LA COSCIENZA DI ZENO, di Italo Svevo - pagina 52
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Insomma io mi dimostrai un magnifico osservatore perché vidi tutto, ma un grande ignorante perché non dissi la vera parola: malattia!
Il giorno appresso l'ostetrico, che curava Ada, domandò l'assistenza del dottor Paoli il quale subito pronunziò la parola ch'io non avevo saputo dire: Morbus Basedowii.
Guido me lo raccontò descrivendomi con grande dottrina la malattia e compiangendo Ada che soffriva molto.
Senz'alcuna malizia io penso che la sua compassione e la sua scienza non fossero grandi.
Assumeva un aspetto accorato quando parlava della moglie, ma quando dettava delle lettere a Carmen manifestava tutta la gioia di vivere e insegnare; credeva poi che colui che aveva dato il suo nome alla malattia fosse il Basedow ch'era stato l'amico di Goethe, mentre quando io studiai quella malattia in un'enciclopedia, m'accorsi subito che si trattava di un altro.
Grande, importante malattia quella di Basedow! Per me fu importantissimo di averla conosciuta.
La studiai in varie monografie e credetti di scoprire appena allora il segreto essenziale del nostro organismo.
Io credo che da molti come da me vi sieno dei periodi di tempo in cui certe idee occupino e ingombrino tutto il cervello chiudendolo a tutte le altre.
Ma se anche alla collettività succede la stessa cosa! Vive di Darwin dopo di essere vissuta di Robespierre e di Napoleone eppoi di Liebig o magari di Leopardi quando su tutto il cosmo non troneggi Bismark!
Ma di Basedow vissi sol io! Mi parve ch'egli avesse portate alla luce le radici della vita la quale è fatta cosí: tutti gli organismi si distribuiscono su una linea, ad un capo della quale sta la malattia di Basedow che implica il generosissimo, folle consumo della forza vitale ad un ritmo precipitoso, il battito di un cuore sfrenato, e all'altro stanno gli organismi immiseriti per avarizia organica, destinati a perire di una malattia che sembrerebbe di esaurimento ed è invece di poltronaggine.
Il giusto medio fra le due malattie si trova al centro e viene designato impropriamente come la salute che non è che una sosta.
E fra il centro ed un'estremità - quella di Basedow - stanno tutti coloro ch'esasperano e consumano la vita in grandi desiderii.
ambizioni, godimenti e anche lavoro, dall'altra quelli che non gettano sul piatto della vita che delle briciole e risparmiano preparando quegli abietti longevi che appariscono quale un peso per la società.
Pare che questo peso sia anch'esso necessario.
La società procede perché i Basedowiani la sospingono, e non precipita perché gli altri la trattengono.
Io sono convinto che volendo costruire una società, si poteva farlo piú semplicemente, ma è fatta cosí, col gozzo ad uno dei suoi capi e l'edema all'altro, e non c'è rimedio.
In mezzo stanno coloro che hanno incipiente o gozzo o edema e su tutta la linea, in tutta l'umanità, la salute assoluta manca.
Anche ad Ada il gozzo mancava a quanto mi diceva Augusta, ma aveva tutti gli altri sintomi della malattia.
Povera Ada! M'era apparsa come la figurazione della salute e dell'equilibrio, tanto che per lungo tempo avevo pensato avesse scelto il marito con lo stesso animo freddo col quale suo padre sceglieva la sua merce, ed ora era stata afferrata da una malattia che la trascinava a tutt'altro regime: le perversioni psichiche! Ma io ammalai con lei di una malattia lieve, ma lunga.
Per troppo tempo pensai a Basedow.
Già credo che in qualunque punto dell'universo ci si stabilisca si finisce coll'inquinarsi.
Bisogna moversi.
La vita ha dei veleni, ma poi anche degli altri veleni che servono di contravveleni.
Solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri.
La mia malattia fu un pensiero dominante, un sogno, e anche uno spavento.
Deve aver avuto origine da un ragionamento: con la designazione di perversione si vuole intendere una deviazione dalla salute, quella specie di salute che ci accompagnò per un tratto della vita.
Ora sapevo che cosa fosse stata la salute da Ada.
Non poteva la sua perversione portarla ad amare me, che da sana aveva respinto?
Io non so come questo terrore (o questa speranza) sia nato nel mio cervello!
Forse perché la voce dolce e spezzata di Ada mi parve di amore quando s'indirizzò a me? La povera Ada s'era fatta ben brutta ed io non sapevo piú desiderarla.
Ma andavo rivedendo i nostri rapporti passati e mi pareva che se essa fosse stata còlta da un improvviso amore per me, mi sarei trovato nelle brutte condizioni che ricordavano un poco quelle di Guido verso l'amico inglese dalle sessanta tonnellate di solfato di rame.
Proprio lo stesso caso! Pochi anni prima io le avevo dichiarato il mio amore e non avevo fatto alcun atto di revoca fuori di quello di sposarne la sorella.
In tale contratto essa non era protetta dalla legge ma dalla cavalleria.
A me pareva di essere tanto fortemente impegnato con lei, che se essa si fosse presentata da me molti ma molti anni piú tardi, perfezionata magari nella malattia di Basedow da un bel gozzo, io avrei dovuto far onore alla mia firma.
Ricordo però che tale prospettiva rese il mio pensiero piú affettuoso per Ada.
Fino ad allora, quando m'avevano informato dei dolori di Ada causati da Guido, io non ne avevo certamente goduto, ma pure avevo rivolto il pensiero con una certa soddisfazione alla mia casa nella quale Ada aveva rifiutato di entrare ed ove non si soffriva affatto.
Ora le cose avevano cambiato: quell'Ada che m'aveva respinto con disdegno non c'era piú, a meno che i miei testi di medicina non sbagliassero.
La malattia di Ada era grave.
Il dottor Paoli, pochi giorni dopo, consigliò di allontanarla dalla famiglia e di mandarla in una casa di salute a Bologna.
Seppi ciò da Guido, ma Augusta poi mi raccontò che alla povera Ada anche in quel momento non furono risparmiati dei grandi dispiaceri.
Guido aveva avuto la sfacciataggine di proporre di metter Carmen alla direzione della famiglia durante l'assenza di sua moglie.
Ada non ebbe il coraggio di dire apertamente quello che pensava di una simile proposta, ma dichiarò che non si sarebbe mossa di casa se non le fosse stato permesso di affidarne la direzione alla zia Maria, e Guido si adattò senz'altro.
Egli però continuò ad accarezzare l'idea di poter aver Carmen a sua disposizione al posto lasciato libero da Ada.
Un giorno disse a Carmen che se essa non fosse stata tanto occupata in ufficio, egli le avrebbe volentieri affidata la direzione della sua casa.
Luciano ed io ci guardammo, e certamente scoprimmo ognuno nella faccia dell'altro un'espressione maliziosa.
Carmen arrossí e mormorò che non avrebbe potuto accettare.
- Già - disse Guido con ira - per quegli sciocchi riguardi al mondo non si può fare quello che gioverebbe tanto!
Però tacque anche lui presto ed era sorprendente abbreviasse una predica tanto interessante.
Tutta la famiglia accompagnò Ada alla stazione.
Augusta m'aveva pregato di portare dei fiori per la sorella.
Arrivai un po' in ritardo con un bel mazzo di orchidee che porsi ad Augusta.
Ada ci sorvegliava e quando Augusta le offerse i fiori ci disse:
- Vi ringrazio di cuore!
Voleva significare di aver ricevuto i fiori anche da me, ma io sentii ciò come una manifestazione di affetto fraterno, dolce e anche un po' fredda.
Basedow certo non ci entrava.
Pareva una sposina, la povera Ada con quegli occhi ingranditi smisuratamente dalla felicità.
La sua malattia sapeva simulare tutte le emozioni.
Guido partiva con lei per accompagnarla e ritornare dopo pochi giorni.
Aspettammo sulla banchina la partenza del treno.
Ada rimase affacciata alla finestra della sua vettura e continuò ad agitare il fazzoletto finché poté vederci.
Poi accompagnammo la signora Malfenti lacrimante a casa.
Al momento di dividerci mia suocera dopo di aver baciata Augusta, baciò anche me.
- Scusa! - desse ridendo fra le lacrime - l'ho fatto senza proposito, ma se lo permetti ti dò anche un altro bacio.
Anche la piccola Anna, ormai dodicenne, volle baciarmi.
Alberta, ch'era in procinto di abbandonare il teatro nazionale per fidanzarsi, e che di solito era un po' sostenuta con me, quel giorno mi porse calorosamente la mano.
Tutte mi volevano bene perché mia moglie era fiorente, e facevano cosí delle manifestazioni di antipatia per Guido, la cui moglie era malata.
Ma proprio allora corsi il rischio di divenire un marito meno buono.
Diedi un grande dolore a mia moglie, senza mia colpa, per un sogno cui innocentemente la feci addirittura partecipare.
Ecco il sogno: eravamo in tre, Augusta, Ada ed io che ci eravamo affacciati ad una finestra e precisamente alla piú piccola che ci fosse stata nelle nostre tre abitazioni, cioè la mia, quella di mia suocera e quella di Ada.
Eravamo cioè alla finestra della cucina della casa di mia suocera che veramente si apre sopra un piccolo cortile mentre nel sogno dava proprio sul Corso.
Al piccolo davanzale c'era tanto poco spazio che Ada, che stava in mezzo a noi tenendosi alle nostre braccia, aderiva proprio a me.
Io la guardai e vidi che il suo occhio era ridivenuto freddo e preciso e le linee della sua faccia purissime fino alla nuca ch'io vedevo coperta dei suoi riccioli lievi, quei riccioli ch'io avevo visti tanto spesso quando Ada mi volgeva le spalle.
Ad onta di tanta freddezza (tale mi pareva la sua salute) essa rimaneva aderente a me come avevo creduto lo fosse quella sera del mio fidanzamento intorno al tavolino parlante.
Io, giocondamente, dissi ad Augusta (certo facendo uno sforzo per occuparmi anche di lei): «Vedi com'è risanata? Ma dov'è Basedow?».
«Non vedi?», domandò Augusta ch'era la sola fra di noi che arrivasse a guardare sulla via.
Con uno sforzo ci sporgemmo anche noi e scorgemmo una grande folla che s'avanzava minacciosa urlando.
«Ma dov'è Basedow?» domandai ancora una volta.
Poi lo vidi.
Era lui che s'avanzava inseguito da quella folla: un vecchio pezzente coperto di un grande mantello stracciato, ma di broccato rigido, la grande testa coperta di una chioma bianca disordinata, svolazzante all'aria, gli occhi sporgenti dall'orbita che guardavano ansiosi con uno sguardo ch'io avevo notato in bestie inseguite, di paura e di minaccia.
E la folla urlava: «Ammazzate l'untore!».
Poi ci fu un intervallo di notte vuota.
Indi, subito, Ada ed io ci trovavamo soli sulla piú erta scala che ci fosse nelle nostre tre case, quella che conduce alla soffitta della mia villa.
Ada era posta per alcuni scalini piú in alto, ma rivolta a me ch'ero in atto di salire, mentre lei sembrava volesse scendere.
Io le abbracciavo le gambe e lei si piegava verso di me non so se per debolezza o per essermi piú vicina.
Per un istante mi parve sfigurata dalla sua malattia, ma poi, guardandola con affanno, riuscivo a rivederla come m'era apparsa alla finestra, bella e sana.
Mi diceva con la sua voce soda: «Precedimi, ti seguo subito!» Io, pronto, mi volgevo per precederla correndo, ma non abbastanza presto per non scorgere che la porta della mia soffitta veniva aperta pian pianino e ne sporgeva la testa chiomata e bianca di Basedow con quella sua faccia fra timorosa e minacciosa.
Ne vidi anche le gambe malsicure e il povero misero corpo che il mantello non arrivava a celare.
Arrivai a correre via, ma non so se per precedere Ada o per fuggirla.
Ora pare che trafelato io mi sia destato nella notte, e nell'assopimento abbia raccontato tutto o parte del sogno ad Augusta per riprendere poi il sonno piú tranquillo e piú profondo.
Credo che nella mezza coscienza io abbia seguito ciecamente l'antico desiderio di confessare i miei trascorsi.
Alla mattina, sulla faccia di Augusta, c'era il cereo pallore delle grandi occasioni.
Io ricordavo perfettamente il sogno, ma non esattamente quello che gliene avessi riferito.
Con un aspetto di rassegnazione dolorosa essa mi disse:
- Ti senti infelice perché essa è malata ed è partita e perciò sogni di lei.
Io mi difesi ridendo ed irridendo.
Non Ada era importante per me, ma Basedow, e le raccontai dei miei studi e anche delle applicazioni che avevo fatte.
Ma non so se riuscii di convincerla.
Quando si viene colti nel sogno è difficile di difendersi.
È tutt'altra cosa che arrivare alla moglie freschi freschi dall'averla tradita in piena coscienza.
Del resto, per tali gelosie di Augusta, io non avevo nulla da perdere perché essa amava tanto Ada che da quel lato la sua gelosia non gettava alcun'ombra e, in quanto a me, essa mi trattava con un riguardo anche piú affettuoso e m'era anche piú grata di ogni mia piú lieve manifestazione di affetto.
Pochi giorni dopo, Guido ritornò da Bologna con le migliori notizie.
Il direttore della casa di salute garantiva una guarigione definitiva a patto che Ada trovasse poi in casa una grande quiete.
Guido riferí con semplicità e bastevole incoscienza la prognosi del sanitario non avvedendosi che in famiglia Malfenti quel verdetto veniva a confermare molti sospetti sul suo conto.
Ed io dissi ad Augusta:
- Ecco che sono minacciato di altri baci di tua madre.
Pare che Guido non si trovasse molto bene nella casa diretta da zia Maria.
Talvolta camminava su e giú per l'ufficio mormorando:
- Due bambini...
tre balie...
nessuna moglie.
Anche dall'ufficio rimaneva piú spesso assente perché sfogava il suo malumore imperversando sulle bestie a caccia e a pesca.
Ma quando verso la fine dell'anno, ebbimo da Bologna la notizia che Ada veniva considerata guarita e che s'accingeva a rimpatriare, non mi parve che egli ne fosse troppo felice.
S'era abituato a zia Maria oppure la vedeva tanto poco che gli era facile e gradevole di sopportarla? Con me naturalmente non manifestò il suo malumore se non esprimendo il dubbio che forse Ada s'affrettava troppo a lasciare la casa di salute prima di essersi assicurata contro una ricaduta.
Infatti quand'essa, dopo breve tempo e ancora nel corso di quello stesso inverno, dovette ritornare a Bologna, egli mi disse trionfante:
- L'avevo detto io?
Non credo però che in quel trionfo ci fosse stata altra gioia che quella da lui tanto viva di aver saputo prevedere qualche cosa.
Egli non augurava del male ad Ada, ma l'avrebbe tenuta volentieri per lungo tempo a Bologna.
Quando Ada ritornò, Augusta era relegata a letto per la nascita del mio piccolo Alfio e in quell'occasione fu veramente commovente.
Volle io andassi alla stazione con dei fiori e dicessi ad Ada ch'essa voleva vederla quello stesso giorno.
E se Ada non avesse potuto venire da lei addirittura dalla stazione, mi pregava ritornassi subito a casa, per saperle descrivere Ada e dirle se la sua bellezza, di cui in famiglia erano tanto orgogliosi, le fosse stata restituita intera.
Alla stazione eravamo io, Guido e la sola Alberta, perché la signora Malfenti passava una gran parte delle sue giornate presso Augusta.
Sulla banchina, Guido cercava di convincerci della sua grande gioia per l'arrivo di Ada, ma Alberta lo ascoltava fingendo una grande distrazione allo scopo - come poi mi disse - di non dover rispondergli.
In quanto a me la simulazione con Guido mi costava oramai poca fatica.
M'ero abituato a fingere di non accorgermi delle sue preferenze per Carmen e non avevo mai osato alludere ai suoi torti verso la moglie.
Non m'era perciò difficile di avere un atteggiamento d'attenzione come se ammirassi la sua gioia per il ritorno della sua amata moglie.
Quando il treno in punto a mezzodí entrò in stazione, egli ci precedette per raggiungere la moglie che ne scendeva.
La prese fra le braccia e la baciò affettuosamente.
Io, che gli vedevo il dorso piegato per arrivare a baciare la moglie piú piccola di lui, pensai: «Un bravo attore!».
Poi prese Ada per mano e la condusse a noi:
- Eccola riconquistata al nostro affetto!
Allora si rivelò quale era, cioè falso e simulatore, perché se egli avesse guardata meglio in faccia la povera donna, si sarebbe accorto che invece che al nostro affetto essa veniva consegnata alla nostra indifferenza.
La faccia di Ada era male costruita perché aveva riconquistate delle guancie ma fuori di posto come se la carne, quando ritornò, avesse dimenticato dove apparteneva e si fosse poggiata troppo in basso.
Avevano perciò l'aspetto di gonfiezze anziché di guancie.
E l'occhio era ritornato nell'orbita, ma nessuno aveva saputo riparare i danni ch'esso aveva prodotto uscendone.
Aveva spostate o distrutte delle linee precise e importanti.
Quando ci congedammo fuori della stazione, al sole invernale abbacinante vidi che tutto il colorito di quella faccia non era piú quello che io avevo tanto amato.
Era impallidito e sulle parti carnose si arrossava per chiazzette rosse.
Pareva che la salute non appartenesse piú a quella faccia e si fosse riusciti di fingervela.
Raccontai subito ad Augusta che Ada era bellissima proprio come era stata da fanciulla ed essa ne fu beata.
Poi, dopo di averla vista, a mia sorpresa essa confermò piú volte come se fossero state evidenti verità le mie pietose bugie.
Essa diceva:
- È bella com'era da fanciulla e come lo sarà mia figlia!
Si vede che l'occhio di una sorella non è molto acuto.
Per lungo tempo non rividi Ada.
Essa aveva troppi figliuoli e cosí pure noi.
Tuttavia Ada e Augusta facevano in modo di trovarsi insieme varie volte alla settimana, ma sempre in ore in cui io ero fuori di casa.
Si approssimava l'epoca del bilancio ed io avevo molto da fare.
Fu anzi quella l'epoca della mia vita in cui lavorai di piú.
Qualche giorno restai a tavolino persino per dieci ore.
Guido m'aveva offerto di farmi assistere da un contabile, ma io non ne volli sapere.
Avevo assunto un incarico e dovevo corrispondervi.
Intendevo compensare Guido di quella mia funesta assenza di un mese, e mi piaceva anche dimostrare a Carmen la mia diligenza, che non poteva essere ispirata da altro che dal mio affetto per Guido.
Ma come procedetti nel regolare i conti, incominciai a scoprire la grossa perdita in cui eravamo incorsi in quel primo anno di esercizio.
Impensierito ne dissi a quattr'occhi qualche cosa a Guido, ma lui, che s'apprestava a partire per la caccia, non volle starmi a sentire:
- Vedrai che non è tanto grave come ti sembra eppoi l'anno non è ancora finito.
Infatti mancavano ancora otto giorni interi a capo d'anno.
Allora mi confidai ad Augusta.
Dapprima essa vide in quella faccenda solo il danno che ne avrebbe potuto derivare a me.
Le donne sono sempre fatte cosí, ma Augusta era straordinaria persino fra le donne quando qui si doleva del proprio danno.
Non avrei finito anch'io - essa domandava - con l'essere ritenuto un po' responsabile delle perdite subite da Guido? Voleva si consultasse subito un avvocato.
Bisognava intanto staccarsi da Guido e cessare dal frequentare quell'ufficio.
Non mi fu facile di convincerla ch'io non potevo essere tenuto responsabile di niente non essendo io altra cosa che un impiegato di Guido.
Essa sosteneva che chi non ha un emolumento fisso non possa essere considerato quale un impiegato, ma qualche cosa di simile ad un padrone.
Quando fu ben convinta, naturalmente restò della sua opinione perché allora scoprí che non avrei perduto niente se avessi cessato di frequentare quell'ufficio dove sicuramente avrei finito col diffamarmi commercialmente.
Diamine: la mia fama commerciale! Fui anch'io d'accordo ch'era importante di salvarla e, per quanto essa avesse avuto torto negli argomenti, si conchiuse che dovevo fare com'ella voleva.
Consentí ch'io terminassi il bilancio poiché l'avevo iniziato, ma poi avrei dovuto trovare il modo di ritornare al mio studiolo nel quale non si guadagnavano dei denari, ma nemmeno se ne perdevano.
Feci però allora una curiosa esperienza su me stesso.
Io non fui capace di abbandonare quella mia attività per quanto lo avessi deciso.
Ne fui stupito! Per intendere bene le cose, occorre lavorare di immagini.
Ricordai allora che una volta in Inghilterra la condanna ai lavori forzati veniva applicata appendendo il condannato al disopra di una ruota azionata a forza d'acqua, obbligando cosí la vittima a muovere in un certo ritmo le gambe che altrimenti gli sarebbero state sfracellate.
Quando si lavora si ha sempre il senso di una costrizione di quel genere.
È vero che quando non si lavora la posizione è la stessa e credo giusto di asserire che io e l'Olivi fummo sempre ugualmente appesi; soltanto che io lo fui in modo da non dover movere le gambe.
La nostra posizione dava bensí un risultato differente, ma ora so con certezza ch'esso non legittimava né un biasimo né una lode.
Insomma dipende dal caso se si viene attaccati ad una ruota mobile o ad una immobile.
Staccarsene è sempre difficile.
Per varii giorni, dopo chiuso il bilancio, continuai ad andare all'ufficio pur avendo deciso di non andarci affatto.
Uscivo di casa incerto; incerto prendevo una direzione ch'era quasi sempre quella dell'ufficio e, come procedevo, tale direzione si precisava finché non mi trovavo seduto sulla solita sedia in faccia a Guido.
Per fortuna a un dato momento fui pregato di non lasciare il mio posto ed io subito vi accondiscesi visto che nel frattempo m'ero accorto d'esservi inchiodato.
Per il quindici di Gennaio il mio bilancio era chiuso.
Un vero disastro! Chiudevamo con la perdita di metà del capitale.
Guido non avrebbe voluto farlo vedere al giovine Olivi temendone qualche indiscrezione, ma io insistetti nella speranza che costui, con la sua grande pratica, vi avesse trovato qualche errore tale da mutare tutta la posizione.
Poteva esserci qualche importo spostato dal dare, ove apparteneva, all'avere, e con una rettifica si sarebbe arrivati ad una differenza importante.
Sorridendo, l'Olivi promise a Guido la massima discrezione e lavorò poi con me per una giornata intera.
Disgraziatamente non trovò alcun errore.
Devo dire che io da quella revisione fatta in due, appresi molto e che oramai saprei affrontare e chiudere dei bilanci anche piú importanti di quello.
- E che cosa farete ora? - domandò l'occhialuto giovinotto prima di andarsene.
Io sapevo già quello ch'egli avrebbe suggerito.
Mio padre, che spesso mi aveva parlato di commercio nella mia infanzia, me l'aveva già insegnato.
Secondo le leggi vigenti, data la perdita di metà del capitale, noi si avrebbe dovuto liquidare la ditta e magari ristabilirla subito su nuove basi.
Lasciai ch'egli mi ripetesse il consiglio.
Aggiunse:
- Si tratta di una formalità.
- Poi, sorridendo:
- Può costare caro il non attenervisi!
Alla sera anche Guido si mise a rivedere il bilancio cui non sapeva adattarsi ancora.
Lo fece senz'alcun metodo, verificando questo o quell'importo a casaccio.
Volli interrompere quel lavoro inutile e gli comunicai il consiglio dell'Olivi di liquidare subito, ma pro forma, la gestione.
Fino ad allora Guido aveva avuto la faccia contratta dallo sforzo di trovare in quei conti l'errore liberatore: un cipiglio complicato dalla contrazione di chi ha in bocca un sapore disgustoso.
Alla mia comunicazione alzò la faccia che si spianò in uno sforzo d'attenzione.
Non comprese subito, ma quando capí si mise subito a ridere di cuore.
Io interpretai l'espressione della sua faccia cosí: aspra, acida finché si trovava di fronte a quelle cifre che non si potevano alterare; lieta e risoluta quando il doloroso problema fu spinto in disparte da una proposta che gli dava agio di riavere il sentimento di padrone e arbitro.
Non comprendeva.
Gli pareva il consiglio di un nemico.
Gli spiegai che il consiglio dell'Olivi aveva il suo valore specialmente per il pericolo, che incombeva in modo evidente sulla ditta, di perdere degli altri denari e fallire.
Un'eventuale bancarotta sarebbe stata colposa se dopo questo bilancio, oramai consegnato nei nostri libri, non si fossero prese le misure consigliate dall'Olivi.
E aggiunsi:
- La pena comminata dalle nostre leggi per il fallimento colposo è il carcere!
La faccia di Guido si coperse di tanto rosso che temetti egli fosse minacciato da una congestione cerebrale.
Urlò:
- In questo caso l'Olivi non ha bisogno di darmi dei consigli! Se mai ciò dovesse avverarsi saprei risolvere da solo!
La sua decisione m'impose ed ebbi il sentimento di trovarmi di fronte a persona perfettamente conscia della propria responsabilità.
Abbassai il tono della mia voce.
Mi buttai poi tutto dalla sua parte e, dimenticando di aver già presentato il consiglio dell'Olivi come degno di esser preso in considerazione, gli dissi:
- È quello che obiettai anch'io all'Olivi.
La responsabilità è tua e noi non ci entriamo quando tu decidi qualche cosa circa il destino della ditta che appartiene a te ed a tuo padre.
Veramente io questo l'avevo detto a mia moglie e non all'Olivi, ma insomma era vero che a qualcuno l'avevo detto.
Ora, dopo aver sentita la virile dichiarazione di Guido, sarei stato anche capace di dirlo all'Olivi, perché la decisione e il coraggio m'hanno sempre conquistato.
Se amavo già tanto anche la sola disinvoltura che può risultare da quelle qualità, ma anche da altre inferiori di molto.
Poiché volevo riferire tutte le sue parole ad Augusta per tranquillarla, insistetti:
- Tu sai che di me, e probabilmente a ragione, si dice che io non abbia alcun talento per il commercio.
Io posso eseguire quello che tu mi ordini, ma non posso mica assumermi una responsabilità per quello che fai tu.
Egli assentí vivamente.
Si sentiva tanto bene nella parte che io gli attribuivo, da dimenticare il suo dolore per il cattivo bilancio.
Dichiarò:
- Io sono il solo responsabile.
Tutto porta il mio nome ed io non ammetterei neppure che altri accanto a me volesse addossarsi delle responsabilità.
Ciò andava benissimo per essere riferito ad Augusta, ma molto di piú di quanto io avevo domandato.
E bisognava vedere l'aspetto ch'egli assumeva facendo quella dichiarazione: invece di un mezzo fallito sembrava un apostolo! S'era adagiato comodamente sul suo bilancio passivo e da lí diventava il mio padrone e signore.
Questa volta come tante altre nel corso della nostra vita in comune, il mio slancio d'affetto per lui fu soffocato dalle sue espressioni rivelanti la spropositata stima ch'egli faceva di se stesso.
Egli stonava.
Sí: bisogna dire proprio cosí; quel grande musicista stonava!
Gli domandai bruscamente:
- Vuoi che domani faccia una copia del bilancio per tuo padre?
Per un momento ero stato in procinto di fargli una dichiarazione ben piú rude dicendogli che subito dopo chiuso il bilancio io mi sarei astenuto dal frequentare il suo ufficio.
Non lo feci non sapendo come avrei impiegate le tante ore libere che mi sarebbero rimaste.
Ma la mia domanda sostituiva quasi perfettamente la dichiarazione che m'ero rimangiata.
Intanto gli avevo ricordato ch'egli in quell'ufficio non era il solo padrone.
Si dimostrò sorpreso delle mie parole perché gli parevano non conformi a quanto fino ad allora, col mio evidente consenso, s'era parlato e, col tono di prima, mi disse:
- Ti dirò io come si dovrà fare quella copia.
Protestai gridando.
In tutta la mia vita non gridai tanto come con Guido perché talvolta mi sembrava sordo.
Gli dichiarai che esisteva in legge anche una responsabilità del contabile ed io non ero disposto di gabellare per copie esatte dei raggruppamenti cervellotici di cifre.
Egli impallidí e riconobbe che avevo ragione, ma soggiunse ch'egli era padrone d'ordinare che non si dessero affatto degli estratti dai suoi libri.
In ciò riconobbi volentieri che aveva ragione e allora, rinfrancatosi, dichiarò che a suo padre avrebbe scritto lui.
Parve anzi che volesse immediatamente mettersi a scrivere, ma poi cambiò d'idea e mi propose di andar a pigliare una boccata d'aria.
Volli compiacerlo.
Supponevo che non avesse ancora digerito bene il bilancio e volesse moversi per cacciarlo giú.
La passeggiata mi ricordò quella della notte dopo il mio fidanzamento.
Mancava la luna perché in alto c'era molta nebbia, ma giú era la stessa cosa, perché si camminava sicuri traverso un'aria limpida.
Anche Guido ricordò quella sera memoranda:
- È la prima volta che camminiamo di nuovo insieme di notte.
Ricordi? Tu allora mi spiegasti che anche nella luna ci si baciava come quaggiú.
Adesso invece nella luna continuano il bacio eterno; ne sono sicuro ad onta che questa sera non si veda.
Quaggiú, invece...
Voleva ricominciare a dir male di Ada? Della povera malata? Lo interruppi, ma mitemente, quasi associandomi a lui (non l'avevo forse accompagnato per aituarlo a dimenticare?):
- Già! Quaggiú non si può sempre baciare! Lassú poi non c'è che l'immagine del bacio.
Il bacio è soprattutto movimento.
Tentavo di allontanarmi da tutte le sue questioni, cioè bilancio e Ada, tant'è vero che a tempo seppi eliminare una frase ch'ero stato in procinto di dire che cioè lassú il bacio non generava dei gemelli.
Ma lui, per liberarsi dal bilancio, non trovava di meglio che lagnarsi delle altre sue disgrazie.
Come avevo presentito, disse male di Ada.
Cominciò col rimpiangere che quel suo primo anno di matrimonio fosse stato per lui tanto disastroso.
Non parlava dei due gemelli ch'erano tanto cari e belli, ma della malattia di Ada.
Egli pensava che la malattia la rendesse irascibile, gelosa e nello stesso tempo poco affettuosa.
Terminò coll'esclamare sconsolato:
- La vita è ingiusta e dura!
A me sembrava assolutamente che mi fosse vietato di dire una sola parola che implicasse un mio giudizio fra lui e Ada.
Ma mi pareva di dover pur dire qualche cosa.
Egli aveva finito col parlare della vita e le aveva appioppati due predicati che non peccavano di soverchia originalità.
Io scopersi il meglio proprio perché m'ero messo a fare la critica di quello ch'egli aveva detto.
Tante volte si dicono delle cose seguendo il suono delle parole come s'associarono casualmente.
Poi, appena, si va a vedere se quello che si disse valeva il fiato che vi si è consumato e qualche volta si scopre che la casuale associazione partorí un'idea.
Dissi:
- La vita non è né brutta né bella, ma è originale!
Quando ci pensai mi parve d'aver detta una cosa importante.
Designata cosí, la vita mi parve tanto nuova che stetti a guardarla come se l'avessi veduta per la prima volta coi suoi corpi gassosi, fluidi e solidi.
Se l'avessi raccontata a qualcuno che non vi fosse stato abituato e fosse perciò privo del nostro senso comune, sarebbe rimasto senza fiato dinanzi all'enorme costruzione priva di scopo.
M'avrebbe domandato: «Ma come l'avete sopportata?» E, informatosi di ogni singolo dettaglio, da quei corpi celesti appesi lassú perché si vedano ma non si tocchino, fino al mistero che circonda la morte, avrebbe certamente esclamato: «Molto originale!»
- Originale la vita! - disse Guido ridendo.
- Dove l'hai letto?
Non m'importò di assicurargli che non l'avevo letto in nessun posto perché altrimenti le mie parole avrebbero avuta meno importanza per lui.
Ma, piú che ci pensavo, piú originale trovavo la vita.
E non occorreva mica venire dal di fuori per vederla messa insieme in un modo tanto bizzarro.
Bastava ricordare tutto quello che noi uomini dalla vita si è aspettato, per vederla tanto strana da arrivare alla conclusione che forse l'uomo vi è stato messo dentro per errore e che non vi appartiene.
Senza esserci accordati sulla direzione della nostra passeggiata, avevamo finito come l'altra volta sull'erta di via Belvedere.
Trovato il muricciuolo su cui s'era steso quella notte, Guido vi salí e vi si coricò proprio come l'altra volta.
Egli canticchiava, forse sempre oppresso dai suoi pensieri, e meditava certamente sulle inesorabili cifre della sua contabilità.
Io invece ricordai che in quel luogo l'avevo voluto uccidere, e confrontando i miei sentimenti di allora con quelli di adesso, ammiravo una volta di piú l'incomparabile originalità della vita.
Ma improvvisamente ricordai che poco prima e per una bizza di persona ambiziosa, avevo imperversato contro il povero Guido e ciò in una delle peggiori giornate della sua vita.
Mi dedicai ad un'indagine: assistevo senza grande dolore alla tortura che veniva inflitta a Guido dal bilancio messo insieme da me con tanta cura e me ne venne un dubbio curioso e subito dopo un curiosissimo ricordo.
Il dubbio: ero io buono o cattivo? Il ricordo, provocato improvvisamente dal dubbio che non era nuovo: mi vedevo bambino e vestito (ne sono certo) tuttavia in gonne corte, quando alzavo la mia faccia per domandare a mia madre sorridente: «Sono buono o cattivo, io?».
Allora il dubbio doveva essere stato ispirato al bimbo dai tanti che l'avevano detto buono e dai tanti altri che, scherzando, l'avevano qualificato cattivo.
Non era affatto da meravigliarsi che il bimbo fosse stato imbarazzato da quel dilemma.
Oh incomparabile originalità della vita! Era meraviglioso che il dubbio ch'essa aveva già inflitto al bimbo in forma tanto puerile, non fosse stato sciolto dall'adulto quando aveva già varcata la metà della sua vita.
Nella notte fosca, proprio su quel posto ove io una volta avevo già voluto uccidere, quel dubbio mi angosciò, profondamente.
Certamente il bimbo quando aveva sentito vagare quel dubbio nella testa da poco libera dalla cuffia, non ne aveva sofferto tanto perché ai bambini si racconta che dalla cattiveria si guarisce.
Per liberarmi da tanta angoscia volli credere di nuovo cosí, e vi riuscii.
Se non vi fossi riuscito avrei dovuto piangere per me, per Guido e per la tristissima nostra vita.
Il proposito rinnovò l'illusione! Il proposito di mettermi accanto a Guido e di collaborare con lui allo sviluppo del suo commercio da cui dipendeva la sua e la vita dei suoi e ciò senz'alcun utile per me.
Intravvidi la possibilità di correre, brigare e studiare per lui e ammisi la possibilità di divenire, per aiutarlo, un grande, un intraprendente, un geniale negoziante.
Proprio cosí pensai in quella fosca sera di questa vita originalissima!
Guido intanto cessò di pensare al bilancio.
Abbandonò il suo posto e parve rasserenato.
Come se avesse tratta una conclusione da un ragionamento di cui io non sapevo niente, mi disse che al padre non avrebbe detto nulla perché altrimenti il povero vecchio avrebbe intrapreso quell'enorme viaggio dal suo sole estivo alla nostra nebbia invernale.
Mi disse poi che la perdita a prima vista sembrava ingente, ma che non lo era poi tanto se non doveva sopportarla tutta da solo.
Avrebbe pregata Ada di addossarsene la metà e in compenso le avrebbe concesso una parte degli utili dell'anno seguente.
L'altra metà della perdita l'avrebbe sopportata lui.
Io non dissi nulla.
Pensai anche che mi fosse proibito di dare dei consigli, perché altrimenti avrei finito col fare quello che assolutamente non volevo, erigendomi a giudice fra i due coniugi.
Del resto in quel momento ero tanto pieno di buoni propositi che mi pareva che Ada avrebbe fatto un buon affare partecipando ad un'impresa diretta da noi.
Accompagnai Guido fino alla porta di casa sua e gli strinsi lungamente la mano per rinnovare silenziosamente il proposito di volergli bene.
Poi mi studiai di dirgli qualche cosa di gentile e finii col trovare questa frase:
- Che i tuoi gemelli abbiano una buona notte e ti lascino dormire perché certamente hai bisogno di riposo.
Andando via mi morsi le labbra al rimpianto di non aver trovato di meglio.
Ma se sapevo che i gemelli oramai che avevano ciascuno la loro balia dormivano a mezzo chilometro da lui e non avrebbero potuto turbargli il sonno! Ad ogni modo egli aveva capita l'intenzione dell'augurio perché l'aveva accettato riconoscente.
Giunto a casa, trovai che Augusta s'era ritirata nella stanza da letto coi bambini.
Alfio era attaccato al suo petto mentre Antonia dormiva nel suo lettino volgendoci la nuca ricciuta.
Dovetti spiegare la ragione del mio ritardo e perciò le raccontai anche il mezzo escogitato da Guido per liberarsi delle sue passività.
Ad Augusta la proposta di Guido parve indegna:
- Al posto di Ada io rifiuterei, - esclamò con violenza per quanto a bassa voce per non spaventare il piccino.
Diretto dai miei propositi di bontà, discussi:
- Perciò, se io capitassi nelle stesse difficoltà di Guido tu non m'aiuteresti?
Essa rise:
- La cosa è ben differente! Fra noi due si vedrebbe quello che sarebbe piú vantaggioso per loro! - e accennò al bambino che teneva in braccio e ad Antonia.
Poi, dopo un momento di riflessione, continuò: - E se noi ora consigliassimo ad Ada di concedere il suo denaro per continuare quell'affare di cui tu fra breve non farai piú parte, non saremmo poi impegnati ad indennizzarla se dovesse poi perderlo?
Era un'idea da ignorante, ma nel mio nuovo altruismo esclamai:
- E perché no?
- Ma non vedi che ne abbiamo due dei bambini cui dobbiamo pensare?
Se li vedevo! La domanda era una figura rettorica veramente vuota di senso.
- E non ne hanno anche loro due dei bambini? - domandai vittoriosamente.
Essa si mise a ridere clamorosamente facendo spaventare Alfio che lasciò di poppare per piangere subito.
Essa s'occupò di lui, ma sempre ridendo, ed io accettai il suo riso come se me lo fossi conquistato col mio spirito mentre, in verità, nel momento in cui avevo fatta quella domanda, m'ero sentito movere nel petto un grande amore per i genitori di tutti i bambini e per i bambini di tutti i genitori.
Avendone poi riso, di quell'affetto non restò piú niente.
Ma anche il cruccio di non sapermi essenzialmente buono si mitigò.
Mi pareva di aver sciolto il problema angoscioso.
Non si era né buoni né cattivi come non si era tante altre cose ancora.
La bontà era la luce che a sprazzi e ad istanti illuminava l'oscuro animo umano.
Occorreva la fiaccola bruciante per dare la luce (nell'animo mio c'era stata e prima o poi sarebbe sicuramente anche ritornata) e l'essere pensante a quella luce poteva scegliere la direzione per moversi poi nell'oscurità.
Si poteva perciò manifestarsi buoni, tanto buoni, sempre buoni, e questo era l'importante.
Quando la luce sarebbe ritornata non avrebbe sorpreso e non avrebbe abbacinato.
Ci avrei soffiato su per spegnerla prima, visto ch'io non ne avevo bisogno.
Perché io avrei saputo conservare il proposito, cioè la direzione.
Il proposito di bontà è placido e pratico ed io ora ero calmo e freddo.
Curioso! L'eccesso di bontà m'aveva fatto eccedere nella stima di me stesso e del mio potere.
Che cosa potevo io fare per Guido? Era vero ch'io nel suo ufficio sovrastavo di tanto agli altri quanto nel mio ufficio l'Olivi padre stava al disopra di me.
Ma ciò non provava molto.
E per essere ben pratico: che cosa avrei io consigliato a Guido il giorno appresso? Forse una mia ispirazione? Ma se neppure al tavolo di giuoco si seguivano le ispirazioni quando si giuocava coi denari altrui! Per far vivere una casa commerciale bisogna crearle un lavoro di ogni giorno e questo si può raggiungere lavorando ogni ora attorno ad una organizzazione.
Non ero io che potevo fare una cosa simile, né mi pareva giusto di sottopormi a forza di bontà alla condanna della noia a vita.
Sentivo tuttavia l'impressione fattami dal mio slancio di bontà come un impegno che avessi preso con Guido, e non potevo addormentarmi.
Sospirai piú volte profondamente e una volta persino gemetti, certamente nel momento in cui mi pareva di essere obbligato di legarmi all'ufficio di Guido come l'Olivi era legato al mio.
Nel dormiveglia Augusta mormorò:
- Che hai? Hai trovato di nuovo da dire con l'Olivi?
Ecco l'idea che cercavo! Io avrei consigliato Guido di prendere con sé quale direttore il giovine Olivi! Quel giovinotto tanto serio e tanto laborioso e ch'io vedevo tanto malvolentieri nei miei affari perché pareva s'apprestasse di succedere a suo padre nella loro direzione per tenermene definitivamente fuori, apparteneva evidentemente e a vantaggio di tutti, nell'ufficio di Guido.
Facendogli una posizione in casa sua, Guido si sarebbe salvato e il giovine Olivi sarebbe stato piú utile in quell'ufficio che non nel mio.
L'idea mi esaltò e destai Augusta per comunicargliela.
Anch'essa ne fu tanto entusiasmata da destarsi del tutto.
Le pareva che cosí io avrei piú facilmente potuto levarmi dagli affari compromettenti di Guido.
Mi addormentai con la coscienza tranquilla: avevo trovato il modo di salvare Guido senza condannare me; anzi tutt'altro.
Non c'è niente di piú disgustoso che di vedersi respinto un consiglio ch'è stato sinceramente studiato con uno sforzo che costò persino delle ore di sonno.
Da me c'era poi stato un altro sforzo: quello di spogliarmi dell'illusione di poter giovare io stesso agli affari di Guido.
Uno sforzo immane.
Ero dapprima arrivato ad una vera bontà, poi ad un'assoluta oggettività e mi si mandava a quel paese!
Guido rifiutò il mio consiglio addirittura con disdegno.
Non credeva capace il giovine Olivi eppoi gli spiaceva il suo aspetto di giovine vecchio e piú ancora gli spiacevano quei suoi occhiali tanto lucenti sulla sua scialba faccia.
Gli argomenti erano veramente atti a farmi credere che di fondato non ce ne fosse che uno: il desiderio di farmi dispetto.
Finí col dirmi che avrebbe accettato come capo del suo ufficio non il giovine ma il vecchio Olivi.
Ma io non credevo di potergli procurare la collaborazione di questi, eppoi io non mi credevo pronto per assumere da un momento all'altro la direzione dei miei affari.
Ebbi il torto di discutere e gli dissi che il vecchio Olivi valeva poco.
Gli raccontai quanto denaro mi avesse costato la sua caparbietà di non aver voluto comperare a tempo quella tale frutta secca.
- Ebbene! - esclamò Guido.
- Se il vecchio non vale piú di cosí, che valore potrà avere il giovine che non è altro che un suo scolaro?
Ecco finalmente un buon argomento, e tanto piú dispiacevole per me in quanto lo avevo fornito io con la mia chiacchiera imprudente.
Pochi giorni appresso, Augusta mi raccontò che Guido aveva proposto ad Ada di sopportare col suo denaro metà della perdita del bilancio.
Ada vi si rifiutava dicendo ad Augusta:
- Mi tradisce e vuole anche il mio denaro!
Augusta non aveva avuto il coraggio di consigliarle di darglielo, ma assicurava che aveva fatto del suo meglio per far ricredere Ada dal suo giudizio sulla fedeltà del marito.
Costei aveva risposto in modo da far ritenere ch'essa a quel proposito la sapesse piú lunga di quanto noi si credesse.
E Augusta con me ragionava cosí: - Per il marito bisogna saper portare qualunque sacrificio, ma valeva tale assioma anche per Guido?
Nei giorni seguenti il contegno di Guido si fece veramente straordinario.
Veniva in ufficio di tempo in tempo e non vi restava mai per piú di mezz'ora.
Correva via come chi ha dimenticato il fazzoletto a casa.
Seppi poi che andava a portare nuovi argomenti ad Ada che gli parevano decisivi per indurla a fare il voler suo.
Aveva veramente l'aspetto di persona che ha pianto troppo o troppo gridato o che s'è addirittura battuto, e neppure in nostra presenza arrivava a domare l'emozione che gli contraeva la gola e gli faceva venire le lacrime agli occhi.
Gli domandai che cosa avesse.
Mi rispose con un sorriso triste, ma amichevole per dimostrarmi che non l'aveva con me.
Poi si raccolse onde poter parlarmi senz'agitarsi di troppo.
Infine disse poche parole: Ada lo faceva soffrire con la sua gelosia.
Egli dunque mi raccontava che discutevano le loro storie intime mentre io pur sapevo che c'era anche quella storia del «conto utili e danni» fra di loro.
Ma pareva che questo non avesse importanza.
Me lo diceva lui e lo diceva anche Ada ad Augusta non parlandole d'altro che della sua gelosia.
Anche la violenza di quelle discussioni, che lasciava traccie tanto profonde sulla faccia di Guido, faceva credere dicessero il vero.
Invece poi risultò che fra' due coniugi non si parlò che della questione del denaro.
Ada per superbia e per quanto si facesse dirigere dai suoi dolori passionali, non li aveva mai menzionati, e Guido, forse per la coscienza della sua colpa e per quanto sentisse che in Ada imperversasse l'ira della donna, continuò a discutere gli affari come se il resto non esistesse.
Egli s'affannò sempre piú a correre dietro a quei denari, mentre lei, che non era affatto toccata da quistioni d'affari, protestava contro la proposta di Guido con un solo argomento: i denari dovevano restare ai bambini.
E quand'egli trovava altri argomenti, la sua pace, il vantaggio che sarebbe derivato ai bambini stessi dal suo lavoro, la sicurezza di trovarsi in regola con le prescrizioni di legge, essa lo saldava con un duro «No».
Ciò esasperava Guido e - come dai bambini - anche il suo desiderio.
Ma ambedue - quando ne parlavano ad altri - credevano di essere esatti asserendo di soffrire per amori e gelosie.
Fu una specie di malinteso che m'impedí d'intervenire a tempo per far cessare l'incresciosa quistione del denaro.
Io potevo provare a Guido ch'essa effettivamente mancava d'importanza.
Quale contabile sono un po' tardo e non capisco le cose che quando le ho distribuite nei libri, nero sul bianco, ma mi pare che presto io abbia capito che il versamento che Guido esigeva da Ada non avrebbe mutate di molto le cose.
A che serviva infatti di farsi fare un versamento di denari? La perdita cosí non appariva mica minore, a meno che Ada non avesse accettato di far getto del denaro in quella contabilità ciò che Guido non domandava.
La legge non si sarebbe mica lasciata ingannare al trovare che, dopo di aver perduto tanto, si voleva rischiare un po' di piú attirando nell'azienda dei nuovi capitalisti.
Una mattina Guido non si fece veder in ufficio ciò che ci sorprese perché sapevamo che la sera prima non era partito per la caccia.
A colazione appresi da Augusta commossa e agitata che Guido la sera prima aveva attentato alla propria vita.
Oramai era fuori di pericolo.
Devo confessare che la notizia, che ad Augusta sembrava tragica, a me fece rabbia.
Egli era ricorso a quel mezzo drastico per spezzare la resistenza della moglie! Appresi anche subito che l'aveva fatto con tutte le prudenze, perché prima di prendere la morfina se ne era fatta vedere la boccetta stappata in mano.
Cosí al primo torpore in cui cadde, Ada chiamò il medico ed egli fu subito fuori di pericolo.
Ada aveva passata una notte orrenda perché il dottore credette di dover fare delle riserve sull'esito dell'avvelenamento, eppoi la sua agitazione fu prolungata da Guido che, quando rinvenne, forse non ancora in piena coscienza, la colmò di rimproveri dicendola la sua nemica, la sua persecutrice, colei che gl'impediva il sano lavoro cui egli voleva accingersi.
Ada gli accordò subito il prestito ch'egli domandava, ma poi, finalmente, nell'intenzione di difendersi, parlò chiaro e gli fece tutti i rimproveri ch'essa tanto tempo aveva trattenuti.
Cosí arrivarono a intendersi perché a lui riuscí - cosí Augusta credeva - di dissipare in Ada ogni sospetto sulla sua fedeltà.
Fu energico e quando lei gli parlò di Carmen, egli gridò:
- Ne sei gelosa? Ebbene, se lo vuoi la mando via oggi stesso.
Ada non aveva risposto e credette cosí di avere accettata quella proposta e ch'egli vi si fosse impegnato.
Mi meravigliai che Guido avesse saputo comportarsi cosí nel dormiveglia e giunsi fino a credere ch'egli non avesse ingoiata neppure la piccola dose di morfina ch'egli diceva.
A me pareva che uno degli effetti degli annebbiamenti del cervello per sonno, fosse di sciogliere l'animo piú indurito, inducendolo alle piú ingenue confessioni.
Non ero io recente di una tale avventura? Ciò aumentò il mio sdegno e il mio disprezzo per Guido.
Augusta piangeva raccontando in quale stato avesse trovata Ada.
No! Ada non era piú bella con quegli occhi che sembravano spalancati dal terrore.
Fra me e mia moglie ci fu una lunga discussione se io avessi dovuto far subito una visita a Guido e Ada oppure se non fosse stato meglio di fingere di non saper di nulla e aspettare di rivederlo in ufficio.
A me quella visita sembrava una seccatura insopportabile.
Vedendolo, come avrei fatto di non dirgli l'animo mio? Dicevo:
- È un'azione indegna per un uomo! Io non ho alcuna voglia di ammazzarmi, ma non v'è dubbio che se decidessi di farlo vi riuscirei subito!
Sentivo proprio cosí e volevo dirlo ad Augusta.
Ma mi sembrava di far troppo onore a Guido paragonandolo a me:
- Non occorre mica essere un chimico per saper distruggere questo nostro organismo ch'è anche troppo sensibile.
Non c'è quasi ogni settimana, nella nostra città, la sartina che ingoia la soluzione di fosforo preparata in segreto nella sua povera stanzetta, e da quel veleno rudimentale, ad onta di ogni intervento, viene portata alla morte con la faccina ancora contratta dal dolore fisico e da quello morale che subí la sua animuccia innocente?
Augusta non ammetteva che l'anima della sartina suicida fosse tanto innocente, ma, fatta una lieve protesta, ritornò al suo tentativo d'indurmi a quella visita.
Mi raccontò che non dovevo temere di trovarmi in imbarazzo.
Essa aveva parlato anche con Guido il quale aveva trattato con lei con tanta serenità come se egli avesse commessa l'azione piú comune.
Uscii di casa senza dare la soddisfazione ad Augusta di mostrarmi convinto delle sue ragioni.
Dopo lieve esitazione mi avviai senz'altro a compiacere mia moglie.
Per quanto breve fosse il percorso, il ritmo del mio passo m'addusse ad una mitigazione del mio giudizio sul conto di Guido.
Ricordai la direzione segnatami dalla luce che pochi giorni prima aveva illuminato il mio animo.
Guido era un fanciullo, un fanciullo cui avevo promessa la mia indulgenza.
Se non gli riusciva di ammazzarsi prima, anche lui prima o poi sarebbe arrivato alla maturità.
La fantesca mi fece entrare in uno stanzino che doveva essere lo studio di Ada.
La giornata era fosca e il piccolo ambiente, con la sola finestra coperta da una fitta tenda, era buio.
Sulla parete v'erano i ritratti dei genitori di Ada e di Guido.
Vi restai poco perché la fantesca ritornò a chiamarmi e mi condusse da Guido e Ada nella loro stanza da letto.
Questa era vasta e luminosa anche quel giorno, per le sue due ampie finestre e per la tappezzeria e i mobili chiari.
Guido giaceva nel suo letto con la testa fasciata e Ada era seduta accanto a lui.
Guido mi ricevette senz'alcun imbarazzo, anzi con la piú viva riconoscenza.
Sembrava assonnato, ma per salutarmi eppoi darmi le sue disposizioni, seppe scotersi e apparire desto del tutto.
Indi s'abbandonò sul guanciale e chiuse gli occhi.
Ricordava che doveva simulare il grande effetto della morfina? Ad ogni modo faceva pietà e non ira ed io mi sentii molto buono.
Non guardai subito Ada: avevo paura della fisonomia di Basedow.
Quando la guardai, ebbi una gradevole sorpresa perché mi aspettavo di peggio.
I suoi occhi erano veramente ingranditi a dismisura, ma le gonfiezze che sulla sua faccia avevano sostituito le guancie, erano sparite e a me essa parve piú bella.
Vestiva un'ampia veste rossa, chiusa fino al mento, nella quale il suo povero corpicciuolo si perdeva.
C'era in lei qualcosa di molto casto e, per quegli occhi, qualche cosa di molto severo.
Non seppi chiarire del tutto i miei sentimenti, ma davvero pensai mi stesse accanto una donna che assomigliava a quell'Ada che io avevo amata.
A un certo momento Guido spalancò gli occhi, trasse di sotto al guanciale un assegno su cui subito vidi la firma di Ada, me lo consegnò, mi pregò di farlo incassare e di accreditarne l'importo in un conto che dovevo aprire al nome di Ada.
- Al nome di Ada Malfenti o Ada Speier? - domandò scherzosamente ad Ada.
Essa si strinse nelle spalle e disse:
- Lo saprete voi due come sia meglio.
- Ti dirò poi come devi fare le altre registrazioni, - aggiunse Guido con una brevità che mi offese.
Ero sul punto di interrompergli la sonnolenza cui s'era subito abbandonato, dichiarandogli che se voleva delle registrazioni se le facesse da sé.
Intanto fu portata una grande tazza di caffè nero che Ada gli porse.
Egli trasse le braccia di sotto le coperte e con ambe le mani si portò la tazza alla bocca.
Ora, col naso nella tazza, pareva proprio un bambino.
Quando mi congedai, egli m'assicurò che il giorno seguente sarebbe venuto in ufficio.
Io avevo già salutata Ada e perciò fui non poco sorpreso quand'essa mi raggiunse alla porta d'uscita.
Ansava:
- Te ne prego, Zeno! Vieni qui per un istante.
Ho bisogno di dirti una cosa.
La seguii nel salottino ove ero stato poco prima e da cui adesso si sentiva il pianto di uno dei gemelli.
Restammo in piedi guardandoci in faccia.
Essa ansava ancora e per questo, solo per questo, io per un momento pensai che m'avesse fatto entrare in quella stanzuccia buia per domandarmi l'amore che le avevo offerto.
Nell'oscurità i suoi grandi occhi erano terribili.
Pieno d'angoscia mi domandavo quello che avrei dovuto fare.
Non sarebbe stato mio dovere di prenderla fra le mie braccia e risparmiarle cosí di dover domandarmi qualche cosa? In un istante quale avvicendarsi di propositi! È una delle grandi difficoltà della vita d'indovinare ciò che una donna vuole.
Ascoltarne le parole non serve, perché tutto un discorso può essere annullato da uno sguardo e neppure questo sa dirigerci quando ci si trova con lei, per suo volere, in una comoda buia stanzuccia.
Non sapendo indovinare lei, io tentavo d'intendere me stesso.
Quale era il mio desiderio? Volevo baciare quegli occhi e quel corpo scheletrico? Non sapevo dare una risposta decisa perché poco prima l'avevo vista nella severa castità di quella soffice vestaglia, desiderabile come la fanciulla ch'io avevo amata.
Alla sua ansia s'era intanto associato anche il pianto e cosí s'allungò il tempo in cui io non sapevo quello ch'ella volesse e che io desiderassi.
Finalmente, con voce spezzata, essa mi disse ancora una volta il suo amore per Guido, cosí ch'io non ebbi piú con lei né doveri né diritti.
Balbettò:
- Augusta m'ha detto che tu vorresti lasciare Guido e non occuparti piú dei fatti suoi.
Devo pregarti di continuare ad assisterlo.
Io non credo ch'egli sia in grado di fare da sé.
Mi domandava di continuare a fare quello che già facevo.
Era poco, ben poco ed io tentai di concedere di piú:
- Giacché lo vuoi, continuerò ad assistere Guido; farò anzi del mio meglio per assisterlo piú efficacemente di quanto non abbia fatto finora.
Ecco di nuovo l'esagerazione! Me ne avvidi nello stesso momento in cui v'incappavo, ma non seppi rinunziarvi.
Io volevo dire ad Ada (o forse mentirle) che ella mi premeva.
Essa non voleva il mio amore, ma il mio appoggio ed io le parlavo in modo che potesse credere ch'io ero pronto a concederle ambedue.
Ada m'afferrò subito la mano.
Ebbi un brivido.
Offre molto una donna porgendo la mano! Ho sempre sentito questo.
Quando mi fu concessa una mano mi parve di afferrare tutta una donna.
Sentii la sua statura e nell'evidente confronto fra la mia e la sua, mi parve di fare atto somigliante all'abbraccio.
Certo fu un contatto intimo.
Ella soggiunse:
- Io devo ritornare subito a Bologna in casa di salute e mi sarà di grande tranquillità di saperti con lui.
- Resterò con lui! - risposi con aspetto rassegnato.
Ada dovette credere che quel mio aspetto di rassegnazione significasse il sacrificio ch'io consentivo di farle.
Invece io stavo rassegnandomi a ritornare ad una vita molto ma molto comune, visto ch'essa non ci pensava di seguirmi in quella d'eccezione ch'io avevo sognata.
Feci uno sforzo per discendere del tutto a terra, e scopersi immediatamente nella mia mente un problema di contabilità non semplice.
Dovevo accreditare dell'importo dell'assegno che tenevo in tasca il conto di Ada.
Questo era chiaro e invece non chiaro affatto come tale registrazione avrebbe potuto toccare il conto Utili e Danni.
Non ne dissi nulla per il dubbio che forse Ada non sapesse che c'era a questo mondo un libro mastro contenente dei conti di sí varia natura.
Ma non volli uscire da quella stanza senz'aver detto altro.
Fu cosí che invece di parlare di contabilità, dissi una frase che in quel momento gettai lí negligentemente solo per dire qualche cosa, ma che poi sentii di grande importanza per me per Ada e per Guido, ma prima di tutto per me stesso che compromisi una volta di piú.
Tanto importante fu quella frase che per lunghi anni ricordai come, con movimento trascurato, avessi mosse le labbra per dirla in quello stanzino buio in presenza dei quattro ritratti dei genitori di Ada e Guido sposatisi anch'essi fra di loro sulla parete.
Dissi:
- Hai finito con lo sposare un uomo ancora piú bizzarro di me, Ada!
Come la parola sa varcare il tempo! Essa stessa avvenimento che si riallaccia agli avvenimenti! Diveniva avvenimento, tragico avvenimento, perché diretta ad Ada.
Nel mio pensiero non avrei mai saputo evocare con tanta vivacità l'ora in cui Ada aveva scelto fra me e Guido su quella via soleggiata ove, dopo giorni di attesa, avevo saputo incontrarla per camminarle accanto e affaticarmi di conquistare il suo riso che scioccamente accoglievo come una promessa! E ricordai anche che allora io ero già reso inferiore per l'imbarazzo dei muscoli delle mie gambe mentre Guido si moveva ancora piú disinvolto di Ada stessa e non era segnato da alcuna inferiorità se come tale non si avesse dovuto considerare quello strano bastone ch'egli si adattava di portare.
Essa disse a bassa voce:
- È vero!
Poi, sorridendo affettuosamente:
- Ma sono lieta per Augusta che tu sia stato tanto migliore di quanto ti credevo.
- Poi, con un sospiro: - Tanto, che mi attenua un poco il dolore che Guido non sia quello che io m'aspettavo.
Io tacevo sempre, ancora dubbioso.
Mi pareva che m'avesse detto che io fossi divenuto quello ch'essa si era aspettata dovesse divenire Guido.
Era dunque amore? Ed essa disse ancora:
- Sei il migliore uomo della nostra famiglia, la nostra fiducia, la nostra speranza.
- Mi riafferrò la mano e io la serrai forse troppo.
Essa me la sottrasse però tanto presto, che fu dissipato ogni dubbio.
E in quella buia stanzuccia io seppi di nuovo come dovevo comportarmi.
Forse per attenuare il suo atto mi mandò un'altra carezza: - È perché ti so cosí che mi dolgo tanto di averti fatto soffrire.
Hai veramente sofferto tanto?
Io ficcai subito l'occhio nell'oscurità del mio passato per ritrovare quel dolore e mormorai:
- Sí!
A poco a poco ricordai il violino di Guido eppoi come m'avrebbero gettato fuori di quel salotto se non mi fossi aggrappato ad Augusta, e poi ancora il salotto in casa Malfenti, ove intorno al tavolino Luigi XIV si faceva all'amore mentre dall'altro tavolino si guardava.
Improvvisamente ricordai anche Carla perché anche con lei c'era stata Ada.
Allora sentii viva la voce di Carla che mi diceva ch'io appartenevo a mia moglie, cioè ad Ada.
Ripetei, mentre le lacrime mi salivano agli occhi:
- Molto! Sí! Molto!
Ada singhiozzava addirittura: - Mi dispiace tanto, tanto!
Si fece forza e disse:
- Ma adesso tu ami Augusta!
Un singhiozzo l'interruppe per un istante ed io trasalii non sapendo se essa si fosse fermata per sentire se io avrei affermato o negato quell'amore.
Per mia fortuna non mi diede il tempo di parlare perché continuò:
- Adesso c'è fra noi due e dev'esserci un vero affetto fraterno.
Io ho bisogno di te.
Per quel ragazzo di là, io ormai dovrò essere una madre, dovrò proteggerlo.
Vuoi aiutarmi nel mio difficile compito?
Nella sua grande emozione ella quasi s'appoggiava a me, come nel sogno.
Ma io m'attenni alle sue parole.
Mi domandava un affetto fraterno; l'impegno di amore che pensavo mi legasse a lei si trasformava cosí in un altro suo diritto, epperò le promisi subito di aiutare Guido, di aiutare lei, di fare quello che avrebbe voluto.
Se fossi stato piú sereno avrei dovuto parlare della mia insufficienza al compito ch'essa m'assegnava, ma avrei distrutta tutta l'indimenticabile emozione di quel momento.
Del resto ero tanto commosso che non potevo sentire la mia insufficenza.
In quel momento pensavo che non esistessero affatto per nessuno delle insufficienze.
Anche quella di Guido poteva essere soffiata via con alcune parole che gli dessero il necessario entusiasmo.
Ada m'accompagnò sul pianerottolo e restò lí, appoggiata alla ringhiera, a vedermi scendere.
Cosí aveva fatto sempre Carla, ma era strano lo facesse Ada che amava Guido, ed io gliene fui tanto grato che, prima di passare alla seconda branca della scala, alzai anche una volta il capo per vederla e salutarla.
Cosí si faceva in amore ma, si vedeva, anche quando si trattava di amore fraterno.
Cosí me ne andai via lieto.
Essa m'aveva accompagnato fino su quel pianerottolo, e non oltre.
Non v'erano piú dubbii.
Restavamo cosí: io l'avevo amata ed ora amavo Augusta, ma il mio antico amore le dava il diritto alla mia devozione.
Essa poi continuava ad amare quel fanciullo, ma riservava a me un grande affetto fraterno e non solo perché avevo sposata sua sorella, ma per indennizzarmi dei dolori che m'aveva procurati e che costituivano un legame segreto fra di noi.
Tutto ciò era ben dolce, di un sapore raro in questa vita.
Tanta dolcezza non avrebbe potuto darmi una vera salute? Infatti io camminai quel giorno senza imbarazzo e senza dolori, mi sentii magnanimo e forte e nel cuore un sentimento di sicurezza che m'era nuovo.
Dimenticai di aver tradito mia moglie ed anche nel modo piú sconcio oppure mi proposi di non farlo piú ciò che si equivale, e mi sentii veramente quale Ada mi voleva, l'uomo migliore della famiglia.
Allorché tanto eroismo s'affievolí, io avrei voluto ravvivarlo, ma intanto Ada era partita per Bologna ed ogni mio sforzo per trarre un nuovo stimolo da quanto essa m'aveva già detto restava vano.
Sí! Avrei fatto quel poco che potevo per Guido, ma un proposito simile non aumentava né l'aria nei miei polmoni né il sangue nelle mie vene.
Per Ada mi rimase nel cuore una grande nuova dolcezza rinnovata ogni qualvolta essa nelle sue lettere ad Augusta mi ricordava con qualche parola affettuosa.
Le ricambiavo di cuore il suo affetto e accompagnavo la sua cura coi voti migliori.
Magari le fosse riuscito di riconquistare tutta la sua salute e tutta la sua bellezza!
Il giorno seguente, Guido venne in ufficio e si mise subito a studiare le registrazioni ch'egli voleva fare.
Propose:
- Storniamo ora il Conto Utili e Danni a metà con quello di Ada.
Era proprio questo ch'egli voleva e che non serviva a nulla.
Se io fossi stato l'esecutore indifferente della sua volontà come lo ero stato fino a pochi giorni prima, con tutta semplicità avrei eseguite quelle registrazioni e non ci avrei pensato piú.
Invece sentii il dovere di dirgli tutto; mi pareva di stimolarlo al lavoro facendogli sapere che non era tanto facile di cancellare la perdita in cui si era incorsi.
Gli spiegai che a quanto ne sapevo io, Ada aveva dato quel denaro perché fosse posto a suo credito nel suo conto e ciò non avveniva piú se noi lo saldavamo ficcandoci dentro, dall'altra parte, metà della perdita del bilancio.
Poi, che la parte della perdita ch'egli voleva trasportare nel conto proprio, vi apparteneva e vi avrebbe anzi appartenuta tutta, ma ciò non era il suo annullamento e invece la constatazione della stessa.
Ci avevo pensato tanto che m'era facile di spiegargli tutto, e conclusi:
- Ammettendo che si capitasse - cosí non voglia Iddio! - nelle circostanze previste dall'Olivi, la perdita sarebbe tuttavia risultata evidente dai nostri libri, non appena fossero stati visti da un perito pratico.
Egli mi guardava attonito.
Sapeva abbastanza di contabilità per intendermi e invece non ci arrivava perché il desiderio gl'impediva di adattarsi all'evidenza.
Poi aggiunsi, per fargli veder chiaramente tutto:
- Vedi che non c'era nessuno scopo che Ada facesse tale versamento?
Quando finalmente comprese, impallidí fortemente e si mise a rosicchiarsi nervosamente le unghie.
Restò trasognato, ma volle vincersi e con quel suo comico fare di comandante, dispose che tuttavia quelle registrazioni fossero fatte, aggiungendo:
- Per esonerarti di ogni responsabilità sono disposto di scrivere io nei libri e magari di firmare!
Compresi! Voleva continuare a sognare in luogo ove non c'è posto a sogni: la partita doppia!
Ricordai quanto avevo promesso a me stesso là sull'erta di via Belvedere, eppoi ad Ada, nel salottino buio di casa sua e parlai generosamente:
- Farò subito le registrazioni che desideri: non sento il bisogno di essere difeso dalla tua firma.
Sono qui per aiutarti, non per ostacolarti!
Egli mi strinse affettuosamente la mano:
- La vita è difficile - disse - ed è un grande conforto per me di avere accanto un amico quale sei tu.
Ci guardammo commossi negli occhi.
I suoi lucevano.
Per sottrarmi alla commozione che minacciava anche me, dissi ridendo:
- La vita non è difficile, ma molto originale.
Ed anche lui rise di cuore.
Poi egli mi restò accanto per vedere come avrei saldato quel Conto Utili e Danni.
Fu fatto in pochi minuti.
Quel conto morí, ma trascinò nel nulla anche il conto di Ada a cui però notammo il credito in un libercolo, per il caso in cui ogni altra testimonianza in seguito a qualche cataclisma fosse sparita e per avere l'evidenza che dovevamo pagarle gl'interessi.
L'altra metà del Conto Utili e Danni andò ad aumentare il Dare già considerevole del conto di Guido.
Per loro natura i contabili sono un genere di animali molto disposti all'ironia.
Facendo quelle registrazioni io pensavo: «Un conto - quello intitolato agli utili e danni - era morto ammazzato, l'altro - quello di Ada - era morto di morte naturale perché non ci riusciva di tenerlo in vita e invece non sapevamo ammazzare quello di Guido, ch'essendo di un debitore dubbioso, tenuto cosí, era una vera tomba aperta nella nostra azienda».
Di contabilità si continuò a parlare per lungo tempo, in quell'ufficio.
Guido s'arrabattava per trovare un altro modo che avesse potuto proteggerlo meglio da eventuali insidie (cosí egli le chiamava) della legge.
Io credo che egli abbia anche consultato qualche contabile perché un giorno venne in ufficio a propormi di distruggere i libri vecchi dopo averne fatti di nuovi sui quali avremmo registrata una vendita falsa ad un nome qualunque che avrebbe poi figurato di averla pagata con l'importo prestato da Ada.
Era doloroso dover disilluderlo perché era corso all'ufficio animato da una tanta speranza! Proponeva una falsificazione che proprio mi ripugnava.
Finora non avevamo fatto altro che spostare delle realtà minacciando di danneggiare chi implicitamente vi aveva dato il suo consenso.
Ora, invece, egli voleva inventare dei movimenti di merci.
Vedevo anch'io che cosí e solo cosí, si poteva cancellare ogni traccia della perdita subita ma a quale prezzo! Bisognava anche inventare il nome del compratore o prendere il consenso di chi volevamo far figurare come tale.
Non avevo niente in contrario di veder distruggere i libri che pur avevo scritti con tanta cura, ma era seccante farne di nuovi.
Feci delle obbiezioni che finirono col convincere Guido.
Una fattura non si simula facilmente.
Bisognerebbe saper falsificare anche i documenti comprovanti l'esistenza e la proprietà della merce.
Egli rinunziò al suo piano, ma il giorno seguente capitò in ufficio con un altro piano che anch'esso implicava la distruzione dei libri vecchi.
Stanco di veder intralciato ogni altro lavoro da discussioni simili, protestai:
- Vedendo che ci pensi tanto, si crederebbe tu voglia proprio prepararti al fallimento! Altrimenti quale importanza può aver una diminuzione tanto esigua del tuo capitale? Finora nessuno ha il diritto di guardare nei tuoi libri.
Bisogna ora lavorare, lavorare e non occuparsi di sciocchezze.
Mi confessò che quel pensiero era la sua ossessione.
E come avrebbe potuto essere altrimenti? Con un po' di sfortuna poteva incappare dritto dritto in quella sanzione penale e finire in carcere!
Dai miei studi giuridici io sapevo che l'Olivi aveva esposto con grande esattezza quali fossero i doveri di un commerciante che ha fatto un simile bilancio, ma per liberare Guido e anche me da tale ossessione, lo consigliai di consultare qualche avvocato amico.
Mi rispose di averlo già fatto ossia di non essere stato da un avvocato espressamente a quello scopo perché non voleva confidare nemmeno ad un avvocato quel suo segreto, ma di aver fatto ciarlare un avvocato suo amico col quale s'era trovato a caccia.
Sapeva perciò che l'Olivi non aveva né sbagliato né esagerato...
purtroppo!
Vedendone l'inanità, cessò dal fare delle scoperte per falsare la sua contabilità, ma non perciò riacquistò la calma.
Ogni qualvolta veniva in ufficio si rabbuiava guardando i suoi libroni.
Mi confessò, un giorno, che entrando nella nostra stanza gli era parso di trovarsi nell'anticamera della galera e avrebbe voluto correr via.
Un giorno mi domandò:
- Augusta sa tutto del nostro bilancio?
Arrossii perché nella domanda mi parve sentire un rimprovero.
Ma evidentemente se Ada sapeva del bilancio poteva saperne anche Augusta.
Non pensai subito cosí, ma mi parve invece di meritare il rimprovero che egli intendeva di muovermi.
Perciò mormorai:
- L'avrà saputo da Ada o forse da Alberta cui Ada l'avrà detto!
Rivedevo tutti i rigagnoli che potevano condurre ad Augusta e non mi pareva con ciò di negare che essa avesse avuto tutto dalla prima fonte, cioè da me, ma di asserire che sarebbe stato inutile per me di tacere.
Peccato! Se avessi invece confessato subito ch'io con Augusta non avevo segreti, mi sarei sentito tanto piú leale e onesto! Un lieve fatto cosí, cioè la dissimulazione di un atto che sarebbe stato meglio di confessare e proclamare innocente, basta ad imbarazzare la piú sincera amicizia.
Registro qui, quantunque non abbia avuto alcun'importanza né per Guido né per la mia storia, il fatto che alcuni giorni appresso, quel chiacchierone di sensale col quale avevamo avuto da fare per il solfato di rame, mi fermò per istrada e, guardandomi dal basso in alto, come ve lo obbligava la sua bassa statura ch'egli sapeva esagerare abbassandosi sulle gambe, mi disse ironicamente:
- Si dice che abbiate fatti degli altri buoni affari come quello del solfato!
Poi, vedendomi allibire, mi strinse la mano e soggiunse:
- Per conto mio io vi auguro i migliori affari.
Spero non ne dubiterete!
E mi lasciò.
Io suppongo che i fatti nostri gli sieno stati riferiti dalla figliuola sua che frequentava al Liceo la stessa classe della piccola Anna.
Non riferii a Guido la piccola indiscrezione.
Il mio compito precipuo era di difenderlo da inutili angustie.
Fui stupito che Guido non prendesse alcuna disposizione per Carmen, perché sapevo che aveva formalmente promesso alla moglie di congedarla.
Io credevo che Ada sarebbe ritornata a casa dopo qualche mese come la prima volta.
Ma essa, senza passare per Trieste, si recò invece a soggiornare in una villetta sul Lago Maggiore ove poco dopo Guido le portò i bambini.
Ritornato da quel viaggio e non so se egli avesse ricordata la sua promessa da sé oppure che Ada gliel'avesse richiamata alla mente - mi domandò se non sarebbe stato possibile di impiegare Carmen nel mio ufficio, cioè in quello dell'Olivi.
Io sapevo già che in quell'ufficio tutti i posti erano occupati, ma visto che Guido me ne pregava calorosamente, acconsentii di andar a parlarne col mio amministratore.
Per un caso fortunato, un impiegato dell'Olivi se ne andava proprio in quei giorni, ma aveva una paga inferiore di quella che era stata concessa a Carmen negli ultimi mesi con grande liberalità da Guido il quale, secondo me, faceva cosí pagare le sue donne dal Conto Spese Generali.
Il vecchio Olivi s'informò da me sulla capacità di Carmen e per quanto io gli dessi le migliori informazioni, offerse di prenderla intanto alle stesse condizioni dell'impiegato congedato.
Riferii ciò a Guido il quale afflitto e imbarazzato si grattò la testa.
- Come si fa ad offrirle un salario inferiore di quello che percepisce? Non si potrebbe indurre l'Olivi di arrivare a concederle intanto quello che ha già?
Io sapevo che non si poteva eppoi l'Olivi non usava considerarsi sposato con i suoi impiegati come facevamo noi.
Quando si fosse accorto che Carmen avesse meritata una corona di meno della paga concessale, gliel'avrebbe levata senza misericordia.
E si finí col restare cosí: l'Olivi non ebbe e non chiese neppure mai una risposta decisiva e Carmen continuò a far roteare i suoi begli occhi nel nostro ufficio.
Fra me e Ada c'era un segreto e restava importante proprio perché rimaneva un segreto.
Essa scriveva assiduamente ad Augusta, ma mai le raccontò di aver avute delle spiegazioni con me e neppure di avermi raccomandato Guido.
Neppure io ne parlai.
Un giorno Augusta mi fece vedere una lettera di Ada che mi riguardava.
Essa domandava prima notizie di me e finiva con l'appellarsi alla mia bontà perché le dicessi qualche cosa sull'andamento degli affari di Guido.
Mi turbai quando sentii ch'essa si dirigeva a me e mi rasserenai quando vidi che come al solito si dirigeva a me per informarsi di Guido.
Di nuovo non avevo da osare niente.
D'accordo con Augusta e senza parlarne a Guido, scrissi io a Ada.
Mi misi al tavolo col proposito di scriverle veramente una lettera di affari e le comunicai ch'ero tanto contento del modo come ora Guido dirigeva gli affari, cioè con assiduità e accortezza.
Ciò era vero o almeno ero contento di lui quel giorno, poiché gli era riuscito di guadagnare del denaro vendendo della merce che teneva depositata in città da varii mesi.
Era pur vero che egli sembrava piú assiduo, ma andava tuttavia ogni settimana a caccia e a pesca.
Io esageravo volontieri nella mia lode perché cosí mi pareva di giovare alla guarigione di Ada.
Rilessi la lettera e non mi bastò.
Ci mancava qualche cosa.
Ada s'era rivolta a me ed era certo che voleva anche mie notizie.
Perciò mancavo di cortesia non dandogliene.
E a poco a poco - lo ricordo come se mi avvenisse ora - mi sentii imbarazzato a quel tavolo come se mi fossi trovato di nuovo faccia a faccia con Ada, in quello stanzino buio.
Dovevo stringere molto la manina offertami?
Scrissi ma poi dovetti rifare la lettera perché m'ero lasciato sfuggire parole addirittura compromettenti: anelavo di rivederla e speravo riconquistasse tutta la sua salute e tutta la sua bellezza.
Questo poi significava prendere per la vita la donna che m'aveva offerta solo la mano.
Il mio dovere era di stringere solo quella manina, stringerla dolcemente e lungamente per significare che intendevo tutto, tutto quello che non doveva essere detto giammai.
Non dirò tutto il frasario che passai in rivista per trovarci qualche cosa che potesse sostituire quella stretta di mano lunga e dolce e significativa, ma soltanto quelle frasi che poi scrissi.
Parlai lungamente della vecchiaia incombente su di me.
Non potevo stare un momento tranquillo senz'invecchiare.
Ad ogni giro del mio sangue qualche cosa s'aggiungeva alle mie ossa e alle mie vene che significava vecchiaia.
Ogni mattina, quando mi destavo, il mondo appariva piú grigio ed io non me ne accorgevo perché tutto restava intonato; non v'era in quel giorno neppure una pennellata del colore del giorno prima, altrimenti l'avrei scorta ed il rimpianto m'avrebbe fatto disperare.
Mi ricordo benissimo di aver spedita la lettera con piena soddisfazione.
Non m'ero affatto compromesso con quelle parole, ma mi pareva anche certo che se il pensiero di Ada fosse stato uguale al mio, essa avrebbe compresa quella stretta di mano amorosa.
Ci voleva poco acume per indovinare che quella lunga disquisizione sulla vecchiaia non significava altro che il mio timore che trovandomi in corsa traverso il tempo, non potessi piú essere raggiunto dall'amore.
Pareva gridassi all'amore: «Vieni, vieni!» Invece non sono sicuro di aver voluto quell'amore e, se v'è un dubbio, risulta solo dal fatto che so di aver scritto circa cosí.
Per Augusta feci una copia di quella lettera lasciandone fuori la disquisizione sulla vecchiaia.
Essa non l'avrebbe intesa, ma la prudenza non nuoce.
Avrei potuto arrossire sentendo com'essa mi guardava mentre io stringevo la mano della sorella! Sí! Io sapevo ancora arrossire.
E arrossii anche quando ricevetti un biglietto di ringraziamento di Ada in cui essa non menzionava affatto le mie chiacchiere sulla mia vecchiaia.
Mi parve ch'essa si compromettesse molto di piú con me di quanto io mai mi fossi compromesso con lei.
Non sottraeva la sua manina alla mia pressione.
La lasciava giacere inerte nella mia e, per la donna, l'inerzia è un modo di consentire.
Pochi giorni dopo di aver scritta quella lettera, scopersi che Guido s'era messo a giocare in Borsa.
Lo appresi per un'indiscrezione del sensale Nilini.
Io conoscevo costui da lunghi anni perché eravamo stati condiscepoli al liceo ch'egli aveva dovuto abbandonare per entrare subito nell'ufficio di un suo zio.
Ci eravamo poi rivisti qualche volta, e ricordo che la differenza del nostro destino aveva costituito nei nostri rapporti una mia superiorità.
Mi salutava allora per primo e talvolta cercava di avvicinarmi.
Ciò mi sembrava naturale, e invece m'apparve meno spiegabile quando in un'epoca che non so precisare egli si fece con me molto altezzoso.
Non mi salutava piú e a pena a pena rispondeva al saluto mio.
Me ne preoccupai un poco perché la mia cute è molto sensibile ed è facilmente scalfita.
Ma che farci? Forse m'aveva scoperto nell'ufficio di Guido ove gli pareva occupassi un posto di subalterno e mi spregiava perciò, o, con la stessa probabilità, si poteva supporre ch'essendo morto un suo zio e lasciatolo indipendente sensale di Borsa, fosse montato in superbia.
Nei piccoli ambienti ci sono frequentemente di simili relazioni.
Senza che ci sia stato un atto nemico, ci si guarda un bel giorno con avversione e disprezzo.
Fui sorpreso perciò di vederlo entrare nell'ufficio, ove mi trovavo solo, e domandare di Guido.
S'era levato il cappello e m'aveva porta la mano.
Poi s'era subito abbandonato con grande libertà su una delle nostre grandi poltrone.
Io lo guardai con interessamento.
Non lo avevo visto da anni tanto da vicino ed ora, con l'avversione che mi manifestava, si era conquistata la mia piú intensa attenzione.
Egli aveva allora circa quarant'anni ed era ben brutto per una calvizie quasi generale interrotta da un'oasi di capelli neri e fitti alla nuca e un'altra alle tempie, la faccia gialla e troppo ricca di pelle ad onta del grosso naso.
Era piccolo e magro e si ergeva come poteva, tanto che quando parlavo con lui mi sentivo un lieve dolore simpatico al collo, la sola simpatia che provassi per lui.
Quel giorno mi parve che si trattenesse dal ridere e che la sua faccia fosse contratta da un'ironia o da un disprezzo che non poteva ferire me, visto ch'egli m'aveva salutato con tanta gentilezza.
Invece poi scopersi che quell'ironia gli era stata stampata in faccia da madre natura bizzarra.
Le sue piccole mascelle non combaciavano esattamente e fra di esse, da una parte della bocca, era rimasto un buco nel quale abitava stereotipata la sua ironia.
Forse per conformarsi alla maschera da cui non sapeva liberarsi che allorquando sbadigliava, egli amava deridere il prossimo.
Non era affatto uno sciocco e lanciava delle frecciate velenose, ma di preferenza agli assenti.
Ciarlava molto ed era immaginoso specie per affari di Borsa.
Parlava della Borsa come se si fosse trattato di una sola persona ch'egli descriveva trepidante per una minaccia o addormentata nell'inerzia e con una faccia che sapeva ridere e anche piangere.
Egli la vedeva salire la scala dei corsi ballando o scenderne a rischio di precipitare, eppoi l'ammirava come accarezzava un valore, come ne strangolava un altro, oppure anche come insegnava alla gente la moderazione e l'attività.
Perché solo chi aveva del senno poteva trattare con lei.
V'erano tanti di quei denari sparsi per terra in Borsa, ma chinarsi a raccoglierli non era facile.
Lo lasciai attendere dopo di avergli offerta una sigaretta e mi diedi da fare con certa corrispondenza.
Dopo un po' di tempo egli si stancò e disse che non poteva restare di piú.
Del resto era venuto solo per raccontare a Guido che certe azioni dallo strano nome di Rio Tinto e di cui egli a Guido aveva consigliato l'acquisto il giorno prima - sí, proprio ventiquattr'ore prima - erano quel giorno balzate in alto di circa il dieci per cento.
Si mise a ridere di cuore.
- Intanto che noi parliamo qui, ossia che io attendo, il dopo-Borsa avrà fatto il resto.
Se il signor Speier ora volesse comperare quelle azioni chissà a quale prezzo dovrebbe pagarle.
Come ho indovinato io dove mirava la Borsa.
Si vantò del suo colpo d'occhio dovuto alla sua lunga intimità con la Borsa.
S'interruppe per domandarmi:
- Chi credi istruisca meglio: l'Università o la Borsa?
La sua mandibola calò ancora un poco e il buco dell'ironia s'ingrandí.
- Evidentemente la Borsa! - dissi io con convinzione.
Ciò mi valse da lui una stretta di mano affettuosa quando mi lasciò.
Dunque Guido giocava in Borsa! Se fossi stato piú attento avrei potuto indovinarlo prima, perché quando io gli avevo presentato un conto esatto degli importi non insignificanti che avevamo guadagnati con gli ultimi nostri affari, egli lo aveva guardato sorridendo, ma con qualche disprezzo.
Trovava che avevamo dovuto lavorare troppo per guadagnare quel denaro.
E si noti che con qualche decina di quegli affari si avrebbe potuto coprire la perdita in cui eravamo incorsi l'anno precedente! Che cosa dovevo far ora, io che pochi giorni prima avevo scritte le sue lodi?
Poco dopo Guido venne in ufficio ed io fedelmente gli riferii le parole del Nilini.
Stette a sentire con tanta ansietà che neppure si accorse che io avevo cosí appreso ch'egli giocava, e corse via.
Alla sera ne parlai con Augusta, che ritenne si dovesse lasciare in pace Ada e invece avvisare la signora Malfenti dei pericoli cui s'esponeva Guido.
Mi domandò di fare anch'io del mio meglio per impedirgli spropositi.
Preparai lungamente le parole che dovevo dirgli.
Finalmente attuavo i miei propositi di bontà attiva e mantenevo la promessa che avevo fatta ad Ada.
Sapevo come dovevo afferrare Guido per indurlo ad obbedirmi.
Ognuno commette una leggerezza, - gli avrei spiegato, - giocando in Borsa, ma piú di tutti un commerciante che abbia un simile bilancio dietro di sé.
Il giorno seguente cominciai benissimo:
- Tu dunque ora giochi alla Borsa? Vuoi finire in carcere? - gli domandai severamente.
Ero preparato ad una scena e tenevo anche in serbo la dichiarazione che giacché egli procedeva in modo da compromettere la ditta, io avrei abbandonato senz'altro l'ufficio.
Guido seppe disarmarmi subito.
Avevo tenuto sinora il segreto, ma ora, con un abbandono da buon ragazzo, mi disse ogni particolare di quei suoi affari.
Lavorava in valori minerarii di non so che paese, che gli avevano già dato un utile che quasi sarebbe bastato a coprire la perdita del nostro bilancio.
Oramai era cessato ogni rischio e poteva raccontarmi tutto.
Quando avesse avuta la sfortuna di perdere quello che aveva guadagnato, avrebbe semplicemente cessato di giocare.
Se invece la fortuna avesse continuato ad assisterlo, si sarebbe affrettato di mettere in regola le mie registrazioni di cui sentiva sempre la minaccia.
Vidi che non era il caso di arrabbiarsi e che si doveva invece congratularsi con lui.
In quanto alle questioni di contabilità, gli dissi che poteva oramai essere tranquillo, perché ove c'era disponibile del contante era facilissimo di regolare la contabilità piú fastidiosa.
Quando nei nostri libri fosse stato reintegrato come di diritto il conto di Ada e almeno diminuito quello ch'io dicevo l'abisso della nostra azienda, cioè il conto di Guido, la nostra contabilità non avrebbe fatta una grinza.
Poi gli proposi di fare tale regolazione subito e mettere in conto della ditta le operazioni di Borsa.
Per fortuna egli non accettò perché altrimenti io sarei divenuto il contabile del giocatore e mi sarei addossata una maggiore responsabilità.
Cosí invece le cose procedettero come se io non avessi esistito.
Egli rifiutò la mia proposta con delle ragioni che mi parvero buone.
Era di malaugurio di pagare cosí subito i suoi debiti ed è una superstizione divulgatissima a tutti i tavoli da giuoco che il denaro altrui porti fortuna.
Io non ci credo, ma quando giuoco non trascuro neppur io alcuna prudenza.
Per un certo tempo mi feci dei rimproveri di aver accolte le comunicazioni di Guido senz'alcuna protesta.
Ma quando vidi comportarsi allo stesso modo la signora Malfenti che mi raccontò come suo marito aveva saputo guadagnare dei bei denari alla borsa, eppoi anche Ada, dalla quale sentii considerare il giuoco come un qualsiasi genere di commercio, compresi che assolutamente a questo riguardo non si avrebbe potuto movermi alcun rimprovero.
Per arrestare Guido su quella china non sarebbe bastata la mia protesta che non avrebbe avuta alcun'efficacia se non fosse stata appoggiata da tutti i membri della famiglia.
Fu cosí che Guido continuò a giocare, e tutta la sua famiglia con lui.
Ero anch'io della comitiva, tant'è vero ch'entrai in una relazione d'amicizia alquanto curiosa col Nilini.
È sicuro ch'io non potevo soffrirlo perché lo sentivo ignorante e presuntuoso, ma pare che per riguardo a Guido, che da lui aspettava i buoni consigli, sapessi celare tanto bene i miei sentimenti ch'egli finí col credere di avere in me un amico devoto.
Non nego che forse la mia gentilezza con lui fosse anche dovuta al desiderio di evitare quel malessere che m'aveva dato la sua inimicizia, tanto forte causa quell'ironia che rideva sulla sua brutta faccia.
Ma non gli usai mai altre gentilezze fuori di quella di porgergli la mano e il saluto quando veniva e se ne andava.
Egli invece fu gentilissimo ed io non seppi non accettare le sue cortesie con gratitudine, ciò ch'è veramente la massima gentilezza che si possa usare a questo mondo.
Mi procurava delle sigarette di contrabbando e me le faceva pagare quello che gli costavano, cioè molto poco.
Se mi fosse stato piú simpatico avrebbe potuto indurmi a giocare col suo mezzo; non lo feci mai, solo per non vederlo piú di spesso.
Lo vedevo anzi troppo! Passava delle ore nel nostro ufficio ad onta che - com'era facile di accorgersene - non fosse innamorato di Carmen.
Veniva a tener compagnia proprio a me.
Pare si fosse prefisso d'istruirmi nella politica in cui egli era profondo causa la Borsa.
Mi presentava le grandi potenze come un giorno si stringevano la mano e si pigliavano a schiaffi il giorno seguente.
Non so se abbia indovinato il futuro perché io per antipatia non lo stetti mai a sentire.
Conservavo un sorriso ebete, stereotipato.
Il nostro malinteso sarà certo dipeso da un'interpretazione errata del mio sorriso che gli sarà parso d'ammirazione.
Io non ne ho colpa.
So solo le cose che ripeteva ogni giorno.
Potei accorgermi ch'egli era un italiano di color dubbio perché gli pareva che per Trieste fosse meglio di restare austriaca.
Adorava la Germania e specialmente i treni ferroviari tedeschi che arrivavano con tanta precisione.
Era socialista a modo suo e avrebbe voluto fosse proibito che una singola persona possedesse piú di centomila corone.
Non risi un giorno in cui, conversando con Guido, egli ammise di possedere proprio centomila corone e non un centesimo in piú.
Non risi, e non gli domandai neppure se guadagnando dell'altro denaro avrebbe modificata la sua teoria.
La nostra era una relazione veramente strana.
Io non sapevo ridere né con lui né di lui.
Quando aveva snocciolata qualche sua sentenza, si ergeva di tanto sulla sua poltrona che i suoi occhi guardavano il soffitto mentre a me restava rivolto il buco che io dicevo mandibolare.
E vedeva con quel buco! Volli talvolta approfittare di quella sua posizione per pensare ad altro, ma egli richiamava la mia attenzione domandandomi subito:
- Mi stai a sentire?
Dopo di quella sua simpatica effusione, Guido per lungo tempo non mi parlò dei suoi affari.
Qualche cosa me ne diceva dapprima il Nilini, ma anche lui si fece poi piú riservato.
Da Ada stessa seppi che Guido continuava a guadagnare.
Quand'essa ritornò, la trovai di nuovo imbruttita parecchio.
Era piuttosto imbolsita che ingrassata.
Le sue guancie, ricresciute, erano anche questa volta fuori di posto e le facevano una faccia quasi quadrata.
Gli occhi avevano continuato a sformare la loro incassatura.
La mia sorpresa fu grande, perché da Guido ed altri ch'erano stati a trovarla, avevo sentito dire che ogni giorno che passava le apportava nuova forza e salute.
Ma la salute della donna è in primo luogo la sua bellezza.
Con Ada ebbi altre sorprese.
Mi salutò affettuosamente, ma non altrimenti di quanto avesse salutata Augusta.
Non c'era fra di noi piú alcun segreto e certamente essa non ricordava piú di aver pianto al ricordo di avermi fatto soffrire tanto.
Tanto meglio! Essa dimenticava infine i suoi diritti su di me! Ero il suo buon cognato e mi amava solo perché ritrovava immutati i miei affettuosi rapporti con mia moglie, che formavano sempre l'ammirazione di casa Malfenti.
Un giorno feci una scoperta che mi sorprese assai.
Ada si credeva ancora bella! Lontano, sul lago, le avevano fatta la corte ed era evidente ch'essa gioiva dei suoi successi.
Probabilmente li esagerava perché mi pareva fosse un eccesso il pretendere di aver dovuto lasciare quella villeggiatura per sottrarsi alle persecuzioni di un innamorato.
Ammetto che qualche cosa di vero ci possa essere stato, perché probabilmente ella poteva apparire meno brutta a chi prima non l'aveva conosciuta.
Ma già, non tanto, con quegli occhi e quel colorito e quella forma di faccia! A noi essa appariva piú brutta perché, ricordando com'era stata, scorgevamo piú evidenti le devastazioni compiute dalla malattia.
Invitammo una sera Guido e lei a casa nostra.
Fu un ritrovo gradevole, veramente di famiglia.
Pareva la continuazione di quel nostro fidanzamento a quattro.
Ma la chioma di Ada non era illuminata da alcuna luce.
Al momento di dividerci, io, per aiutarla a indossare il mantello, restai per un istante solo con lei.
Ebbi subito un senso un po' differente delle nostre relazioni.
Eravamo lasciati soli e forse potevamo dirci quello che in presenza degli altri non volevamo.
Mentre l'aiutavo, riflettei e finii col trovare quello che dovevo dirle:
- Tu sai ch'egli ora giuoca! - le dissi con voce seria.
Mi viene talvolta il dubbio ch'io con tali parole avessi voluto rievocare l'ultimo nostro ritrovo che non ammettevo fosse talmente dimenticato.
- Sí - essa disse sorridendo, - e fa molto bene.
È divenuto bravo abbastanza, a quanto mi dicono.
Risi con lei, forte.
Mi sentivo sollevato da ogni responsabilità.
Andandosene essa mormorò:
- Quella Carmen è sempre nel vostro ufficio?
Non arrivai a rispondere perché corse via.
Fra di noi non c'era piú il nostro passato.
C'era però la sua gelosia.
Quella era viva come nell'ultimo nostro incontro.
Adesso, ripensandoci, trovo che avrei dovuto accorgermi molto tempo prima di esserne espressamente avvisato, che Guido aveva cominciato a perdere in Borsa.
Sparve dalla sua faccia l'aria di trionfo che l'aveva illuminata e manifestò di nuovo quella grande ansietà per quel bilancio chiuso a quel modo.
- Perché te ne preoccupi - gli domandai io nella mia innocenza - quando hai già in tasca quello che occorre per rendere del tutto reali queste registrazioni? Avendo tanti denari non si va in carcere.
- Allora, come lo seppi poi, egli in tasca non aveva piú nulla.
Credetti tanto fermamente ch'egli avesse legata a sé la fortuna che non tenni conto di tanti indizii che avrebbero potuto convincermi altrimenti.
Una sera, di Agosto, egli mi trascinò di nuovo a pesca con lui.
Alla luce abbagliante di una luna quasi piena c'era poca probabilità di pigliare qualche cosa all'amo.
Ma egli insistette dicendo che in mare avremmo trovato qualche sollievo al caldo.
Infatti non vi trovammo altro.
Dopo un solo tentativo, non inescammo neppure piú gli ami e lasciammo pendere le lenze dalla barchetta che Luciano spinse al largo.
I raggi della luna raggiungevano certo il fondo del mare affinando la vista agli animali grossi e rendendoli accorti dell'insidia ed anche agli animalucci piccoli capaci di rosicchiarci l'esca, ma non d'arrivare con la piccola bocca all'amo.
Le nostre esche non erano altro che un dono alla minutaglia.
Guido si coricò a poppa ed io a prua.
Egli mormorò poco dopo:
- Che tristezza tutta questa luce!
Probabilmente diceva cosí perché la luce gl'impediva di dormire ed io assentii per fargli piacere ed anche per non turbare con una sciocca discussione la quiete solenne in cui lentamente ci movevamo.
Ma Luciano protestò dicendo che a lui quella luce piaceva moltissimo.
Visto che Guido non rispondeva, volli farlo tacere dicendogli che la luce era certamente una cosa triste perché si vedevano le cose di questo mondo.
Eppoi impediva la pesca.
Luciano rise e tacque.
Stemmo zitti molto tempo.
Io sbadigliai piú volte in faccia alla luna.
Rimpiangevo di essermi lasciato indurre di montare in quella barchetta.
Guido improvvisamente mi domandò:
- Tu che sei chimico, sapresti dirmi se sia piú efficace il veronal puro o il veronal al sodio? Io veramente non sapevo neppure che ci fosse un veronal al sodio.
Non si può mica pretendere che un chimico sappia il mondo a mente.
Io di chimica so tanto da poter trovare subito nei miei libri qualsiasi informazione e inoltre da poter discutere - come si vide in quel caso - anche delle cose che ignoro.
Al sodio? Ma se era saputo da tutti che le combinazioni al sodio erano quelle che piú facilmente si assimilavano.
Anzi a proposito del sodio ricordai - e riprodussi piú o meno esattamente - un inno a quell'elemento elevato da un mio professore all'unica sua prelezione cui avessi assistito.
Il sodio era un veicolo sul quale gli elementi montavano per moversi piú rapidi.
E il professore aveva ricordato come il cloruro di sodio passava da organismo ad organismo e come andava adunandosi per la sola gravità nel buco piú profondo della terra, il mare.
Io non so se riproducessi esattamente il pensiero del mio professore, ma in quel momento, dinanzi a quell'enorme distesa di cloruro di sodio, parlai del sodio con un rispetto infinito.
Dopo un'esitazione, Guido domandò ancora:
- Sicché chi volesse morire dovrebbe prendere il veronal al sodio?
- Sí, - risposi.
Poi ricordando che ci sono dei casi in cui si può voler simulare un suicidio e non accorgendomi subito che ricordavo a Guido un episodio spiacevole della sua vita, aggiunsi:
- E chi non vuole morire deve prendere del veronal puro.
Gli studii di Guido sul veronal avrebbero potuto darmi da pensare.
Invece io non compresi nulla, preoccupato com'ero dal sodio.
Nei giorni seguenti fui in grado di portare a Guido nuove prove delle qualità che io avevo attribuite al sodio: anche per accelerare gli amalgami che non sono altro che degli abbracci intensi fra due corpi, abbracci che sostituiscono la combinazione o l'assimilazione, si aggiungeva al mercurio del sodio.
Il sodio era il mezzano fra l'oro e il mercurio.
Ma a Guido il veronal non importava piú, ed io ora penso che in quel momento le sue viste alla Borsa si fossero migliorate.
Nel corso di una settimana, Ada venne in ufficio ben tre volte.
Soltanto dopo la seconda, sorse in me l'idea ch'essa mi volesse parlare.
La prima s'imbatté nel Nilini che s'era messo una volta di piú ad educarmi.
Essa attese per un'ora intera che se ne andasse, ma ebbe il torto di ciarlare con lui ed egli credette perciò di dover restare.
Dopo fatte le presentazioni, io respirai, sollevato che il buco mandibolare del Nilini non fosse rivolto a me.
Non presi parte alla loro conversazione.
Il Nilini fu persino spiritoso e sorprese Ada raccontando che si facevano altrettante maldicenze al Tergesteo come nel salotto di una signora.
Soltanto, secondo lui, alla Borsa, come sempre, si era meglio informati che altrove.
Ad Ada sembrò ch'egli calunniasse le donne.
Disse di non saper neppure ciò che fosse la maldicenza.
A questo punto intervenni io per confermare che, nei lunghi anni in cui la conoscevo, non avevo mai sentita venir dalla sua bocca una parola che avesse neppur ricordato la maldicenza.
Sorrisi dicendo ciò perché mi parve di moverle un rimprovero.
Essa non era maldicente perché dei fatti altrui non s'occupava.
Dapprima, in piena salute, aveva pensato ai fatti proprii e, quando la malattia l'invase, non restò in lei che un piccolo posticino libero, occupato dalla sua gelosia.
Era una vera egoista, ma essa accolse la mia testimonianza con gratitudine.
Il Nilini finse di non prestar fede né a lei né a me.
Disse di conoscermi da molti anni e di credermi di una grande ingenuità.
Ciò mi divertí e divertí anche Ada.
Fui molto seccato invece quand'egli - per la prima volta dinanzi a terzi - proclamò ch'ero uno dei migliori suoi amici e che perciò mi conosceva a fondo.
Non osai protestare, ma da quella dichiarazione sfacciata mi sentii offeso nel mio pudore, come una fanciulla cui in pubblico fosse stato rimproverato di aver fornicato.
Io ero tanto ingenuo, diceva il Nilini, che Ada, con la solita furberia delle donne, avrebbe potuto fare della maldicenza in mia presenza senza ch'io me ne accorgessi.
A me parve che Ada continuasse a divertirsi a quei complimenti di carattere dubbio mentre poi seppi ch'essa lo lasciava parlare sperando si esaurisse e se ne andasse.
Ma ebbe un bell'attendere.
Quando Ada ritornò per la seconda volta, mi trovò con Guido.
Allora lessi sulla sua faccia un'espressione d'impazienza e indovinai ch'essa voleva proprio me.
Finché non ritornò, io mi baloccai coi miei soliti sogni.
In fondo essa da me non domandava amore, ma troppo frequentemente voleva trovarsi da sola a solo con me.
Per gli uomini era difficile d'intendere quello che le donne volevano anche perché esse stesse talvolta lo ignoravano.
Non mi derivò invece alcun nuovo sentimento dalle sue parole.
Essa, non appena poté parlarmi, ebbe la voce strozzata dall'emozione, ma non già perché avesse rivolta la parola a me.
Voleva sapere per quale ragione Carmen non fosse stata mandata via.
Io le raccontai tutto quanto ne sapevo, compreso quel nostro tentativo di procurarle un posto presso l'Olivi.
Essa fu subito piú calma perché quello che le dicevo corrispondeva esattamente a quanto gliene era stato detto da Guido.
Poi seppi che gli accessi di gelosia si seguivano da lei a periodi.
Venivano senza causa apparente e andavano via per una parola che la convincesse.
Mi fece ancora due domande: se era proprio tanto difficile di trovare un posto per un'impiegata e se la famiglia di Carmen si trovasse in tali condizioni da dipendere dal guadagno della fanciulla.
Le spiegai che infatti a Trieste era difficile allora di trovare del lavoro per le donne, negli uffici.
In quanto alla sua seconda domanda, non potevo risponderle perché della famiglia di Carmen io non conoscevo nessuno.
- Guido invece conosce tutti in quella casa, - mormorò Ada con ira e le lacrime le irorarono di nuovo le guancie.
Poi mi strinse la mano per congedarsi e mi ringraziò.
Sorridendo traverso le lacrime, disse che sapeva di poter contare su di me.
Il sorriso mi piacque perché certamente non era rivolto al cognato, ma a chi era legato a lei da vincoli segreti.
Tentai di dar prova che meritavo quel sorriso e mormorai:
- Quello ch'io temo per Guido non è Carmen, ma il suo giuoco alla Borsa!
Essa si strinse nelle spalle:
- Quello non ha importanza.
Ne parlai anche con mamma.
Papà giuocava anche lui alla Borsa e vi guadagnò tanti di quei denari!
Io rimasi sconcertato dalla risposta e insistetti:
- Quel Nilini non mi piace.
Non è mica vero ch'io sia suo amico!
Essa mi guardò sorpresa:
- A me pare un gentiluomo.
Anche Guido gli vuole molto bene.
Io credo, poi, che Guido sia ora molto attento ai suoi affari.
Ero ben deciso di non dirle male di Guido e tacqui.
Quando mi trovai solo non pensai a Guido, ma a me stesso.
Era forse bene che Ada finalmente m'apparisse quale una mia sorella e null'altro.
Essa non prometteva e non minacciava amore.
Per varii giorni corsi la città inquieto e squilibrato.
Non arrivavo a intendermi.
Perché mi sentivo come se Carla m'avesse lasciato in quell'istante? Non m'era avvenuto niente di nuovo.
Sinceramente credo ch'io abbia avuto sempre bisogno dell'avventura o di qualche complicazione che le somigli.
I miei rapporti con Ada non erano ormai piú complicati affatto.
Il Nilini dal suo seggiolone un giorno predicò piú del solito: dall'orizzonte s'avanzava un nembo, nient'altro che il rincaro del denaro.
La Borsa era tutt'ad un tratto satura e non poteva assorbire piú nulla!
- Gettiamoci del sodio! - proposi io.
L'interruzione non gli piacque affatto, ma per non dover arrabbiarsi, la trascurò: tutt'ad un tratto il denaro a questo mondo era divenuto scarso e perciò caro.
Egli era sorpreso che ciò avvenisse ora mentre egli l'aveva preveduto per un mese piú tardi.
- Avranno mandato tutto il denaro alla luna! - dissi io.
- Sono cose serie di cui non bisogna ridere, - affermò il Nilini guardando sempre il soffitto.
- Adesso si vedrà chi avrà l'anima del vero lottatore e chi invece al primo colpo soggiacerà.
Come non intesi perché il denaro a questo mondo potesse divenire piú scarso, cosí non indovinai che il Nilini ponesse Guido fra i lottatori di cui si doveva provare il valore.
Ero tanto abituato a difendermi dalle sue prediche con la disattenzione, che anche questa, che pur sentii, passò via senza neppur scalfirmi.
Ma pochi giorni appresso il Nilini intonò tutt'altra musica.
Era avvenuto un fatto nuovo.
Egli aveva scoperto che Guido aveva fatti degli affari con un altro agente di cambio.
Il Nilini cominciò col protestare in un tono concitato che egli non aveva mai mancato in nulla verso Guido, neppure nella dovuta discrezione.
Di questo egli voleva la mia testimonianza.
Non aveva tenuto celati gli affari di Guido persino a me ch'egli continuava a ritenere quale il suo miglior amico? Ma ormai egli era svincolato da qualunque riserbo e poteva gridarmi nelle orecchie che Guido era in perdita fino alla punta dei capelli.
Per gli affari ch'erano stati fatti col suo mezzo, egli assicurava che alla piú lieve miglioria si sarebbe potuto resistere e aspettare tempi migliori.
Era però enorme che alla prima avversità Guido gli avesse fatto torto.
Altro che Ada! La gelosia del Nilini era indomabile.
Io volevo avere da lui delle notizie ed egli invece si esasperava sempre piú e continuava a parlare del torto che gli era stato fatto.
Perciò, contro ogni suo proposito, egli continuò a rimanere discreto.
Nel pomeriggio trovai Guido in ufficio.
Era sdraiato sul nostro sofà in un curioso stato intermedio fra la disperazione e il sonno.
Gli domandai:
- Tu sei ora in perdita fino agli occhi?
Non mi rispose subito.
Levò il braccio col quale si copriva il volto sfatto e disse:
- Hai mai visto un uomo piú disgraziato di me?
Riabbassò il braccio e cambiò di posizione mettendosi supino.
Rinchiuse gli occhi e parve avesse già dimenticata la mia presenza.
Io non seppi offrirgli alcun conforto.
Davvero mi offendeva ch'egli credesse di essere l'uomo piú disgraziato del mondo.
Non era un'esagerazione la sua; era una vera e propria menzogna.
L'avrei soccorso se avessi potuto, ma mi era impossibile di confortarlo.
Secondo me neanche chi è piú innocente e piú disgraziato di Guido merita compassione, perché altrimenti nella nostra vita non ci sarebbe posto che per quel sentimento, ciò che sarebbe un grande tedio.
La legge naturale non dà il diritto alla felicità, ma anzi prescrive la miseria e il dolore.
Quando viene esposto il commestibile, vi accorrono da tutte le parti i parassiti e, se mancano, s'affrettano di nascere.
Presto la preda basta appena, e subito dopo non basta piú perché la natura non fa calcoli, ma esperienze.
Quando non basta piú, ecco che i consumatori devono diminuire a forza di morte preceduta dal dolore e cosí l'equilibrio, per un istante, viene ristabilito.
Perché lagnarsi? Eppure tutti si lagnano.
Quelli che non hanno avuto niente della preda muoiono gridando all'ingiustizia e quelli che ne hanno avuto parte trovano che avrebbero avuto diritto ad una parte maggiore.
Perché non muoiono e non vivono tacendo? È invece simpatica la gioia di chi ha saputo conquistarsi una parte esuberante del commestibile e si manifesti pure al sole in mezzo agli applausi.
L'unico grido ammissibile è quello del trionfatore.
Guido, poi! Egli mancava di tutte le qualità per conquistare od anche solo per tenere la ricchezza.
Veniva dal tavolo di giuoco e piangeva per aver perduto.
Non si comportava dunque neppure da gentiluomo e a me faceva nausea.
Perciò e solo perciò, nel momento in cui Guido avrebbe avuto tanto bisogno del mio affetto, non lo trovò.
Neppure i miei ripetuti propositi poterono accompagnarmi fin là.
Intanto la respirazione di Guido andava facendosi sempre piú regolare e rumorosa.
S'addormentava! Com'era poco virile nella sventura! Gli avevano portato via il commestibile e chiudeva gli occhi forse per sognare di possederlo tuttavia, invece di aprirli ben bene per vedere di strapparne una piccola parte.
Mi venne la curiosità di sapere se Ada fosse stata informata della disgrazia che gli era toccata.
Glielo domandai ad alta voce.
Egli trasalí ed ebbe bisogno di una pausa per assuefarsi alla sua disgrazia che improvvisamente rivide intera.
- No! - mormorò.
Poi rinchiuse gli occhi.
Certamente tutti coloro che sono stati duramente percossi inclinano al sonno.
Il sonno ridà le forze.
Stetti ancora a guardarlo esitante.
Ma come si poteva aiutarlo se dormiva? Non era questo il momento per dormire.
Lo afferrai rudemente per una spalla e lo scossi:
- Guido!
Aveva proprio dormito.
Mi guardò incerto con l'occhio ancora velato dal sonno eppoi mi domandò:
- Che vuoi? - Subito dopo, adirato, ripeté la sua domanda: - Che vuoi dunque?
Io volevo aiutarlo, altrimenti non avrei neppure avuto il diritto di destarlo.
M'arrabbiai anch'io e gridai che questo non era il momento di dormire perché bisognava affrettarsi di vedere come si avrebbe potuto correre ai ripari.
C'era da calcolare e discutere con tutti i membri della nostra famiglia e quelli della sua di Buenos Aires.
Guido si mise a sedere.
Era ancora un po' sconvolto di essere stato destato a quel modo.
Mi disse amaramente:
- Avresti fatto meglio di lasciarmi dormire.
Chi vuoi che ora m'aiuti? Non ricordi a quale punto dovetti giungere l'altra volta per avere quel poco di cui abbisognavo per salvarmi? Adesso si tratta di somme considerevoli! A chi vuoi mi rivolga?
Senza nessun affetto e anzi con l'ira di dover dare e privare me e i miei, esclamai:
- E non ci sono anch'io qui? - Poi l'avarizia mi suggerí di attenuare da bel principio il mio sacrificio:
- Non c'è Ada? Non c'è nostra suocera? Non possiamo unirci per salvarti?
Egli si levò e mi si appressò con l'evidente intenzione di abbracciarmi.
Ma era proprio questo ch'io non volevo.
Avendogli offerto il mio aiuto, avevo ora il diritto di rampognarlo, e ne feci l'uso piú largo.
Gli rimproverai la sua attuale debolezza eppoi anche la sua presunzione durata fino a quel momento e che l'aveva tratto alla rovina.
Aveva agito di propria testa non consultandosi con nessuno.
Tante volte io avevo tentato di avere sue comunicazioni per trattenerlo e salvarlo ed egli me le aveva rifiutate serbando la sua fiducia per il solo Nilini.
Qui Guido sorrise, proprio sorrise, il disgraziato! Mi disse che da quindici giorni egli non lavorava piú col Nilini essendosi fitto in capo che il grugno di costui gli portasse sventura.
Egli era caratterizzato da quel sonno e da quel sorriso: rovinava tutti attorno a sé e sorrideva.
M'atteggiai a giudice severo perché per salvare Guido bisognava prima educarlo.
Volli sapere quanto egli avesse perduto e m'arrabbiai quando mi disse di non saperlo esattamente.
M'arrabbiai ancora quand'egli mi disse una cifra relativamente piccola che poi risultò rappresentare l'importo che bisognava pagare alla liquidazione del quindici del mese da cui distavamo di soli due giorni.
Ma Guido asseriva che fino alla fine del mese c'era del tempo e che le cose potevano mutarsi.
La scarsezza del denaro sul mercato non sarebbe durata eternamente.
Gridai:
- Se a questo mondo manca il denaro, vuoi riceverne dalla luna? - Aggiunsi che non bisognava giocare neppure per un giorno di piú.
Non si doveva rischiare di veder aumentare la perdita già enorme.
Dissi anche che la perdita sarebbe stata divisa in quattro parti che avremmo sopportate io, lui (cioè suo padre), la signora Malfenti e Ada, che bisognava ritornare al nostro commercio privo di rischi e che non volevo mai piú vedere nel nostro ufficio né il Nilini né alcun altro sensale di cambio.
Egli, mite, mite, mi pregò di non gridare tanto, perché avremmo potuto essere sentiti dai vicini.
Feci un grande sforzo per calmarmi e vi riuscii anche a patto di poter dirgli a bassavoce delle altre insolenze.
La sua perdita era addirittura l'effetto di un crimine.
Bisognava essere un bestione per mettersi in frangenti simili.
Proprio mi pareva ch'era necessario egli subisse intera la lezione.
Qui Guido mitemente protestò.
Chi non aveva giocato in Borsa? Nostro suocero, ch'era stato un commerciante tanto solido, non era stato un giorno solo della sua vita privo di qualche impegno.
Eppoi - Guido lo sapeva - avevo giocato anch'io.
Protestai che fra gioco e gioco c'era una differenza.
Egli aveva rischiato alla Borsa tutto il suo patrimonio, io le rendite di un mese.
Mi fece un triste effetto che Guido tentasse puerilmente di liberarsi della sua responsabilità.
Egli asserí che il Nilini lo aveva indotto a giocare piú di quanto egli avesse voluto, facendogli credere di avviarlo ad una grande fortuna.
Io risi e lo derisi.
Il Nilini non era da biasimarsi perché faceva gli affari suoi.
E - del resto - dopo di aver lasciato il Nilini, non si era egli precipitato ad aumentare la propria posta col mezzo di un altro sensale? Avrebbe potuto vantarsi della nuova relazione se con essa si fosse messo a giocare al ribasso ad insaputa del Nilini.
Per riparare non poteva certo bastare di cambiare di rappresentante e continuare sulla stessa via perseguitato dallo stesso malocchio.
Egli volle indurmi finalmente a lasciarlo in pace, e, con un singhiozzo nella gola, riconobbe di aver sbagliato.
Cessai dal rampognarlo.
Ora mi faceva veramente compassione e l'avrei anche abbracciato se egli avesse voluto.
Gli dissi che mi sarei occupato subito di provvedere il denaro che io dovevo fornire e che avrei potuto anche occuparmi di parlare con nostra suocera.
Egli, invece, si sarebbe incaricato di Ada.
La mia compassione aumentò quand'egli mi confidò che volentieri avrebbe parlato con nostra suocera in vece mia, ma che lo tormentava di dover parlare con Ada.
- Tu sai come son fatte le donne! Gli affari non li capiscono o soltanto quando finiscono bene! - Egli non avrebbe parlato affatto e avrebbe pregata la signora Malfenti d'informarla lei di tutto.
Questa decisione l'alleggerí grandemente e uscimmo insieme.
Lo vedevo camminare accanto a me con la testa bassa e mi sentivo pentito di averlo trattato con tanta rudezza.
Ma come fare altrimenti se lo amavo? Doveva pur ravvedersi, se non voleva andare incontro alla sua rovina! Come dovevano essere fatte le sue relazioni con la moglie se temeva tanto di parlare con lei!
Ma intanto egli scoperse un modo per indispettirmi di nuovo.
Camminando aveva trovato di perfezionare il piano che gli era tanto piaciuto.
Non soltanto egli non avrebbe avuto da parlare con la moglie, ma avrebbe fatto in modo di non vederla per quella sera, perché sarebbe subito partito per la caccia.
Dopo quel proposito, fu libero da ogni nube.
Pareva fosse bastata la prospettiva di poter recarsi all'aria aperta, lontano da ogni pensiero, per avere l'aspetto di trovarvisi diggià e di goderne pienamente.
Io ne fui indignato! Con lo stesso aspetto, certo, avrebbe potuto ritornare in Borsa per riprendervi il giuoco nel quale rischiava la fortuna della famiglia e anche la mia.
Mi disse:
- Voglio concedermi quest'ultimo divertimento e t'invito di venire con me a patto che tu prenda l'impegno di non rammentare con una sola parola gli avvenimenti di oggi.
Fin qui aveva parlato sorridendo.
Dinanzi alla mia faccia seria, si fece piú serio anche lui.
Aggiunse:
- Vedi anche tu che ho bisogno di un riposo dopo un colpo simile.
Poi mi sarà piú facile di riprendere il mio posto nella lotta.
La sua voce s'era velata di un'emozione della cui sincerità non seppi dubitare.
Perciò seppi rattenere il mio dispetto o manifestarlo solo col rifiuto del suo invito, dicendogli che io dovevo restare in città per provvedere al denaro necessario.
Era già un rimprovero il mio! Io, innocente, restavo al mio posto, mentre lui, il colpevole, poteva andare a spassarsela.
Eravamo giunti dinanzi alla porta di casa della signora Malfenti.
Egli non aveva piú ritrovato l'aspetto di gioia per il divertimento di alcune ore che l'aspettava e, finché rimase con me, conservò stereotipata sulla faccia l'espressione del dolore cui io l'avevo richiamato.
Ma prima di lasciarmi, trovò uno sfogo in una manifestazione d'indipendenza e - come a me parve - di rancore.
Mi disse ch'era veramente stupito di scoprire in me un tale amico.
Esitava di accettare il sacrificio che gli volevo portare e intendeva (proprio intendeva) ch'io sapessi ch'egli non mi riteneva impegnato in alcun modo e ch'ero perciò libero di dare o non dare.
Son sicuro di aver arrossito.
Per levarmi dall'imbarazzo gli dissi:
- Perché vuoi ch'io desideri di ritirarmi quando pochi minuti or sono senza che tu m'abbia chiesto nulla, mi son profferto di aiutarti?
Egli mi guardò un po' incerto eppoi disse:
- Giacché lo vuoi, accetto senz'altro e ti ringrazio.
Ma faremo un contratto di società nuovo del tutto, perché ognuno abbia quello che gli compete.
Anzi se ci sarà lavoro e vorrai continuare ad attendervi, dovrai avere il tuo salario.
Metteremo la nuova società su tutt'altra base.
Cosí non avremo piú da temere altri danni dall'aver occultata la perdita del nostro primo anno d'esercizio.
Risposi:
- Questa perdita non ha piú alcuna importanza e non devi pensarci piú.
Cerca ora di mettere dalla parte tua nostra suocera.
Questo e null'altro per adesso importa.
Cosí ci lasciammo.
Io credo di aver sorriso dell'ingenuità con cui Guido manifestava i suoi piú intimi sentimenti.
Egli m'aveva tenuto quel lungo discorso solo per poter accettare il mio dono senz'aver da manifestarmi della gratitudine.
Ma io non pretendevo nulla.
Mi bastava di sapere che tale riconoscenza egli proprio me la doveva.
Del resto, staccatomi da lui, anch'io sentii un sollievo come se fossi andato appena allora all'aria libera.
Sentivo veramente la libertà che m'era tolta per i propositi di educarlo e rimetterlo sulla buona strada.
In fondo il pedagogo è incatenato peggio dell'alunno.
Ero ben deciso di procurargli quel denaro.
Naturalmente non so dire se lo facessi per affetto a lui o ad Ada, o forse per liberarmi da quella piccola parte di responsabilità che poteva toccarmi per aver lavorato nel suo ufficio.
Insomma avevo deciso di sacrificare una parte del mio patrimonio e ancora oggidí guardo a quel giorno della mia vita con una grande soddisfazione.
Quel denaro salvava Guido e a me garantiva una grande tranquillità di coscienza.
Camminai fino a sera nella piú grande tranquillità e cosí perdetti il tempo utile per andar a rintracciare alla Borsa l'Olivi cui dovevo rivolgermi per procurarmi una somma cosí forte.
Poi pensai che la cosa non fosse tanto urgente.
Io avevo parecchio denaro a mia disposizione e quello bastava intanto per partecipare alla regolazione che si doveva fare il quindici del mese.
Per la fine del mese avrei provveduto piú tardi.
Per quella sera non pensai piú a Guido.
Piú tardi, e cioè quando i bambini furono coricati, m'accinsi varie volte a dire ad Augusta del disastro finanziario di Guido e del danno che doveva riverberarne a me, ma poi non volli seccarmi con discussioni e pensai sarebbe meglio mi riservassi di convincere Augusta nel momento in cui la regolazione di quegli affari sarebbe stata decisa da tutti.
Eppoi mentre Guido stava divertendosi sarebbe stato curioso che io mi fossi seccato.
Dormii benissimo e, alla mattina, con la tasca non molto carica di denaro (ci avevo l'antica busta abbandonatami da Carla e che fino ad allora religiosamente avevo conservato per lei stessa o per qualche sua erede e qualche po' di altro denaro che avevo potuto prelevare da una Banca) mi recai in ufficio.
Passai la mattina a leggere giornali, fra Carmen che cuciva e Luciano che s'addestrava in moltipliche e addizioni.
Quando ritornai a casa all'ora della colazione, trovai Augusta perplessa e abbattuta.
La sua faccia era coperta da quel grande pallore che non si produceva che per dolori che le provenivano da me.
Mitemente mi disse:
- Ho saputo che hai deciso di sacrificare una parte del tuo patrimonio per salvare Guido! Io so che non avevo il diritto di esserne informata...
Era tanto dubbiosa del suo diritto che esitò.
Poi riprese a rimproverarmi il mio silenzio:
- Ma è vero ch'io non sono come Ada, perché mai mi sono opposta alla tua volontà.
Ci volle del tempo per apprendere quello ch'era avvenuto.
Augusta era capitata da Ada quando stava discutendo la quistione di Guido con la madre.
Vedendola, Ada s'era abbandonata ad un gran pianto e le aveva detto della mia generosità ch'essa assolutamente non voleva accettare.
Aveva anzi pregata Augusta d'invitarmi a desistere dalla mia profferta.
M'accorsi subito che Augusta soffriva della sua antica malattia, la gelosia per la sorella, ma non vi diedi peso.
Mi sorprendeva l'attitudine assunta da Ada:
- Ti parve risentita? - domandai facendo tanto d'occhi per la sorpresa.
- No! No! Non offesa! - gridò la sincera Augusta.
- Mi baciò e abbracciò...
forse perché abbracci te.
Pareva un modo di esprimersi assai comico.
Essa mi guardava, studiandomi, diffidente.
Protestai.
- Credi che Ada sia innamorata di me? cosa ti salta in testa?
Ma non riuscii a calmar Augusta la cui gelosia mi seccava orribilmente.
Sta bene che Guido a quell'ora non era piú a divertirsi e passava certamente un brutto quarto d'ora fra sua suocera e sua moglie ma ero seccatissimo anch'io e mi pareva di dover soffrir troppo essendo del tutto innocente.
Tentai di calmare Augusta facendole delle carezze.
Essa allontanò la sua faccia dalla mia per vedermi meglio e mi fece dolcemente un mite rimprovero che mi commosse molto:
- Io so che ami anche me, - mi disse.
Evidentemente lo stato d'animo di Ada non aveva importanza per lei, ma il mio ed ebbi un'ispirazione per provarle la mia innocenza:
- Ada è dunque innamorata di me? - feci ridendo.
Poi staccatomi da Augusta per farmi veder meglio, gonfiai un po' le guancie e spalancai in modo innaturale gli occhi cosí da somigliare ad Ada malata.
Augusta mi guardò stupita, ma presto indovinò la mia intenzione.
Fu colta da uno scoppio d'ilarità di cui subito si vergognò.
- No! - mi disse, - ti prego di non deriderla.
- Poi confessò, sempre ridendo, ch'ero riuscito di imitare proprio quelle protuberanze che davano alla faccia di Ada un aspetto tanto sorprendente.
Ed io lo sapevo perché imitandola m'era parso di abbracciare Ada.
E quando fui solo, piú volte ripetei quello sforzo con desiderio e disgusto.
Nel pomeriggio andai all'ufficio nella speranza di trovarvi Guido.
Ve l'attesi per qualche tempo eppoi decisi di recarmi a casa sua.
Dovevo pur sapere se era necessario di domandare del denaro all'Olivi.
Dovevo compiere il mio dovere per quanto mi seccasse di rivedere Ada alterata una volta di piú dalla riconoscenza.
Chissà quali sorprese mi potevano ancora provenire da quella donna!
Sulle scale della casa di Guido m'imbattei nella signora Malfenti che pesantemente le saliva.
Mi raccontò per lungo e per largo quanto fino ad allora era stato deciso nell'affare di Guido.
La sera prima s'erano divisi circa d'accordo nella convinzione che bisognava salvare quell'uomo che aveva una disdetta disastrosa.
Soltanto alla mattina Ada aveva appreso ch'io dovevo collaborare a coprire la perdita di Guido e s'era recisamente rifiutata di accettare.
La signora Malfenti la scusava:
- Che vuoi farci? Essa non vuole caricarsi del rimorso di aver impoverita la sua sorella prediletta.
Sul pianerottolo, la signora si fermò per respirare e anche per parlare, e mi disse ridendo che la cosa sarebbe finita senza danno per nessuno.
Prima di colazione, lei, Ada e Guido s'erano recati per averne consiglio da un avvocato, vecchio amico di famiglia e ora anche tutore della piccola Anna.
L'avvocato aveva detto che non occorreva pagare perché per legge non vi si era obbligati.
Guido s'era vivamente opposto parlando di onore e di dovere, ma senza dubbio, una volta che tutti, compresa Ada, decidevano di non pagare, anche lui avrebbe dovuto rassegnarvisi.
- Ma la sua ditta alla Borsa sarà dichiarata bancarotta? - dissi io perplesso.
- Probabilmente! - disse la signora Malfenti con un sospiro prima d'imprendere la salita dell'ultima scala.
Guido dopo colazione usava di riposare e perciò fummo ricevuti dalla sola Ada in quel salottino ch'io conoscevo tanto bene.
Al vedermi essa fu per un istante confusa, per un solo istante, ch'io però afferrai e ritenni, chiaro, evidente, come se la sua confusione mi fosse stata detta.
Poi si fece forza e mi stese la mano con un movimento deciso, virile, che doveva cancellare l'esitazione femminea che l'aveva precorso.
Mi disse:
- Augusta ti avrà detto come io ti sia riconoscente.
Non saprei ora dirti quello che sento perché sono confusa.
Sono anche malata.
Sí, molto malata! Avrei di nuovo bisogno della casa di salute di Bologna!
Un singhiozzo l'interruppe:
- Ti domando ora un favore.
Ti prego di dire a Guido che neppure tu sei al caso di dargli quel denaro.
Cosí ci sarà piú facile d'indurlo a fare quello che deve.
Prima aveva avuto un singhiozzo ricordando la propria malattia; singhiozzò poi di nuovo prima di continuare a parlare del marito:
- È un ragazzo, e bisogna trattarlo come tale.
Se egli sa che tu consenti di dargli quel denaro, s'ostinerà ancora maggiormente nella sua idea di sacrificare anche il resto inutilmente.
Inutilmente, perché oramai sappiamo con assoluta certezza che il fallimento in Borsa è permesso.
L'ha detto l'avvocato.
Mi comunicava il parere di un'alta autorità senza domandarmi il mio.
Come vecchio frequentatore di Borsa, il mio parere, anche accanto a quello dell'avvocato, avrebbe potuto avere il suo peso, ma non ricordai neppure il mio parere seppure ne avevo uno.
Ricordai invece che venivo messo in una posizione difficile.
Io non potevo ritirarmi dall'impegno che avevo preso con Guido: era in compenso di quell'impegno, che m'ero creduto autorizzato di gridargli nelle orecchie tante insolenze, intascando cosí una specie d'interessi sul capitale che ora non potevo piú rifiutargli.
- Ada! - dissi esitante.
- Io non credo di potermi disdire cosí da un giorno all'altro.
Non sarebbe meglio che tu convincessi Guido di fare le cose come le desideri tu?
La signora Malfenti con la grande simpatia che sempre mi dimostrava, disse che intendeva benissimo la mia speciale posizione e che del resto, quando Guido si sarebbe visto messo a disposizione soltanto un quarto dell'importo di cui abbisognava, avrebbe pur dovuto adattarsi al loro volere.
Ma Ada non aveva esaurite le sue lacrime.
Piangendo con la faccia celata nel fazzoletto, disse:
- Hai fatto male, molto male di fare quell'offerta veramente straordinaria! Ora si vede quanto male hai fatto!
Mi pareva esitante fra una grande gratitudine e un grande rancore.
Poi soggiunse che non voleva si parlasse mai piú di quella mia offerta e mi pregava di non provvedere quel denaro, perché essa m'avrebbe impedito di darlo o avrebbe impedito a Guido di accettarlo.
Ero tanto imbarazzato che finii col dire una bugia.
Le dissi cioè che quel denaro io l'avevo già procurato e accennai alla mia tasca di petto dove giaceva quella busta dal peso tanto lieve.
Ada mi guardò questa volta con un'espressione di vera ammirazione di cui forse mi sarei compiaciuto se non avessi saputo di non meritarla.
Ad ogni modo fu proprio questa mia bugia per la quale non so dare altra spiegazione che una mia strana tendenza a rappresentarmi dinanzi ad Ada maggiore di quanto non sia, che m'impedí di attendere Guido e mi cacciò da quella casa.
Avrebbe potuto anche avvenire che a un dato punto, contrariamente a quanto appariva, mi fosse stato chiesto di consegnare il denaro che dicevo di avere con me, e allora che figura ci avrei fatta? Dissi che avevo degli affari urgenti in ufficio e corsi via.
Ada m'accompagnò alla porta e m'assicurò ch'essa avrebbe indotto Guido di venire lui da me per ringraziarmi della mia bontà e per rifiutarla.
Fece tale dichiarazione con tale risolutezza che io trasalii.
A me parve che quel fermo proposito andasse a colpire in parte anche me.
No! In quel momento essa non mi amava.
Il mio atto di bontà era troppo grande.
Schiacciava la gente su cui s'abbatteva e non c'era da meravigliarsi che i beneficati protestassero.
Andando all'ufficio cercai di liberarmi del malessere che m'aveva dato il contegno di Ada, ricordando che io portavo quel sacrificio a Guido e a nessun altro.
Che c'entrava Ada? Mi ripromisi di farlo sapere ad Ada stessa alla prima occasione.
Andai all'ufficio proprio per non avere il rimorso di aver mentito una volta di piú.
Nulla mi vi attendeva.
Cadeva dalla mattina una pioggerella minuta e continua che aveva rinfrescata considerevolmente l'aria di quella primavera esitante.
In due passi sarei stato a casa, mentre per andare all'ufficio dovevo percorrere una strada ben piú lunga ciò ch'era abbastanza fastidioso.
Ma mi pareva di dover corrispondere ad un impegno.
Poco dopo vi fui raggiunto da Guido.
Allontanò dall'ufficio Luciano per restare solo con me.
Aveva quel suo aspetto sconvolto che l'aiutava nelle sue lotte con la moglie e che io conoscevo tanto bene.
Doveva aver pianto e gridato.
Mi domandò che cosa mi paresse dei progetti di sua moglie e di nostra suocera ch'egli sapeva m'erano già stati comunicati.
Gli parvi esitante.
Non volevo dire la mia opinione che non poteva accordarsi con quella delle due donne e sapevo che se avessi adottata la loro, avrei provocate delle nuove scene da parte di Guido.
Poi mi sarebbe dispiaciuto troppo di far apparire esitante il mio aiuto e infine eravamo d'accordo con Ada che la decisione doveva venire da Guido e non da me.
Gli dissi che bisognava calcolare, vedere, sentire anche altre persone.
Io non ero un tale uomo d'affari da poter dare un consiglio in argomento tanto importante.
E, per guadagnare del tempo, gli domandai se voleva che consultassi l'Olivi.
Bastò questo per farlo gridare:
- Quell'imbecille! - urlò.
- Te ne prego lascialo da parte!
Non ero affatto disposto di accalorarmi alla difesa dell'Olivi, ma non bastò la mia calma per rasserenare Guido.
Eravamo nell'identica situazione del giorno prima, ma ora era lui che gridava e toccava a me di tacere.
È quistione di disposizione.
Io ero pieno di un imbarazzo che mi legava le membra.
Ma egli assolutamente volle io dicessi il mio parere.
Per un'ispirazione che credo divina parlai molto bene, tanto bene che se le mie parole avessero avuto un effetto qualunque, la catastrofe che poi seguí sarebbe stata evitata.
Gli dissi che io intanto avrei scisse le due quistioni, quella della liquidazione del quindici da quella di fine mese.
In complesso al quindici non si aveva da pagare un importo troppo rilevante e bisognava intanto indurre le donne a sottostare a quella perdita relativamente lieve.
Poi avremmo avuto il tempo necessario per provvedere saggiamente all'altra liquidazione.
Guido m'interruppe per domandarmi:
- Ada m'ha detto che tu hai già pronto il denaro in tasca.
L'hai qui?
Arrossii.
Ma trovai subito pronta un'altra bugia che mi salvò:
- Visto che a casa tua non accettarono quel denaro, lo depositai poco fa alla Banca.
Ma possiamo riaverlo quando vorremo, anche subito domattina.
Allora egli mi rimproverò di aver cambiato di parere.
Se proprio io il giorno prima avevo dichiarato di non voler aspettare l'altra liquidazione per mettere in regola tutto! E qui egli ebbe uno scoppio d'ira violenta che finí col gettarlo privo di forze sul sofà! Egli avrebbe gettato fuori d'ufficio il Nilini e quegli altri agenti che lo avevano trascinato al giuoco.
Oh! Giuocando egli aveva bensí intravvista la possibilità della rovina, ma mai piú la soggezione a donne che non capivano niente di niente.
Andai a stringergli la mano e se lo avesse permesso lo avrei abbracciato.
Non volevo nient'altro che vederlo arrivare a quella decisione.
Niente piú giuoco, ma il lavoro di ogni giorno!
Questo sarebbe stato il nostro avvenire e la sua indipendenza.
Ora si trattava di passare quel breve duro periodo, ma poi tutto sarebbe stato facile e semplice.
Abbattuto, ma piú calmo, egli poco dopo mi lasciò.
Anche lui nella sua debolezza era tutto pervaso da una forte decisione,
- Ritorno da Ada!- mormorò ed ebbe un sorriso amaro, ma sicuro.
L'accompagnai fino alla porta e l'avrei accompagnato fino a casa sua se egli non avesse avuta alla porta la vettura che l'attendeva.
La Nemesi perseguitava Guido.
Mezz'ora dopo ch'egli m'aveva lasciato, io pensai che sarebbe stato prudente da parte mia di recarmi a casa sua ad assisterlo.
Non che io avessi sospettato che su lui potesse incombere un pericolo, ma ormai io ero tutto dalla parte sua e avrei potuto contribuire a convincere Ada e la signora Malfenti ad aiutarlo.
Il fallimento in Borsa non era una cosa che mi piaceva ed in complesso la perdita ripartita fra noi quattro non era insignificante, ma non rappresentava per nessuno di noi la rovina.
Poi ricordai che il mio maggior dovere era oramai non di assistere Guido, ma di fargli trovare pronto il giorno appresso l'importo che gli avevo promesso.
Andai subito in cerca dell'Olivi e mi preparai ad una nuova lotta.
Avevo escogitato un sistema di rifondere alla mia firma il grosso importo in varii anni, versando però di lí ad alcuni mesi tutto quello che ancora restava dell'eredità di mia madre.
Speravo che l'Olivi non avrebbe fatte delle difficoltà, perché io fino ad allora non gli avevo mai domandato piú di quanto mi fosse spettato per utili ed interessi e potevo anche promettere di non inquietarlo mai piú con domande simili.
Era evidente che pur potevo sperare di ricuperare da Guido almeno parte di quell'importo.
Quella sera non seppi trovare l'Olivi.
Era appena uscito dall'ufficio quand'io entrai.
Supponevano si fosse recato alla Borsa.
Non lo trovai neppure colà e allora mi recai a casa sua ove appresi che si trovava ad una seduta di un'associazione economica nella quale occupava un posto onorifico.
Avrei potuto raggiungerlo colà, ma oramai s'era fatto notte, e cadeva ininterrotta una pioggia abbondante che convertiva le vie in tanti ruscelli.
Fu un diluvio che durò per tutta la notte e di cui per lunghi anni non si perdette il ricordo.
La pioggia cadeva tranquilla, tranquilla, addirittura perpendicolarmente, sempre nella stessa abbondanza.
Dalle alture che circondano la città scese il fango che, associato alle scorie della nostra vita cittadina, andò ad ostruire i nostri scarsi canali.
Quando mi decisi a rincasare dopo di aver atteso inutilmente in un rifugio che la pioggia cessasse e quand'ebbi chiara la visione che il tempo s'era assestato nella pioggia e ch'era vano di sperare un mutamento, si camminava nell'acqua anche movendosi sulla parte piú alta del selciato.
Corsi a casa bestemmiando e fracido fino alle ossa.
Bestemmiavo anche perché avevo perduto tanto buon tempo per rintracciare l'Olivi.
Può essere che il mio tempo non sia poi tanto prezioso, ma è sicuro ch'io soffro orrendamente quando posso constatare di aver lavorato invano.
E correndo pensavo: «Lasciamo tutto per domani quando sarà chiaro e bello e asciutto.
Domani andrò dall'Olivi e domani mi recherò da Guido.
Magari mi leverò di buon'ora, ma sarà chiaro e asciutto».
Ero tanto convinto della giustezza della mia decisione che dissi ad Augusta che da tutti si era stabilito di rimandare ogni decisione alla dimane.
Mi cambiai, mi rasciugai e con le comode e calde pantofole sui piedi torturati, dapprima cenai eppoi mi coricai per dormire profondamente fino alla mattina mentre ai vetri delle mie finestre batteva la pioggia grossa come funi.
Cosí seppi solo tardi gli avvenimenti della notte.
Dapprima apprendemmo che la pioggia aveva finito col provocare in varie parti della città delle inondazioni, poi che Guido era morto.
Molto piú tardi seppi come poté accadere una cosa simile.
Alle undici di sera circa, quando la signora Malfenti si fu allontanata, Guido avvertí la moglie ch'egli aveva ingoiata una quantità enorme di veronal.
Volle convincere la moglie che era condannato.
L'abbracciò, la baciò, le domandò perdono di averla fatta soffrire.
Poi, ancora prima che la sua parola si convertisse in un balbettio, l'assicurò ch'essa era stata il solo amore della sua vita.
Essa non credette per allora né a quest'assicurazione né ch'egli avesse ingoiato tanto veleno da poter morirne.
Non credette neppure ch'egli avesse perduti i sensi, ma si figurò che fingesse per strapparle di nuovo dei denari.
Poi, trascorsa quasi un'ora, vedendo ch'egli dormiva sempre piú profondamente, ebbe un certo terrore e scrisse un biglietto ad un medico che abitava non lontano dalla sua abitazione.
Su quel biglietto scisse che suo marito abbisognava di pronto aiuto avendo ingoiato una grande quantità di veronal.
Fino ad allora non c'era stata in quella casa alcun'emozione che avesse potuto avvisare la fantesca, una vecchia donna ch'era in casa da poco tempo, della gravità della sua missione.
La pioggia fece il resto.
La fantesca si trovò con l'acqua a mezza gamba e smarrí il biglietto.
Se ne accorse solo quando si trovò alla presenza del dottore.
Seppe però dirgli che c'era urgenza e lo indusse a seguirla.
Il dottor Mali era un uomo di circa cinquant'anni, tutt'altro che una genialità, ma un medico pratico che aveva fatto sempre il suo dovere come meglio aveva potuto.
Non aveva una grande clientela propria, ma invece aveva molto da fare per conto di una società dai numerosissimi membri, che lo retribuiva poco lautamente.
Era rincasato poco prima ed era arrivato finalmente a riscaldarsi e rasciugarsi accanto al fuoco.
Si può immaginare con quale animo abbandonasse ora il suo caldo cantuccio.
Quando io mi misi ad indagare meglio le cause della morte del mio povero amico, mi preoccupai anche di fare la conoscenza del dottor Mali.
Da lui non seppi altro che questo: quando giunse all'aperto e si sentí bagnare dalla pioggia traverso l'ombrello, si pentí d'aver studiato medicina invece di agricoltura, ricordando che il contadino, quando piove, resta a casa.
Giunto al letto di Guido, trovò Ada del tutto calmata.
Ora che aveva accanto il dottore, ricordava meglio come Guido l'avesse giocata mesi prima simulando un suicidio.
Non toccava piú a lei di assumersi una responsabilità, ma al dottore il quale doveva essere informato di tutto, anche delle ragioni che dovevano far credere in una simulazione di suicidio.
E queste ragioni il dottore le ebbe tutte come prestava nello stesso tempo l'orecchio alle onde che spazzavano la via.
Non essendo stato avvisato che lo si aveva chiamato per curare un caso di avvelenamento, egli mancava di ogni ordigno necessario alla cura.
Lo deplorò balbettando qualche parola che Ada non intese.
Il peggio era che, per poter imprendere un lavacro dello stomaco, egli non avrebbe potuto mandar a prendere le cose necessarie, ma avrebbe dovuto andar a prenderle lui stesso traversando per due volte la via.
Toccò il polso di Guido e lo trovò magnifico.
Domandò ad Ada se forse Guido avesse sempre avuto un sonno molto profondo.
Ada rispose di sí, ma non a quel punto.
Il dottore esaminò gli occhi di Guido: reagivano prontamente alla luce! Se ne andò raccomandando di dargli di tempo in tempo dei cucchiaini di caffè nero fortissimo.
Seppi anche che, giunto sulla via, mormorò con rabbia:
- Non dovrebbe essere permesso di simulare un suicidio con questo tempo!
Io, quando lo conobbi, non osai di fargli un rimprovero per la sua negligenza, ma egli l'indovinò e si difese: mi disse che rimase stupito all'apprendere alla mattina che Guido era morto, tanto che sospettò fosse rinvenuto e avesse preso dell'altro veronal.
Poi soggiunse che i profani d'arte medica non potevano immaginare come nel corso della sua pratica il dottore venisse abituato a difendere la sua vita contro i clienti che vi attentavano non pensando che alla loro.
Dopo poco piú di un'ora, Ada si stancò di cacciare a Guido il cucchiaino fra' denti e vedendo ch'egli ne sorbiva sempre meno e che il resto andava a bagnare il guanciale, si spaventò di nuovo e pregò la fantesca di recarsi dal dottor Paoli.
Questa volta la fantesca tenne da conto il bigliettino.
Ma ci mise piú di un'ora per raggiungere l'abitazione del medico.
È naturale che quando piove tanto si senta il bisogno di tempo in tempo di fermarsi sotto qualche portico.
Una pioggia simile non solo bagna, ma sferza.
Il dottor Paoli non era in casa.
Era stato chiamato poco prima da un cliente e se ne era andato dicendo che sperava di ritornare presto.
Ma poi pare avesse preferito di attendere presso il cliente che la pioggia cessasse.
La sua donna di servizio, una buonissima persona in età, fece sedere la fantesca di Ada accanto al fuoco e si preoccupò di rifocillarla.
Il dottore non aveva lasciato l'indirizzo del suo cliente e cosí le due donne passarono insieme varie ore accanto al fuoco.
Il dottore ritornò, solo quando la pioggia fu cessata.
Quando poi arrivò da Ada con tutti gli ordigni che già aveva esperiti su Guido, albeggiava.
A quel letto ebbe un solo compito: celare ad Ada che Guido era già morto e far venire la signora Malfenti prima che Ada se ne accorgesse, per assisterla nel primo dolore.
Per questo la notizia ci pervenne molto tardi e imprecisa.
Levatomi dal letto ebbi per l'ultima volta uno slancio d'ira contro il povero Guido: complicava ogni sventura con le sue commedie! Uscii di casa senza Augusta che non poteva abbandonare il bimbo cosí su due piedi.
Fuori, fui trattenuto da un dubbio! Non avrei potuto attendere che le Banche si aprissero e l'Olivi fosse nel suo ufficio per comparire dinanzi a Guido fornito del denaro che avevo promesso? Tanto poco credevo alla notizia della gravità delle condizioni di Guido che pur m'era stata annunziata!
La verità la ebbi dal dottor Paoli in cui m'imbattei sulle scale.
Ne ebbi uno sconvolgimento che quasi mi fece precipitare.
Guido, dacché vivevo con lui, era divenuto per me un personaggio di grande importanza.
Finché era vivo lo vedevo in una data luce ch'era la luce di parte delle mie giornate.
Morendo, quella luce si modificava in modo come se improvvisamente fosse passata traverso un prisma.
Era proprio questo che m'abbacinava.
Egli aveva sbagliato, ma io subito vidi ch'essendo morto, dei suoi errori non restava niente.
Secondo me era un imbecille quel buffone che in un cimitero coperto di epigrafi laudatorie domandò dove si seppellissero in quel paese i peccatori.
I morti non sono mai stati peccatori.
Guido era ormai un puro! La morte l'aveva purificato.
Il dottore era commosso per aver assistito al dolore di Ada.
Mi disse qualche cosa dell'orrenda notte ch'essa aveva passata.
Oramai si era riusciti a farle credere che la quantità di veleno ingerita da Guido era stata tale che nessun soccorso avrebbe potuto giovare.
Guai se avesse saputo altrimenti!
- Invece - aggiunse il dottore con sconforto - se io fossi arrivato qualche ora prima l'avrei salvato.
Ho trovate le boccette vuote del veleno.
Le esaminai.
Una dose forte ma poco piú forte dell'altra volta.
Mi fece vedere alcune boccette sulle quali lessi stampato: Veronal.
Dunque non veronal al sodio.
Come nessun altro io potevo ora essere certo che Guido non aveva voluto morire.
Non lo dissi però mai a nessuno.
Il Paoli mi lasciò dopo di avermi detto che per il momento non cercassi di vedere Ada.
Egli le aveva propinati dei forti calmanti e non dubitava che presto avrebbero avuto il loro effetto.
Sul corridoio sentii venire da quella stanzuccia, ove ero stato ricevuto due volte da Ada, il suo pianto mite.
Erano parole singole che non intendevo, ma pregne di affanno.
La parola lui era ripetuta piú volte ed io immaginai quello ch'essa diceva.
Stava ricostruendo la sua relazione col povero morto.
Non doveva somigliare affatto a quella ch'essa aveva avuta col vivo.
Per me era evidente ch'essa col marito vivo aveva sbagliato.
Egli moriva per un delitto commesso da tutti insieme perché egli aveva giocato alla Borsa col consenso di tutti loro.
Quando s'era trattato di pagare allora l'avevano lasciato solo.
E lui s'era affrettato di pagare.
Unico dei congiunti io, che veramente non ci entravo, avevo sentito il dovere di soccorrerlo.
Nella stanza da letto matrimoniale il povero Guido giaceva abbandonato, coperto dal lenzuolo.
La rigidezza già avanzata, esprimeva qui non una forza ma la grande stupefazione di essere morto senz'averlo voluto.
Sulla sua faccia bruna e bella era impronto un rimprovero.
Certamente non diretto a me.
Andai da Augusta a sollecitarla di venire ad assistere la sorella.
Io ero molto commosso ed Augusta pianse abbracciandomi:
- Tu sei stato un fratello per lui, - mormorò.
- Solo adesso io sono d'accordo con te di sacrificare una parte del nostro patrimonio per purificare la sua memoria.
Mi preoccupai di rendere ogni onore al mio povero amico.
Intanto affissi alla porta dell'ufficio un bollettino che ne annunciava la chiusura per la morte del proprietario.
Composi io stesso l'avviso mortuario.
Ma soltanto il giorno seguente, d'accordo con Ada, furono prese le disposizioni per il funerale.
Seppi allora che Ada aveva deciso di seguire il feretro al cimitero.
Voleva concedergli tutte le prove d'affetto che poteva.
Poverina! Io sapevo quale dolore fosse quello del rimorso su una tomba.
Ne avevo tanto sofferto anch'io alla morte di mio padre.
Passai il pomeriggio chiuso nell'ufficio in compagnia del Nilini.
Si arrivò cosí a fare un piccolo bilancio della situazione di Guido.
Spaventevole! Non solo era distrutto il capitale della ditta, ma Guido restava debitore di altrettanto, se avesse dovuto rispondere di tutto.
Io avrei avuto bisogno di lavorare, proprio lavorare a vantaggio del mio povero defunto amico, ma non sapevo far altro che sognare.
La prima mia idea sarebbe stata di sacrificare tutta la mia vita in quell'ufficio e di lavorare a vantaggio di Ada e dei suoi figliuoli.
Ma ero poi sicuro di saper far bene?
Il Nilini, come al solito, chiacchierava mentre io guardavo tanto, tanto lontano.
Anche lui sentiva il bisogno di mutare radicalmente le sue relazioni con Guido.
Ora comprendeva tutto! Il povero Guido, quando gli aveva fatto di torto, era stato già colto dalla malattia che doveva condurlo al suicidio.
Perciò tutto era dimenticato oramai.
E predicò dicendosi proprio fatto cosí.
Non poteva serbare rancore a nessuno.
Egli aveva sempre voluto bene a Guido e gliene voleva tuttavia.
Finí che i sogni del Nilini s'associarono ai miei e vi si sovrapposero.
Non era nel lento commercio che si avrebbe potuto trovare il riparo ad una catastrofe simile, ma alla Borsa stessa.
E il Nilini mi raccontò di persona a lui amica che all'ultimo momento aveva saputo salvarsi raddoppiando la posta.
Parlammo insieme per molte ore, ma la proposta del Nilini di proseguire nel gioco iniziato da Guido, arrivò in ultimo, poco prima del mezzodí e fu subito accettata da me.
L'accettai con una gioia tale come se cosí fossi riuscito di far rivivere il mio amico.
Finí che io comperai a nome del povero Guido una quantità di altre azioni dal nome bizzarro: Rio Tinto, South French e cosí via.
Cosí s'iniziarono per me le cinquanta ore di massimo lavoro cui abbia atteso in tutta la mia vita.
Dapprima e fino a sera restai a misurare a grandi passi su e giú l'ufficio in attesa di sentire se i miei ordini fossero stati eseguiti.
Io temevo che alla Borsa si fosse risaputo del suicidio di Guido e che il suo nome non venisse piú ritenuto buono per impegni ulteriori.
Invece per varii giorni non si attribuí quella morte a suicidio.
Poi, quando il Nilini finalmente poté avvisarmi che tutti i miei ordini erano stati eseguiti, incominciò per me una vera agitazione, aumentata dal fatto che al momento di ricevere gli stabiliti, fui informato che su tutti io perdevo già qualche frazione abbastanza importante.
Ricordo quell'agitazione come un vero e proprio lavoro.
Ho la curiosa sensazione nel mio ricordo che ininterrottamente, per cinquanta ore, io fossi rimasto assiso al tavolo da giuoco succhiellando le carte.
Io non conosco nessuno che per tante ore abbia saputo resistere ad una fatica simile.
Ogni movimento di prezzo fu da me registrato, sorvegliato, eppoi (perché non dirlo?) ora spinto innanzi ed ora trattenuto, come a me, ossia al mio povero amico, conveniva.
Persino le mie notti furono insonni.
Temendo che qualcuno della famiglia avesse potuto intervenire ad impedirmi l'opera di salvataggio cui m'ero accinto, non parlai a nessuno della liquidazione di metà del mese quando giunse.
Pagai tutto io, perché nessun altro si ricordò di quegli impegni, visto che tutti erano intorno al cadavere che attendeva la tumulazione.
Del resto, in quella liquidazione era da pagare meno di quanto fosse stato stabilito a suo tempo, perché la fortuna m'aveva subito assecondato.
Era tale il mio dolore per la morte di Guido, che mi pareva di attenuarlo compromettendomi in tutti i modi tanto con la mia firma che con l'esposizione del mio danaro.
Fin qui m'accompagnava il sogno di bontà che avevo fatto lungo tempo prima accanto a lui.
Soffersi tanto di quell'agitazione, che non giuocai mai piú in Borsa per conto mio.
Ma a forza di «succhiellare» (questa era la mia occupazione precipua) finii col non intervenire al funerale di Guido.
La cosa avvenne cosí.
Proprio quel giorno i valori in cui eravamo impegnati fecero un balzo in alto.
Il Nilini ed io passammo il nostro tempo a fare il calcolo di quanto avessimo ricuperato della perdita.
Il patrimonio del vecchio Speier figurava ora solamente dimezzato! Un magnifico risultato che mi riempiva di orgoglio.
Avveniva proprio quello che il Nilini aveva preveduto in tono molto dubitativo bensí ma che ora, naturalmente, quando ripeteva le parole dette, spariva ed egli si presentava quale un sicuro profeta.
Secondo me egli aveva previsto questo e anche il contrario.
Non avrebbe fallato mai, ma non glielo dissi perché a me conveniva ch'egli restasse nell'affare con la sua ambizione.
Anche il suo desiderio poteva influire sui prezzi.
Partimmo dall'ufficio alle tre e corremmo perché allora ricordammo che il funerale doveva aver luogo alle due e tre quarti.
All'altezza dei volti di Chiozza, vidi in lontananza il convoglio e mi parve persino di riconoscere la carrozza di un amico mandata al funerale per Ada.
Saltai col Nilini in una vettura di piazza, dando ordine al cocchiere di seguire il funerale.
E in quella vettura il Nilini ed io continuammo a succhiellare.
Eravamo tanto lontani dal pensiero al povero defunto che ci lagnavamo dell'andatura lenta della vettura.
Chissà quello che intanto avveniva alla Borsa non sorvegliata da noi? Il Nilini, a un dato momento, mi guardò proprio con gli occhi e mi domandò perché non facessi alla Borsa qualche cosa per conto mio.
- Per il momento - dissi io, e non so perché arrossissi, - io non lavoro che per conto del mio povero amico.
Quindi, dopo una lieve esitazione, aggiunsi:
- Poi penserò a me stesso.
- Volevo lasciargli la speranza di poter indurmi al giuoco sempre nello sforzo di conservarmelo interamente amico.
Ma fra me e me formulai proprio le parole che non osavo dirgli: «Non mi metterò mai in mano tua!».
Egli si mise a predicare.
- Chissà se si può cogliere un'altra simile occasione! - Dimenticava d'avermi insegnato che alla Borsa v'era l'occasione ad ogni ora.
Quando si arrivò al posto dove di solito le vetture si fermano, il Nilini sporse la testa dalla finestra e diede un grido di sorpresa.
La vettura continuava a procedere dietro al funerale che s'avviava al cimitero greco.
- Il signor Guido era greco? - domandò sorpreso.
Infatti il funerale passava oltre al cimitero cattolico e s'avviava a qualche altro cimitero, giudaico, greco, protestante o serbo.
- Può essere che sia stato protestante! - dissi io dapprima, ma subito mi ricordai d'aver assistito al suo matrimonio nella chiesa cattolica.
- Dev'essere un errore! - esclamai pensando dapprima che volessero seppellirlo fuori di posto.
Il Nilini improvvisamente scoppiò a ridere di un riso irrefrenabile che lo gettò privo di forze in fondo alla vettura con la sua boccaccia spalancata nella piccola faccia.
- Ci siamo sbagliati! - esclamò.
Quando arrivò a drenare lo scoppio della sua ilarità, mi colmò di rimproveri.
Io avrei dovuto vedere dove si andava perché io avrei dovuto sapere l'ora e le persone ecc.
Era il funerale di un altro!
Irritato, io non avevo riso con lui ed ora m'era difficile di sopportare i suoi rimproveri.
Perché non aveva guardato meglio anche lui? Frenai il mio malumore solo perché mi premeva piú la Borsa, che il funerale.
Scendemmo dalla vettura per orizzontarci meglio e ci avviammo verso l'entrata del cimitero cattolico.
La vettura ci seguí.
M'accorsi che i superstiti dell'altro defunto ci guardavano sorpresi non sapendo spiegarsi perché dopo di aver onorato fino a quell'estremo limite quel poverino lo abbandonassimo sul piú bello.
Il Nilini spazientito mi precedeva.
Domandò al portiere dopo una breve esitazione:
- Il funerale del signor Guido Speier è già arrivato?
Il portiere non sembrò sorpreso della domanda che a me parve comica.
Rispose che non lo sapeva.
Sapeva solo dire che nel recinto erano entrati nell'ultima mezz'ora due funerali.
Perplessi ci consultammo.
Evidentemente non si poteva sapere se il funerale si trovasse già dentro o fuori.
Allora decisi per mio conto.
A me non era permesso d'intervenire alla funzione forse già cominciata e turbarla.
Dunque non sarei entrato in cimitero.
Ma d'altronde non potevo rischiare d'imbattermi nel funerale, ritornando.
Rinunziavo perciò ad assistere all'interramento e sarei ritornato in città facendo un lungo giro oltre Servola.
Lasciai la vettura al Nilini che non voleva rinunziare di far atto di presenza per riguardo ad Ada ch'egli conosceva.
Con passo rapido, per sfuggire a qualunque incontro, salii la strada di campagna che conduceva al villaggio.
Oramai non mi dispiaceva affatto di essermi sbagliato di funerale e di non aver reso gli ultimi onori al povero Guido.
Non potevo indugiarmi in quelle pratiche religiose.
Altro dovere m'incombeva: dovevo salvare l'onore del mio amico e difenderne il patrimonio a vantaggio della vedova e dei figli.
Quando avrei informata Ada ch'ero riuscito di ricuperare tre quarti della perdita (e riandavo con la mente su tutto il conto fatto tante volte: Guido aveva perduto il doppio del patrimonio del padre e, dopo il mio intervento, la perdita si riduceva a metà di quel patrimonio.
Era perciò esatto.
Io avevo ricuperata proprio tre quarti della perdita), essa certamente m'avrebbe perdonato di non essere intervenuto al suo funerale.
Quel giorno il tempo s'era rimesso al bello.
Brillava un magnifico sole primaverile e, sulla campagna ancora bagnata, l'aria era nitida e sana.
I miei polmoni, nel movimento che non m'ero concesso da varii giorni, si dilatavano.
Ero tutto salute e forza.
La salute non risalta che da un paragone.
Mi paragonavo al povero Guido e salivo, salivo in alto con la mia vittoria nella stessa lotta nella quale egli era soggiaciuto.
Tutto era salute e forza intorno a me.
Anche la campagna dall'erba giovine.
L'estesa e abbondante bagnatura, la catastrofe dell'altro giorno, dava ora soli benefici effetti ed il sole luminoso era il tepore desiderato dalla terra ancora ghiacciata.
Era certo che quanto piú ci si sarebbe allontanati dalla catastrofe, tanto piú discaro sarebbe stato quel cielo azzurro se non avesse saputo oscurarsi a tempo.
Ma questa era la previsione dell'esperienza ed io non la ricordai; m'afferra solo ora che scrivo.
In quel momento c'era nel mio animo solo un inno alla salute mia e di tutta la natura; salute perenne.
Il mio passo si fece piú rapido.
Mi beavo di sentirlo tanto leggero.
Scendendo dalla collina di Servola s'affrettò fin qui quasi alla corsa.
Giunto al passeggio di Sant'Andrea, sul piano, si rallentò di nuovo, ma avevo sempre il senso di una grande facilità.
L'aria mi portava.
Avevo perfettamente dimenticato che venivo dal funerale del mio piú intimo amico.
Avevo il passo e il respiro del vittorioso.
Però la mia gioia per la vittoria era un omaggio al mio povero amico nel cui interesse era sceso in lizza.
Andai all'ufficio a vedere i corsi di chiusa.
Erano un po' piú deboli, ma non fu questo che mi tolse la fiducia.
Sarei tornato a «succhiellare» e non dubitavo che sarei arrivato allo scopo.
Dovetti finalmente recarmi alla casa di Ada.
Venne ad aprirmi Augusta.
Mi domandò subito:
- Come hai fatto a mancare al funerale, tu, l'unico uomo nella nostra famiglia?
Deposi l'ombrello e il cappello, e un po' perplesso le dissi che avrei voluto parlare subito anche con Ada per non dover ripetermi.
Intanto potevo assicurarla che avevo avute le mie buone ragioni per mancare dal funerale.
Non ne ero piú tanto sicuro e improvvisamente il mio fianco s'era fatto dolente forse per la stanchezza.
Doveva essere quell'osservazione di Augusta, che mi faceva dubitare della possibilità di far scusare la mia assenza che doveva aver causato uno scandalo; vedevo dinanzi a me tutti i partecipi alla mesta funzione che si distraevano dal loro dolore per domandarsi dove io potessi essere.
Ada non venne.
Poi seppi che non era stata neppure avvisata ch'io l'attendessi.
Fui ricevuto dalla signora Malfenti che incominciò a parlarmi con un cipiglio severo quale non le avevo mai visto.
Cominciai a scusarmi, ma ero ben lontano dalla sicurezza con cui ero volato dal cimitero in città.
Balbettavo.
Le raccontai anche qualche cosa di meno vero in appendice della verità, ch'era la mia coraggiosa iniziativa alla Borsa a favore di Guido, e cioè che poco prima dell'ora del funerale avevo dovuto spedire un dispaccio a Parigi per dare un ordine e che non m'ero sentito di allontanarmi dall'ufficio prima di aver ricevuta la risposta.
Era vero che il Nilini ed io avevamo dovuto telegrafare a Parigi, ma due giorni prima, e due giorni prima avevamo ricevuta anche la risposta.
Insomma comprendevo che la verità non bastava a scusarmi fors'anche perché non potevo dirla tutta e raccontare dell'operazione tanto importante cui io da giorni attendevo cioè a regolare col mio desiderio i cambii mondiali.
Ma la signora Malfenti mi scusò quando sentí la cifra cui ora ammontava la perdita di Guido.
Mi ringraziò con le lacrime agli occhi.
Ero di nuovo non l'unico uomo della famiglia, ma il migliore.
Mi domandò di venire di sera con Augusta a salutare Ada cui essa nel frattempo avrebbe raccontato tutto.
Per il momento Ada non era al caso di ricevere nessuno.
Ed io, volentieri, me ne andai con mia moglie.
Neppure essa, prima di lasciare quella casa, sentí il bisogno di congedarsi da Ada, che passava da pianti disperati ad abbattimenti che le impedivano persino di accorgersi della presenza di chi le parlava.
Ebbi una speranza:
- Allora non è Ada che si è accorta della mia assenza?
Augusta mi confessò che avrebbe voluto tacerne, tanto le era sembrata eccessiva la manifestazione di risentimento di Ada per tale mia mancanza.
Ada esigette delle spiegazioni da lei e quando Augusta dovette dirle di non saperne nulla non avendomi ancora visto, essa s'abbandonò di nuovo alla sua disperazione urlando che Guido aveva dovuto finire cosí essendo stato odiato da tutta la famiglia.
A me parve che Augusta avrebbe dovuto difendermi e ricordare ad Ada come io solo ero stato pronto di soccorrere Guido nel modo che si doveva.
Se fossi stato ascoltato, Guido non avrebbe avuto alcun motivo di tentare o simulare un suicidio.
Augusta invece aveva taciuto.
Era stata tanto commossa dalla disperazione di Ada che avrebbe temuto di oltraggiarla mettendosi a discutere.
Del resto essa era fiduciosa che ora le spiegazioni della signora Malfenti avrebbero convinto Ada dell'ingiustizia ch'essa mi usava.
Devo dire che avevo anch'io tale fiducia ed anzi confessare che da quel momento gustai la certezza di assistere alla sorpresa di Ada e alle sue manifestazioni di gratitudine.
Già da lei, causa Basedow, tutto era eccessivo.
Ritornai all'ufficio ove appresi che c'era alla Borsa di nuovo un lieve accenno all'ascesa, lievissimo, ma già tale che si poteva sperare di ritrovare il giorno dopo, all'apertura, i corsi della mattina.
Dopo cena dovetti andar da Ada da solo perché Augusta fu impedita di accompagnarmi per una indisposizione della bambina.
Fui ricevuto dalla signora Malfenti che mi disse che doveva attendere a qualche lavoro in cucina e che perciò avrebbe dovuto lasciarmi solo con Ada.
Poi mi confessò che Ada l'aveva pregata di lasciarla sola con me perché voleva dirmi qualche cosa che non doveva esser sentito da altri.
Prima di lasciarmi in quel salottino ove già due volte m'ero trovato con Ada, la signora Malfenti mi disse sorridendo:
- Sai, non è ancora disposta a perdonarti la tua assenza dal funerale di Guido, ma...
quasi!
In quel camerino mi batteva sempre il cuore.
Questa volta non per il timore di vedermi amato da chi non amavo.
Da pochi istanti e solo per le parole della signora Malfenti, avevo riconosciuto di aver commessa una grave mancanza verso la memoria del povero Guido.
La stessa Ada, ora che sapeva che a scusare tale mancanza le offrivo un patrimonio, non sapeva perdonarmi subito.
M'ero seduto e guardavo i ritratti dei genitori di Guido.
Il vecchio Cada aveva un'aria di soddisfazione che mi pareva dovuta al mio operato, mentre la madre di Guido, una donna magra vestita di un vestito dalle maniche abbondanti e un cappellino che le stava in equilibrio su una montagna di capelli, aveva l'aria molto severa.
Ma già! Ognuno dinanzi alla macchina fotografica assume un altro aspetto ed io guardai altrove sdegnato con me stesso d'indagare quelle faccie.
La madre non poteva certo aver previsto ch'io non avrei assistito all'interramento del figlio!
Ma il modo come Ada mi parlò fu una dolorosa sorpresa.
Essa doveva aver studiato a lungo quello ch'essa voleva dirmi e non tenne addirittura conto delle mie spiegazioni, delle mie proteste e delle mie rettifiche ch'essa non poteva aver previste e cui perciò non era preparata.
Corse la sua via come un cavallo spaventato, fino in fondo.
Entrò vestita semplicemente di una vestaglia nera, la capigliatura nel grande disordine di capelli sconvolti e fors'anche strappati da una mano che s'accanisce a trovar da far qualche cosa, quando non può altrimenti lenire.
Giunse fino al tavolino a cui ero seduto e vi si appoggiò con le mani per vedermi meglio.
La sua faccina era di nuovo dimagrata e liberata da quella strana salute che le cresceva fuori di posto.
Non era bella come quando Guido l'aveva conquistata, ma nessuno guardandola avrebbe ricordata la malattia.
Non c'era! C'era invece un dolore tanto grande che la rilevava tutta.
Io lo compresi tanto bene quell'enorme dolore, che non seppi parlare.
Finché la guardai pensai: «quali parole potrei dirle che potrebbero equivalere a prenderla fraternamente fra le mie braccia per confortarla e indurla a piangere e sfogarsi?».
Poi, quando mi sentii aggredito, volli reagire, ma troppo debolmente ed essa non mi sentí.
Essa disse, disse, disse ed io non so ripetere tutte le sue parole.
Se non sbaglio cominciò col ringraziarmi seriamente, ma senza calore di aver fatto tanto per lei e per i bambini.
Poi subito rimproverò:
- Cosí hai fatto in modo ch'egli è morto proprio per una cosa che non ne valeva la pena!
Poi abbassò la voce come se avesse voluto tener segreto quello che mi diceva e nella sua voce vi fu maggior calore, un calore che risultava dal suo affetto per Guido e (o mi parve?) anche per me:
- Ed io ti scuso per non esser venuto al suo funerale.
Tu non potevi farlo ed io ti scuso.
Anche lui ti scuserebbe se fosse ancora vivo.
Che ci avresti fatto tu al suo funerale? Tu che non lo amavi! Buono come sei, avresti potuto piangere per me, per le mie lagrime, ma non per lui che tu...
odiavi! Povero Zeno! Fratello mio!
Era enorme che mi si potesse dire una cosa simile alterando in tale modo la verità.
Io protestai, ma essa non mi sentí.
Credo di aver urlato o almeno ne sentii lo sforzo nella strozza:
- Ma è un errore, una menzogna, una calunnia.
Come fai a credere una cosa simile?
Essa continuò sempre a bassa voce:
- Ma neppure io seppi amarlo.
Non lo tradii neppure col pensiero, ma sentivo in modo che non ebbi la forza di proteggerlo.
Guardavo ai tuoi rapporti con tua moglie e li invidiavo.
Mi parevano migliori di quelli ch'egli mi offriva.
Ti sono grata di non essere intervenuto al funerale perché altrimenti non avrei neppur oggi compreso nulla.
Cosí invece vedo e intendo tutto.
Anche che io non l'amai: altrimenti come avrei potuto odiare persino il suo violino, l'espressione piú completa del suo grande animo?
Fu allora che io poggiai la mia testa sul braccio e nascosi la mia faccia.
Le accuse ch'essa mi rivolgeva erano tanto ingiuste che non si potevano discutere ed anche la loro irragionevolezza era tanto mitigata dal suo tono affettuoso che la mia reazione non poteva essere aspra come avrebbe dovuto per riuscire vittoriosa.
D'altronde già Augusta m'aveva dato l'esempio di un silenzio riguardoso per non oltraggiare ed esasperare tanto dolore.
Quando però i miei occhi si chiusero, nell'oscurità vidi che le sue parole avevano creato un mondo nuovo come tutte le parole non vere.
Mi parve d'intendere anch'io di aver sempre odiato Guido e di essergli stato accanto, assiduo, in attesa di poter colpirlo.
Essa poi aveva messo Guido insieme al suo violino.
Se non avessi saputo ch'essa brancolava nel suo dolore e nel suo rimorso, avrei potuto credere che quel violino fosse stato sfoderato come parte di Guido per convincere dell'accusa di odio l'animo mio.
Poi nell'oscurità rividi il cadavere di Guido e nella sua faccia sempre stampato lo stupore di essere là, privato dalla vita.
Spaventato rizzai la testa.
Era preferibile affrontare l'accusa di Ada che io sapevo ingiusta che guardare nell'oscurità.
Ma essa parlava sempre di me e di Guido:
- E tu, povero Zeno, senza saperlo, continuavi a vivergli accanto odiandolo.
Gli facevi del bene per mio amore.
Non si poteva! Doveva finire cosí! Anch'io credetti una volta di poter approfittare dell'amore ch'io sapevo tu mi serbavi per aumentare d'intorno a lui la protezione che poteva essergli utile.
Non poteva essere protetto che da chi lo amava e, fra noi, nessuno l'amò.
- Che cosa avrei potuto fare di piú per lui? - domandai io piangendo a calde lacrime per far sentire a lei e a me stesso la mia innocenza.
Le lacrime sostituiscono talvolta un grido.
Io non volevo gridare ed ero persino dubbioso se dovessi parlare.
Ma dovevo soverchiare le sue asserzioni e piansi.
- Salvarlo, caro fratello! Io o tu, noi si avrebbe dovuto salvarlo.
Io invece gli stetti accanto e non seppi farlo per mancanza di vero affetto e tu restasti lontano, assente, sempre assente finché egli non fu sepolto.
Poi apparisti sicuro armato di tutto il tuo affetto.
Ma, prima, di lui non ti curasti.
Eppure fu con te fino alla sera.
E tu avresti potuto immaginare, se di lui ti fossi preoccupato, che qualche cosa di grave stava per succedere.
Le lacrime m'impedivano di parlare, ma borbottai qualche cosa che doveva stabilire il fatto che la notte innanzi egli l'aveva passata a divertirsi in palude a caccia, per cui nessuno a questo mondo avrebbe potuto prevedere quale uso egli avrebbe fatto della notte seguente.
- Egli abbisognava della caccia, egli ne abbisognava! - mi rampognò essa ad alta voce.
Eppoi, come se lo sforzo di quel grido fosse stato soverchio, essa tutt'ad un tratto crollò e s'abbatté priva di sensi sul pavimento.
Mi ricordo che per un istante esitai di chiamare la signora Malfenti.
Mi pareva che quello svenimento rivelasse qualche cosa di quanto aveva detto.
Accorsero la signora Malfenti e Alberta.
La signora Malfenti sostenendo Ada mi domandò:
- Ha parlato con te di quelle benedette operazioni di Borsa? - Poi: - È il secondo svenimento quest'oggi!
Mi pregò di allontanarmi per un istante ed io andai sul corridoio ove attesi per sapere se dovevo rientrare o andarmene.
Mi preparavo ad ulteriori spiegazioni con Ada.
Essa dimenticava che se si fosse proceduto come io l'avevo proposto, la disgrazia sicuramente sarebbe stata evitata.
Bastava dirle questo per convincerla del torto ch'essa mi faceva.
Poco dopo, la signora Malfenti mi raggiunse e mi disse che Ada era rinvenuta e che voleva salutarmi.
Riposava sul divano su cui fino a poco prima ero stato seduto io.
Vedendomi, si mise a piangere e furono le prime lagrime ch'io le vidi spargere.
Mi porse la manina madida di sudore:
- Addio, caro Zeno! Te ne prego, ricorda! Ricorda sempre! Non dimenticarlo!
Intervenne la signora Malfenti a domandare quello che avessi da ricordare ed io le dissi che Ada desiderava che subito fosse liquidata tutta la posizione di Guido alla Borsa.
Arrossii della mia bugia e temetti anche una smentita da parte di Ada.
Invece di smentirmi essa si mise ad urlare:
- Sí! Sí! Tutto dev'essere liquidato! Di quell'orribile Borsa non voglio piú sentirne parlare!
Era di nuovo piú pallida e la signora Malfenti, per quietarla, l'assicurò che subito sarebbe stato fatto com'essa desiderava.
Poi la signora Malfenti m'accompagnò alla porta e mi pregò di non precipitare le cose: facessi il meglio che credessi nell'interesse di Guido.
Ma io risposi che non mi fidavo piú.
Il rischio era enorme e non potevo piú osare di trattare a quel modo gl'interessi altrui.
Non credevo piú nel giuoco di Borsa o almeno mi mancava la fiducia che il mio «succhiellare» potesse regolarne l'andamento.
Dovevo liquidare perciò subito, ben contento che fosse andata cosí.
Non ripetei ad Augusta le parole di Ada.
Perché avrei dovuto affliggerla? Ma quelle parole, anche perché non le riferii ad alcuno, restarono a martellarmi l'orecchio, e m'accompagnarono per lunghi anni.
Risuonano tuttavia nell'anima mia.
Tante volte ancora oggidí le analizzo.
Io non posso dire di aver amato Guido, ma ciò solo perché era stato uno strano uomo.
Ma gli stetti accanto fraternamente e lo assistetti come seppi.
Il rimprovero di Ada non lo merito.
Con lei non mi trovai mai piú da solo.
Essa non sentí il bisogno di dirmi altro né io osai esigere una spiegazione, forse per non rinnovarle il dolore.
In Borsa la cosa finí come avevo previsto e il padre di Guido, dopo che col primo dispaccio gli era stata avvisata la perdita di tutta la sua sostanza, ebbe certamente piacere a ritrovarne la metà intatta.
Opera mia di cui non seppi godere come m'ero atteso.
Ada mi trattò affettuosamente tutto il tempo fino alla sua partenza per Buenos Aires ove coi suoi bambini andò a raggiungere la famiglia del marito.
Amava di ritrovarsi con me ed Augusta.
Io talvolta volli figurarmi che tutto quel suo discorso fosse stato dovuto ad uno scoppio di dolore addirittura pazzesco e ch'essa neppure lo ricordasse.
Ma poi una volta che si riparlò in nostra presenza di Guido, essa ripeté e confermò in due parole tutto quello che quel giorno essa m'aveva detto:
- Non fu amato da nessuno, il poverino!
Al momento d'imbarcarsi con in braccio uno dei suoi bambini lievemente indisposto, essa mi baciò.
Poi, in un momento in cui nessuno ci stava accanto essa mi disse:
- Addio, Zeno, fratello mio.
Io ricorderò sempre che non seppi amarlo abbastanza.
Devi saperlo! Io abbandono volentieri il mio paese.
Mi pare di allontanarmi dai miei rimorsi!
La rimproverai di crucciarsi cosí.
Dichiarai ch'essa era stata una buona moglie e che io lo sapevo e avrei potuto testimoniarlo.
Non so se riuscii a convincerla.
Essa non parlò piú, vinta dai singhiozzi.
Poi, molto tempo dopo, sentii che congedandosi da me, essa aveva voluto con quelle parole rinnovare anche i rimproveri fatti a me.
Ma so ch'essa mi giudicò a torto.
Certo io non ho da rimproverarmi di non aver voluto bene a Guido.
La giornata era torbida e fosca.
Pareva che una sola nube distesa e niente minacciosa offuscasse il cielo.
Dal porto tentava di uscire a forza di remi un grande bragozzo le cui vele pendevano inerti dagli alberi.
Due soli uomini vogavano e, con colpi innumeri, arrivavano appena a muovere il grosso bastimento.
Al largo avrebbero trovata una brezza favorevole, forse.
Ada, dalla tolda del piroscafo, salutava agitando il suo fazzoletto.
Poi ci volse le spalle.
Certo guardava verso sant'Anna ove riposava Guido.
La sua figurina elegante diveniva piú perfetta quanto piú si allontanava.
Io ebbi gli occhi offuscati dalle lacrime.
Ecco ch'essa ci abbandonava e che mai piú avrei potuto provarle la mia innocenza.
8.
Psico-analisi
3 Maggio 1915
L'ho finita con la psico-analisi.
Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima.
Non ho ancora congedato il dottore, ma la mia risoluzione è irrevocabile.
Ieri intanto gli mandai a dire ch'ero impedito, e per qualche giorno lascio che m'aspetti.
Se fossi ben sicuro di saper ridere di lui senz'adirarmi, sarei anche capace di rivederlo.
Ma ho paura che finirei col mettergli le mani addosso.
In questa città, dopo lo scoppio della guerra, ci si annoia piú di prima e, per rimpiazzare la psico-analisi, io mi rimetto ai miei cari fogli.
Da un anno non avevo scritto una parola, in questo come in tutto il resto obbediente alle prescrizioni del dottore il quale asseriva che durante la cura dovevo raccogliermi solo accanto a lui perché un raccoglimento da lui non sorvegliato avrebbe rafforzati i freni che impedivano la mia sincerità, il mio abbandono.
Ma ora mi trovo squilibrato e malato piú che mai e, scrivendo, credo che mi netterò piú facilmente del male che la cura m'ha fatto.
Almeno sono sicuro che questo è il vero sistema per ridare importanza ad un passato che piú non duole e far andare via piú rapido il presente uggioso.
Tanto fiduciosamente m'ero abbandonato al dottore che quando egli mi disse ch'ero guarito, gli credetti con fede intera e invece non credetti ai miei dolori che tuttavia m'assalivano.
Dicevo loro: «Non siete mica voi!».
Ma adesso non v'è dubbio! Son proprio loro! Le ossa delle mie gambe si sono convertite in lische vibranti che ledono la carne e i muscoli.
Ma di ciò non m'importerebbe gran fatto e non è questa la ragione per cui lascio la cura.
Se le ore di raccoglimento presso il dottore avessero continuato ad essere interessanti apportatrici di sorprese e di emozioni, non le avrei abbandonate o, per abbandonarle, avrei atteso la fine della guerra che m'impedisce ogni altra attività.
Ma ora che sapevo tutto, cioè che non si trattava d'altro che di una sciocca illusione, un trucco buono per commuovere qualche vecchia donna isterica, come potevo sopportare la compagnia di quell'uomo ridicolo, con quel suo occhio che vuole essere scrutatore e quella sua presunzione che gli permette di aggruppare tutti i fenomeni di questo mondo intorno alla sua grande, nuova teoria? Impiegherò il tempo che mi resta libero scrivendo.
Scriverò intanto sinceramente la storia della mia cura.
Ogni sincerità fra me e il dottore era sparita ed ora respiro.
Non m'è piú imposto alcuno sforzo.
Non debbo costringermi ad una fede né ho da simulare di averla.
Proprio per celare meglio il mio vero pensiero, credevo di dover dimostrargli un ossequio supino e lui ne approfittava per inventarne ogni giorno di nuove.
La mia cura doveva essere finita perché la mia malattia era stata scoperta.
Non era altra che quella diagnosticata a suo tempo dal defunto Sofocle sul povero Edipo: avevo amata mia madre e avrei voluto ammazzare mio padre.
Né io m'arrabbiai! Incantato stetti a sentire.
Era una malattia che mi elevava alla piú alta nobiltà.
Cospicua quella malattia di cui gli antenati arrivavano all'epoca mitologica! E non m'arrabbio neppure adesso che sono qui solo con la penna in mano.
Ne rido di cuore.
La miglior prova ch'io non ho avuta quella malattia risulta dal fatto che non ne sono guarito.
Questa prova convincerebbe anche il dottore.
Se ne dia pace: le sue parole non poterono guastare il ricordo della mia giovinezza.
Io chiudo gli occhi e vedo subito puro, infantile, ingenuo, il mio amore per mia madre, il mio rispetto ed il grande mio affetto per mio padre.
Il dottore presta una fede troppo grande anche a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perché le riveda.
Dio mio! Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto.
Una confessione in iscritto è sempre menzognera.
Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! È proprio cosí che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi.
Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto.
Il dottore mi confessò che, in tutta la sua lunga pratica, giammai gli era avvenuto di assistere ad un'emozione tanto forte come la mia all'imbattermi nelle immagini ch'egli credeva di aver saputo procurarmi.
Perciò anche fu tanto pronto a dichiararmi guarito.
Ed io non simulai quell'emozione.
Fu anzi una delle piú profonde ch'io abbia avuta in tutta la mia vita.
Madida di sudore quando l'immagine creai, di lagrime quando l'ebbi.
Io avevo già adorata la speranza di poter rivivere un giorno d'innocenza e d'ingenuità.
Per mesi e mesi tale speranza mi resse e m'animò.
Non si trattava forse di ottenere col vivo ricordo in pieno inverno le rose del Maggio? Il dottore stesso assicurava che il ricordo sarebbe stato lucente e completo, tale che avrebbe rappresentato un giorno di piú della mia vita.
Le rose avrebbero avuto il loro pieno effluvio e magari anche le loro spine.
È cosí che a forza di correr dietro a quelle immagini, io le raggiunsi.
Ora so di averle inventate.
Ma inventare è una creazione, non già una menzogna.
Le mie erano delle invenzioni come quelle della febbre, che camminano per la stanza perché le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano.
Avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose vive.
A forza di desiderio, io proiettai le immagini, che non c'erano che nel mio cervello, nello spazio in cui guardavo, uno spazio di cui sentivo l'aria, la luce ed anche gli angoli contundenti che non mancarono in alcuno spazio per cui io sia passato.
Quando arrivai al torpore che doveva facilitare l'illusione e che mi pareva nient'altro che l'associazione di un grande sforzo con una grande inerzia, credetti che quelle immagini fossero delle vere riproduzioni di giorni lontani.
Avrei potuto sospettare subito che non erano tali perché, appena svanite, le ricordavo, ma senz'alcun'eccitazione o commozione.
Le ricordavo come si ricorda il fatto raccontato da chi non vi assistette.
Se fossero state vere riproduzioni avrei continuato a riderne e a piangerne come quando le avevo avute.
E il dottore registrava.
Diceva: «Abbiamo avuto questo, abbiamo avuto quello».
In verità, noi non avevamo piú che dei segni grafici, degli scheletri d'immagini.
Fui indotto a credere che si trattasse di una rievocazione della mia infanzia perché la prima delle immagini mi pose in un'epoca relativamente recente di cui avevo conservato anche prima un pallido ricordo ch'essa parve confermare.
C'è stato un anno nella mia vita in cui io andavo a scuola e mio fratello non ancora.
E pareva fosse appartenuta a quell'anno l'ora che rievocai.
Io mi vidi uscire dalla mia villa una mattina soleggiata di primavera, passare per il nostro giardino per scendere in città, giú, giú, tenuto per mano da una nostra vecchia fantesca, Catina.
Mio fratello nella scena che sognai non appariva, ma ne era l'eroe.
Io lo sentivo in casa libero e felice mentre io andavo a scuola.
Vi andavo coi singhiozzi nella gola, il passo riluttante e, nell'animo, un intenso rancore.
Io non vidi che una di quelle passeggiate alla scuola, ma il rancore nel mio animo mi diceva che ogni giorno io andavo a scuola ed ogni giorno mio fratello restava a casa.
All'infinito, mentre in verità credo che, dopo non lungo tempo, mio fratello piú giovine di me di un anno solo, sia andato a scuola anche lui.
Ma allora la verità del sogno mi parve indiscutibile: io ero condannato ad andare sempre a scuola mentre mio fratello aveva il permesso di restare a casa.
Camminando a canto a Catina calcolavo la durata della tortura: fino a mezzodí! Mentre lui è a casa! E ricordavo anche che nei giorni precedenti dovevo essere stato turbato a scuola da minaccie e rampogne e che io avevo pensato anche allora: a lui non possono toccare.
Era stata una visione di un'evidenza enorme.
Catina che io avevo conosciuta piccola, m'era parsa grande, certamente perché io ero tanto piccolo.
Vecchissima m'era sembrata anche allora, ma si sa che i giovanissimi vedono sempre vecchi gli anziani.
E sulla via che io dovevo percorrere per andare a scuola, scorsi anche i colonnini strani che arginavano in quel tempo i marciapiedi della nostra città.
Vero è che io nacqui abbastanza presto per vedere ancora da adulto quei colonnini nelle nostre vie centriche.
Ma nella via che io con Catina quel giorno percorsi, non ci furono piú non appena io uscii dall'infanzia.
La fede nell'autenticità di quelle immagini perdurò nel mio animo anche quando, presto, stimolata da quel sogno, la mia fredda memoria scoperse altri particolari di quell'epoca.
Il principale: anche mio fratello invidiava me perché io andavo a scuola.
Ero sicuro d'essermene avvisto, ma non subito ciò bastò ad infirmare la verità del sogno.
Piú tardi gli tolse ogni aspetto di verità: la gelosia in realtà c'era stata, ma nel sogno era stata spostata.
La seconda visione mi riportò anch'essa ad un'epoca recente, benché anteriore di molto a quella della prima: una stanza della mia villa, ma non so quale, perché piú vasta di qualunque altra che vi è realmente.
È strano che io mi vedevo chiuso in quella stanza e che subito ne seppi un particolare che dalla semplice visione non poteva essere risultato: la stanza era lontana dal posto ove allora soggiornavano mia madre e Catina.
Ed un secondo: io ancora non sono stato a scuola.
La stanza era tutta bianca ed anzi io non vidi giammai una stanza tanto bianca né tanto completamente illuminata dal sole.
Il sole di allora passava traverso le pareti? Esso era certamente già alto, ma io mi trovavo tuttavia nel mio letto con in mano una tazza da cui avevo sorbito tutto il caffelatte e nella quale continuavo a lavorare con un cucchiaino traendone lo zucchero.
Ad un certo punto il cucchiaio non arrivò piú a raccoglierne altro ed allora io tentai di arrivare al fondo della tazza con la mia lingua.
Ma non vi riuscii.
Perciò finii col tenere la tazza in una mano e il cucchiaio nell'altra e stetti a guardare mio fratello coricato nel letto accanto al mio come, tardivo, stava ancora sorbendo il caffè col naso nella tazza.
Quando levò finalmente la faccia, io la vidi tutta come si contrasse ai raggi del sole che la colpirono in pieno mentre la mia (Dio ne sa il perché) si trovava nell'ombra.
Il suo viso era pallido ed un poco imbruttito da un lieve prognatismo.
Mi disse:
- Mi presti il tuo cucchiaio?
Allora appena m'avvidi che Catina aveva dimenticato di portargli il cucchiaio.
Subito e senz'alcuna esitazione gli risposi:
- Sí! Se mi dài in compenso un poco del tuo zucchero.
Tenni in alto il cucchiaio per farne rilevare il valore.
Ma subito la voce di Catina risuonò nella stanza:
- Vergogna! Strozzino!
Lo spavento e la vergogna mi fecero ripiombare nel presente.
Avrei voluto discutere con Catina, ma lei, mio fratello ed io, come ero fatto allora, piccolo, innocente e strozzino, sparimmo ripiombando nell'abisso.
Rimpiansi di aver sentita tanto forte quella vergogna da aver distrutta l'immagine cui ero arrivato con tanta fatica.
Avrei fatto tanto bene di offrire invece mitemente e gratis il cucchiaino e non discutere quella mia mala azione ch'era probabilmente la prima che avessi commessa.
Forse Catina avrebbe invocato l'ausilio di mia madre per infliggermi una punizione ed io finalmente l'avrei rivista.
La vidi però pochi giorni appresso o credetti di rivederla.
Avrei potuto intendere subito ch'era un'illusione perché l'immagine di mia madre, come l'avevo evocata, somigliava troppo al suo ritratto che ho sul mio letto.
Ma devo confessare che nell'apparizione mia madre si mosse come una persona viva.
Molto, molto sole, tanto da abbacinare! Da quella ch'io credevo la mia giovinezza mi perveniva tanto di quel sole ch'era difficile dubitare non fosse dessa.
Il nostro tinello nelle ore pomeridiane.
Mio padre è ritornato a casa e siede su un sofà accanto a mamma che sta imprimendo con certo inchiostro indelebile delle iniziali su molta biancheria distribuita sul tavolo a cui essa siede.
Io mi trovo sotto il tavolo dove giuoco con delle pallottole.
M'avvicino sempre piú a mamma.
Probabilmente desidero ch'essa s'associ ai miei giuochi.
A un dato punto, per rizzarmi in piedi fra di loro, m'aggrappo alla biancheria che pende dal tavolo e allora avviene un disastro.
La boccetta d'inchiostro mi capita sulla testa, bagna la mia faccia e le mie vesti, la gonna di mamma e produce una lieve macchia anche sui calzoni di papà.
Mio padre alza una gamba per appiopparmi un calcio...
Ma io in tempo ero ritornato dal mio lontano viaggio e mi trovavo al sicuro qui, adulto, vecchio.
Devo dirlo! Per un istante soffersi della punizione minacciatami e subito dopo mi dolse di non aver potuto assistere all'atto di protezione che senza dubbio sarà partito da mamma.
Ma chi può arrestare quelle immagini quando si mettono a fuggire traverso quel tempo che giammai somigliò tanto allo spazio? Quest'era il mio concetto finché credetti nell'autenticità di quelle immagini! Ora, purtroppo (oh! quanto me ne dolgo!) non ci credo piú e so che non erano le immagini che correvano via, ma i miei occhi snebbiati che guardavano di nuovo nel vero spazio in cui non c'è posto per fantasmi.
Racconterò ancora delle immagini di un altro giorno alle quali il dottore attribuí tale importanza da dichiararmi guarito.
Nel mezzo sonno cui m'abbandonai ebbi un sogno dall'immobilità dell'incubo.
Sognai di me stesso ridivenuto bambino e soltanto per vedere quel bambino come sognava anche lui.
Giaceva muto in preda ad una letizia che pervadeva il suo minuto organismo.
Gli pareva di aver finalmente raggiunto il suo antico desiderio.
Eppure giaceva là solo e abbandonato! Ma vedeva e sentiva con quell'evidenza come si sa vedere e sentire nel sogno anche le cose lontane.
Il bambino, giacendo in una stanza della mia villa, vedeva (Dio sa in quale modo) che sul tetto della stessa ci fosse una gabbia murata su basi solidissime, priva di porte e di finestre, ma illuminata di quanta luce può far piacere e fornita di aria pura e profumata.
Ed il bambino sapeva che a quella gabbia egli solo avrebbe saputo giungere e senza neppur andare perché forse la gabbia sarebbe venuta a lui.
In quella gabbia non v'era che un solo mobile, una poltrona e su questa sedeva una donna formosa, costruita deliziosamente, vestita di nero, bionda, dagli occhi grandi e azzurri, le mani bianchissime e i piedi piccoli in scarpine laccate delle quali, di sotto alle gonne, sporgeva solo un lieve bagliore.
Devo dire che quella donna mi pareva una cosa sola col suo vestito nero e le sue scarpine di lacca.
Tutto era lei! Ed il bambino sognava di possedere quella donna, ma nel modo piú strano: era sicuro cioè di poter mangiarne dei pezzettini al vertice e alla base.
Adesso, pensandoci, sono stupito che il dottore che ha letto, a quanto ne dice, con tanta attenzione il mio manoscritto non abbia ricordato il sogno ch'io ebbi prima di andar a raggiungere Carla.
A me qualche tempo dopo, quando ci ripensai, parve che questo sogno non fosse altro che l'altro un po' variato, reso piú infantile.
Invece il dottore registrò accuratamente tutto eppoi mi domandò con aspetto un po' melenso:
- Vostra madre era bionda e formosa?
Fui stupito della domanda e risposi che anche mia nonna era stata tale.
Ma per lui ero guarito, ben guarito.
Spalancai la bocca per gioirne con lui e m'adattai a quanto doveva seguire, cioè non piú indagini, ricerche, meditazioni, ma una vera e assidua rieducazione.
Da allora quelle sedute furono una vera tortura ed io le continuai solo perché m'è sempre stato tanto difficile di fermarmi quando mi movo o di mettermi in movimento quando son fermo.
Qualche volta, quando egli me ne diceva di troppo grosse, arrischiavo qualche obbiezione.
Non era mica vero - com'egli lo credeva - che ogni mia parola, ogni mio pensiero fosse di delinquente.
Egli allora faceva tanto d'occhi.
Ero guarito e non volevo accorgermene! Era una vera cecità questa: avevo appreso che avevo desiderato di portar via la moglie - mia madre! - a mio padre e non mi sentivo guarito? Inaudita ostinazione la mia: però il dottore ammetteva che sarei guarito ancora meglio quando fosse finita la mia rieducazione in seguito alla quale mi sarei abituato a considerare quelle cose (il desiderio di uccidere il padre e di baciare la propria madre) come cose innocentissime per le quali non c'era da soffrire di rimorsi, perché avvenivano frequentemente nelle migliori famiglie.
In fondo che cosa ci perdevo? Egli un giorno mi disse ch'io oramai ero come un convalescente che ancora non s'era abituato a vivere privo di febbre.
Ebbene: avrei atteso di abituarmivi.
Egli sentiva che non ero ancora ben suo ed oltre alla rieducazione, di tempo in tempo, ritornava anche alla cura.
Tentava di nuovo i sogni, ma di autentici non ne ebbimo piú alcuno.
Seccato di tanta attesa, finii coll'inventarne uno.
Non l'avrei fatto se avessi potuto prevedere la difficoltà di una simile simulazione.
Non è mica facile di balbettare come se ci si trovasse immersi in un mezzo sogno, coprirsi di sudore o sbiancarsi, non tradirsi, eventualmente diventar vermigli dallo sforzo e non arrossire: parlai come se fossi ritornato alla donna della gabbia e l'avessi indotta a porgermi per un buco improvvisamente prodottosi nella parete dello stanzino un suo piede da succhiare e mangiare.
«Il sinistro, il sinistro!», mormorai mettendo nella visione un particolare curioso che potesse farla somigliare meglio ai sogni precedenti.
Dimostravo cosí anche di aver capito perfettamente la malattia che il dottore esigeva da me.
Edipo infantile era fatto proprio cosí: succhiava il piede sinistro della madre per lasciare il destro al padre.
Nel mio sforzo d'immaginare realmente (tutt'altro che una contraddizione, questa) ingannai anche me stesso col sentire il sapore di quel piede.
Quasi dovetti recere.
Non solo il dottore ma anch'io avrei desiderato di esser visitato ancora da quelle care immagini della mia gioventú, autentiche o meno, ma che io non avevo avuto bisogno di costruire.
Visto che accanto al dottore non venivano piú, tentai di evocarle lontano da lui.
Da solo ero esposto al pericolo di dimenticarle, ma già io non miravo mica ad una cura! Io volevo ancora rose del Maggio in Dicembre.
Le avevo già avute; perché non avrei potuto riaverle?
Anche nella solitudine m'annoiai abbastanza, ma poi, invece delle immagini venne qualche cosa che per qualche tempo le sostituí.
Semplicemente credetti di aver fatta un'importante scoperta scientifica.
Mi credetti chiamato a completare tutta la teoria dei colori fisiologici.
I miei predecessori, Goethe e Schopenhauer, non avevano mai immaginato dove si potesse arrivare maneggiando abilmente i colori complementari.
Bisogna sapere ch'io passavo il mio tempo gettato sul sofà di faccia alla finestra del mio studio donde vedevo un pezzo di mare e d'orizzonte.
Ora una sera dal tramonto colorito nel cielo frastagliato di nubi, m'indugiai lungamente ad ammirare su un lembo limpido, un colore magnifico, verde, puro e mite.
Nel cielo c'era anche molto color rosso ancora pallido, sbiaccato dai diretti, bianchi raggi del sole.
Abbacinato, dopo un certo intervallo di tempo, chiusi gli occhi e si vide che al verde era stata rivolta la mia attenzione, il mio affetto, perché sulla mia rètina si produsse il suo colore complementare, un rosso smagliante che non aveva nulla da fare col rosso luminoso, ma pallido nel cielo.
Guardai, accarezzai quel colore fabbricato da me.
La grande sorpresa la ebbi quando una volta aperti gli occhi, vidi quel rosso fiammeggiante invadere tutto il cielo e coprire anche il verde smeraldo che per lungo tempo non ritrovai piú.
Ma io, dunque, avevo scoperto il modo di tingere la natura! Naturalmente l'esperimento fu da me ripetuto piú volte.
Il bello si è che v'era anche del movimento in quella colorazione.
Quando riaprivo gli occhi, il cielo non accettava subito il colore dalla mia rètina.
V'era anzi un istante di esitazione nel quale arrivavo ancora a rivedere il verde smeraldo che aveva figliato quel rosso da cui sarebbe stato distrutto.
Questo sorgeva dal fondo, inaspettato e si dilatava come un incendio spaventoso.
Quando fui sicuro dell'esattezza della mia osservazione, la portai al dottore nella speranza di ravvivare con essa le nostre noiose sedute.
Il dottore mi saldò dicendomi che io avevo la rètina piú sensibile causa la nicotina.
Quasi mi sarei lasciato scappar detto che in allora anche le immagini, che noi avevamo attribuite a riproduzioni di avvenimenti della mia gioventú, potevano invece esser derivate dall'effetto dello stesso veleno.
Ma cosí gli avrei rivelato che non ero guarito ed egli avrebbe cercato d'indurmi a ricominciare la cura da capo.
Eppure quel bestione non sempre mi credette tanto avvelenato.
Ciò viene provato anche dalla rieducazione ch'egli tentò per guarirmi da quella ch'egli diceva la mia malattia del fumo.
Ecco le sue parole: il fumo non mi faceva male e quando mi fossi convinto ch'era innocuo sarebbe stato veramente tale.
Eppoi continuava: oramai che i rapporti con mio padre erano stati riportati alla luce del giorno e ripresentati al mio giudizio di adulto, potevo intendere che avevo assunto quel vizio per competere con mio padre e attribuito un effetto velenoso al tabacco per il mio intimo sentimento morale che volle punirmi della mia competizione con lui.
Quel giorno lasciai la casa del dottore fumando come un turco.
Si trattava di fare una prova ed io mi vi prestai volontieri.
Per tutto il giorno fumai ininterrottamente.
Seguí poi una notte del tutto insonne.
La mia bronchite cronica aveva rifiorito e di quella non c'era dubbio perché era facile scoprirne le conseguenze nella sputacchiera.
Il giorno appresso raccontai al dottore di aver fumato molto e che ora non me ne importava piú.
Il dottore mi guardò sorridendo e io indovinai che il petto gli si gonfiava dall'orgoglio.
Con calma riprese la mia rieducazione! Procedeva con la sicurezza di veder fiorire ogni zolla su cui poneva il piede.
Di quella rieducazione ricordo pochissimo.
Io la subii e quando uscivo da quella stanza mi scotevo come un cane ch'esce dall'acqua ed anch'io restavo umido, ma non bagnato.
Ricordo però con indignazione che il mio educatore asseriva che il dottor Coprosich avesse avuto ragione di dirigermi le parole che avevano provocato tanto mio risentimento.
Ma allora io avrei meritato anche lo schiaffo che mio padre volle darmi morendo? Non so se egli abbia detto anche questo.
So invece con certezza ch'egli asseriva ch'io avessi odiato anche il vecchio Malfenti che avevo messo al posto di mio padre.
Tanti a questo mondo credono di non saper vivere senza un dato affetto; io, invece, secondo lui, perdevo l'equilibrio se mi mancava un dato odio.
Ne sposai una o l'altra delle figliuole ed era indifferente quale perché si trattava di mettere il loro padre ad un posto dove il mio odio potesse raggiungerlo.
Eppoi sfregiai la casa che avevo fatta mia come meglio seppi.
Tradii mia moglie ed è evidente che se mi fosse riuscito avrei sedotta Ada ed anche Alberta.
Naturalmente io non penso di negare questo ed anzi mi fece da ridere quando dicendomelo il dottore assunse l'aspetto di Cristoforo Colombo allorché raggiunge l'America.
Credo però ch'egli sia il solo a questo mondo il quale sentendo che volevo andare a letto con due bellissime donne si domanda: vediamo perché costui vuole andare a letto con esse.
Mi fu anche piú difficile di sopportare quello ch'egli credette di poter dire dei miei rapporti con Guido.
Dal mio stesso racconto egli aveva appreso dell'antipatia che aveva accompagnato l'inizio della mia relazione con lui.
Tale antipatia non cessò mai secondo lui e Ada avrebbe avuto ragione di vederne l'ultima manifestazione nella mia assenza dal suo funerale.
Non ricordò ch'io ero allora intento nella mia opera d'amore di salvare il patrimonio di Ada, né io mi degnai di ricordarglielo.
Pare che il dottore a proposito di Guido abbia fatte anche delle indagini.
Egli asserisce che, scelto da Ada, egli non poteva essere quale io lo descrissi.
Scoperse che un grandioso deposito di legnami, vicinissimo alla casa dove noi pratichiamo la psico-analisi, era appartenuto alla ditta Guido Speier e C.
Perché non ne avevo io parlato?
Se ne avessi parlato sarebbe stata una nuova difficoltà nella mia esposizione già tanto difficile.
Quest'eliminazione non è che la prova che una confessione fatta da me in italiano non poteva essere né completa né sincera.
In un deposito di legnami ci sono varietà enormi di qualità che noi a Trieste appelliamo con termini barbari presi dal dialetto, dal croato, dal tedesco e qualche volta persino dal francese (zapin p.e.
e non equivale mica a sapin ).
Chi m'avrebbe fornito il vero vocabolario? Vecchio come sono avrei dovuto prendere un impiego da un commerciante in legnami toscano? Del resto il deposito legnami della ditta Guido Speier e C.
non diede che delle perdite.
Eppoi non avevo da parlarne perché rimase sempre inerte, salvo quando intervennero i ladri e fecero volare quel legname dai nomi barbari, come se fosse stato destinato a costruire dei tavolini per esperimenti spiritistici.
Io proposi al dottore di prendere delle informazioni su Guido da mia moglie, da Carmen oppure da Luciano ch'è un grande commerciante noto a tutti.
A mio sapere egli non s'indirizzò a nessuno di costoro e devo credere che se ne astenne per la paura di veder precipitare per quelle informazioni tutto il suo edificio di accuse e di sospetti.
Chissà perché si sia preso di tale odio per me? Anche lui dev'essere un istericone che per aver desiderata invano sua madre se ne vendica su chi non c'entra affatto.
Finí che mi sentii molto stanco di quella lotta che dovevo sostenere col dottore ch'io pagavo.
Credo che anche quei sogni non m'abbiano fatto bene, eppoi la libertà di fumare quanto volevo finí con l'abbattermi del tutto.
Ebbi una buona idea: andai dal dottor Paoli.
Non l'avevo visto da molti anni.
Era un po' incanutito, ma la sua figura di granatiere non era ancora troppo arrotondata dall'età, né piegata.
Guardava sempre le cose con un'occhiata che pareva una carezza.
Quella volta scopersi perché mi sembrasse cosí.
Evidentemente a lui fa piacere di guardare e guarda le belle e le brutte cose con la compiacenza con cui altri accarezza.
Ero salito da lui col proposito di domandargli se credeva dovessi continuare la psico-analisi.
Ma quando mi trovai dinanzi a quel suo occhio, freddamente indagatore, non ne ebbi il coraggio.
Forse mi rendevo ridicolo raccontando che alla mia età m'ero lasciato prendere ad una ciarlataneria simile.
Mi spiacque di dover tacere, perché se il Paoli m'avesse proibita la psico-analisi, la mia posizione sarebbe stata semplificata di molto, ma mi sarebbe spiaciuto troppo di vedermi troppo a lungo carezzato da quel suo grande occhio.
Gli raccontai delle mie insonnie, della mia bronchite cronica, di un'espulsione alle guancie che allora mi tormentava, di certi dolori lancinanti alle gambe e infine di strane mie smemoratezze.
Il Paoli analizzò la mia orina in mia presenza.
Il miscuglio si colorí in nero e il Paoli si fece pensieroso.
Ecco finalmente una vera analisi e non piú una psico analisi.
Mi ricordai con simpatia e commozione del mio passato lontano di chimico e di analisi vere: io, un tubetto e un reagente! L'altro, l'analizzato, dorme finché il reagente imperiosamente non lo desti.
La resistenza nel tubetto non c'è o cede alla minima elevazione della temperatura e la simulazione manca del tutto.
In quel tubetto non avveniva nulla che potesse ricordare il mio comportamento quando per far piacere al dottor S.
inventavo nuovi particolari della mia infanzia che dovevano confermare la diagnosi di Sofocle.
Qui, invece, tutto era verità.
La cosa da analizzarsi era imprigionata nel provino e, sempre uguale a se stessa, aspettava il reagente.
Quand'esso arrivava essa diceva sempre la stessa parola.
Nella psico analisi non si ripetono mai né le stesse immagini né le stesse parole.
Bisognerebbe chiamarla altrimenti.
Chiamiamola l'avventura psichica.
Proprio cosí: quando s'inizia una simile analisi è come se ci si recasse in un bosco non sapendo se c'imbatteremo in un brigante o in un amico.
E non lo si sa neppure quando l'avventura è passata.
In questo la psico-analisi ricorda lo spiritismo.
Ma il Paoli non credeva che si trattasse di zucchero.
Voleva rivedermi il giorno appresso dopo di aver analizzato quel liquido per polarizzazione.
Io, intanto, me ne andai glorioso, carico di diabete.
Fui in procinto di andare dal dottor S.
a domandargli com'egli avrebbe ora analizzato nel mio seno le cause di tale malattia per annullarle.
Ma di quell'individuo ne avevo avuto abbastanza e non volevo rivederlo neppure per deriderlo.
Devo confessare che il diabete fu per me una grande dolcezza.
Ne parlai ad Augusta ch'ebbe subito le lacrime agli occhi:
- Hai parlato tanto di malattie in tutta la tua vita, che dovevi pur finire coll'averne una! - disse; poi cercò di consolarmi.
Io amavo la mia malattia.
Ricordai con simpatia il povero Copler che preferiva la malattia reale all'immaginaria.
Ero oramai d'accordo con lui.
La malattia reale era tanto semplice: bastava lasciarla fare.
Infatti, quando lessi in un libro di medicina la descrizione della mia dolce malattia, vi scopersi come un programma di vita (non di morte!) nei varii suoi stadii.
Addio propositi: finalmente ne ero libero.
Tutto avrebbe seguito la sua via senz'alcun mio intervento.
Scopersi anche che la mia malattia era sempre o quasi sempre molto dolce.
Il malato mangia e beve molto e di grandi sofferenze non ci sono se si bada di evitare i bubboni.
Poi si muore in un dolcissimo coma.
Poco dopo il Paoli mi chiamò al telefono.
Mi comunicò che non v'era traccia di zucchero.
Andai da lui il giorno appresso e mi prescrisse una dieta che non seguii che per pochi giorni e un intruglio che descrisse in una ricetta illeggibile e che mi fece bene per un mese intero.
- Il diabete le ha fatto molta paura? - mi domandò sorridendo.
Protestai, ma non gli dissi che ora che il diabete m'aveva abbandonato mi sentivo molto solo.
Non m'avrebbe creduto.
In quel torno di tempo mi capitò in mano la celebre opera del dottor Beard sulla nevrastenia.
Seguii il suo consiglio e cambiai di medicina ogni otto giorni con le sue ricette che copiai con scrittura chiara.
Per alcuni mesi la cura mi parve buona.
Neppure il Copler aveva avuto in vita sua tale abbondante consolazione di medicinali come io allora.
Poi passò anche quella fede, ma intanto io avevo rimandato di giorno in giorno il mio ritorno alla psico-analisi.
M'imbattei poi nel dottor S.
Mi domandò se avevo deciso di lasciare la cura.
Fu però molto cortese, molto piú che non quando mi teneva in mano sua.
Evidentemente voleva riprendermi.
Io gli dissi che avevo degli affari urgenti, delle quistioni di famiglia che mi occupavano e preoccupavano e che non appena mi fossi trovato in quiete sarei ritornato da lui.
Avrei voluto pregarlo di restituirmi il mio manoscritto, ma non osai; sarebbe equivaluto a confessargli che della cura non volevo piú saperne.
Riservai un tentativo simile ad altra epoca quand'egli si sarebbe accorto che alla cura non ci pensavo piú e vi si fosse rassegnato.
Prima di lasciarmi egli mi disse alcune parole intese a riprendermi:
- Se lei esamina il suo animo, lo troverà mutato.
Vedrà che ritornerà subito a me solo che s'accorga come io seppi in un tempo relativamente breve avvicinarla alla salute.
Ma io, in verità, credo che col suo aiuto, a forza di studiare l'animo mio, vi abbia cacciato dentro delle nuove malattie.
Sono intento a guarire della sua cura.
Evito i sogni ed i ricordi.
Per essi la mia povera testa si è trasformata in modo da non saper sentirsi sicura sul collo.
Ho delle distrazioni spaventose.
Parlo con la gente e mentre dico una cosa tento involontariamente di ricordarne un'altra che poco prima dissi o feci e che non ricordo piú o anche un mio pensiero che mi pare di un'importanza enorme, di quell'importanza che mio padre attribuí a quei pensieri ch'ebbe poco prima di morire e che pur lui non seppe ricordare.
Se non voglio finire al manicomio, via con questi giocattoli.
15 Maggio 1915
Passammo due giorni di festa a Lucinico nella nostra villa.
Mio figlio Alfio deve rimettersi di un'influenza e resterà nella villa con la sorella per qualche settimana.
Noi ritorneremo qui per le Pentecoste.
Sono riuscito finalmente di ritornare alle mie dolci abitudini, e a cessar di fumare.
Sto già molto meglio dacché ho saputo eliminare la libertà che quello sciocco di un dottore aveva voluto concedermi.
Oggi che siamo alla metà del mese sono rimasto colpito della difficoltà che offre il nostro calendario ad una regolare e ordinata risoluzione.
Nessun mese è uguale all'altro.
Per rilevare meglio la propria risoluzione si vorrebbe finire di fumare insieme a qualche cosa d'altro, il mese p.e.
Ma salvo il Luglio e Agosto e il Dicembre e il Gennaio non vi sono altri mesi che si susseguano e facciano il paio in quanto a quantità di giorni.
Un vero disordine nel tempo!
Per raccogliermi meglio passai il pomeriggio del secondo giorno solitario alle rive dell'Isonzo.
Non c'è miglior raccoglimento che star a guardare un'acqua corrente.
Si sta fermi e l'acqua corrente fornisce lo svago che occorre perché non è uguale a se stessa nel colore e nel disegno neppure per un attimo.
Era una giornata strana.
Certamente in alto soffiava un forte vento perché le nubi vi mutavano continuamente di forma, ma giú l'atmosfera non si moveva.
Avveniva che di tempo in tempo, traverso le nubi in movimento, il sole già caldo trovasse il pertugio per inondare dei suoi raggi questo o quel tratto di collina o una cima di montagna, dando risalto al verde dolce del Maggio in mezzo all'ombra che copriva tutto il paesaggio.
La temperatura era mite ed anche quella fuga di nubi nel cielo, aveva qualche cosa di primaverile.
Non v'era dubbio: il tempo stava risanando!
Fu un vero raccoglimento il mio, uno di quegl'istanti rari che l'avara vita concede, di vera grande oggettività in cui si cessa finalmente di credersi e sentirsi vittima.
In mezzo a quel verde rilevato tanto deliziosamente da quegli sprazzi di sole, seppi sorridere alla mia vita ed anche alla mia malattia.
La donna vi ebbe un'importanza enorme.
Magari a pezzi, i suoi piedini, la sua cintura, la sua bocca, riempirono i miei giorni.
E rivedendo la mia vita e anche la mia malattia le amai, le intesi! Com'era stata piú bella la mia vita che non quella dei cosidetti sani, coloro che picchiavano o avrebbero voluto picchiare la loro donna ogni giorno salvo in certi momenti.
Io, invece, ero stato accompagnato sempre dall'amore.
Quando non avevo pensato alla mia donna, vi avevo pensato ancora per farmi perdonare che pensavo anche alle altre.
Gli altri abbandonavano la donna delusi e disperando della vita.
Da me la vita non fu mai privata del desiderio e l'illusione rinacque subito intera dopo ogni naufragio, nel sogno di membra, di voci, di atteggiamenti piú perfetti.
In quel momento ricordai che fra le tante bugie che avevo propinate a quel profondo osservatore ch'era il dottor S., c'era anche quella ch'io non avessi piú tradita mia moglie dopo la partenza di Ada.
Anche su questa bugia egli fabbricò le sue teorie.
Ma là, alla riva di quel fiume, improvvisamente, con spavento, ricordai ch'era vero che da qualche giorno, forse dacché avevo abbandonata la cura, io non avevo ricercata la compagnia di altre donne.
Che fossi stato guarito come il dottor S.
pretende? Vecchio come sono, da un pezzo le donne non mi guardano piú.
Se io cesso dal guardare loro, ecco che ogni relazione fra di noi è tagliata.
Se un dubbio simile mi fosse capitato a Trieste, avrei saputo solverlo subito.
Qui era alquanto piú difficile.
Pochi giorni prima avevo avuto in mano il libro di memorie del Da Ponte, l'avventuriere contemporaneo del Casanova.
Anche lui era passato certamente per Lucinico ed io sognai d'imbattermi in quelle sue dame incipriate dalle membra celate dalla crinolina.
Dio mio! Come facevano quelle donne ad arrendersi cosí presto e tanto di frequente essendo difese da tutti quegli stracci?
Mi parve che il ricordo della crinolina, ad onta della cura, fosse abbastanza eccitante.
Ma il mio era un desiderio alquanto fatturato e non bastò a rassicurarmi.
L'esperienza che cercavo l'ebbi poco dopo e fu sufficiente per rassicurarmi, ma non mi costò poco.
Per averla, turbai e guastai la relazione piú pura che avessi avuta nella mia vita.
M'imbattei in Teresina, la figlia anziana del colono di una tenuta situata accanto alla mia villa.
Il padre, da due anni, era rimasto vedovo e la sua numerosa figliuolanza aveva ritrovata la madre in Teresina, una robusta fanciulla che si levava di mattina per lavorare, e cessava il lavoro per coricarsi e raccogliersi per poter riprendere il lavoro.
Quel giorno essa guidava l'asinello di solito affidato alle cure del fratellino e camminava accanto al carretto carico di erba fresca, perché il non grande animale non avrebbe saputo portare su per l'erta lieve anche il peso della fanciulla.
L'anno prima Teresina m'era sembrata tuttavia una bimba e non avevo avuta per lei che una simpatia sorridente e paterna.
Ma anche il giorno prima, quando l'avevo rivista per la prima volta, ad onta che l'avessi ritrovata cresciuta, la bruna faccina divenuta piú seria, le esili spalle allargate sopra il seno che andava arcuandosi nello sviluppo parco del piccolo corpo affaticato, avevo continuato a vederla una bimba immatura di cui non potevo amare che la straordinaria attività e l'istinto materno di cui fruivano i fratellini.
Se non ci fosse stata quella maledetta cura e la necessità di verificare subito in quale stato si trovasse la mia malattia, anche quella volta avrei potuto lasciare Lucinico senz'aver turbata tanta innocenza.
Essa non aveva la crinolina.
E la faccina pienotta e sorridente non conosceva la cipria.
Aveva i piedi nudi e faceva vedere nuda anche metà della gamba.
La faccina e i piedini e la gamba non seppero accendermi.
La faccia e le membra che Teresina lasciava vedere erano dello stesso colore; all'aria appartenevano tutte e non c'era niente di male che all'aria fossero abbandonate.
Forse perciò non riuscivano ad accendermi.
Ma al sentirmi tanto freddo mi spaventai.
Che dopo la cura mi fosse occorsa la crinolina?
Cominciai coll'accarezzare l'asinello cui avevo procurato un po' di riposo.
Poi tentai di ritornare a Teresina e le misi in mano niente meno che dieci corone.
Era il primo attentato! L'anno prima, a lei e ai suoi fratellini, per esprimere loro il mio affetto paterno, avevo messo nelle manine solo dei centesimi.
Ma si sa che l'affetto paterno è altra cosa.
Teresina fu stupita del ricco dono.
Accuratamente sollevò il suo gonnellino per riporre in non so che tasca celata il prezioso pezzo di carta.
Cosí vidi un ulteriore pezzo di gamba, ma anch'esso sempre bruno e casto.
Ritornai all'asinello e gli diedi un bacio sulla testa.
La mia affettuosità provocò la sua.
Allungò il muso ed emise il suo grande grido d'amore che io ascoltai sempre con rispetto.
Come varca le distanze e com'è significante con quel primo grido che invoca e si ripete, attenuandosi poi e terminando in un pianto disperato.
Ma sentito cosí da vicino, mi fece dolere il timpano.
Teresina rideva e il suo riso m'incoraggiò.
Ritornai a lei e subito l'afferrai per l'avambraccio sul quale salii con la mano, lento, verso la spalluccia, studiando le mie sensazioni.
Grazie al cielo non ero guarito ancora! Avevo cessata la cura in tempo.
Ma Teresina con una legnata fece procedere l'asino per seguirlo e lasciarmi.
Ridendo di cuore perché io restavo lieto anche se la villanella non voleva saperne di me, le dissi:
- Hai lo sposo? Dovresti averlo.
E peccato tu non l'abbia già!
Sempre allontanandosi da me, essa mi disse:
- Se ne prendo uno, sarà certamente piú giovine di lei!
La mia letizia non s'offuscò per questo.
Avrei voluto dare una lezioncina a Teresina e cercai di ricordarmi come da Boccaccio «Maestro Alberto da Bologna onestamente fa vergognare una donna la quale lui d'esser di lei innamorato voleva far vergognare».
Ma il ragionamento di Maestro Alberto non ebbe il suo effetto perché Madonna Malgherida de' Ghisolieri gli disse: «Il vostro amor m'è caro sí come di savio e valente uomo esser dee; e per ciò, salva la mia onestà, come a cosa vostra ogni vostro piacere imponete sicuramente».
Tentai di fare di meglio:
- Quando ti dedicherai ai vecchi, Teresina? - gridai per essere inteso da lei che m'era già lontana.
- Quando sarò vecchia anch'io, - urlò essa ridendo di gusto e senza fermarsi.
- Ma allora i vecchi non vorranno piú saperne di te.
Ascoltami! Io li conosco!
Urlavo, compiacendomi del mio spirito che veniva direttamente dal mio sesso.
In quel momento, in qualche punto del cielo le nubi s'apersero e lasciarono passare dei raggi di sole che andarono a raggiungere Teresina che oramai era lontana da me di una quarantina di metri e di me piú in alto di una decina o piú.
Era bruna, piccola, ma luminosa!
Il sole non illuminò me! Quando si è vecchi si resta all'ombra anche avendo dello spirito.
26 Giugno 1915
La guerra m'ha raggiunto! Io che stavo a sentire le storie di guerra come se si fosse trattato di una guerra di altri tempi di cui era divertente parlare, ma sarebbe stato sciocco di preoccuparsi, ecco che vi capitai in mezzo stupefatto e nello stesso tempo stupito di non essermi accorto prima che dovevo esservi prima o poi coinvolto.
Io avevo vissuto in piena calma in un fabbricato di cui il pianoterra bruciava e non avevo previsto che prima o poi tutto il fabbricato con me si sarebbe sprofondato nelle fiamme.
La guerra mi prese, mi squassò come un cencio, mi privò in una sola volta di tutta la mia famiglia ed anche del mio amministratore.
Da un giorno all'altro io fui un uomo del tutto nuovo, anzi, per essere piú esatto, tutte le mie ventiquattr'ore furono nuove del tutto.
Da ieri sono un po' piú calmo perché finalmente, dopo l'attesa di un mese, ebbi le prime notizie della mia famiglia.
Si trova sana e salva a Torino mentre io già avevo perduta ogni speranza di rivederla.
Devo passare la giornata intera nel mio ufficio.
Non vi ho niente da fare, ma gli Olivi, quali cittadini italiani, hanno dovuto partire e tutti i miei pochi migliori impiegati sono andati a battersi di qua o di là e perciò devo restare al mio posto quale sorvegliante.
Alla sera vado a casa carico delle grosse chiavi del magazzino.
Oggi che mi sento tanto piú calmo, portai con me in ufficio questo manoscritto che potrebbe farmi passar meglio il lungo tempo.
Infatti esso mi procurò un quarto d'ora meraviglioso in cui appresi che ci fu a questo mondo un'epoca di tanta quiete e silenzio da permettere di occuparsi di giocattoletti simili.
Sarebbe anche bello che qualcuno m'invitasse sul serio di piombare in uno stato di mezza coscienza tale da poter rivivere anche soltanto un'ora della mia vita precedente.
Gli riderei in faccia.
Come si può abbandonare un presente simile per andare alla ricerca di cose di nessun'importanza? A me pare che soltanto ora sono staccato definitivamente dalla mia salute e dalla mia malattia.
Cammino per le vie della nostra misera città, sentendo di essere un privilegiato che non va alla guerra e che trova ogni giorno quello che gli occorre per mangiare.
In confronto a tutti mi sento tanto felice - specie dacché ebbi notizie dei miei - che mi sembrerebbe di provocare l'ira degli dei se stessi anche perfettamente bene.
La guerra ed io ci siamo incontrati in un modo violento, ma che adesso mi pare un poco buffo.
Augusta ed io eravamo ritornati a Lucinico a passarvi le Pentecoste insieme ai figliuoli.
Il 23 di Maggio io mi levai in buon'ora.
Dovevo prendere il sale di Carlsbad e fare anche una passeggiata prima del caffè.
Fu durante questa cura a Lucinico che m'accorsi che il cuore, quando si è a digiuno, attende piú attivamente ad altre riparazioni irraggiando su tutto l'organismo un grande benessere.
La mia teoria doveva perfezionarsi quel giorno stesso in cui mi si costrinse di soffrire la fame che mi fece tanto bene.
Augusta, per salutarmi, levò la testa tutta bianca dal guanciale e mi ricordò che avevo promesso a mia figlia di procurarle delle rose.
Il nostro unico rosaio era appassito e bisognava perciò provvedere.
Mia figlia s'è fatta una bella fanciulla e somiglia ad Ada.
Da un momento all'altro, con essa avevo dimenticato il fare dell'educatore burbero ed ero passato a quello del cavaliere che rispetta la femminilità anche nella propria figliuola.
Subito essa s'accorse del suo potere e con grande divertimento mio e d'Augusta ne abusò.
Voleva delle rose e bisognava procurargliene.
Mi proposi di camminare per un due orette.
Faceva un bel sole e visto che il mio proposito era di camminare sempre e di non arrestarmi finché non ero ritornato a casa, non presi meco neppure la giubba e il cappello.
Per fortuna ricordai che avrei dovuto pagare le rose e non lasciai perciò a casa insieme alla giubba anche il portafoglio.
Prima di tutto mi recai alla campagna vicina, dal padre di Teresina, per pregarlo di tagliare le rose che sarei venuto a prendere al mio ritorno.
Entrai nel grande cortile cinto da un muro alquanto rovinato e non vi trovai nessuno.
Urlai il nome di Teresina.
Uscí dalla casa il piú piccolo dei bambini che allora avrà avuto sei anni.
Posi nella sua manina qualche centesimo ed egli mi raccontò che tutta la famigliuola di buon'ora s'era recata al di là dell'Isonzo, per una giornata di lavoro, su un suo campo di patate di cui la terra aveva bisogno di essere rassodata.
Ciò non mi spiaceva.
Io conoscevo quel campo e sapevo che per giungervi abbisognavo di circa un'ora di tempo.
Visto che avevo stabilito di camminare per un due ore, mi piaceva di poter attribuire alla mia passeggiata uno scopo determinato.
Cosí non c'era la paura d'interromperla per un assalto improvviso d'infingardaggine.
M'avviai traverso la pianura ch'è piú alta della strada e di cui perciò non vedevo che i margini e qualche corona d'albero in fiore.
Ero veramente giocondo: cosí in maniche di camicia e senza cappello mi sentivo molto leggero.
Aspiravo quell'aria tanto pura e, come usavo spesso da qualche tempo, camminando facevo la ginnastica polmonare del Niemeyer che m'era stata insegnata da un amico tedesco, una cosa utilissima a chi fa una vita piuttosto sedentaria.
Arrivato in quel campo, vidi Teresina che lavorava proprio dalla parte della strada.
M'avvicinai a lei e allora m'accorsi che piú in là lavoravano insieme al padre i due fratellini di Teresina di un'età che io non avrei saputo precisare, fra' dieci e i quattordici anni.
Nella fatica i vecchi si sentono magari esausti, ma per l'eccitazione che l'accompagna, sempre piú giovini che nell'inerzia.
Ridendo m'accostai a Teresina:
- Sei ancora in tempo, Teresina.
Non tardare.
Essa non m'intese ed io non le spiegai nulla.
Non occorreva.
Giacché essa non ricordava, si poteva ritornare con lei ai nostri antichi rapporti.
Avevo già ripetuto l'esperimento ed aveva avuto anche questa volta un risultato favorevole.
Indirizzandole quelle poche parole l'avevo accarezzata altrimenti che col solo occhio.
Col padre di Teresina m'accordai facilmente per le rose.
Mi permetteva di tagliarne quante volevo eppoi non si avrebbe litigato per il prezzo.
Egli voleva subito ritornare al lavoro mentre io m'accingevo di mettermi sulla via del ritorno, ma poi si pentí e mi corse dietro.
Raggiuntomi, a voce molto bassa, mi domandò:
- Lei non ha sentito niente? Dicono sia scoppiata la guerra.
- Già! Lo sappiamo tutti! Da un anno circa, - risposi io.
- Non parlo di quella, - disse lui spazientito.
- Parlo di quella con...
- e fece un segno dalla parte della vicina frontiera italiana.
- Lei non ne sa nulla? - Mi guardò ansioso della risposta.
- Capirai, - gli dissi io con piena sicurezza, - che se io non so nulla vuol proprio dire che nulla c'è.
Vengo da Trieste e le ultime parole che sentii colà significavano che la guerra è proprio definitivamente scongiurata.
A Roma hanno ribaltato il Ministero che voleva la guerra e ci hanno ora il Giolitti.
Egli si rasserenò immediatamente:
- Perciò queste patate che stiamo coprendo e che promettono tanto bene saranno poi nostre! Vi sono tanti di quei chiacchieroni a questo mondo! - Con la manica della camicia s'asciugò il sudore che gli colava dalla fronte.
Vedendolo tanto contento, tentai di renderlo piú contento ancora.
Amo tanto le persone felici, io.
Perciò dissi delle cose che veramente non amo di rammentare.
Asserii che se anche la guerra fosse scoppiata, non sarebbe stata combattuta colà.
C'era prima di tutto il mare dove era ora si battessero, eppoi oramai in Europa non mancavano dei campi di battaglia per chi ne voleva.
C'erano le Fiandre e varii dipartimenti della Francia.
Avevo poi sentito dire - non sapevo piú da chi - che a questo mondo c'era oramai tale un bisogno di patate che le raccoglievano accuratamente anche sui campi di battaglia.
Parlai molto, sempre guardando Teresina che piccola, minuta, s'era accovacciata sulla terra per tastarla prima di applicarvi la vanga.
Il contadino perfettamente tranquillizzato ritornò al suo lavoro.
Io, invece, avevo consegnato una parte della mia tranquillità a lui e ne restava a me molto di meno.
Era certo che a Lucinico eravamo troppo vicini alla frontiera.
Ne avrei parlato ad Augusta.
Avremmo forse fatto bene di ritornare a Trieste e forse andare anche piú in là o in qua.
Certamente Giolitti era ritornato al potere, ma non si poteva sapere se, arrivato lassú, avrebbe continuato a vedere le cose nella luce in cui le vedeva quando lassú c'era qualcuno d'altro.
Mi rese anche piú nervoso l'incontro casuale con un plotone di soldati che marciava sulla strada in direzione di Lucinico.
Erano dei soldati non giovini e vestiti ed attrezzati molto male.
Dal loro fianco pendeva quella che noi a Trieste dicevamo la Durlindana, quella baionetta lunga che in Austria, nell'estate del 1915, avevano dovuto levare dai vecchi depositi.
Per qualche tempo camminai dietro di loro inquieto d'essere presto a casa.
Poi mi seccò un certo odore di selvatico frollo che emanava da loro e rallentai il passo.
La mia inquietudine e la mia fretta erano sciocche.
Era pure sciocco d'inquietarsi per aver assistito all'inquietudine di un contadino.
Oramai vedevo da lontano la mia villa ed il plotone non c'era piú sulla strada.
Accelerai il passo per arrivare finalmente al mio caffelatte.
Fu qui che cominciò la mia avventura.
Ad uno svolto di via, mi trovai arrestato da una sentinella che urlò:
- Zurück! - mettendosi addirittura in posizione di sparare.
Volli parlargli in tedesco giacché in tedesco aveva urlato, ma egli del tedesco non conosceva che quella sola parola che ripeté sempre piú minacciosamente.
Bisognava andare zurück ed io guardandomi sempre dietro nel timore che l'altro, per farsi intendere meglio, sparasse, mi ritirai con una certa premura che non m'abbandonò neppure quando il soldato non vidi piú.
Ma ancora non avevo rinunciato di arrivare subito alla mia villa.
Pensai che varcando la collina alla mia destra, sarei arrivato molto dietro la sentinella minacciosa.
L'ascesa non fu difficile specie perché l'alta erba era stata curvata da molta gente che doveva essere passata per di là prima di me.
Certamente doveva esservi stata costretta dalla proibizione di passare per la strada.
Camminando riacquistai la mia sicurezza e pensai che al mio arrivo a Lucinico mi sarei subito recato a protestare dal capovilla per il trattamento che avevo dovuto subire.
Se permetteva che i villeggianti fossero trattati cosí, presto a Lucinico non ci sarebbe venuto nessuno!
Ma arrivato alla cima della collina, ebbi la brutta sorpresa di trovarla occupata da quel plotone di soldati dall'odore di selvatico.
Molti soldati riposavano all'ombra di una casetta di contadini che io conoscevo da molto tempo e che a quell'ora era del tutto vuota; tre di essi parevano messi a guardia, ma non verso il versante da cui io ero venuto, e alcuni altri stavano in un semi circolo dinanzi ad un ufficiale che dava loro delle istruzioni che illustrava con una carta topografica ch'egli teneva in mano.
Io non possedevo neppure un cappello che potesse servirmi per salutare.
Inchinandomi varie volte e col mio piú bel sorriso, m'appressai all'ufficiale il quale, vedendomi, cessò di parlare coi suoi soldati e si mise a guardarmi.
Anche i cinque mammelucchi che lo circondavano mi regalavano tutta la loro attenzione.
Sotto tutti quegli sguardi e sul terreno non piano era difficilissimo di moversi.
L'ufficiale urlò:
- Was will der dumme Kerl hier? - (Che cosa vuole quello scimunito?).
Stupito che senz'alcuna provocazione mi si offendesse cosí, volli dimostrarmi offeso virilmente ma tuttavia con la discrezione del caso, deviai di strada e tentai di arrivare al versante che m'avrebbe portato a Lucinico.
L'ufficiale si mise ad urlare che, se facevo un solo passo di piú, m'avrebbe fatto tirare adosso.
Ridivenni subito molto cortese e da quel giorno a tutt'oggi che scrivo, rimasi sempre molto cortese.
Era una barbarie d'essere costretto di trattare con un tomo simile, ma intanto si aveva il vantaggio ch'egli parlava correntemente il tedesco.
Era un tale vantaggio che, ricordandolo, riusciva piú facile di parlargli con dolcezza.
Guai se bestia come era non avesse neppur compreso il tedesco.
Sarei stato perduto.
Peccato che io non parlavo abbastanza correntemente quella lingua perché altrimenti mi sarebbe stato facile di far ridere quell'arcigno signore.
Gli raccontai che a Lucinico m'aspettava il mio caffelatte da cui ero diviso soltanto dal suo plotone.
Egli rise, in fede mia rise.
Rise sempre bestemmiando e non ebbe la pazienza di lasciarmi finire.
Dichiarò che il caffelatte di Lucinico sarebbe stato bevuto da altri e quando sentí che oltre al caffè c'era anche mia moglie che m'aspettava, urlò:
- Auch Ihre Frau wird von anderen gegessen werden.
- (Anche vostra moglie sarà mangiata da altri).
Egli era oramai di miglior umore di me.
Pare poi gli fosse spiaciuto di avermi dette delle parole che, sottolineate dal riso clamoroso dei cinque mammalucchi, potevano apparire offensive; si fece serio e mi spiegò che non dovevo sperare di rivedere per qualche giorno Lucinico ed anzi in amicizia mi consigliava di non domandarlo piú perché bastava quella domanda per compromettermi!
- Haben Sie verstanden? - (Avete capito?)
Io avevo capito, ma non era mica facile di adattarsi di rinunziare al caffelatte da cui distavo non piú di mezzo chilometro.
Solo perciò esitavo di andarmene perché era evidente che quando fossi disceso da quella collina, alla mia villa, per quel giorno, non sarei giunto piú.
E, per guadagnar tempo, mitemente domandai all'ufficiale:
- Ma a chi dovrei rivolgermi per poter ritornare a Lucinico a prendere almeno la mia giubba e il mio cappello?
Avrei dovuto accorgermi che all'ufficiale tardava di esser lasciato solo con la sua carta e i suoi uomini, ma non m'aspettavo di provocare tanta sua ira.
Urlò, in modo da intronarmi l'orecchie, che m'aveva già detto che non dovevo piú domandarlo.
Poi m'impose di andare dove il diavolo vorrà portarmi (wo der Teufel Sie tragen will ).
L'idea di farmi portare non mi spiaceva molto perché ero molto stanco, ma esitavo ancora.
Intanto però l'ufficiale a forza d'urlare s'accese sempre piú e con accento di grande minaccia chiamò a sé uno dei cinque uomini che l'attorniavano e appellandolo signor caporale gli diede l'ordine di condurmi già della collina e di sorvegliarmi finché non fossi sparito sulla via che conduce a Gorizia, tirandomi addosso se avessi esitato ad ubbidire.
Perciò scesi da quella cima piuttosto volontieri:
- Danke schön, - dissi anche senz'alcun'intenzione d'ironia.
Il caporale era uno slavo che parlava discretamente l'italiano.
Gli parve di dover essere brutale in presenza dell'ufficiale e, per indurmi a precederlo nella discesa, mi gridò:
- Marsch! - Ma quando fummo un po' piú lontani si fece dolce e familiare.
Mi domandò se avevo delle notizie sulla guerra e se era vero ch'era imminente l'intervento italiano.
Mi guardava ansioso in attesa della risposta.
Dunque neppure loro che la facevano sapevano se la guerra ci fosse o no! Volli renderlo piú felice che fosse possibile e gli diedi le notizie che avevo propinate anche al padre di Teresina.
Poi mi pesarono sulla coscienza.
Nell'orrendo temporale che scoppiò, probabilmente tutte le persone ch'io rassicurai perirono.
Chissà quale sorpresa ci sarà stata sulla loro faccia cristallizzata dalla morte.
Era un ottimismo incoercibile il mio.
Non avevo sentita la guerra nelle parole dell'ufficiale e meglio ancora nel loro suono?
Il caporale si rallegrò molto e, per compensarmi, mi diede anche lui il consiglio di non tentare piú di arrivare a Lucinico.
Date le notizie mie, egli riteneva che le disposizioni che m'impedivano di rincasare sarebbero state levate il giorno appresso.
Ma intanto mi consigliava di andare a Trieste al Platzkommando dal quale forse avrei potuto ottenere un permesso speciale.
- Fino a Trieste? - domandai io spaventato.
- A Trieste, senza giubba, senza cappello e senza caffelatte?
A quanto ne sapeva il caporale, mentre parlavamo, un fitto cordone di fanteria chiudeva il transito per l'Italia, creando una nuova ed insuperabile frontiera.
Con un sorriso di persona superiore mi dichiarò che, secondo lui, la via piú breve per Lucinico era quella che conduceva oltre Trieste.
A forza di sentirmelo dire, io mi rassegnai e m'avviai verso Gorizia pensando di prendere il treno del mezzodí per recarmi a Trieste.
Ero agitato, ma devo dire che mi sentivo molto bene.
Avevo fumato poco e non mangiato affatto.
Mi sentivo di una leggerezza che da lungo tempo m'era mancata.
Non mi dispiaceva affatto di dover ancora camminare.
Mi dolevano un poco le gambe, ma mi pareva che avrei potuto reggere fino a Gorizia, tanto era libero e profondo il mio respiro.
Scaldatemi le gambe con un buon passo, il camminare infatti non mi pesò.
E nel benessere, battendomi il tempo, allegro perché insolitamente celere, ritornai al mio ottimismo.
Minacciavano di qua, minacciavano di là, ma alla guerra non sarebbero giunti.
Ed è cosí che, quando giunsi a Gorizia, esitai se non avessi dovuto stabilire una stanza all'albergo nella quale passare la notte e ritornare il giorno appresso a Lucinico per presentare le mie rimostranze al capovilla.
Corsi intanto all'ufficio postale per telefonare ad Augusta.
Ma dalla mia villa non si rispose.
L'impiegato, un omino dalla barbetta rada che pareva nella sua piccolezza e rigidezza qualche cosa di ridicolo e d'ostinato - la sola cosa che di lui ricordi - sentendomi bestemmiare furibondo al telefono muto, mi si avvicinò e mi disse:
- È già la quarta volta oggi che Lucinico non risponde.
Quando mi rivolsi a lui, nel suo occhio brillò una grande lieta malizia (sbagliavo! anche quella ricordo ancora!) e quel suo occhio brillante cercò il mio per vedere se proprio ero tanto sorpreso e arrabbiato.
Ci vollero un dieci buoni minuti perché comprendessi.
Allora non ci furono dubbii per me.
Lucinico si trovava o fra pochi istanti si troverebbe sulla linea del fuoco.
Quando intesi perfettamente quell'occhiata eloquente ero avviato al caffè per prendere in aspettativa della colazione la tazza di caffè che m'era dovuta dalla mattina.
Deviai subito e andai alla stazione.
Volevo trovarmi piú vicino ai miei e - seguendo le indicazioni del mio amico caporale - mi recavo a Trieste.
Fu durante quel mio breve viaggio che la guerra scoppiò.
Pensando di arrivare tanto presto a Trieste, alla stazione di Gorizia e per quanto ne avessi avuto il tempo, non presi neppure la tazza di caffè cui anelavo da tanto tempo.
Salii nella mia vettura e, lasciato solo, rivolsi il mio pensiero ai miei cari da cui ero stato staccato in un modo tanto strano.
Il treno camminò bene fino oltre Monfalcone.
Pareva che la guerra non fosse giunta ancora fin là.
Io mi conquistai la tranquillità pensando che probabilmente a Lucinico le cose si sarebbero svolte come al di qua della frontiera.
A quell'ora Augusta e i miei figli si sarebbero trovati in viaggio verso l'interno dell'Italia.
Questa tranquillità associatasi a quella enorme, sorprendente, della mia fame, mi procurò un lungo sonno.
Fu probabilmente la stessa fame che mi destò.
Il mio treno s'era fermato in mezzo alla cosidetta Sassonia di Trieste.
Il mare non si vedeva, per quanto dovesse essere vicinissimo, perché una leggera foschia impediva di guardare lontano.
Il Carso ha una grande dolcezza nel Maggio, ma la può intendere solo chi non è viziato dalle primavere esuberanti di colore e di vita di altre campagne.
Qui la pietra che sporge dappertutto è circondata da un mite verde che non è umile perché presto diventa la nota predominante del paesaggio.
In altre condizioni io mi sarei adirato enormemente di non poter mangiare avendo tanta fame.
Invece quel giorno la grandezza dell'avvenimento storico cui avevo assistito, m'imponeva e m'induceva alla rassegnazione.
Il conduttore cui regalai delle sigarette non seppe procurarmi neppure un tozzo di pane.
Non raccontai a nessuno delle mie esperienze della mattina.
Ne avrei parlato a Trieste a qualche intimo.
Dalla frontiera verso la quale tendevo il mio orecchio non veniva alcun suono di combattimento.
Noi eravamo fermi a quel posto per lasciar passare un otto o nove treni che scendevano turbinando verso l'Italia.
La piaga cancrenosa (come in Austria si appellò subito la fronte italiana) s'era aperta e abbisognava di materiale per nutrire la sua purulenza.
E i poveri uomini vi andavano sghignazzando e cantando.
Da tutti quei treni uscivano i medesimi suoni di gioia o di ebbrezza.
Quando arrivai a Trieste la notte era già scesa sulla città.
La notte era illuminata dal bagliore di molti incendi e un amico che mi vide andare verso casa mia in maniche di camicia mi gridò:
- Hai preso parte ai saccheggi?
Finalmente arrivai a mangiare qualche cosa e subito mi coricai.
Una vera, grande stanchezza mi spingeva a letto.
Io credo fosse prodotta dalle speranze e dai dubbii che tenzonavano nella mia mente.
Stavo sempre molto bene e nel periodo breve che precedette il sogno di cui con la psico-analisi m'ero esercitato a ritenere le immagini, ricordo che conclusi la mia giornata con un'ultima infantile idea ottimistica: alla frontiera non era morto ancora nessuno e perciò la pace si poteva rifare.
Adesso che so che la mia famiglia è sana e salva, la vita che faccio non mi spiace.
Non ho molto da fare ma non si può dire che io sia inerte.
Non si deve né comperare né vendere.
Il commercio risanerà quando ci sarà la pace.
L'Olivi dalla Svizzera mi fece pervenire dei consigli.
Se sapesse come i suoi consigli stonano in quest'ambiente ch'è mutato del tutto! Io, intanto, per il momento, non faccio nulla.
24 Marzo 1916
Dal Maggio dell'anno scorso non avevo piú toccato questo libercolo.
Ecco che dalla Svizzera il dr.
S.
mi scrive pregandomi di mandargli quanto avessi ancora annotato.
È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di mandargli anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi di lui e della sua cura.
Giacché possiede tutte le mie confessioni, si tenga anche queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua edificazione.
Ma al signor dottor S.
voglio pur dire il fatto suo.
Ci pensai tanto che oramai ho le idee ben chiare.
Intanto egli crede di ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza inoltrata può permettere.
Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico-analisi, ma non ne ho neppur di bisogno.
E la mia salute non proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri.
Non è per il confronto ch'io mi senta sano.
Io sono sano, assolutamente.
Da lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e ch'era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuadere.
Io soffro bensí di certi dolori, ma mancano d'importanza nella mia grande salute.
Posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell'immobilità come gl'incancreniti.
Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole.
Ammetto che per avere la persuasione della salute il mio destino dovette mutare e scaldare il mio organismo con la lotta e sopratutto col trionfo.
Fu il mio commercio che mi guarí e voglio che il dottor S.
lo sappia.
Attonito e inerte, stetti a guardare il mondo sconvolto, fino al principio dell'Agosto dell'anno scorso.
Allora io cominciai a comperare.
Sottolineo questo verbo perché ha un significato piú alto di prima della guerra.
In bocca di un commerciante, allora, significava ch'egli era disposto a comperare un dato articolo.
Ma quando io lo dissi, volli significare ch'io ero compratore di qualunque merce che mi sarebbe stata offerta.
Come tutte le persone forti, io ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e fu la mia fortuna.
L'Olivi non era a Trieste, ma è certo ch'egli non avrebbe permesso un rischio simile e lo avrebbe riservato agli altri.
Invece per me non era un rischio.
Io ne sapevo il risultato felice con piena certezza.
Dapprima m'ero messo, secondo l'antico costume in epoca di guerra, a convertire tutto il patrimonio in oro, ma v'era una certa difficoltà di comperare e vendere dell'oro.
L'oro per cosí dire liquido, perché piú mobile, era la merce e ne feci incetta.
Io effettuo di tempo in tempo anche delle vendite ma sempre in misura inferiore agli acquisti.
Perché cominciai nel giusto momento i miei acquisti e le mie vendite furono tanto felici che queste mi davano i grandi mezzi di cui abbisognavo per quelli.
Con grande orgoglio ricordo che il mio primo acquisto fu addirittura apparentemente una sciocchezza e inteso unicamente a realizzare subito la mia nuova idea: una partita non grande d'incenso.
Il venditore mi vantava la possibilità d'impiegare l'incenso quale un surrogato della resina che già cominciava a mancare, ma io quale chimico sapevo con piena certezza che l'incenso mai piú avrebbe potuto sostituire la resina di cui era differente toto genere.
Secondo la mia idea il mondo sarebbe arrivato ad una miseria tale da dover accettare l'incenso quale un surrogato della resina.
E comperai! Pochi giorni or sono ne vendetti una piccola parte e ne ricavai l'importo che m'era occorso per appropriarmi della partita intera.
Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e della mia salute.
Il dottore, quando avrà ricevuta quest'ultima parte del mio manoscritto, dovrebbe restituirmelo tutto.
Lo rifarei con chiarezza vera perché come potevo intendere la mia vita quando non ne conoscevo quest'ultimo periodo? Forse io vissi tanti anni solo per prepararmi ad esso!
Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita stessa una manifestazione di malattia.
La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti.
A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale.
Non sopporta cure.
Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite.
Morremmo strangolati non appena curati.
La vita attuale è inquinata alle radici.
L'uomo s'è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l'aria, ha impedito il libero spazio.
Può avvenire di peggio.
Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze.
V'è una minaccia di questo genere in aria.
Ne seguirà una grande ricchezza...
nel numero degli uomini.
Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo.
Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!
Ma non è questo, non è questo soltanto.
Qualunque sforzo di darci la salute è vano.
Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo.
Allorché la rondinella comprese che per essa non c'era altra possibile vita fuori dell'emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte piú considerevole del suo organismo.
La talpa s'interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno.
Il cavallo s'ingrandí e trasformò il suo piede.
Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.
Ma l'occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c'è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa.
Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l'uomo diventa sempre piú furbo e piú debole.
Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza.
I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l'ordigno non ha piú alcuna relazione con l'arto.
Ed è l'ordigno che crea la malattia con l'abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice.
La legge del piú forte sparí e perdemmo la selezione salutare.
Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute.
Quando i gas velenosi non basteranno piú, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli.
Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' piú ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo.
Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
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