeva ogni giorno una pietruccia al piccolo edificio, e tutto il resto restava intatto.
Non la canzonetta era stereotipata, ma il sentimento che la dettava.
Carla, prima di cantare, si passava sempre la mano sulla faccia e dietro quella mano si creava un istante di raccoglimento che bastava a piombarla nella commediola ch'essa doveva costruire.
Una commedia non sempre puerile.
Il mentore ironico di Rosina te xe nata in un casoto minacciava, ma non troppo seriamente.
Pareva che la cantante avvertisse di sapere ch'era la storia di ogni giorno.
Il pensiero di Carla era un altro, ma finiva con l'arrivare allo stesso risultato:
- La mia simpatia è per Rosina perché altrimenti la canzonetta non meriterebbe di essere cantata, - essa diceva.
Avvenne qualche volta che Carla inconsapevolmente riaccendesse il mio amore per Augusta e il mio rimorso.
Infatti ciò si avverò ogni qualvolta ella si permise dei movimenti offensivi contro la posizione tanto solidamente occupata da mia moglie.
Era sempre vivo il suo desiderio di avermi tutto suo per una notte intera; mi confidò che le pareva che, per non avere mai dormito uno accanto all'altro, fossimo meno intimi.
Volendo abituarmi ad essere piú dolce con lei, non mi rifiutai risolutamente di compiacerla, ma quasi sempre pensai che non sarebbe stato possibile di fare una cosa simile a meno che non mi fossi rassegnato di trovare alla mattina Augusta ad una finestra donde m'avesse aspettato la notte intera.
Eppoi, non sarebbe stato questo un nuovo tradimento a mia moglie? Talvolta, cioè quando correvo a Carla pieno di desiderio, mi sentivo propenso di accontentarla, ma subito dopo ne vedevo l'impossibilità e la sconvenienza.
Ma cosí non si arrivò per lungo tempo né ad eliminare la prospettiva della cosa né a realizzarla.
Apparentemente si era d'accordo: prima o poi avremmo passata una notte intera insieme.
Intanto ora ce n'era la possibilità perché io avevo indotto le Gerco di congedare quegl'inquilini che tagliavano la loro casa in due parti, e Carla aveva finalmente la sua camera da letto.
Ora avvenne che poco dopo le nozze di Guido, mio suocero fu colto da quella crisi che doveva ucciderlo ed io ebbi l'imprudenza di raccontare a Carla che mia moglie doveva passare una notte al capezzale di suo padre per concedere un riposo a mia suocera.
Non ci fu piú il caso di esimermi: Carla pretese che passassi con lei quella stessa notte ch'era tanto dolorosa per mia moglie.
Non ebbi il coraggio di ribellarmi a tale capriccio e mi vi acconciai col cuore pesante.
Mi preparai a quel sacrificio.
Non andai da Carla alla mattina e cosí corsi da lei alla sera con pieno desiderio dicendomi anche ch'era infantile di credere di tradire piú gravemente Augusta perché la tradivo in un momento in cui essa per altre cause soffriva.
Perciò arrivai persino a spazientirmi perché la povera Augusta mi tratteneva per spiegarmi come avessi dovuto movermi per avere pronte le cose di cui potevo aver bisogno a cena, per la notte ed anche per il caffè della mattina dopo.
Carla m'accolse nello studio.
Poco dopo colei ch'era sua madre e serva ci serví una cenetta squisita a cui io aggiunsi i dolci che avevo portati con me.
La vecchia ritornò poi per sparecchiare ed io veramente avrei voluto coricarmi subito, ma era veramente ancora troppo di buon'ora e Carla m'indusse di starla a sentir cantare.
Essa passò tutto il suo repertorio e fu quella certamente la parte migliore di quelle ore, perché l'ansietà con cui aspettavo la mia amante, andava ad aumentare il piacere che sempre m'aveva data la canzonetta di Carla.
- Un pubblico ti coprirebbe di fiori e d'applausi - le dichiarai ad un certo momento dimenticando che sarebbe stato impossibile di mettere tutto un pubblico nello stato d'animo in cui mi trovavo io.
Ci coricammo infine nello stesso letto in una stanzuccia piccola e del tutto disadorna.
Pareva un corridoio stroncato da una parete.
Non avevo ancora sonno e mi disperavo al pensiero che, se ne avessi avuto, non avrei potuto dormire con tanta poca aria a mia disposizione.
Carla fu chiamata dalla voce timida di sua madre.
Essa, per rispondere, andò all'uscio e lo socchiuse.
La sentii come con voce concitata domandava alla vecchia che cosa volesse.
Timidamente l'altra disse delle parole di cui non percepii il senso e allora Carla urlò prima di sbattere l'uscio in faccia alla madre:
- Lasciami in pace.
T'ho già detto che per questa notte dormo di qua!
Cosí appresi che Carla, tormentata di notte dalla paura, dormiva sempre nella sua antica stanza da letto con la madre, ove aveva un altro letto, mentre quello sul quale dovevamo dormire insieme restava vuoto.
Era certamente per paura ch'essa m'aveva indotto di fare quella partaccia ad Augusta.
Confessò con una maliziosa allegria cui non partecipai, che con me si sentiva piú sicura che con sua madre.
Mi diede da pensare quel letto in prossimità di quella stanza da studio solitaria.
Non l'avevo mai visto prima.
Ero geloso! Poco dopo fui sprezzante anche per il contegno che Carla aveva avuto con quella sua povera madre.
Era fatta un po' differentemente di Augusta che aveva rinunziato alla mia compagnia pur di assistere i suoi genitori.
Io sono specialmente sensibile a mancanze di riguardo verso i proprii genitori, io, che avevo sopportato con tanta rassegnazione le bizze del mio povero padre.
Carla non poté accorgersi né della mia gelosia né del mio disprezzo.
Soppressi le manifestazioni di gelosia ricordando come non avessi alcun diritto ad essere geloso visto che passavo buona parte delle mie giornate augurandomi che qualcuno mi portasse via la mia amante.
Non v'era neppure alcuno scopo di far vedere il mio disprezzo alla povera giovinetta ormai che già mi baloccavo di nuovo col desiderio di abbandonarla definitivamente, e quantunque il mio sdegno fosse ora ingrandito anche dalle ragioni che poco prima avrebbero provocata la mia gelosia.
Quello che occorreva era di allontanarsi al piú presto da quella piccola stanzuccia non contenente di piú di un metro cubo di aria, per soprappiú caldissima.
Non ricordo neppure bene il pretesto che addussi per allontanarmi subito.
Affannosamente mi misi a vestirmi.
Parlai di una chiave che avevo dimenticato di consegnare a mia moglie per cui essa, se le fosse occorso, non avrebbe potuto entrare in casa.
Feci vedere la chiave che non era altra che quella che io avevo sempre in tasca, ma che fu presentata come la prova tangibile della verità delle mie asserzioni.
Carla non tentò neppure di fermarmi; si vestí e m'accompagnò fin giú per farmi luce.
Nell'oscurità delle scale, mi parve ch'essa mi squadrasse con un'occhiata inquisitrice che mi turbò: cominciava essa a intendermi? Non era tanto facile, visto ch'io sapevo simulare troppo bene.
Per ringraziarla perché mi lasciava andare, continuavo di tempo in tempo ad applicare la mie labbra sulle sue guancie e simulavo di essere pervaso tuttavia dallo stesso entusiasmo che m'aveva condotto da lei.
Non ebbi poi ad avere alcun dubbio della buona riuscita della mia simulazione.
Poco prima, con un'ispirazione d'amore, Carla m'aveva detto che il brutto nome di Zeno, che m'era stato appioppato dai miei genitori, non era certamente quello che spettava alla mia persona.
Essa avrebbe voluto ch'io mi chiamassi Dario e lí, nell'oscurità, si congedò da me appellandomi cosí.
Poi s'accorse che il tempo era minaccioso e m'offerse di andar a prendere per me un ombrello.
Ma io assolutamente non potevo sopportarla piú oltre, e corsi via tenendo sempre quella chiave in mano nella cui autenticità cominciavo a credere anch'io.
L'oscurità profonda della notte veniva interrotta di tratto in tratto da bagliori abbacinanti.
Il mugolio del tuono pareva lontanissimo.
L'aria era ancora tranquilla e soffocante quanto nella stessa stanzetta di Carla.
Anche i radi goccioloni che cadevano erano tiepidi.
In alto, evidente, c'era la minaccia ed io mi misi a correre.
Ebbi la ventura di trovare in Corsia Stadion un portone ancora aperto e illuminato in cui mi rifugiai proprio a tempo! Subito dopo il nembo s'abbatté sulla via.
Lo scroscio di pioggia fu interrotto da una ventata furiosa che parve portasse con sé anche il tuono tutt'ad un tratto vicinissimo.
Trasalii! Sarebbe stato un vero compromettermi se fossi stato ammazzato dal fulmine, a quell'ora, in Corsia Stadion! Meno male ch'ero noto anche a mia moglie come un uomo dai gusti bizzarri che poteva correre fin là di notte e allora c'è sempre la scusa a tutto.
Dovetti rimanere in quel portone per piú di un'ora.
Pareva sempre che il tempo volesse mitigarsi, ma subito riprendeva il suo furore sempre in altra forma.
Ora grandinava.
Era venuto a tenermi compagnia il portinaio della casa e dovetti regalargli qualche soldo perché ritardasse la chiusura del portone.
Poi entrò nel portone un signore vestito di bianco e grondante d'acqua.
Era vecchio, magro e secco.
Non lo rividi mai piú, ma non so dimenticarlo per la luce del suo occhio nero e per l'energia ch'emanava da tutta la sua personcina.
Bestemmiava per essere stato infradiciato a quel modo.
A me è sempre pi
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