LA COSCIENZA DI ZENO, di Italo Svevo - pagina 34
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Mi vestii poi, cosí privo di volontà, che neppure m'asciugai accuratamente.
Il giorno sparí ed io restai alla finestra a guardare le nuove foglie verdi degli alberi del mio giardino.
Fui colto da brividi e con una certa soddisfazione pensai fossero di febbre.
Non la morte desiderai ma la malattia, una malattia che mi servisse di pretesto per fare quello che volevo o che me lo impedisse.
Dopo aver esitato per tanto tempo, Augusta venne a cercarmi.
Vedendola tanto dolce e priva di rancore, si aumentarono da me i brividi fino a farmi battere i denti.
Spaventata, essa mi costrinse di mettermi a letto.
Battevo sempre i denti dal freddo, ma già sapevo di non aver la febbre e le impedii di chiamare il medico.
La pregai di spegnere la lampada, di sedere accanto a me e di non parlare.
Non so per quanto tempo restammo cosí: riconquistai il necessario calore e anche qualche fiducia.
Avevo però la mente ancor tanto offuscata che quando essa riparlò di chiamare il medico, le dissi che sapevo la ragione del mio malore e che glielo avrei detto piú tardi.
Ritornavo al proposito di confessare.
Non mi rimaneva aperta altra via per liberarmi da tanta oppressione.
Cosí restammo ancora per vario tempo muti.
Piú tardi m'accorsi che Augusta s'era levata dalla sua poltrona e mi si accostava.
Ebbi paura: forse essa aveva indovinato tutto.
Mi prese la mano, l'accarezzò, poi leggermente poggiò la sua mano sulla mia testa per sentire se scottasse, e infine mi disse:
- Dovevi aspettartelo! Perché tanta dolorosa sorpresa?
Mi meravigliai delle strane parole e nello stesso tempo che passassero traverso un singhiozzo soffocato.
Era evidente che essa non alludeva alla mia avventura.
Come avrei io potuto prevedere di essere fatto cosí? Con una certa rudezza le domandai:
- Ma che cosa vuoi dire? Che cosa dovevo io prevedere?
Confusa essa mormorò:
- L'arrivo del padre di Guido per le nozze di Ada...
Finalmente compresi: essa credeva ch'io soffrissi per l'imminenza del matrimonio di Ada.
A me parve ch'essa veramente mi facesse torto: io non ero colpevole di un simile delitto.
Mi sentii puro e innocente come un neonato e subito liberato da ogni oppressione.
Saltai dal letto:
- Tu credi ch'io soffra per il matrimonio di Ada? Sei pazza! Dacché sono sposato, io non ho piú pensato a lei: Non ricordavo neppure ch'era arrivato quest'oggi il signor Cada!
La baciai e abbracciai con pieno desiderio e il mio accento fu improntato a tale sincerità ch'essa si vergognò del suo sospetto.
Anche lei ebbe la ingenua faccia sgombera da ogni nube e andammo presto a cena ambedue affamati.
A quello stesso tavolo, dove avevamo sofferto tanto, poche ore prima, sedevamo ora come due buoni compagni in vacanza.
Ella mi ricordò che le avevo promesso di dirle la ragione del mio malessere.
Io finsi una malattia, quella malattia che doveva darmi la facoltà di fare senza colpa tutto quello che mi piaceva.
Le raccontai che già in compagnia dei due vecchi signori, alla mattina, m'ero sentito scoraggiato profondamente.
Poi ero andato a prendere gli occhiali che l'oculista m'aveva prescritti.
Forse quel segno di vecchiezza m'aveva avvilito maggiormente.
E avevo camminato per le vie della città per ore ed ore.
Raccontai anche qualche cosa delle immaginazioni che tanto m'avevano fatto soffrire e ricordo che contenevano persino un abbozzo di confessione.
Non so in quale connessione con la malattia immaginaria, parlai anche del nostro sangue che girava, girava, ci teneva eretti, capaci al pensiero e all'azione e perciò alla colpa e al rimorso.
Essa non capí che si trattava di Carla, ma a me parve di averlo detto.
Dopo cena inforcai gli occhiali e finsi lungamente di leggere il mio giornale, ma quei vetri m'annebbiavano la vista.
Ne ebbi un aumento del mio turbamento lieto come di alcolizzato.
Dissi di non poter intendere quello che leggevo.
Continuavo a fare il malato.
La notte la passai pressocché insonne.
Aspettavo l'abbraccio di Carla con pieno grande desiderio.
Desideravo proprio lei, la fanciulla dalle ricche treccie fuori di posto e la voce tanto musicale quando la nota non le era imposta.
Ella era resa desiderabile anche da tutto ciò che per lei avevo già sofferto.
Fui accompagnato tutta la notte da un ferreo proposito.
Sarei stato sincero con Carla prima di farla mia e le avrei detta l'intera verità sui miei rapporti con Augusta.
Nella mia solitudine mi misi a ridere: era molto originale di andare alla conquista di una donna con in bocca la dichiarazione d'amore per un'altra.
Forse Carla sarebbe ritornata alla sua passività! E che perciò? Per il momento nessun suo atto avrebbe potuto diminuire il pregio della sua sottomissione di cui mi sembrava di poter essere sicuro.
La mattina seguente vestendomi mormoravo le parole che le avrei dette.
Prima di essere mia, Carla doveva sapere che Augusta col suo carattere e anche con la sua salute (avrei potuto spendere molte parole per spiegare quello ch'io intendessi per salute ciò che avrebbe anche servito ad educare Carla) aveva saputo conquistare il mio rispetto, ma anche il mio amore.
Prendendo il caffè, ero tanto assorto nel preparare un tanto elaborato discorso, che Augusta non ebbe da me altro segno di affetto che un lieve bacio prima di uscire.
Se ero tutto suo! Andavo da Carla per riaccendere la mia passione per lei.
Non appena entrai nella stanza di studio di Carla, ebbi un tale sollievo al trovarla sola e pronta, che subito l'attirai a me e appassionatamente l'abbracciai.
Fui spaventato dall'energia con la quale essa mi respinse.
Una vera violenza! Essa non voleva saperne ed io rimasi a bocca aperta in mezzo alla stanza, dolorosamente deluso.
Ma Carla subito rimessasi mormorò:
- Non vede che la porta è rimasta aperta e che qualcuno sta scendendo le scale?
Assunsi l'aspetto di un visitatore cerimonioso finché l'importuno non passò.
Poi chiudemmo la porta.
Essa impallidí vedendo che giravo anche la chiave.
Cosí tutto era chiaro.
Poco dopo essa mormorò fra le mie braccia con voce soffocata: - Lo vuoi? Veramente lo vuoi?
M'aveva dato del tu, e questo fu decisivo.
Io poi avevo subito risposto:
- Se non desidero altro!
Avevo dimenticato che avrei voluto prima chiarire qualche cosa.
Subito dopo io avrei voluto cominciare a parlarle dei miei rapporti con Augusta avendo tralasciato di farlo prima.
Ma era difficile per il momento.
Parlando con Carla d'altro in quel momento sarebbe stato come diminuire l'importanza della sua dedizione.
Anche il piú sordo fra gli uomini sa che non si può fare una cosa simile, per quanto tutti sappiano che non c'è confronto fra l'importanza di quella dedizione prima che avvenga e immediatamente dopo.
Sarebbe una grande offesa per una donna, che aperse le braccia per la prima volta, sentirsi dire: «Prima di tutto debbo chiarire quelle parole che ti dissi ieri...
».
Ma che ieri? Tutto quello che avvenne il giorno prima deve apparire indegno di essere menzionato e se ad un gentiluomo avviene di non sentire cosí, tanto peggio per lui e deve fare in modo che nessuno se ne avveda.
È certo che io ero quel gentiluomo che non sentiva cosí perché nella simulazione sbagliai come la sincerità non saprebbe.
Le domandai:
- Com'è che ti concedesti a me? Come meritai una cosa simile?
Volevo dimostrarmi grato o rimproverarla? Probabilmente non era che un tentativo per iniziare delle spiegazioni.
Essa un po' stupita guardò in alto per vedere il mio aspetto:
- A me pare che tu mi abbia presa, - e sorrise affettuosamente per provarmi che non intendeva di rimproverarmi.
Ricordai che le donne esigono si dica che sono state prese.
Poi, essa stessa si accorse di aver sbagliato, che le cose si prendono e le persone si accordano e mormorò:
- Io ti aspettavo! Eri il cavaliere che doveva venire a liberarmi.
Certo è male che tu sia sposato, ma, visto che non ami tua moglie, io so almeno che la mia felicità non distrugge quella di nessun altro.
Fui preso dal mio dolore al fianco con tale intensità che dovetti cessare dall'abbracciarla.
Dunque l'importanza delle mie sconsiderate parole non era stata esagerata da me? Era proprio la mia menzogna che aveva indotta Carla di divenire mia? Ecco che se ora avessi pensato di parlare del mio amore per Augusta, Carla avrebbe avuto il diritto di rimproverarmi nientemeno che di un tranello! Rettifiche e spiegazioni non erano piú possibili per il momento.
Ma in seguito ci sarebbe stata l'opportunità di spiegarsi e di chiarire.
Aspettando che si presentasse, ecco che si costituiva un nuovo legame fra me e Carla.
Lí, accanto a Carla, rinacque intera la mia passione per Augusta.
Ora non avrei avuto che un desiderio: correre dalla mia vera moglie, solo per vederla intenta al suo lavoro di formica assidua, mentre metteva in salvo le nostre cose in un'atmosfera di canfora e di naftalina.
Ma restai al mio dovere, che fu gravissimo per un episodio che mi turbò molto dapprima perché m'apparve come un'altra minaccia della sfinge con la quale aveva da fare.
Carla mi raccontò che subito dopo che me n'ero andato il giorno prima, era venuto il maestro di canto e che essa lo aveva semplicemente messo alla porta.
Non seppi celare un gesto di contrarietà.
Era lo stesso che avvisare il Copler della nostra tresca!
- Che cosa ne dirà il Copler? - esclamai.
Essa si mise a ridere e si rifugiò, questa volta di sua iniziativa, fra le mie braccia:
- Non avevamo detto che l'avremmo buttato fuori della porta anche lui?
Era carina, ma non poteva piú conquistarmi.
Trovai subito anch'io un atteggiamento che mi stava bene, quello del pedagogo, perché mi dava anche la possibilità di sfogare quel rancore che c'era in fondo all'anima mia per la donna che non mi permetteva di parlare come avrei voluto di mia moglie.
- Bisognava lavorare a questo mondo - le dissi - perché, come ella già doveva saperlo, questo era un mondo cattivo dove solamente i validi reggevano.
E se io ora dovessi morire? Che cosa avverrebbe di lei? - Avevo prospettata l'eventualità del mio abbandono in modo ch'essa proprio non poteva offendersene e infatti se ne commosse.
Poi, con l'evidente intenzione di avvilirla, le dissi che con mia moglie bastava io manifestassi un desiderio per vederlo esaudito.
- Ebbene! - disse lei rassegnata - manderemo a dire al maestro che ritorni! - Poi tentò di comunicarmi la sua antipatia per quel maestro.
Ogni giorno doveva subire la compagnia di quel vecchione antipatico che le faceva ripetere per infinite volte gli stessi esercizi che non giovavano a nulla, proprio a nulla.
Essa non ricordava di aver passato qualche bel giorno che quando il maestro si ammalava.
Aveva anche sperato che morisse, ma essa non aveva fortuna.
Divenne infine addirittura violenta nella sua disperazione.
Ripeté, aumentandolo, il suo lamento di non aver fortuna: era disgraziata, irreparabilmente disgraziata.
Quando ricordava che m'aveva subito amato perché le era sembrato che dal mio fare, dal mio dire, dai miei occhi, venisse una promessa di vita meno rigida, meno obbligata, meno noiosa, doveva piangere.
Cosí conobbi subito i suoi singhiozzi e mi seccarono; erano violenti fino a scuotere, pervadendolo, il suo debole organismo.
Mi sembrava di subire immediatamente un brusco assalto alla mia tasca e alla mia vita.
Le domandai:
- Ma credi tu che mia moglie a questo mondo non faccia nulla? Adesso che noi due parliamo, essa ha i polmoni inquinati dalla canfora e dalla naftalina.
Carla singhiozzò:
- Le cose, le masserizie, i vestiti...
beata lei!
Pensai irritato ch'essa volesse che io corressi a comperarle tutte quelle cose, solo per procurarle l'occupazione che prediligeva.
Non dimostrai dell'ira, grazie al cielo e obbedii alla voce del dovere che gridava: «accarezza la fanciulla che si abbandonò a te!».
L'accarezzai.
Passai la mia mano leggermente sui suoi capelli.
Ne risultò che i suoi singhiozzi si calmarono e le sue lagrime fluirono abbondanti e non trattenute come la pioggia che segue ad un temporale.
- Tu sei il mio primo amante - disse essa ancora - ed io spero che continuerai ad amarmi!
Quella sua comunicazione, ch'ero il suo primo amante, designazione che preparava il posto ad un secondo, non mi commosse molto.
Era una dichiarazione che arrivava in ritardo perché da una buona mezz'ora l'argomento era stato abbandonato.
Eppoi era una nuova minaccia.
Una donna crede di avere tutti i diritti verso il suo primo amante.
Dolcemente le mormorai all'orecchio:
- Anche tu sei la mia prima amante...
dacché mi sono sposato.
La dolcezza della voce mascherava il tentativo di pareggiare le due partite.
Poco dopo io la lasciai perché a nessun prezzo avrei voluto arrivare tardi a colazione.
Prima di andarmene trassi di nuovo di tasca la busta che io dicevo dei buoni propositi perché un ottimo proposito l'aveva creata.
Sentivo il bisogno di pagare per sentirmi piú libero.
Carla rifiutò dolcemente di nuovo quel denaro ed io allora m'arrabbiai fortemente, ma seppi trattenermi dal manifestare questa rabbia, se non urlando delle parole dolcissime.
Gridavo per non picchiarla, ma nessuno avrebbe potuto accorgersene.
Dissi che ero arrivato al colmo dei miei desideri possedendola e che adesso volevo aver il senso di possederla ancora piú mantenendola completamente.
Perciò doveva guardarsi dal farmi arrabbiare perché ne soffrivo troppo.
Volendo correre via, riassunsi in poche parole il mio concetto che divenne - cosí gridato - molto brusco.
- Sei la mia amante? Perciò il tuo mantenimento incombe a me.
Essa, spaventata, cessò dal resistere e prese la busta mentre mi guardava ansiosa studiando che cosa fosse la verità, il mio urlo d'odio oppure la parola d'amore con cui le veniva concesso tutto quello ch'essa aveva desiderato.
Si rasserenò un poco quando prima di andarmene sfiorai con le mie labbra la sua fronte.
Sulle scale mi venne il dubbio ch'essa, disponendo di quei denari e avendo sentito ch'io m'incaricavo del suo avvenire, avrebbe messo alla porta anche il Copler nel caso in cui egli nel pomeriggio fosse venuto da lei.
Avrei voluto risalire quelle scale per andare ad esortarla di non compromettermi con un atto simile.
Ma non v'era tempo e dovetti correr via.
Io temo che il dottore che leggerà questo mio manoscritto abbia a pensare che anche Carla sarebbe stata un soggetto interessante alla psico-analisi.
A lui sembrerà che quella dedizione, preceduta dal congedo al maestro di canto, fosse stata troppo rapida.
Anche a me sembrava che in premio del suo amore essa si fosse attese da me troppe concessioni.
Occorsero molti, ma molti mesi, perché io intendessi meglio la povera fanciulla.
Probabilmente essa s'era lasciata prendere per liberarsi dall'inquietante tutela del Copler, e dovette essere per lei una ben dolorosa sorpresa all'accorgersi che s'era concessa invano perché da lei si continuava a pretendere proprio quello che le pesava tanto, cioè il canto.
Si trovava ancora fra le mie braccia e apprendeva che doveva continuare a cantare.
Da ciò un'ira e un dolore che non trovavano le parole giuste.
Per ragioni differenti dicemmo cosí ambedue delle stranissime parole.
Quand'essa mi volle bene, riebbe tutta la naturalezza che il calcolo le aveva tolto.
Io la naturalezza non la ebbi mai con lei.
Correndo via pensai ancora: «Se essa sapesse quanto io ami mia moglie si comporterebbe altrimenti».
Quando lo seppe si comportò infatti altrimenti.
All'aria aperta respirai la libertà e non sentii il dolore di averla compromessa.
Fino al giorno dopo c'era tempo e avrei forse trovato un riparo alle difficoltà che mi minacciavano.
Correndo verso casa ebbi anche il coraggio di prendermela con l'ordine sociale, come se esso fosse stato la colpa dei miei trascorsi.
Mi pareva avrebbe dovuto essere tale da permettere di tempo in tempo (non sempre) di fare all'amore, senz'aver a temerne delle conseguenze, anche con le donne che non si amano affatto.
Di rimorso non v'era traccia in me.
Perciò io penso che il rimorso non nasca dal rimpianto di una mala azione già commessa, ma dalla visione della propria colpevole disposizione.
La parte superiore del corpo si china a guardare e giudicare l'altra parte e la trova deforme.
Ne sente ribrezzo e questo si chiama rimorso.
Anche nella tragedia antica la vittima non ritornava in vita e tuttavia il rimorso passava.
Ciò significava che la deformità era guarita e che oramai il pianto altrui non aveva alcuna importanza.
Dove poteva esserci posto per il rimorso in me che con tanta gioia e tanto affetto correvo dalla mia legittima moglie? Da molto tempo non m'ero sentito tanto puro.
A colazione, senz'altro sforzo, fui lieto ed affettuoso con Augusta.
Non ci fu quel giorno alcuna nota stonata fra di noi.
Niente di eccessivo: ero come dovevo essere con la donna onestamente e sicuramente mia.
Altre volte ci furono degli eccessi d'affettuosità da parte mia, ma solamente quando nel mio animo si combatteva una lotta fra le due donne ed eccedendo nelle manifestazioni d'affetto m'era piú facile di celare ad Augusta che fra di noi c'era l'ombra per il momento abbastanza potente di un'altra donna.
Posso anche dire che perciò Augusta mi preferiva quando non ero tutto e con grande sincerità suo.
Io stesso ero un po' stupito della mia calma e l'attribuivo al fatto ch'ero riuscito di far accettare a Carla quella busta dai buoni propositi.
Non che con quella credessi di averla saldata.
Ma mi pareva che avevo cominciato a pagare un'indulgenza.
Disgraziatamente per tutta la durata della mia relazione con Carla, il denaro restò la mia preoccupazione principale.
Ad ogni occasione ne mettevo in disparte in un posto ben celato della mia biblioteca, per essere preparato a far fronte a qualunque esigenza dell'amante che tanto temevo.
Cosí quel denaro, quando Carla m'abbandonò lasciandomelo, serví per pagare tutt'altra cosa.
Dovevamo passare la sera in casa di mio suocero ad un pranzo cui non erano invitati che i membri della famiglia e che doveva sostituire il tradizionale banchetto, preludio alle nozze che dovevano aver luogo due giorni appresso.
Guido voleva approfittare per sposarsi del miglioramento di Giovanni, ch'egli credeva non avrebbe durato.
Andai con Augusta di buon'ora nel pomeriggio da mio suocero.
Sulla via le ricordai ch'essa il giorno prima aveva sospettato ch'io soffrissi tuttavia per quelle nozze.
Essa si vergognò del suo sospetto ed io parlai molto di quella mia innocenza.
Se ero ritornato a casa non ricordando neppure che quella stessa sera v'era la solennità che doveva preparare quelle nozze!
Quantunque non vi fossero altri invitati che noi di famiglia, i vecchi Malfenti volevano che il banchetto fosse preparato solennemente.
Augusta era stata pregata di aiutare a preparare la sala e la tavola.
Alberta non ne voleva sapere.
Poco tempo prima essa aveva ottenuto un premio ad un concorso per una commedia in un atto e s'accingeva ora alacremente alla riforma del teatro nazionale.
Cosí restammo intorno a quella tavola io ed Augusta coadiuvati da una cameriera e da Luciano un ragazzo dell'ufficio di Giovanni che dimostrava altrettanto talento per l'ordine in casa quanto per quello d'ufficio.
Aiutai a trasportare sulla tavola dei fiori e a distribuirli in bell'ordine.
- Vedi - dissi scherzando ad Augusta - che contribuisco anch'io alla loro felicità.
Se mi domandassero di preparare per loro anche il letto nuziale, lo farei con lo stesso aspetto sereno!
Piú tardi andammo a trovare gli sposi ritornati allora da una visita ufficiale.
S'erano messi nel cantuccio piú riposto del salotto e suppongo che fino al nostro arrivo si fossero baciucchiati.
La sposina non aveva neppur smesso il suo abito da passeggio ed era tanto bellina, cosí arrossata dal caldo.
Io credo che gli sposi, per celare ogni traccia dei baci che si erano scambiati, volessero darci ad intendere che avessero discusso di scienza.
Era una sciocchezza, forse anche sconveniente! Volevano allontanarci dalla loro intimità o credevano che i loro baci potessero dolere a qualcuno? Ciò però non guastò il mio buon umore.
Guido m'aveva detto che Ada non voleva credergli che certe vespe sapevano paralizzare con una puntura altri insetti anche piú forti di loro per conservarli cosí paralizzati, vivi e freschi, quale nutrimento per la loro discendenza.
Io credevo di ricordare ch'esisteva qualche cosa di tanto mostruoso in natura, ma in quel momento non volli concedere una soddisfazione a Guido:
- Mi credi una vespa che ti dirigi a me? - gli dissi ridendo.
Lasciammo gli sposi per permettere loro di occuparsi di cose piú liete.
Io però cominciavo a trovare alquanto lungo il pomeriggio e avrei voluto andare a casa ad aspettare nel mio studio l'ora del pranzo.
Nell'anticamera trovammo il dottor Paoli che usciva dalla stanza da letto di mio suocero.
Era un medico giovine che aveva però già saputo conquistarsi una buona clientela.
Era biondissimo e bianco e rosso come un ragazzone.
Nel potente organismo il suo occhio era però tanto importante da rendere seria ed imponente tutta la sua persona.
Gli occhiali lo facevano apparire piú grande e il suo sguardo s'attaccava alle cose come una carezza.
Ora che conosco bene tanto lui che il Dottor S.
- quello della psico-analisi - mi pare che l'occhio di questi sia indagatore per intenzione, mentre nel dottor Paoli lo è per una sua instancabile curiosità.
Il Paoli vede esattamente il suo cliente, ma anche la moglie di questi e la sedia su cui poggia.
Dio sa quale dei due conci meglio i suoi clienti! Durante la malattia di mio suocero io andai spesso dal Paoli per indurlo a non fare intendere alla famiglia che la catastrofe che la minacciava era imminente, e ricordo che un giorno, guardandomi piú a lungo di quanto mi fosse piaciuto, mi disse sorridendo:
- Ma Lei adora sua moglie!
Egli era un buon osservatore perché infatti io in quel momento adoravo mia moglie che soffriva tanto per la malattia del padre e che io giornalmente tradivo.
Ci disse che Giovanni stava anche meglio del giorno prima.
Adesso egli non aveva altre preoccupazioni perché la stagione era molto favorevole, e riteneva che gli sposi serenamente potessero mettersi in viaggio.
- Naturalmente - aggiunse cautamente - salvo complicazioni imprevedibili.
- La sua prognosi s'avverò perché intervennero le complicazioni imprevedibili.
Al momento di congedarsi si ricordò che noi conoscevamo certo Copler al cui letto egli era stato chiamato quel giorno stesso a consulto.
Lo aveva trovato colpito da una paralisi renale.
Raccontò che la paralisi s'era annunciata con un orrendo male di denti.
Qui fece una prognosi grave, ma, secondo il solito, attenuata da un dubbio:
- La sua vita può anche prolungarsi a patto ch'egli arrivi a vedere il sole di domani.
Augusta, dalla compassione, ebbe le lagrime agli occhi e mi pregò di correre subito dal nostro povero amico.
Dopo un'esitazione, ottemperai al suo desiderio, e volentieri, perché la mia anima improvvisamente si riempí di Carla.
Com'ero stato duro con la povera fanciulla! Ecco che, sparito il Copler, essa rimaneva là, solitaria su quel pianerottolo, nient'affatto compromettente perché tagliata da ogni comunicazione col mio mondo.
Era necessario correre da lei per cancellare l'impressione che doveva averle fatto il mio duro contegno della mattina.
Ma, prudentemente, andai prima di tutto dal Copler.
Dovevo pur poter dire ad Augusta che lo avevo visto.
Conoscevo già il modesto ma comodo e decente quartiere che il Copler abitava in Corsia Stadion.
Un vecchio pensionato gli aveva cedute tre delle sue cinque stanze.
Fui ricevuto da questi, un grosso uomo, ansante, dagli occhi rossi, che camminava inquieto su e giú per un breve corridoio oscuro.
Mi raccontò che il medico curante se ne era andato da poco, dopo di aver constatato che il Copler si trovava in agonia.
Il vecchio parlava a bassa voce, sempre ansando, come se avesse temuto di turbare la quiete del moribondo.
Anch'io abbassai la mia.
È una forma di rispetto come lo sentiamo noi uomini, mentre non è ben certo se al moribondo non piacerebbe di piú di venir accompagnato per l'ultimo tratto di via da voci chiare e forti che gli ricorderebbero la vita.
Il vecchio mi disse che il moribondo era assistito da una suora.
Pieno di rispetto mi fermai per qualche tempo dinanzi alla porta di quella camera nella quale il povero Copler col suo rantolo, dal ritmo tanto esatto, misurava il suo ultimo tempo.
La sua respirazione rumorosa era composta da due suoni: esitante pareva quello prodotto dall'aria ch'egli ispirava, precipitoso quello che nasceva dall'aria espulsa.
Fretta di morire? Una pausa seguiva ai due suoni ed io pensai che quando quella pausa si fosse allungata, allora si sarebbe iniziata la nuova vita.
Il vecchio voleva ch'io entrassi in quella stanza, ma io non volli.
Troppi moribondi m'avevano guatato con un'espressione di rimprovero.
Non attesi che quella pausa s'allungasse e corsi da Carla.
Bussai alla porta del suo studio ch'era chiusa a chiave, ma nessuno rispose.
Impazientito presi la porta a calci e allora dietro di me si aperse la porta del quartiere.
La voce della madre di Carla domandò:
- Ma chi è? - Poi la vecchia timorosa si sporse e, quando alla luce gialla che veniva dalla sua cucina m'ebbe riconosciuto, m'accorsi che la sua faccia si era coperta di un intenso rossore rilevato dalla nitida bianchezza dei suoi capelli.
Carla non c'era, ed essa si profferse di andar a prendere la chiave dello studio per ricevermi in quella stanza ch'essa riteneva fosse la sola degna di ricevermi.
Ma io le dissi di non scomodarsi, entrai nella sua cucina e sedetti senz'altro su una sedia di legno.
Sul focolare, sotto ad una pentola, ardeva un modesto mucchio di carbone.
Le dissi di non trascurare per causa mia la cucinatura della cena.
Essa mi rassicurò.
Cucinava dei fagiuoli, che non erano mai troppo cotti.
La povertà del cibo che si preparava nella casa le cui spese dovevo oramai sostenere io solo, m'ammorbidí e smorzò la stizza che provavo per non aver trovata pronta la mia amante.
La signora rimase in piedi ad onta ch'io ripetutamente l'avessi invitata di sedere.
Bruscamente le raccontai ch'ero venuto a portare alla signorina Carla una bruttissima notizia: il Copler era moribondo.
Alla vecchia caddero le braccia e subito sentí il bisogno di sedere.
- Dio mio! - mormorò - che cosa faremo ora noi?
Poi si ricordò che quello che toccava al Copler era peggio di quello che toccava a lei e aggiunse un compianto:
- Il povero signore! Tanto buono!
Aveva già la faccia irrorata dalle lagrime.
Essa, evidentemente, non sapeva che se il pover'uomo non fosse morto a tempo, sarebbe stato buttato fuori di quella casa.
Anche questo mi rassicurò.
Com'ero circondato dalla piú assoluta discrezione!
Volli tranquillarla e le dissi che quello che il Copler aveva fatto per loro fino ad allora, avrei continuato a farlo io.
Essa protestò che non era per sé stessa ch'essa piangeva, visto che sapeva ch'esse erano circondate da tanta buona gente, ma per il destino del loro grande benefattore.
Volle sapere di quale malattia morisse.
Raccontandole come la catastrofe s'era annunciata, ricordai quella discussione ch'io tempo prima avevo avuta col Copler sull'utilità del dolore.
Ecco che da lui i nervi dei denti s'erano agitati e s'erano messi a chiamare aiuto perché, ad un metro di distanza da loro, i reni avevano cessato di funzionare.
Ero tanto indifferente al fato del mio amico di cui avevo sentito poco prima il rantolo, che continuavo a giocherellare con le sue idee.
Se fosse stato ancora a sentirmi, gli avrei detto che si capiva cosí come dall'ammalato immaginario i nervi potessero legittimamente dolere per una malattia scoppiata a qualche chilometro di distanza.
Fra la vecchia e me c'era ben poco ancora da discorrere ed accettai di andar ad aspettare Carla nel suo studio.
Presi in mano il Garcia e tentai di leggerne qualche pagina.
Ma l'arte del canto mi toccava poco.
La vecchia mi raggiunse di nuovo.
Era inquieta perché non vedeva giungere Carla.
Mi raccontò ch'era andata a comperare dei piatti di cui avevano urgente bisogno.
La mia pazienza stava proprio per esaurirsi.
Irosamente le domandai:
- Avete rotti dei piatti? Non potreste usare maggior attenzione?
Cosí mi liberai della vecchia che borbottò andandosene:
- Due soli...
li ho rotti io...
Ciò mi procurò un momento d'ilarità perché io sapevo ch'erano stati distrutti tutti quelli che c'erano in casa e non dalla vecchia, ma proprio da Carla.
Poi seppi che Carla era tutt'altro che dolce con la madre che perciò aveva una paura folle di parlare troppo dei fatti della figlia coi suoi protettori.
Pare che una volta, ingenuamente, avesse raccontato al Copler del fastidio che risultava a Carla dalle lezioni di canto.
Il Copler se ne adirò con Carla e questa se la prese con la madre.
Ed è cosí che quando la mia deliziosa amante finalmente mi raggiunse, io l'amai violentemente e irosamente.
Essa, incantata, balbettava:
- E io che dubitavo del tuo amore! Il giorno intero fui perseguitata dal desiderio di uccidermi per essermi abbandonata ad un uomo che subito dopo mi trattò cosí male!
Le spiegai che spesso io venivo preso da gravi mali di testa e, quando mi ritrovai nello stato che, se non avessi valorosamente resistito, m'avrebbe ricondotto di corsa da Augusta, riparlai di quei mali e seppi domarmi.
Andavo facendomi.
Intanto piangemmo insieme il povero Copler; proprio assieme!
Del resto Carla non era indifferente all'atroce fine del suo benefattore.
Parlandone si scolorí:
- Io so come son fatta! - disse.
- Per lungo tempo avrò paura di restare sola.
Da vivo già mi faceva tanta paura!
E per la prima volta, timidamente, mi propose di restare con lei la notte intera.
Io non ci pensavo neppure e non avrei saputo prolungare nemmeno di mezz'ora il mio soggiorno in quella stanza.
Ma, sempre attento di non rivelare alla povera fanciulla il mio animo di cui ero il primo io a dolermi, feci delle obbiezioni dicendole che una cosa simile non era possibile perché in quella casa c'era anche sua madre.
Con vero disdegno essa arcuò le labbra:
- Avremmo trasportato qui il letto; la mamma non s'arrischia di spiarmi.
Allora le raccontai del banchetto di nozze che m'aspettava a casa, ma poi sentii il bisogno di dirle che mai mi sarebbe stato possibile di passare una notte con lei.
Nel proposito di bontà che avevo fatto poco prima, arrivavo a domare ogni mio accento che perciò restò sempre affettuoso, ma mi pareva che ogni altra concessione che le avessi fatta od anche soltanto fatta sperare, sarebbe equivaluta ad un nuovo tradimento ad Augusta che io non volevo commettere.
In quel momento sentivo quali erano i miei piú forti legami con Carla: il mio proposito d'affettuosità eppoi le menzogne dette da me sui miei rapporti con Augusta e che pian pianino, nel corso del tempo, bisognava attenuare ed anzi cancellare.
Perciò iniziai quella stessa sera tale opera, naturalmente con la debita prudenza perché era tuttavia troppo facile di ricordare il frutto che aveva avuto la mia bugia.
Le dissi che io sentivo fortemente i miei obblighi verso mia moglie ch'era una donna tanto stimabile che certamente avrebbe meritato di essere amata meglio e cui mai avrei voluto far sapere come la tradivo.
Carla m'abbracciò:
- Cosí ti amo: buono e dolce come ti sentii subito la prima volta.
Non tenterò mai di fare del male a quella poverina.
A me spiaceva sentir dare della poverina ad Augusta, ma ero riconoscente alla povera Carla della sua mitezza.
Era una buona cosa ch'essa non odiasse mia moglie.
Volli dimostrarle la mia riconoscenza e mi guardai d'attorno alla ricerca di un segno di affetto.
Finii col trovarlo.
Regalai anche a lei la sua lavanderia: le permisi di non richiamare il maestro di canto.
Carla ebbe un impeto di affetto che mi seccò abbastanza, ma che sopportai valorosamente.
Poi mi raccontò ch'essa non avrebbe mai abbandonato il canto.
Cantava tutto il giorno, ma a modo suo.
Voleva anzi farmi sentire subito una sua canzone.
Ma io non ne volli sapere e alquanto villanamente corsi via.
Perciò penso che anche quella notte essa abbia meditato il suicidio, ma io non le lasciai mai il tempo di dirmelo.
Ritornai dal Copler perché dovevo portare ad Augusta le ultime notizie dell'ammalato per farle credere che io avessi passate con lui tutte quelle ore.
Il Copler era morto da due ore circa, subito dopo ch'io me n'ero andato.
Accompagnato dal vecchio pensionato che aveva continuato a misurare col suo passo il piccolo corridoio, entrai nella stanza mortuaria.
Il cadavere, già vestito, giaceva sul nudo materazzo del letto.
Teneva nelle mani il crocifisso.
A bassa voce il pensionato mi raccontò che tutte le formalità erano state compiute e che una nipote dell'estinto sarebbe venuta a passare la notte presso il cadavere.
Cosí avrei potuto andarmene sapendo che al mio povero amico si dava tutto quel poco che ancora poteva occorrergli, ma restai per qualche minuto a guardarlo.
Avrei amato di sentirmi sgorgare dagli occhi una lacrima sincera di compianto per il poverino che tanto aveva lottato con la malattia fino a tentar di trovare un accordo con essa.
- È doloroso! - dissi.
La malattia per la quale esistevano tanti farmachi, l'aveva brutalmente ucciso.
Pareva un'irrisione.
Ma la mia lacrima mancò.
La faccia emaciata del Copler non era mai apparsa tanto forte come nella rigidezza della morte.
Pareva prodotta dallo scalpello in un marmo colorato e nessuno avrebbe potuto prevedere che vi sovrastasse imminente la putrefazione.
Era tuttavia una vera vita che quella faccia manifestava: disapprovava sdegnosamente forse me, l'ammalato immaginario, o fors'anche Carla, che non voleva cantare.
Trasalii un momento sembrandomi che il morto ricominciasse a rantolare.
Subito ritornai alla mia calma di critico quando m'accorsi che quello che m'era sembrato un rantolo non era che l'ansare, aumentato dall'emozione, del pensionato.
Il quale poi m'accompagnò alla porta e mi pregò di raccomandarlo se avessi conosciuto chi avrebbe potuto aver bisogno di un quartierino come quello.
- Vede che anche in una circostanza simile ho saputo fare il mio dovere e anche piú, molto di piú!
Alzò per la prima volta la voce in cui echeggiò un risentimento ch'era senza dubbio destinato al povero Copler che gli aveva lasciato libero il quartiere senza il debito preavviso.
Corsi via promettendo tutto quello che voleva.
Da mio suocero trovai che la compagnia s'era messa in quel momento a tavola.
Mi domandarono delle notizie ed io, per non compromettere la gaiezza di quel convitto, dissi che il Copler viveva tuttavia e che c'era dunque ancora qualche speranza.
A me parve che quell'adunanza fosse ben triste.
Forse tale impressione si fece in me alla vista di mio suocero condannato ad una minestrina e ad un bicchiere di latte, mentre attorno a lui tutti si caricavano dei cibi piú prelibati.
Aveva tutto il suo tempo libero, lui, e lo impiegava per guardare in bocca agli altri.
Vedendo che il signor Francesco si dedicava attivamente all'antipasto, mormorò:
- E pensare che ha due anni piú di me!
Poi, quando il signor Francesco giunse al terzo bicchierino di vino bianco, brontolò sottovoce:
- È il terzo! Che gli andasse in tanto fiele!
L'augurio non m'avrebbe disturbato se non avessi mangiato e bevuto anch'io a quel tavolo, e non avessi saputo che la medesima metamorfosi sarebbe stata augurata anche al vino che passava per la mia bocca.
Perciò mi misi a mangiare e a bere di nascosto.
Approfittavo di qualche momento in cui mio suocero ficcava il grosso naso nella tazza del latte o rispondeva a qualche parola che gli era stata rivolta, per inghiottire dei grossi bocconi o per tracannare dei grandi bicchieri di vino.
Alberta, solo per il desiderio di far ridere la gente, avvisò Augusta ch'io bevevo troppo.
Mia moglie, scherzosamente, mi minacciò coll'indice.
Questo non fu male ma fu male perché cosí non valeva piú la pena di mangiare di nascosto.
Giovanni, che fino ad allora non s'era quasi ricordato di me, mi guardò sopra gli occhiali con un'occhiataccia di vero odio.
Disse:
- Io non ho mai abusato di vino o di cibo.
Chi ne abusa non è un vero uomo ma un...
- e ripeté piú volte l'ultima parola che non significava proprio un complimento.
Per l'effetto del vino, quella parola offensiva accompagnata da una risata generale, mi cacciò nell'animo un desiderio veramente irragionevole di vendetta.
Attaccai mio suocero dal suo lato piú debole: la sua malattia.
Gridai che non era un vero uomo non chi abusava dei cibi ma colui che supinamente s'adattava alle prescrizioni del medico.
Io, nel caso suo, sarei stato ben altrimenti indipendente.
Alle nozze di mia figlia - se non altro per affetto - non avrei mica permesso che mi si impedisse di mangiare e di bere.
Giovanni osservò con ira:
- Vorrei vederti nei miei panni!
- E non ti basta di vedermi nei miei? lascio io forse di fumare?
Era la prima volta che mi riusciva di vantarmi della mia debolezza, e accesi subito una sigaretta per illustrare le mie parole.
Tutti ridevano e raccontavano al signor Francesco come la mia vita fosse piena di ultime sigarette.
Ma quella non era l'ultima e mi sentivo forte e combattivo.
Però perdetti subito l'appoggio degli altri quando versai del vino a Giovanni nel suo grande bicchiere d'acqua.
Avevano paura che Giovanni bevesse e urlavano per impedirglielo finché la signora Malfenti non poté afferrare e allontanare quel bicchiere.
- Proprio, vorresti uccidermi? - domandò mitemente Giovanni guardandomi con curiosità.
- Hai il vino cattivo, tu! - Egli non aveva fatto un solo gesto per approfittare del vino che gli avevo offerto.
Mi sentii veramente avvilito e vinto.
Mi sarei quasi gettato ai piedi di mio suocero per chiedergli perdono.
Ma anche quello mi parve un suggerimento del vino e lo respinsi.
Domandando perdono avrei confessata la mia colpa, mentre il banchetto continuava e sarebbe durato abbastanza per offrirmi l'opportunità di riparare a quel primo scherzo tanto mal riuscito.
C'è tempo a tutto a questo mondo.
Non tutti gli ubriachi sono preda immediata di ogni suggerimento del vino.
Quando ho bevuto troppo, io analizzo i miei conati come quando sono sereno e probabilmente con lo stesso risultato.
Continuai ad osservarmi per intendere come fossi arrivato a quel pensiero malvagio di danneggiare mio suocero.
E m'accorsi d'essere stanco, mortalmente stanco.
Se tutti avessero saputo quale giornata io avevo trascorsa, m'avrebbero scusato.
Avevo presa e violentemente abbandonata per ben due volte una donna ed ero ritornato due volte a mia moglie per rinnegare anche lei per due volte.
La mia fortuna fu che allora, per associazione, nel mio ricordo fece capolino quel cadavere su cui invano avevo tentato di piangere, e il pensiero alle due donne sparve; altrimenti avrei finito col parlare di Carla.
Non avevo sempre il desiderio di confessarmi anche quando non ero reso piú magnanimo dall'azione del vino? Finii col parlare del Copler.
Volevo che tutti sapessero che quel giorno avevo perduto il mio grande amico.
Avrebbero scusato il mio contegno.
Gridai che il Copler era morto, veramente morto e che fino ad allora ne avevo taciuto per non rattristarli.
Guarda! Guarda! Ecco che finalmente sentii salirmi le lacrime agli occhi e dovetti volgere altrove lo sguardo per celarle.
Tutti risero perché non mi credettero e allora intervenne l'ostinazione ch'è proprio il carattere piú evidente del vino.
Descrissi il morto:
- Pareva scolpito da Michelangelo, cosí rigido, nella pietra piú incorruttibile.
Ci fu un silenzio generale interrotto da Guido che esclamò:
- E adesso non senti piú il bisogno di non rattristarci?
L'osservazione era giusta.
Avevo mancato ad un proponimento che ricordavo! Non ci sarebbe stato il verso di riparare? Mi misi a ridere sgangheratamente:
- Ve l'ho fatta! È vivo e sta meglio.
Tutti mi guardavano per raccapezzarsi.
- Sta meglio, - soggiunsi seriamente - mi riconobbe e mi sorrise persino.
Tutti mi credettero, ma l'indignazione fu generale.
Giovanni proclamò che se non avesse temuto di farsi del male sottoponendosi ad uno sforzo, m'avrebbe gettato un piatto sulla testa.
Era infatti imperdonabile ch'io avessi turbata la festa con una simile notizia inventata.
Se fosse stata vera non ci sarebbe stata colpa.
Non avrei fatto meglio di dire loro di nuovo la verità? Il Copler era morto, e non appena fossi stato solo, avrei trovate le lacrime pronte per piangerlo, spontanee e abbondanti.
Cercai le parole, ma la signora Malfenti, con quella sua gravità di gran signora m'interruppe:
- Lasciamo stare per ora quel povero malato.
Ci penseremo domani!
Obbedii subito persino col pensiero che si staccò definitivamente dal morto: «Addio! Aspettami! Ritornerò a te subito dopo!».
Era venuta l'ora del brindisi.
Giovanni aveva ottenuta la concessione dal medico di sorbire a quell'ora un bicchiere di champagne.
Gravemente sorvegliò come gli versarono il vino, e rifiutò di portare il bicchiere alle labbra finché non fosse stato colmo.
Dopo di aver fatto un augurio serio e disadorno ad Ada e a Guido, lo vuotò lentamente fino all'ultima goccia.
Guardandomi biecamente mi disse che l'ultimo sorso l'aveva votato proprio alla mia salute.
Per annullare l'augurio, che io sapevo non buono, con ambe le mani sotto la tovaglia feci le corna.
Il ricordo del resto della serata è per me un poco confuso.
So che per iniziativa di Augusta, a quel tavolo, poco dopo si disse un mondo di bene di me citandomi quale un modello di marito.
Mi fu perdonato tutto e persino mio suocero si fece piú gentile.
Soggiunse però che sperava che il marito di Ada si dimostrasse buono come me, ma anche nello stesso tempo un miglior negoziante e soprattutto una persona...
e cercava la parola.
Non la trovò e nessuno intorno a noi la reclamò; neppure il signor Francesco che per avermi visto per la prima volta quella stessa mattina, poco poteva conoscermi.
Dal canto mio non mi offesi.
Come mitiga il proprio animo il sentimento di avere dei grossi torti da riparare! Accettavo con grato animo tutte le insolenze a patto fossero accompagnate da quell'affetto che non meritavo.
E nella mia mente, confusa dalla stanchezza e dal vino, sereno del tutto, accarezzai la mia immagine di buon marito che non diviene meno buono per essere adultero.
Bisognava essere buoni, buoni, buoni, e il resto non importava.
Mandai con la mano un bacio ad Augusta che lo accolse con un sorriso riconoscente.
Poi vi fu a quel tavolo chi volle approfittare della mia ebbrezza per ridere e fui costretto di dire un brindisi.
Avevo finito con l'accettare perché in quel momento mi pareva che sarebbe stata una cosa decisiva di poter fare cosí in pubblico dei buoni propositi.
Non che io dubitassi in quel momento di me, perché mi sentivo proprio quale ero stato descritto, ma sarei divenuto anche migliore quando avessi affermato un proposito dinanzi a tante persone che in certo modo l'avrebbero sottoscritto.
Ed è cosí che nel brindisi parlai solo di me e di Augusta.
Feci per la seconda volta in quei giorni la storia del mio matrimonio.
L'avevo falsificata per Carla tacendo del mio innamoramento per mia moglie; qui la falsificai altrimenti perché non parlai delle due persone tanto importanti nella storia del mio matrimonio, cioè Ada e Alberta.
Raccontai le mie esitazioni di cui non sapevo consolarmi perché m'avevano derubato di tanto tempo di felicità.
Poi, per cavalleria, attribuii anche ad Augusta delle esitazioni.
Ma essa negò ridendo vivacemente.
Ritrovai il filo del discorso con qualche difficoltà.
Raccontai come finalmente fossimo arrivati al viaggio di nozze e come avessimo fatto all'amore in tutti i musei d'Italia.
Ero tanto bene immerso fino al collo nella menzogna che vi cacciai dentro anche quel dettaglio bugiardo che non serviva ad alcuno scopo.
Eppoi si dice che nel vino ci sia la verità.
Augusta m'interruppe una seconda volta per mettere le cose a posto e raccontò come essa avesse dovuto evitare i musei per il pericolo che, per causa mia, correvano i capolavori.
Non s'accorgeva che cosí rivelava non la falsità di quel particolare soltanto! Se ci fosse stato a quel tavolo un osservatore, avrebbe presto fatto a scoprire di quale natura fosse quell'amore ch'io prospettavo in un ambiente ove non aveva potuto svolgersi.
Ripresi il lungo, slavato discorso raccontando l'arrivo in casa nostra e come ambedue ci fossimo messi a perfezionarla facendo questo e quello e fra altro anche una lavanderia.
Sempre ridendo, Augusta m'interruppe di nuovo:
- Questa non è mica una festa data in nostro onore, ma in onore di Ada e Guido! Parla di loro!
Tutti annuirono rumorosamente.
Risi anch'io accorgendomi che per opera mia si era arrivati ad una vera lietezza rumorosa quale è di prammatica in simili occasioni.
Ma non trovai piú nulla da dire.
Mi pareva di aver parlato per ore.
Ingoiai vari altri bicchieri di vino uno dopo l'altro:
- Questo per Ada! - Mi rizzai per un momento per vedere se essa avesse fatte le corna sotto la tovaglia.
- Questo per Guido! - e aggiunsi, dopo aver tracannato il vino:
- Di tutto cuore! - obliando che al primo bicchiere non era stata aggiunta tale dichiarazione.
- Questo per il vostro figliolo maggiore!
E ne avrei bevuti parecchi di quei bicchieri per i loro figliuoli, se non ne fossi stato finalmente impedito.
Per quei poveri innocenti io avrei bevuto tutto il vino che si trovava su quel tavolo.
Poi tutto divenne anche piú oscuro.
Chiaramente ricordo una cosa sola: la mia principale preoccupazione era di non apparire ubriaco.
Mi tenevo eretto e parlavo poco.
Diffidavo di me stesso, sentivo il bisogno di analizzare ogni parola prima di dirla.
Mentre il discorso generale si svolgeva, io dovevo rinunziare a prendervi parte perché non mi si lasciava il tempo di chiarire il mio torbido pensiero.
Volli iniziare un discorso io stesso e dissi a mio suocero:
- Hai sentito che l'Extérieur è caduto di due punti?
Avevo detto una cosa che non mi concerneva affatto e che avevo sentita dire in Borsa; volevo solo parlare di affari, roba seria di cui un ubbriaco di solito non si ricorda.
Ma pare che per mio suocero la cosa fosse meno indifferente e mi diede del corvo dalle male nuove.
Con lui non ne indovinavo una.
Allora mi occupai della mia vicina, Alberta.
Si parlò di amore.
A lei interessava in teoria e a me, per il momento, non interessava affatto in pratica.
Perciò era bello parlarne.
Mi domandò delle idee ed io ne scopersi subito una che mi parve risultare evidente dalla mia esperienza della giornata stessa.
Una donna era un oggetto che variava di prezzo ben piú di qualunque valore di Borsa.
Alberta mi fraintese e credette che io volessi dire una cosa saputa da tutti, cioè che una donna di una certa età aveva tutt'altro valore che ad un'altra.
Mi spiegai piú chiaramente: una donna poteva avere un alto valore ad una certa ora della mattina, nessunissimo a mezzodí, per valere nel pomeriggio il doppio che alla mattina e finire alla sera con un valore addirittura negativo.
Spiegai il concetto di valore negativo: una donna aveva tale valore quando un uomo calcolava quale somma sarebbe pronto di pagare per mandarla molto ma molto lontano da lui.
Tuttavia la povera commediografa non vedeva la giustezza della mia scoperta mentre io, ricordando il movimento di valore che quel giorno stesso avevano subito Carla e Augusta, ne ero sicuro.
Intervenne il vino quando volli spiegarmi meglio e deviai assolutamente:
- Vedi, - le dissi - supponendo che tu ora abbia il valore di X e mi permetta di premere il tuo piedino col mio, tu aumenti immediatamente almeno di un altro X.
Accompagnai subito alle parole l'atto.
Rossa, rossa ella sottrasse il piede e, volendo apparire spiritosa, disse:
- Ma questa è pratica e non piú teoria.
Me ne appellerò ad Augusta.
Devo confessare che anch'io sentivo quel piedino ben altrimenti che un'arida teoria, ma protestai gridando con l'aria piú candida del mondo:
- È pura teoria, purissima, ed è male da parte tua di sentirla altrimenti.
Le fantasie del vino sono veri avvenimenti.
Per lungo tempo io ed Alberta non dimenticammo che io avevo toccato una parte del suo corpo avvisandola che lo facevo per goderne.
La parola aveva rilevato l'atto e l'atto la parola.
Finché essa non si sposò ebbe per me un sorriso e un rossore, poi, invece, rossore ed ira.
Le donne son fatte cosí.
Ogni giorno che sorge porta loro una nuova interpretazione del passato.
Dev'essere una vita poco monotona la loro.
Da me, invece, l'interpretazione di quel mio atto fu sempre la stessa: il furto di piccolo oggetto dal sapore intenso e fu colpa di Alberta se in certa epoca cercai di far ricordare quell'atto mentre invece piú tardi avrei pagato qualche cosa perché fosse dimenticato del tutto.
Ricordo anche che prima di lasciare quella casa avvenne un'altra cosa e ben piú grave.
Restai, per un istante, solo con Ada.
Giovanni si era coricato da tempo e gli altri prendevano congedo dal signor Francesco che andava all'albergo accompagnato da Guido.
Io guardai Ada lungamente vestita tutta di pizzi bianchi, le spalle e le braccia nude.
Restai lungamente muto benché sentissi il bisogno di dirle qualche cosa; ma, dopo analizzata, sopprimevo qualunque frase che mi venisse alle labbra.
Ricordo che analizzai anche se mi fosse stato permesso di dirle: «Come mi fa piacere che finalmente ti sposi e sposi il mio grande amico Guido.
Ora appena sarà tutto finito fra di noi.
» Volevo dire una bugia perché tutti sapevano che fra di noi tutto era finito da varii mesi, ma mi pareva che quella bugia fosse un bellissimo complimento ed è certo che una donna, vestita cosí, domanda complimenti e se ne compiace.
Però dopo lunga riflessione non ne feci nulla.
Soppressi quelle parole perché nel mare di vino in cui nuotavo, trovai una tavola che mi salvò.
Pensai che avevo torto di rischiare l'affetto di Augusta per fare un piacere ad Ada che non mi voleva bene.
Ma, nel dubbio che per qualche istante mi turbò la mente, eppoi anche quando con uno sforzo da quelle parole mi staccai, diedi ad Ada una tale occhiata ch'essa si alzò e uscí dopo di essersi voltata a sorvegliarmi con spavento, pronta forse di mettersi a correre.
Anche una propria occhiata si ricorda quanto e forse meglio di una parola; è piú importante di una parola perché non v'è in tutto il vocabolario una parola che sappia spogliare una donna.
Io so ora che quella mia occhiata falsò le parole che avevo ideate, semplificandole.
Essa per gli occhi di Ada, aveva tentato di penetrare al di là dei vestiti e anche della sua epidermide.
E aveva certamente significato: «Vuoi venire intanto subito a letto con me?».
Il vino è un grande pericolo specie perché non porta a galla la verità.
Tutt'altro che la verità anzi: rivela dell'individuo specialmente la storia passata e dimenticata e non la sua attuale volontà; getta capricciosamente alla luce anche tutte le ideuccie con le quali in epoca piú o meno recente ci si baloccò e che si è dimenticate; trascura le cancellature e legge tutto quello ch'è ancora percettibile nel nostro cuore.
E si sa che non v'è modo di cancellarvi niente tanto radicalmente, come si fa di un giro errato su di una cambiale.
Tutta la nostra storia vi è sempre leggibile e il vino la grida, trascurando quello che poi la vita vi aggiunse.
Per andare a casa, Augusta ed io prendemmo una vettura.
Nell'oscurità mi parve fosse mio dovere di baciare e abbracciare mia moglie perché in simili incontri molte volte avevo usato cosí e temevo che, se non l'avessi fatto, essa avrebbe potuto pensare che fra di noi ci fosse qualche cosa di mutato.
Non v'era nulla di cambiato fra di noi: il vino gridava anche questo! Ella aveva sposato Zeno Cosini che, immutato, le stava accanto.
Che cosa importava se quel giorno io avevo possedute delle altre donne di cui il vino, per rendermi piú lieto, aumentava il numero ponendo fra di esse non so piú se Ada o Alberta?
Ricordo che, addormentandomi, rividi per un istante la faccia marmorea del Copler sul letto di morte.
Pareva domandasse giustizia, cioè le lacrime ch'io gli avevo promesse.
Ma non le ebbe neppure allora perché il sonno mi abbracciò annientandomi.
Prima però mi scusai col fantasma: «Aspetta ancora per poco.
Sono subito con te!».
Con lui non fui piú, giammai, perché non assistetti neppure al suo funerale.
Avevamo tanto da fare in casa ed io anche fuori, che non ci fu tempo per lui.
Se ne parlò talvolta, ma solo per ridere ricordando che il mio vino l'aveva tante volte ammazzato e fatto risuscitare.
Anzi egli restò proverbiale in famiglia e quando i giornali, come avviene spesso, annunziano e smentiscono la morte di qualcuno, noi diciamo: «Come il povero Copler».
La mattina dopo mi levai con un po' di male di testa.
Mi affannò un poco il mio dolore al fianco, probabilmente perché, finché era durato l'effetto del vino, non lo avevo sentito affatto e subito ne avevo perduta l'abitudine.
Ma in fondo non ero triste.
Augusta contribuí alla mia serenità dicendomi che sarebbe stato male se io non fossi andato a quella cena di nozze, perché prima del mio arrivo le era sembrato di assistere ad un mortorio.
Non avevo dunque da aver rimorso del mio contegno.
Poi sentii che una cosa sola non mi era stata perdonata: l'occhiataccia ad Ada!
Quando c'incontrammo nel pomeriggio, Ada mi porse la mano con un'ansietà che aumentò la mia.
Forse però le pesava sulla coscienza quella sua fuga ch'era stata tutt'altro che gentile.
Ma anche la mia occhiata era stata una gran brutta azione.
Ricordavo esattamente il movimento del mio occhio e capivo come non sapesse dimenticare chi ne era stato trafitto.
Bisognava riparare con un contegno accuratamente fraterno.
Si dice che quando si soffre per aver bevuto troppo, non ci sia miglior cura che di berne dell'altro.
Io, quella mattina, andai a rianimarmi da Carla.
Andai da lei proprio col desiderio di vivere piú intensamente ed è quello che riconduce all'alcool, ma camminando verso di lei, avrei desiderato ch'essa m'avesse fornita tutt'altra intensità di vita del giorno prima.
Mi accompagnavano dei propositi poco precisi ma tutti onesti.
Sapevo di non poter abbandonarla subito, ma potevo avviarmi a quell'atto tanto morale pian pianino.
Intanto avrei continuato a parlarle di mia moglie.
Senza sorprendersene, un bel giorno essa avrebbe saputo com'io amassi mia moglie.
Avevo nella mia giubba un'altra busta con del denaro per essere pronto ad ogni evenienza.
Arrivai da Carla, e un quarto d'ora dopo essa mi rimproverò con una parola che per la sua giustezza lungamente mi risonò all'orecchio: «Come sei rude, tu, in amore!».
Non sono conscio di essere stato rude proprio allora.
Avevo cominciato a parlarle di mia moglie, e le lodi tributate ad Augusta erano risonate all'orecchio di Carla come tanti rimproveri rivolti a lei.
Poi fu Carla che mi ferí.
Per passare il tempo, le avevo raccontato come mi fossi seccato al banchetto, specie per un brindisi che avevo detto e ch'era stato assolutamente spropositato.
Carla osservò:
- Se tu amassi tua moglie non sbaglieresti i brindisi al tavolo di suo padre.
E mi diede anche un bacio per rimeritarmi del poco amore che portavo a mia moglie.
Intanto lo stesso desiderio d'intensificare la mia vita, che m'aveva tratto da Carla, m'avrebbe riportato subito da Augusta, ch'era la sola con cui avrei potuto parlare del mio amore per lei.
Il vino preso come cura era già di troppo o volevo oramai tutt'altro vino.
Ma quel giorno la mia relazione con Carla doveva ingentilirsi, coronarsi finalmente di quella simpatia che - come seppi piú tardi - la povera giovinetta meritava.
Essa piú volte m'aveva offerto di cantarmi una canzonetta, desiderosa di avere il mio giudizio.
Ma io non avevo voluto saperne di quel canto di cui non m'importava nemmeno piú l'ingenuità.
Le dicevo che giacché essa rifiutava di studiare, non valeva la pena di cantare piú.
La mia era proprio una grave offesa ed essa ne sofferse.
Seduta accanto a me, per non farmi vedere le sue lacrime essa guardava immota le mani che teneva intrecciate in grembo.
Ripeté il suo rimprovero:
- Come devi essere rude con chi non ami, se lo sei tanto con me!
Buon diavolo come sono, mi lasciai intenerire da quelle lacrime e pregai Carla di squarciarmi le orecchie con la sua grande voce nel piccolo ambiente.
Essa ora se ne schermiva e dovetti persino minacciare di andarmene se non fossi stato compiaciuto.
Devo riconoscere che mi sembrò per un istante anche di aver trovato un pretesto per riconquistare almeno temporaneamente la mia libertà, ma, alla minaccia, la mia umile serva si recò con gli occhi bassi a sedere al pianoforte.
Dedicò poi un istante breve breve al raccoglimento e si passò la mano sul viso quasi a scacciarne ogni nube.
Vi riuscí con una prontezza che mi sorprese e la sua faccia, quando fu scoperta da quella mano, non ricordava affatto il dolore di prima.
Ebbi subito una grande sorpresa.
Carla diceva la sua canzonetta, la raccontava, non la gridava.
Le grida - come essa poi mi disse - le erano state imposte dal suo maestro; ora le aveva congedate insieme a lui.
La canzonetta triestina:
Fazzo l'amor xe vero
Cossa ghe xe de mal
Volè che a sedes'ani
Stio là come un cocal...
è una specie di racconto o di confessione.
Gli occhi di Carla brillavano di malizia e confessavano anche piú delle parole.
Non c'era paura di sentirsi leso il timpano ed io m'avvicinai a lei, sorpreso e incantato.
Sedetti accanto a lei ed essa allora raccontò la canzonetta proprio a me, socchiudendo gli occhi per dirmi con la nota piú lieve e piú pura che quei sedici anni volevano la libertà e l'amore.
Per la prima volta vidi esattamente la faccina di Carla: un ovale purissimo interrotto dalla profonda e arcuata incavatura degli occhi e degli zigomi tenui, reso anche piú puro da un biancore niveo, ora ch'essa teneva la faccia rivolta a me e alla luce, e perciò non offuscata da alcun'ombra.
E quelle linee dolci in quella carne che pareva trasparente, e celava tanto bene il sangue e le vene forse troppo deboli per poter apparire, domandavano affetto e protezione.
Ora ero pronto di accordarle tanto affetto e protezione, incondizionatamente, ed anche nel momento in cui mi sarei sentito tanto disposto di ritornare ad Augusta, perché essa in quel momento non domandava che un affetto paterno che potevo concedere senza tradire.
Quale soddisfazione! Restavo là con Carla, le accordavo quello che la sua faccina ovale domandava e non mi allontanavo da Augusta! Il mio affetto per Carla si ingentilí.
Da allora, quando sentivo il bisogno di onestà e purezza, non occorse piú abbandonarla, ma potei restare con lei e cambiare discorso.
Questa nuova dolcezza era dovuta alla sua faccina ovale ch'io allora avevo scoperto o al suo talento musicale? Innegabile il talento! La strana canzonetta triestina finisce con una strofe in cui la stessa giovinetta proclama di essere vecchia e malandata e che oramai non ha piú bisogno di altra libertà che di morire.
Carla continuava a profondere malizia e lietezza nel verso povero.
Era tuttavia la giovinezza che si fingeva vecchia per proclamare meglio da quel nuovo punto di vista il suo diritto.
Quando terminò e mi trovò in piena ammirazione, anch'essa per la prima volta oltre che amarmi mi volle veramente bene.
Sapeva che a me quella canzonetta sarebbe piaciuta di piú del canto che le insegnava il suo maestro:
- Peccato - aggiunse con tristezza, - che se non si vuole andare pei cafés chantants, non si possa trarre da ciò il necessario per vivere.
La convinsi facilmente che le cose non stavano cosí.
V'erano a questo mondo molte grandi artiste che dicevano e non cantavano.
Essa si fece dire dei nomi.
Era beata di apprendere quanto importante avrebbe potuto divenire la sua arte.
- Io so - aggiunse ingenuamente, - che questo canto è ben piú difficile dell'altro per il quale basta gridare a perdifiato.
Io sorrisi e non discussi.
La sua arte era anch'essa certamente difficile ed essa lo sapeva perché era quella la sola arte che conoscesse.
Quella canzonetta le era costata uno studio lunghissimo.
L'aveva detta e ridetta correggendo l'intonazione di ogni parola, di ogni nota.
Adesso ne studiava un'altra, ma l'avrebbe saputa soltanto di lí a qualche settimana.
Prima non voleva farla sentire.
Seguirono dei momenti deliziosi in quella stanza ove fino ad allora non s'erano svolte che delle scene di brutalità.
Ecco che a Carla s'apriva anche una carriera.
La carriera che m'avrebbe liberato di lei.
Molto simile a quella che per lei aveva sognato il Copler! Le proposi di trovarle un maestro.
Essa dapprima si spaventò della parola, ma poi si lasciò convincere facilmente quando le dichiarai che si poteva provare, e ch'essa sarebbe rimasta libera di congedarlo quando le fosse sembrato noioso o poco utile.
Anche con Augusta mi trovai quel giorno molto bene.
Avevo l'animo tranquillo come se fossi ritornato da una passeggiata e non dalla casa di Carla o come avrebbe dovuto averlo il povero Copler quando abbandonava quella casa nei giorni in cui non gli avevano dato motivo ad arrabbiarsi.
Ne godetti come se fossi giunto a un'oasi.
Per me e per la mia salute sarebbe stato gravissimo se tutta la mia lunga relazione con Carla si fosse svolta in un'eterna agitazione.
Da quel giorno, come risultato della bellezza estetica, le cose si svolsero piú calme con le lievi interruzioni necessarie a rianimare tanto il mio amore per Carla, quanto quello per Augusta.
Ogni mia visita a Carla significava bensí un tradimento per Augusta, ma tutto era presto dimenticato in un bagno di salute e di buoni propositi.
Ed il buon proposito non era brutale ed eccitante come quando avevo nella strozza il desiderio di dichiarare a Carla che non l'avrei rivista mai piú.
Ero dolce e paterno: ecco che di nuovo io pensavo alla sua carriera.
Abbandonare ogni giorno una donna per correrle dietro il giorno appresso, sarebbe stata una fatica a cui il mio povero cuore non avrebbe saputo reggere.
Cosí, invece, Carla restava sempre in mio potere ed io l'avviavo ora in una direzione ed ora in un'altra.
Per lungo tempo i propositi buoni non furono tanto forti da indurmi a correre per la città in cerca del maestro che avrebbe fatto per Carla.
Mi baloccavo col proposito buono, restando sempre seduto.
Poi un bel giorno Augusta mi confidò che si sentiva madre ed allora il mio proposito per un istante ingigantí e Carla ebbe il suo maestro.
Avevo esitato tanto anche perché era evidente che, anche senza maestro, Carla aveva saputo avviarsi ad un lavoro veramente serio nella sua nuova arte.
Ogni settimana essa sapeva dirmi una canzonetta nuova, analizzata accuratamente nell'atteggiamento e nella parola.
Certe note avrebbero abbisognato di essere levigate un poco, ma forse avrebbero finito con l'affinarsi da sé.
Una prova decisiva che Carla era una vera artista, io l'avevo nel modo com'essa perfezionava continuamente le sue canzonette senza mai rinunziare alle cose migliori ch'essa aveva saputo far sue di prim'acchito.
La indussi spesso a ridirmi il suo primo lavoro e vi trovavo aggiunto ogni volta qualche accento nuovo ed efficace.
Data la sua ignoranza, era meraviglioso che nel grande sforzo di scoprire una forte espressione, non le fosse mai capitato di cacciare nella canzonetta dei suoni falsi o esagerati.
Da vera artista, essa aggiungeva ogni giorno una pietruccia al piccolo edificio, e tutto il resto restava intatto.
Non la canzonetta era stereotipata, ma il sentimento che la dettava.
Carla, prima di cantare, si passava sempre la mano sulla faccia e dietro quella mano si creava un istante di raccoglimento che bastava a piombarla nella commediola ch'essa doveva costruire.
Una commedia non sempre puerile.
Il mentore ironico di Rosina te xe nata in un casoto minacciava, ma non troppo seriamente.
Pareva che la cantante avvertisse di sapere ch'era la storia di ogni giorno.
Il pensiero di Carla era un altro, ma finiva con l'arrivare allo stesso risultato:
- La mia simpatia è per Rosina perché altrimenti la canzonetta non meriterebbe di essere cantata, - essa diceva.
Avvenne qualche volta che Carla inconsapevolmente riaccendesse il mio amore per Augusta e il mio rimorso.
Infatti ciò si avverò ogni qualvolta ella si permise dei movimenti offensivi contro la posizione tanto solidamente occupata da mia moglie.
Era sempre vivo il suo desiderio di avermi tutto suo per una notte intera; mi confidò che le pareva che, per non avere mai dormito uno accanto all'altro, fossimo meno intimi.
Volendo abituarmi ad essere piú dolce con lei, non mi rifiutai risolutamente di compiacerla, ma quasi sempre pensai che non sarebbe stato possibile di fare una cosa simile a meno che non mi fossi rassegnato di trovare alla mattina Augusta ad una finestra donde m'avesse aspettato la notte intera.
Eppoi, non sarebbe stato questo un nuovo tradimento a mia moglie? Talvolta, cioè quando correvo a Carla pieno di desiderio, mi sentivo propenso di accontentarla, ma subito dopo ne vedevo l'impossibilità e la sconvenienza.
Ma cosí non si arrivò per lungo tempo né ad eliminare la prospettiva della cosa né a realizzarla.
Apparentemente si era d'accordo: prima o poi avremmo passata una notte intera insieme.
Intanto ora ce n'era la possibilità perché io avevo indotto le Gerco di congedare quegl'inquilini che tagliavano la loro casa in due parti, e Carla aveva finalmente la sua camera da letto.
Ora avvenne che poco dopo le nozze di Guido, mio suocero fu colto da quella crisi che doveva ucciderlo ed io ebbi l'imprudenza di raccontare a Carla che mia moglie doveva passare una notte al capezzale di suo padre per concedere un riposo a mia suocera.
Non ci fu piú il caso di esimermi: Carla pretese che passassi con lei quella stessa notte ch'era tanto dolorosa per mia moglie.
Non ebbi il coraggio di ribellarmi a tale capriccio e mi vi acconciai col cuore pesante.
Mi preparai a quel sacrificio.
Non andai da Carla alla mattina e cosí corsi da lei alla sera con pieno desiderio dicendomi anche ch'era infantile di credere di tradire piú gravemente Augusta perché la tradivo in un momento in cui essa per altre cause soffriva.
Perciò arrivai persino a spazientirmi perché la povera Augusta mi tratteneva per spiegarmi come avessi dovuto movermi per avere pronte le cose di cui potevo aver bisogno a cena, per la notte ed anche per il caffè della mattina dopo.
Carla m'accolse nello studio.
Poco dopo colei ch'era sua madre e serva ci serví una cenetta squisita a cui io aggiunsi i dolci che avevo portati con me.
La vecchia ritornò poi per sparecchiare ed io veramente avrei voluto coricarmi subito, ma era veramente ancora troppo di buon'ora e Carla m'indusse di starla a sentir cantare.
Essa passò tutto il suo repertorio e fu quella certamente la parte migliore di quelle ore, perché l'ansietà con cui aspettavo la mia amante, andava ad aumentare il piacere che sempre m'aveva data la canzonetta di Carla.
- Un pubblico ti coprirebbe di fiori e d'applausi - le dichiarai ad un certo momento dimenticando che sarebbe stato impossibile di mettere tutto un pubblico nello stato d'animo in cui mi trovavo io.
Ci coricammo infine nello stesso letto in una stanzuccia piccola e del tutto disadorna.
Pareva un corridoio stroncato da una parete.
Non avevo ancora sonno e mi disperavo al pensiero che, se ne avessi avuto, non avrei potuto dormire con tanta poca aria a mia disposizione.
Carla fu chiamata dalla voce timida di sua madre.
Essa, per rispondere, andò all'uscio e lo socchiuse.
La sentii come con voce concitata domandava alla vecchia che cosa volesse.
Timidamente l'altra disse delle parole di cui non percepii il senso e allora Carla urlò prima di sbattere l'uscio in faccia alla madre:
- Lasciami in pace.
T'ho già detto che per questa notte dormo di qua!
Cosí appresi che Carla, tormentata di notte dalla paura, dormiva sempre nella sua antica stanza da letto con la madre, ove aveva un altro letto, mentre quello sul quale dovevamo dormire insieme restava vuoto.
Era certamente per paura ch'essa m'aveva indotto di fare quella partaccia ad Augusta.
Confessò con una maliziosa allegria cui non partecipai, che con me si sentiva piú sicura che con sua madre.
Mi diede da pensare quel letto in prossimità di quella stanza da studio solitaria.
Non l'avevo mai visto prima.
Ero geloso! Poco dopo fui sprezzante anche per il contegno che Carla aveva avuto con quella sua povera madre.
Era fatta un po' differentemente di Augusta che aveva rinunziato alla mia compagnia pur di assistere i suoi genitori.
Io sono specialmente sensibile a mancanze di riguardo verso i proprii genitori, io, che avevo sopportato con tanta rassegnazione le bizze del mio povero padre.
Carla non poté accorgersi né della mia gelosia né del mio disprezzo.
Soppressi le manifestazioni di gelosia ricordando come non avessi alcun diritto ad essere geloso visto che passavo buona parte delle mie giornate augurandomi che qualcuno mi portasse via la mia amante.
Non v'era neppure alcuno scopo di far vedere il mio disprezzo alla povera giovinetta ormai che già mi baloccavo di nuovo col desiderio di abbandonarla definitivamente, e quantunque il mio sdegno fosse ora ingrandito anche dalle ragioni che poco prima avrebbero provocata la mia gelosia.
Quello che occorreva era di allontanarsi al piú presto da quella piccola stanzuccia non contenente di piú di un metro cubo di aria, per soprappiú caldissima.
Non ricordo neppure bene il pretesto che addussi per allontanarmi subito.
Affannosamente mi misi a vestirmi.
Parlai di una chiave che avevo dimenticato di consegnare a mia moglie per cui essa, se le fosse occorso, non avrebbe potuto entrare in casa.
Feci vedere la chiave che non era altra che quella che io avevo sempre in tasca, ma che fu presentata come la prova tangibile della verità delle mie asserzioni.
Carla non tentò neppure di fermarmi; si vestí e m'accompagnò fin giú per farmi luce.
Nell'oscurità delle scale, mi parve ch'essa mi squadrasse con un'occhiata inquisitrice che mi turbò: cominciava essa a intendermi? Non era tanto facile, visto ch'io sapevo simulare troppo bene.
Per ringraziarla perché mi lasciava andare, continuavo di tempo in tempo ad applicare la mie labbra sulle sue guancie e simulavo di essere pervaso tuttavia dallo stesso entusiasmo che m'aveva condotto da lei.
Non ebbi poi ad avere alcun dubbio della buona riuscita della mia simulazione.
Poco prima, con un'ispirazione d'amore, Carla m'aveva detto che il brutto nome di Zeno, che m'era stato appioppato dai miei genitori, non era certamente quello che spettava alla mia persona.
Essa avrebbe voluto ch'io mi chiamassi Dario e lí, nell'oscurità, si congedò da me appellandomi cosí.
Poi s'accorse che il tempo era minaccioso e m'offerse di andar a prendere per me un ombrello.
Ma io assolutamente non potevo sopportarla piú oltre, e corsi via tenendo sempre quella chiave in mano nella cui autenticità cominciavo a credere anch'io.
L'oscurità profonda della notte veniva interrotta di tratto in tratto da bagliori abbacinanti.
Il mugolio del tuono pareva lontanissimo.
L'aria era ancora tranquilla e soffocante quanto nella stessa stanzetta di Carla.
Anche i radi goccioloni che cadevano erano tiepidi.
In alto, evidente, c'era la minaccia ed io mi misi a correre.
Ebbi la ventura di trovare in Corsia Stadion un portone ancora aperto e illuminato in cui mi rifugiai proprio a tempo! Subito dopo il nembo s'abbatté sulla via.
Lo scroscio di pioggia fu interrotto da una ventata furiosa che parve portasse con sé anche il tuono tutt'ad un tratto vicinissimo.
Trasalii! Sarebbe stato un vero compromettermi se fossi stato ammazzato dal fulmine, a quell'ora, in Corsia Stadion! Meno male ch'ero noto anche a mia moglie come un uomo dai gusti bizzarri che poteva correre fin là di notte e allora c'è sempre la scusa a tutto.
Dovetti rimanere in quel portone per piú di un'ora.
Pareva sempre che il tempo volesse mitigarsi, ma subito riprendeva il suo furore sempre in altra forma.
Ora grandinava.
Era venuto a tenermi compagnia il portinaio della casa e dovetti regalargli qualche soldo perché ritardasse la chiusura del portone.
Poi entrò nel portone un signore vestito di bianco e grondante d'acqua.
Era vecchio, magro e secco.
Non lo rividi mai piú, ma non so dimenticarlo per la luce del suo occhio nero e per l'energia ch'emanava da tutta la sua personcina.
Bestemmiava per essere stato infradiciato a quel modo.
A me è sempre piaciuto d'intrattenermi con la gente che non conosco.
Con loro mi sento sano e sicuro.
È addirittura un riposo.
Devo stare attento di non zoppicare, e sono salvo.
Quando finalmente il tempo si mitigò, io mi recai subito non a casa mia, ma da mio suocero.
Mi pareva in quel momento di dover correre subito all'appello e vantarmi di esservi.
Mio suocero s'era addormentato e Augusta, ch'era aiutata da una suora, poté venire da me.
Essa disse che avevo fatto bene di venire e si gettò piangente fra le mie braccia.
Aveva visto soffrire suo padre orrendamente.
S'accorse ch'ero tutto bagnato.
Mi fece adagiare in una poltrona e mi coperse con delle coperte.
Poi per qualche tempo poté restarmi accanto.
Io ero molto stanco e anche nel breve tempo in cui essa poté restare con me, lottai col sonno.
Mi sentivo molto innocente perché intanto non l'avevo tradita restando lontano dal domicilio coniugale per tutta una notte.
Era tanto bella l'innocenza che tentai di aumentarla.
Incominciai a dire delle parole che somigliavano ad una confessione.
Le dissi che mi sentivo debole e colpevole e, visto che a questo punto essa mi guardò domandando delle spiegazioni, subito ritirai la testa nel guscio e, gettandomi nella filosofia, le raccontai che il sentimento della colpa io l'avevo ad ogni mio pensiero, ad ogni mio respiro.
- Cosí pensano anche i religiosi, - disse Augusta; - chissà che non sia per le colpe che ignoriamo che veniamo puniti cosí!
Diceva delle parole adatte ad accompagnare le sue lacrime che continuavano a scorrere.
A me parve ch'essa non avesse ben compresa la differenza che correva fra il mio pensiero e quello dei religiosi, ma non volli discutere e al suono monotono del vento che s'era rinforzato, con la tranquillità che mi dava anche quel mio slancio alla confessione, m'addormentai di un lungo sonno ristoratore.
Quando venne la volta del maestro di canto, tutto fu regolato in poche ore.
Io da tempo l'avevo scelto, e, per dire il vero, m'ero arrestato al suo nome, prima di tutto perché era il maestro piú a buon mercato di Trieste.
Per non compromettermi, fu Carla stessa che andò a parlare con lui.
Io non lo vidi mai, ma devo dire che oramai so molto di lui ed è una delle persone che piú stimo a questo mondo.
Dev'essere un semplicione sano ciò che è strano per un artista che viveva per la sua arte, come questo Vittorio Lali.
Insomma un uomo invidiabile, perché geniale e anche sano.
Intanto sentii subito che la voce di Carla s'ammorbidí e divenne piú flessibile e piú sicura.
Noi avevamo avuto paura che il maestro le avesse imposto uno sforzo come aveva fatto quello scelto dal Copler.
Forse egli s'adattò al desiderio di Carla, ma sta di fatto che restò sempre nel genere da lei prediletto.
Solo molti mesi dopo essa s'accorse di essersene lievemente allontanata, affinandosi.
Non cantava piú le canzonette triestine e poi neppure le napoletane, ma era passata ad antiche canzoni italiane e a Mozart e Schubert.
Ricordo specialmente una «Ninna nanna» attribuita al Mozart, e nei giorni in cui sento meglio la tristezza della vita e rimpiango l'acerba fanciulla che fu mia e che io non amai, la «Ninna nanna» mi echeggia all'orecchio come un rimprovero.
Rivedo allora Carla travestita da madre che trae dal suo seno i suoni piú dolci per conquistare il sonno al suo bambino.
Eppure essa, ch'era stata un'amante indimenticabile, non poteva essere una buona madre, dato ch'era una cattiva figlia.
Ma si vede che saper cantare da madre è una caratteristica che copre ogni altra.
Da Carla seppi la storia del suo maestro.
Egli aveva fatto qualche anno di studii al Conservatorio di Vienna ed era poi venuto a Trieste ove aveva avuto la fortuna di lavorare per il nostro maggiore compositore colpito da cecità.
Scriveva le sue composizioni sotto dettatura, ma ne aveva anche la fiducia, che i ciechi devono concedere intera.
Cosí ne conobbe i propositi, le convinzioni tanto mature e i sogni sempre giovanili.
Presto egli ebbe nell'anima tutta la musica, anche quella che occorreva a Carla.
Mi fu descritto anche il suo aspetto; giovine, biondo, piuttosto robusto, dal vestire negletto, una camicia molle non sempre di bucato, una cravatta che doveva essere stata nera, abbondante e sciolta, un cappello a cencio dalle falde spropositate.
Di poche parole - a quanto mi diceva Carla e devo crederle perché pochi mesi appresso con lei si fece ciarliero ed essa me lo disse subito, - e tutt'intento al compito che s'era assunto.
Ben presto la mia giornata subí delle complicazioni.
Alla mattina portavo da Carla oltre che amore anche un'amara gelosia, che diveniva molto meno amara nel corso della giornata.
Mi pareva impossibile che quel giovinotto non approfittasse della buona, facile preda.
Carla pareva stupita ch'io potessi pensare una cosa simile, ma io lo ero altrettanto al vederla stupita.
Non ricordava piú come le cose si erano svolte fra me e lei?
Un giorno arrivai a lei furibondo di gelosia ed essa spaventata si dichiarò subito pronta di congedare il maestro.
Io non credo che il suo spavento fosse prodotto solo dalla paura di vedersi privata del mio appoggio, perché in quell'epoca io ebbi da lei delle manifestazioni di affetto di cui non posso dubitare e che alle volte mi resero beato, mentre, quando mi trovavo in altro stato d'animo, mi seccarono sembrandomi atti ostili ad Augusta ai quali, e per quanto mi costasse, ero obbligato d'associarmi.
La sua proposta m'imbarazzò.
Che mi trovassi nel momento dell'amore o del pentimento, io non volevo accettare un suo sacrificio.
Doveva pur esserci qualche comunicazione fra' miei due stati d'essere ed io non volevo diminuire la mia già scarsa libertà di passare dall'uno all'altro.
Perciò non sapevo accettare una tale proposta che invece mi rese piú cauto cosí che anche quando ero esasperato dalla gelosia, seppi celarla.
Il mio amore si fece piú iroso e finí che quando la desideravo e anche quando non la desideravo affatto, Carla mi sembrò un essere inferiore.
Mi tradiva o di lei non m'importava nulla.
Quando non l'odiavo non ricordavo che ci fosse.
Io appartenevo all'ambiente di salute e di onestà in cui regnava Augusta a cui ritornavo subito col corpo e l'anima non appena Carla mi lasciava libero.
Data l'assoluta sincerità di Carla, io so esattamente per quanto lunghissimo tempo essa fu tutta mia, e la mia gelosia ricorrente di allora non può essere considerata che quale una manifestazione di un recondito senso di giustizia.
Doveva pur toccarmi quello che meritavo.
Prima s'innamorò il maestro.
Credo il primo sintomo del suo amore sia consistito in certe parole che Carla mi riferí con aria di trionfo ritenendo segnassero il primo suo grande successo artistico pel quale le competesse una mia lode.
Egli le avrebbe detto che oramai s'era tanto affezionato al suo compito di maestro che, se essa non avesse potuto pagarlo, egli avrebbe continuato ad impartirle gratuitamente le sue lezioni.
Io le avrei dato uno schiaffo, ma venne poi il momento in cui potei pretendere di saper gioire di quel suo vero trionfo.
Essa poi dimenticò il crampo che alla prima aveva colto tutta la mia faccia come di chi ficca i denti in un limone e accettò serena la lode tardiva.
Egli le aveva raccontati tutti gli affari proprii che non erano molti: musica, miseria e famiglia.
La sorella gli aveva dati dei grandi dispiaceri ed egli aveva saputo comunicare a Carla una grande antipatia per quella donna ch'essa non conosceva.
Quell'antipatia mi parve molto compromettente.
Cantavano ora insieme delle canzoni sue che mi parvero povera cosa tanto quando amavo Carla quanto allorché la sentivo come una catena.
Può tuttavia essere che fossero buone ad onta che io poi non ne abbia piú sentito parlare.
Egli diresse poi delle orchestre negli Stati Uniti e forse colà si cantano anche quelle canzoni.
Ma un bel giorno essa mi raccontò ch'egli le aveva chiesto di diventare sua moglie e ch'essa aveva rifiutato.
Allora io passai due quarti d'ora veramente brutti: il primo quando mi sentii tanto invaso dall'ira che avrei voluto aspettare il maestro per gettarlo fuori a furia di calci, ed il secondo quando non trovai il verso per conciliare la possibilità della continuazione della mia tresca, con quel matrimonio ch'era in fondo una bella e morale cosa e una ben piú sicura semplificazione della mia posizione che non la carriera di Carla ch'essa immaginava d'iniziare in mia compagnia.
Perché quel benedetto maestro s'era scaldato a quel modo e tanto presto? Oramai, in un anno di relazione, tutto s'era attenuato fra me e Carla, anche il cipiglio mio quando l'abbandonavo.
I rimorsi miei erano oramai sopportabilissimi e quantunque Carla avesse ancora ragione di dirmi rude in amore, pareva ch'essa ci si fosse abituata.
Ciò doveva esserle riuscito anche facile, perché io non fui mai piú tanto brutale come nei primi giorni della nostra relazione e, sopportato quel primo eccesso, il resto dovette esserle sembrato in confronto mitissimo.
Perciò anche quando di Carla non m'importava piú tanto, mi fu sempre facile prevedere che il giorno appresso io non sarei stato contento di venir a cercare la mia amante e di non trovarla piú.
Certo sarebbe stato bellissimo allora di saper ritornare ad Augusta senza il solito intermezzo con Carla ed in quel momento io me ne sentivo capacissimo; ma prima avrei voluto provare.
Il mio proposito in quel momento dev'essere stato circa il seguente: «Domani la pregherò di accettare la proposta del maestro, ma oggi gliel'impedirò».
E con grande sforzo continuai a comportarmi da amante.
Adesso, dicendone, dopo di aver registrate tutte le fasi della mia avventura, potrebbe sembrare ch'io facessi il tentativo di far sposare da altri la mia amante e di conservarla mia, ciò che sarebbe stata la politica di un uomo piú avveduto di me e piú equilibrato, sebbene altrettanto corrotto.
Ma non è vero: essa doveva sposare il maestro, ma doveva decidervisi solo la dimane.
È perciò che solo allora cessò quel mio stato ch'io m'ostino a qualificare d'innocenza.
Non era piú possibile adorare Carla per un breve periodo della giornata eppoi odiarla per ventiquattr'ore continue, e levarsi ogni mattina ignorante come un neonato a rivivere la giornata, tanto simile alle precedenti, per sorprendersi delle avventure ch'essa apportava e che avrei dovuto sapere a mente.
Ciò non era piú possibile.
Mi si prospettava l'eventualità di perdere per sempre la mia amante se non avessi saputo domare il mio desiderio di liberarmene.
Io subito lo domai!
Ed è cosí che quel giorno, quando di lei non m'importò piú, feci a Carla una scena d'amore che per la sua falsità e la sua furia somigliava a quella che, preso dal vino, avevo fatto ad Augusta quella notte in vettura.
Solo che qui mancava il vino ed io finii col commovermi veramente al suono delle mie parole.
Le dichiarai ch'io l'amavo, che non sapevo piú restare senza di lei e che d'altronde mi pareva di esigere da lei il sacrificio della sua vita, visto che io non potevo offrirle niente che potesse eguagliare quanto le veniva offerto dal Lali.
Fu proprio una nota nuova nella nostra relazione che pur aveva avuto tante ore di grande amore.
Essa stava a sentire le mie parole beandovisi.
Molto tardi si accinse a convincermi che non era il caso di affliggersi tanto perché il Lali s'era innamorato.
Essa non ci pensava affatto!
Io la ringraziai, sempre col medesimo fervore che ora però non arrivava piú a commovermi.
Sentivo un certo peso allo stomaco: evidentemente ero piú compromesso che mai.
Il mio apparente fervore invece che diminuire aumentò, solo per permettermi di dire qualche parola d'ammirazione pel povero Lali.
Io non volevo mica perderlo, io volevo salvarlo, ma per il giorno dopo.
Quando si trattò di risolvere se tenere o congedare il maestro, andammo presto d'accordo.
Io non avrei poi voluto privarla oltre che del matrimonio anche della carriera.
Anche lei confessò che al suo maestro ci teneva: ad ogni lezione aveva la prova della necessità della sua assistenza.
M'assicurò che potevo vivere tranquillo e fiducioso: essa amava me e nessun altro.
Evidentemente il mio tradimento s'era allargato ed esteso.
M'ero attaccato alla mia amante di una nuova affettuosità che legava di nuovi legami e invadeva un territorio finora riservato solo al mio affetto legittimo.
Ma, ritornato a casa mia, anche quest'affettuosità non esisteva piú e si riversava aumentata su Augusta.
Per Carla non avevo altro che una profonda sfiducia.
Chissà che cosa c'era di vero in quella proposta di matrimonio! Non mi sarei meravigliato se un bel giorno, senz'aver sposato quell'altro, Carla m'avesse regalato un figlio dotato di un grande talento per la musica.
E ricominciarono i ferrei propositi che m'accompagnavano da Carla, per abbandonarmi quand'ero con lei e per riprendermi quando non l'avevo ancora lasciata.
Tutta roba senza conseguenze di nessun genere.
E non vi furono altre conseguenze da queste novità.
L'estate passò e si portò via mio suocero.
Io ebbi poi un gran da fare nella nuova casa commerciale di Guido ove lavorai piú che in qualunque altro luogo, comprese le varie facoltà universitarie.
Di questa mia attività dirò piú tardi.
Passò anche l'inverno eppoi sbocciarono nel mio giardinetto le prime foglie verdi e queste non mi videro mai tanto accasciato come quelle dell'anno prima.
Nacque mia figlia Antonia.
Il maestro di Carla era sempre a nostra disposizione, ma Carla tuttavia non ne voleva sapere affatto ed io neppure, ancora.
Vi furono invece delle gravi conseguenze nei miei rapporti con Carla per avvenimenti che veramente non si sarebbero creduti importanti.
Passarono quasi inavvertiti e furono rilevati solo dalle conseguenze che lasciarono.
Precisamente agli albori di quella primavera, io dovetti accettare di andar a passeggiare con Carla al Giardino Pubblico.
Mi sembrava una grave compromissione, ma Carla desiderava tanto di camminare al braccio mio al sole, che finii col compiacerla.
Non doveva mai esserci concesso di vivere neppure per brevi istanti da marito e moglie ed anche questo tentativo finí male.
Per gustare meglio il nuovo improvviso tepore che veniva dal cielo nel quale sembrava il sole avesse riacquistato da poco l'imperio, sedemmo su una banchina.
Il giardino, nelle mattine dei giorni feriali, era deserto e a me sembrava, che non movendomi, il rischio di venir osservato fosse ancora diminuito.
Invece, appoggiato con l'ascella alla sua gruccia, a passi lenti, ma enormi, s'avvicinò a noi Tullio, quello dai cinquantaquattro muscoli e, senza guardarci, s'assise proprio accanto a noi.
Poi levò la testa, il suo si scontrò nel mio sguardo e mi salutò:
- Dopo tanto tempo! Come stai? Hai finalmente meno da fare?
S'era messo a sedere proprio accanto a me e nella prima sorpresa io mi movevo in modo da impedirgli la vista di Carla.
Ma lui, dopo di avermi stretta la mano, mi domandò:
- La tua Signora?
S'aspettava di venir presentato.
Mi sottomisi:
- La signorina Carla Gerco, un'amica di mia moglie.
Poi continuai a mentire e so da Tullio stesso che la seconda menzogna bastò a rivelargli tutto.
Con un sorriso forzato, dissi:
- Anche la signorina sedette a questo banco per caso accanto a me senza vedermi.
Il mentitore dovrebbe tener presente che per essere creduto non bisogna dire che le menzogne necessarie.
Col suo buon senso popolare, quando c'incontrammo di nuovo, Tullio mi disse:
- Spiegasti troppe cose ed io indovinai perciò che mentivi e che quella bella signorina era la tua amante.
Io allora avevo già perduta Carla e con grande voluttà gli confermai ch'egli aveva colto nel segno, ma gli raccontai con tristezza che oramai essa m'aveva abbandonato.
Non mi credette ed io gliene fui grato.
Mi pareva che la sua incredulità fosse un buon auspicio.
Carla fu colta da un malumore quale io non le avevo mai visto.
Io so ora che da quel momento cominciò la sua ribellione.
Subito non me ne avvidi perché per stare a sentire Tullio, che s'era messo a raccontarmi della sua malattia e delle cure che intraprendeva, io le volgevo le spalle.
Piú tardi appresi che una donna, quand'anche si lasci trattare con meno gentilezza sempre salvo in certi istanti, non ammette di venir rinnegata in pubblico.
Essa manifestò il suo sdegno piuttosto verso il povero zoppo che verso me e non gli rispose quand'egli le indirizzò la parola.
Neppure io stavo a sentire Tullio perché per il momento non arrivavo ad interessarmi delle sue cure.
Lo guardavo nei suoi piccoli occhi per intendere che cosa egli pensasse di quell'incontro.
Sapevo ch'egli ormai era pensionato e che avendo tutto il giorno libero poteva facilmente invadere con le sue chiacchiere tutto il piccolo ambiente sociale della nostra Trieste di allora.
Poi, dopo una lunga meditazione, Carla si levò per lasciarci.
Mormorò:
- Arrivederci, - e si avviò.
Io sapevo che l'aveva con me e, sempre tenendo conto della presenza di Tullio, cercai di conquistare il tempo necessario per placarla.
Le domandai il permesso di accompagnarla avendo da dirigermi dalla sua parte stessa.
Quel suo saluto secco significava addirittura l'abbandono e fu quella la prima volta in cui seriamente lo temetti.
La dura minaccia mi toglieva il fiato.
Ma Carla stessa ancora non sapeva dove s'avviasse con quel suo passo deciso.
Dava sfogo a una stizza del momento che fra poco l'avrebbe lasciata.
M'attese e poi mi camminò accanto senza parole.
Quando fummo a casa, fu presa da un impeto di pianto che non mi spaventò perché la indusse a rifugiarsi fra le mie braccia.
Io le spiegai chi fosse Tullio e quanto danno sarebbe potuto venirmi dalla sua lingua.
Vedendo che piangeva tuttavia, ma sempre fra le mie braccia, osai un tono piú risoluto: voleva dunque compromettermi? Non avevamo sempre detto che avremmo fatto di tutto per risparmiare dei dolori a quella povera donna ch'era tuttavia mia moglie e la madre di mia figlia?
Parve che Carla si ravvedesse, ma volle restare sola per calmarsi.
Io corsi via contentone.
Dev'essere da quest'avventura che le venne ad ogni istante il desiderio di apparire in pubblico quale mia moglie.
Pareva che, non volendo sposare il maestro, intendesse costringermi di occupare una parte maggiore del posto che a lui rifiutava.
Mi seccò per lungo tempo perché prendessi due sedie ad un teatro, che avremmo poi occupate venendo da parti diverse per trovarci seduti uno accanto all'altro come per caso.
Io con lei raggiunsi soltanto ma varie volte il Giardino Pubblico, quella pietra miliare dei miei trascorsi, cui ora arrivavo dall'altra parte.
Oltre, mai! Perciò la mia amante finí col somigliarmi troppo.
Senz'alcuna ragione, ad ogni istante, se la prendeva con me in scoppi di collera improvvisi.
Presto si ravvedeva, ma bastavano per rendermi tanto eppoi tanto buono e docile.
Spesso la trovavo che si scioglieva in lacrime e non arrivavo mai ad ottenere da lei una spiegazione del suo dolore.
Forse la colpa fu mia perché non insistetti abbastanza per averla.
Quando la conobbi meglio, cioè quand'essa mi abbandonò, non abbisognai di altre spiegazioni.
Essa, stretta dal bisogno, s'era gettata in quell'avventura con me, che proprio non faceva per lei.
Fra le mie braccia era divenuta donna e - amo supporlo - donna onesta.
Naturalmente che ciò non va attribuito ad alcun merito mio, tanto piú che tutto mio fu il danno.
Le capitò un nuovo capriccio che dapprima mi sorprese e subito dopo teneramente mi commosse: volle vedere mia moglie.
Giurava che non le si sarebbe avvicinata e che si sarebbe comportata in modo da non essere scorta da lei.
Le promisi che quando avessi saputo di un'uscita di mia moglie ad un'ora precisa, glel'avrei fatto sapere.
Essa doveva vedere mia moglie non vicino alla mia villa, luogo deserto ove il singolo è troppo osservato, ma in qualche via affollata della città.
In quel torno di tempo mia suocera fu colpita da un malore agli occhi per cui dovette bendarseli per varii giorni.
S'annoiava mortalmente e, per indurla a tenere rigidamente la cura, le sue figliuole si dividevano la guardia presso di lei: mia moglie alla mattina, e Ada fino alle quattro precise del pomeriggio.
Con risoluzione istantanea io dissi a Carla che mia moglie abbandonava la casa di mia suocera ogni giorno alle quattro precise.
Neppure adesso so esattamente perché io abbia presentata Ada a Carla quale mia moglie.
È certo che io, dopo la domanda di matrimonio fattale dal maestro, sentivo il bisogno di vincolare meglio la mia amante a me e può essere abbia creduto che quanto piú bella avesse trovata mia moglie, tanto piú avrebbe apprezzato l'uomo che le sacrificava (per modo di dire) una donna simile.
Augusta in quel tempo non era altro che una buona balia sanissima.
Può avere influito sulla mia decisione anche la prudenza.
Avevo certamente ragione di temere gli umori della mia amante e se essa si fosse lasciata trascinare a qualche atto inconsulto con Ada, ciò non avrebbe avuto importanza visto che questa m'aveva già dato prova che mai avrebbe tentato di diffamarmi presso mia moglie.
Se Carla m'avesse compromesso con Ada, a questa avrei raccontato tutto e per dire il vero con una certa soddisfazione.
Ma la mia politica ebbe un esito non prevedibile davvero.
Indottovi da una certa ansietà, andai la mattina appresso da Carla piú di buon'ora del solito.
La trovai mutata del tutto dal giorno prima.
Una grande serietà aveva invaso il nobile ovale della sua faccina.
Volli baciarla, ma essa mi respinse eppoi si lasciò sfiorare dalle mie labbra le guancie, tanto per indurmi a starla ad ascoltare docilmente.
Sedetti a lei di faccia dall'altra parte del tavolo.
Essa, senza troppo affrettarsi, prese un foglio di carta su cui fino al mio arrivo aveva scritto e lo ripose fra certa musica che giaceva sul tavolo.
Io a quel foglio non feci attenzione e solo piú tardi appresi ch'era una lettera ch'essa scriveva al Lali.
Eppure io ora so che persino in quel momento l'animo di Carla era conteso da dubbi.
Il suo occhio serio si posava su di me indagando; poi lo rivolgeva alla luce della finestra per meglio isolarsi e studiare il proprio animo.
Chissà! Se avessi subito indovinato meglio quello che in lei si dibatteva, avrei potuto ancora conservarmi la mia deliziosa amante.
Mi raccontò del suo incontro con Ada.
L'aveva attesa dinanzi alla casa di mia suocera e, quando la vide arrivare, subito la riconobbe.
- Non c'era il caso di sbagliare.
Tu me l'avevi descritta nei suoi tratti piú importanti.
Oh! Tu la conosci bene!
Tacque per un istante per dominare la commozione che le chiudeva la gola.
Poi continuò:
- Io non so quello che ci sia stato fra di voi, ma io non voglio mai piú tradire quella donna tanto bella e tanto triste! E scrivo oggi al maestro di canto che sono pronta a sposarlo!
- Triste! - gridai io sorpreso.
- Tu t'inganni, oppure in quel momento essa avrà sofferto per una scarpa troppo stretta.
Ada triste! Se rideva e sorrideva sempre; anche quella stessa mattina in cui l'avevo vista per un istante a casa mia.
Ma Carla era meglio informata di me:
- Una scarpa stretta! Essa aveva il passo di una dea quando cammina sulle nubi!
Mi raccontò sempre piú commossa che aveva saputo farsi rivolgere una parola - oh! dolcissima! - da Ada.
Questa aveva lasciato cadere il suo fazzoletto e Carla lo raccolse e glielo porse.
La sua breve parola di ringraziamento commosse Carla fino alle lacrime.
Ci fu poi dell'altro ancora fra le due donne: Carla asseriva che Ada avesse anche notato ch'essa piangeva e che si fosse divisa da lei con un'occhiata accorata di solidarietà.
Per Carla tutto era chiaro: mia moglie sapeva ch'io la tradivo e ne soffriva! Da ciò il proposito di non vedermi piú e di sposare il Lali.
Non sapevo come difendermi! M'era facile di parlare con piena antipatia di Ada ma non di mia moglie, la sana balia che non s'accorgeva affatto di quello che avveniva nell'animo mio, tutt'intenta com'era al suo ministero.
Domandai a Carla se essa non avesse notata la durezza dell'occhio di Ada, e se non si fosse accorta che la sua voce era bassa e rude, priva di alcuna dolcezza.
Per riavere subito l'amore di Carla, io ben volentieri avrei attribuiti a mia moglie molti altri delitti, ma non si poteva perché, da un anno circa, io con la mia amante non facevo altro che portarla ai sette cieli.
Mi salvai altrimenti.
Fui preso io stesso da una grande emozione che mi spinse le lagrime agli occhi.
Mi pareva di poter legittimamente commiserarmi.
Senza volerlo, m'ero gettato in un ginepraio in cui mi sentivo infelicissimo.
Quella confusione fra Ada e Augusta era insopportabile.
La verità era che mia moglie non era tanto bella e che Ada (era di lei che Carla si prendeva di tanta compassione) aveva avuti dei grandi torti verso di me.
Perciò Carla era veramente ingiusta nel giudicarmi.
Le mie lacrime resero Carla piú mite:
- Dario caro! Come mi fanno bene le tue lacrime! Dev'esserci stato qualche malinteso fra voi due e importa ora di chiarirlo.
Io non voglio giudicarti troppo severamente, ma io non tradirò mai piú quella donna, né voglio essere io la causa delle sue lacrime.
L'ho giurato!
Ad onta del giuramento essa finí col tradirla per l'ultima volta.
Avrebbe voluto dividersi da me per sempre con un ultimo bacio, ma io quel bacio lo accordavo in un'unica forma, altrimenti me ne sarei andato pieno di rancore.
Perciò essa si rassegnò.
Mormoravamo ambedue:
- Per l'ultima volta!
Fu un istante delizioso.
Il proposito fatto a due aveva un'efficacia che cancellava qualsiasi colpa.
Eravamo innocenti e beati! Il mio benevolo destino m'aveva riservato un istante di felicità perfetta.
Mi sentivo tanto felice che continuai la commedia fino al momento di dividerci.
Non ci saremmo visti mai piú.
Essa rifiutò la busta che portavo sempre nella mia tasca e non volle neppure un ricordo mio.
Bisognava cancellare dalla nostra nuova vita ogni traccia dei trascorsi passati.
Allora la baciai volentieri paternamente sulla fronte com'essa aveva voluto prima.
Poi, sulle scale, ebbi un'esitazione perché la cosa si faceva un poco troppo seria mentre se avessi saputo ch'essa la dimane sarebbe stata tuttavia a mia disposizione, il pensiero al futuro non mi sarebbe venuto cosí presto.
Essa, dal suo pianerottolo, mi guardava scendere ed io, un po' ridendo, le gridai:
- A domani!
Essa si ritrasse sorpresa e quasi spaventata e si allontanò dicendo:
- Mai piú!
Io mi sentii tuttavia sollevato di aver osato di dire la parola che poteva avviarmi ad un altro ultimo abbraccio quando l'avrei desiderato.
Privo di desiderii e privo d'impegni, passai tutta una bella giornata con mia moglie eppoi nell'ufficio di Guido.
Devo dire che la mancanza d'impegni m'avvicinava a mia moglie e a mia figlia.
Ero per loro qualche cosa piú del solito: non solo gentile, ma un vero padre che dispone e comanda serenamente, tutta la mente rivolta alla sua casa.
Andando a letto mi dissi in forma di proponimento:
- Tutte le giornate dovrebbero somigliare a questa.
Prima di addormentarsi, Augusta sentí il bisogno di confidarmi un grande segreto: essa lo aveva saputo dalla madre quel giorno stesso.
Alcuni giorni prima Ada aveva sorpreso Guido mentre abbracciava una loro domestica.
Ada aveva voluto fare la superba, ma poi la fantesca s'era fatta insolente e Ada l'aveva messa alla porta.
Il giorno prima erano stati ansiosi di sentire come Guido avrebbe presa la cosa.
Se si fosse lagnato, Ada avrebbe domandata la separazione.
Ma Guido aveva riso e protestato che Ada non aveva visto bene; però non aveva niente in contrario che, anche innocente, quella donna, per cui diceva di sentire una sincera antipatia, fosse stata allontanata di casa.
Pareva che ora le cose si fossero appianate.
A me importava di sapere se Ada avesse avute le traveggole quando aveva sorpreso il marito in quella posizione.
C'era ancora la possibilità di un dubbio? Perché bisognava ricordare che quando due s'abbracciano, hanno tutt'altra posizione che quando l'una netta le scarpe dell'altro.
Ero di ottimo umore.
Sentivo persino il bisogno di dimostrarmi giusto e sereno nel giudicare Guido.
Ada era certamente di carattere geloso e poteva avvenire ch'essa avesse viste diminuite le distanze e spostate le persone.
Con voce accorata Augusta mi disse ch'essa era sicura che Ada aveva visto bene e che ora per troppo affetto giudicava male.
Aggiunse:
- Essa avrebbe fatto ben meglio di sposare te!
Io, che mi sentivo sempre piú innocente, le regalai la frase:
- Sta a vedere se io avrei fatto un miglior affare sposando lei invece di te!
Poi, prima d'addormentarmi, mormorai:
- Una bella canaglia! Insudiciare cosí la propria casa!
Ero abbastanza sincero di rimproverargli esattamente quella parte della sua azione ch'io non avevo da rimproverare a me stesso.
La mattina appresso io mi levai col desiderio vivo che almeno quella prima giornata avesse a somigliare esattamente a quella precedente.
Era probabile che i proponimenti deliziosi del giorno prima non avrebbero impegnata Carla piú di me, ed io me ne sentivo del tutto libero.
Erano stati troppo belli per essere impegnativi.
Certo l'ansia di sapere quello che ne pensasse Carla mi faceva correre.
Il mio desiderio sarebbe stato di trovarla pronta per un altro proponimento.
La vita sarebbe corsa via, ricca bensí di godimenti, ma anche piú di sforzi per migliorarsi, ed ogni mio giorno sarebbe stato dedicato in gran parte al bene ed in piccolissima al rimorso.
L'ansia c'era, perché in tutto quell'anno per me tanto ricco di propositi, Carla non ne aveva avuto che uno: dimostrare di volermi bene.
L'aveva mantenuto e c'era una certa difficoltà d'inferirne se ora le sarebbe stato facile di tenere il nuovo proposito che rompeva il vecchio.
Carla non c'era a casa.
Fu una grande disillusione e mi morsi le dita dal dispiacere.
La vecchia mi fece entrare in cucina.
Mi raccontò che Carla sarebbe ritornata prima di sera.
Le aveva detto che avrebbe mangiato fuori e perciò su quel focolare non c'era neppure quel piccolo fuoco che vi ardeva di solito:
- Lei non lo sapeva? - mi domandò la vecchia facendo gli occhi grandi per la sorpresa.
Pensieroso e distratto, mormorai:
- Ieri lo sapevo.
Non ero però sicuro che la comunicazione di Carla valesse proprio per oggi.
Me ne andai dopo di aver salutato gentilmente.
Digrignavo i denti, ma di nascosto.
Ci voleva del tempo per darmi il coraggio di arrabbiarmi pubblicamente.
Entrai nel Giardino Pubblico e vi passeggiai per una mezz'ora per prendermi il tempo d'intendere meglio le cose.
Erano tanto chiare che non ci capivo piú niente.
Tutt'ad un tratto, senz'alcuna pietà, venivo costretto di tenere un proposito simile.
Stavo male, realmente male.
Zoppicavo e lottavo anche con una specie di affanno.
Io ne ho di quegli affanni: respiro benissimo, ma conto i singoli respiri, perché devo farli uno dopo l'altro di proposito.
Ho la sensazione che se non stessi attento, morrei soffocato.
A quell'ora avrei dovuto andare al mio ufficio o meglio a quello di Guido.
Ma non era possibile di allontanarmi cosí da quel posto.
Che cosa avrei fatto poi? Ben dissimile era questa dalla giornata precedente! Almeno avessi conosciuto l'indirizzo di quel maledetto maestro che a forza di cantare a mie spese m'aveva portata via la mia amante.
Finii col ritornare dalla vecchia.
Avrei trovata una parola da mandare a Carla per indurla a rivedermi.
Già il piú difficile era di averla al piú presto a tiro.
Il resto non avrebbe offerto delle grandi difficoltà.
Trovai la vecchia seduta accanto ad una finestra della cucina intenta a rammendare una calza.
Essa si levò gli occhiali e, quasi timorosa, mi mandò uno sguardo interrogatore.
Io esitai! Poi le domandai:
- Lei sa che Carla ha deciso di sposare il Lali?
A me pareva di raccontare tale nuova a me stesso.
Carla me l'aveva detta ben due volte, ma io il giorno prima vi avevo fatta poca attenzione.
Quelle parole di Carla avevano colpito l'orecchio e ben chiaramente perché ve le avevo ritrovate, ma erano scivolate via senza penetrare oltre.
Adesso appena arrivavano ai visceri che si contorcevano dal dolore.
La vecchia mi guardò anch'essa esitante.
Certamente aveva paura di commettere delle indiscrezioni che avrebbero potuto esserle rimproverate.
Poi scoppiò, tutta gioia evidente:
- Glielo ha detto Carla? Allora dovrebbe essere cosí! Io credo che farebbe bene! Che cosa gliene sembra a lei?
Ora rideva di gusto, la maledetta vecchia, che io avevo sempre creduto informata dei miei rapporti con Carla.
L'avrei picchiata volentieri, ma poi mi limitai a dire che prima avrei atteso che il maestro si facesse una posizione.
A me, insomma, pareva che la cosa fosse precipitata.
Nella sua gioia la signora divenne per la prima volta loquace con me.
Non era del mio parere.
Quando ci si sposava da giovani, si doveva fare la carriera dopo di essersi sposati.
Perché occorreva farla prima? Carla aveva cosí pochi bisogni.
La sua voce, ora, sarebbe costata meno, visto che nel marito avrebbe avuto il maestro.
Queste parole che potevano significare un rimprovero alla mia avarizia, mi diedero un'idea che mi parve magnifica e che per il momento mi sollevò.
Nel plico che portavo sempre nella mia tasca di petto, doveva esserci oramai un bell'importo.
Lo trassi di tasca, lo chiusi e lo consegnai alla vecchia perché lo desse a Carla.
Avevo forse anche il desiderio di pagare finalmente in modo decoroso la mia amante, ma il desiderio piú forte era di rivederla e riaverla.
Carla m'avrebbe rivisto tanto nel caso in cui avesse voluto restituirmi il denaro quanto in quello in cui le fosse stato comodo di tenerlo, perché allora avrebbe sentito il bisogno di ringraziarmi.
Respirai: tutto non era ancora finito per sempre!
Dissi alla vecchia che la busta conteneva poco denaro residuo di quello consegnatomi per loro dagli amici del povero Copler.
Poi, molto rasserenato, mandai a dire a Carla che io restavo il suo buon amico per tutta la vita e che, se essa avesse avuto bisogno di un appoggio, avrebbe potuto rivolgersi liberamente a me.
Cosí potei mandarle il mio indirizzo ch'era quello dell'ufficio di Guido.
Partii con un passo molto piú elastico di quello che m'aveva condotto colà.
Ma quel giorno ebbi un violento litigio con Augusta.
Si trattava di cosa da poco.
Io dicevo che la minestra era troppo salata ed essa pretendeva di no.
Ebbi un accesso folle d'ira perché mi sembrava ch'essa mi deridesse e trassi a me con violenza la tovaglia cosí che tutte le stoviglie dalla tavola volarono a terra.
La piccina ch'era in braccio della bambinaia si mise a strillare, ciò che mi mortificò grandemente perché la piccola bocca sembrava mi rimproverasse.
Augusta impallidí come sapeva impallidire lei, prese la fanciulla in braccio e uscí.
A me parve che anche il suo fosse un eccesso: mi avrebbe ora lasciato mangiare solo come un cane? Ma subito essa, senza la bambina, rientrò, riapparecchiò la tavola, sedette dinanzi al proprio piatto nel quale mosse il cucchiaio come se avesse voluto accingersi a mangiare.
Io, fra me e me, bestemmiavo, ma già sapevo d'essere stato un giocattolo in mano di forze sregolate della natura.
La natura che non trovava difficoltà nell'accumularle, ne trovava ancor meno nello scatenarle.
Le mie bestemmie andavano ora contro Carla che fingeva di agire solo a vantaggio di mia moglie.
Ecco come me l'aveva conciata!
Augusta, per un sistema cui rimase fedele fino ad oggi, quando mi vede in quelle condizioni, non protesta, non piange, non discute.
Quand'io mitemente mi misi a domandarle scusa, essa volle spiegare una cosa: non aveva riso, aveva soltanto sorriso nello stesso modo che m'era piaciuto tante volte e che tante volte avevo vantato.
Mi vergognai profondamente.
Supplicai che la bambina fosse portata subito con noi e quando l'ebbi fra le mie braccia, lungamente giuocai con lei.
Poi la feci sedere sulla mia testa e sotto la sua vesticciuola che mi copriva la faccia, asciugai i miei occhi che s'erano bagnati delle lacrime che Augusta non aveva sparse.
Giuocavo con la bambina, sapendo che cosí, senz'abbassarmi a fare delle scuse, mi riavvicinavo ad Augusta e infatti le sue guancie avevano già riacquistato il loro colore consueto.
Poi anche quella giornata finí molto bene e il pomeriggio somigliò a quello precedente.
Era proprio la stessa cosa come se alla mattina avessi trovata Carla al solito posto.
Non m'era mancato lo sfogo.
Avevo ripetutamente domandato scusa perché dovevo indurre Augusta di ritornare al suo sorriso materno quando dicevo o facevo delle bizzarrie.
Guai se avesse dovuto forzarsi ad avere in mia presenza un dato contegno o se avesse dovuto sopprimere anche uno dei soliti suoi sorrisi affettuosi che mi parevano il giudizio piú completo e benevolo che si potesse dare su me.
Alla sera riparlammo di Guido.
Pareva che la sua pace con Ada fosse completa.
Augusta si meravigliava della bontà di sua sorella.
Questa volta però toccava a me di sorridere perché era evidente ch'ella non ricordava la propria bontà che era enorme.
Le domandai:
- E se io insudiciassi la nostra casa, non mi perdoneresti? - Ella esitò:
- Noi abbiamo la nostra bambina, - esclamò - mentre Ada non ha dei figliuoli che la leghino a quell'uomo.
Ella non amava Guido; penso talvolta che gli tenesse rancore perché m'aveva fatto soffrire.
Pochi mesi dopo, Ada regalò a Guido due gemelli e Guido non comprese mai perché gli facessi delle congratulazioni tanto calorose.
Ecco che avendo dei figlioli, anche secondo il giudizio di Augusta, le serve di casa potevano essere sue senza pericolo per lui.
Alla mattina seguente, però, quando in ufficio trovai sul mio tavolo una busta al mio indirizzo scritto da Carla, respirai.
Ecco che niente era finito e che si poteva continuare a vivere munito di tutti gli elementi necessarii.
In brevi parole Carla mi dava un appuntamento per le undici della mattina al Giardino Pubblico, all'ingresso posto di faccia alla sua casa.
Ci saremmo trovati non nella sua stanza, ma tuttavia in un posto vicinissimo alla stessa.
Non seppi aspettare e arrivai all'appuntamento un quarto d'ora prima.
Se Carla non fosse stata al posto indicato, io mi sarei recato dritto dritto a casa sua, ciò che sarebbe stato ben piú comodo.
Anche quella era una giornata pregna della nuova primavera dolce e luminosa.
Quando abbandonai la rumorosa Corsia Stadion ed entrai nel giardino, mi trovai nel silenzio della campagna che non si può dire interrotto dal lieve, continuo stormire delle piante lambite dalla brezza.
Con passo celere m'avviavo ad uscire dal giardino quando Carla mi venne incontro.
Aveva in mano la mia busta e mi si avvicinava senza un sorriso di saluto, anzi con una rigida decisione sulla faccina pallida.
Portava un semplice vestito di tela dal tessuto grosso traversato da striscie azzurre, che le stava molto bene.
Pareva anch'essa una parte del giardino.
Piú tardi, nei momenti in cui piú la odiai, le attribuii l'intenzione di essersi vestita cosí per rendersi piú desiderabile nel momento stesso in cui mi si rifiutava.
Era invece il primo giorno di primavera che la vestiva.
Bisogna anche ricordare che nel mio lungo ma brusco amore, l'adornamento della mia donna aveva avuto piccolissima parte.
Io ero sempre andato direttamente a quella sua stanza da studio, e le donne modeste sono proprio molto semplici quando restano in casa.
Essa mi porse la mano ch'io strinsi dicendole:
- Ti ringrazio di essere venuta!
Come sarebbe stato piú decoroso per me se durante tutto quel colloquio io fossi rimasto cosí mite!
Carla pareva commossa e, quando parlava, una specie di convulso le faceva tremare le labbra.
Talvolta anche nel cantare quel movimento delle labbra le impediva la nota.
Mi disse:
- Vorrei compiacerti e accettare da te questo denaro, ma non posso, assolutamente non posso.
Te ne prego, riprendilo.
Vedendola vicina alle lacrime, subito la compiacqui prendendo la busta che mi ritrovai poi in mano, lungo tempo dopo di aver abbandonato quel luogo.
- Veramente non ne vuoi piú sapere di me?
Feci questa domanda non pensando ch'essa vi aveva risposto il giorno prima.
Ma era possibile che, desiderabile come la vedevo, essa si contendesse a me?
- Zeno! - rispose la fanciulla con qualche dolcezza, - non avevamo noi promesso che non ci saremmo rivisti mai piú? In seguito a quella nostra promessa ho assunti degl'impegni che somigliano a quelli che tu avevi già prima di conoscermi.
Sono altrettanto sacri dei tuoi.
Io spero che a quest'ora tua moglie si sarà accorta che sei tutto suo.
Nel suo pensiero continuava dunque ad avere importanza la bellezza di Ada.
Se io fossi stato sicuro che il suo abbandono era causato da lei, avrei avuto il modo di correre al riparo.
Le avrei fatto sapere che Ada non era mia moglie e le avrei fatto vedere Augusta col suo occhio sbilenco e la sua figura di balia sana.
Ma non erano oramai piú importanti gl'impegni presi da lei? Bisognava discutere quelli.
Cercai di parlare calmo mentre anche a me le labbra tremavano, ma dal desiderio.
Le raccontai che ancora ella non sapeva quanto mia essa fosse e come non avesse piú il diritto di disporre di sé.
Nella mia testa si moveva la prova scientifica di quanto volevo dire, cioè quel celebre esperimento di Darwin su una cavalla araba, ma, grazie al Cielo, sono quasi sicuro di non averne parlato.
Devo però aver parlato di bestie e della loro fedeltà fisica, in un balbettio senza senso.
Abbandonai poi gli argomenti piú difficili che non erano accessibili né a lei né a me in quel momento e dissi: - Quali impegni puoi avere presi? E quale importanza possono avere in confronto a un affetto come quello che ci legò per piú di un anno?
L'afferrai rudemente per la mano sentendo il bisogno di un atto energico, non trovando nessuna parola che sapesse supplirvi.
Essa si levò con tanta energia dalla mia stretta come se fosse stata la prima volta ch'io mi fossi permessa una cosa simile.
- Mai - disse con l'atteggiamento di chi giura - ho preso un impegno piú sacro! L'ho preso con un uomo che a sua volta ne assunse uno identico verso di me.
Non v'era dubbio! Il sangue che le colorí improvvisamente le guancie vi era spinto dal rancore per l'uomo che verso di lei non aveva assunto alcun impegno.
E si spiegò anche meglio:
- Ieri abbiamo camminato per le strade, uno a braccio dell'altra in compagnia di sua madre.
Era evidente che la mia donna correva via, sempre piú lontano da me.
Io le corsi dietro follemente, con certi salti simili a quelli di un cane cui venga conteso un saporito pezzo di carne.
Ripresi la sua mano con violenza:
- Ebbene, - proposi - camminiamo cosí, tenendoci per mano, traverso tutta la città.
In questa posizione insolita, per farci meglio osservare, passiamo la Corsia Stadion eppoi i volti di Chiozza e giú giú traverso il Corso fino a Sant'Andrea per ritornare alla camera nostra per tutt'altra parte, perché tutta la città ci veda.
Ecco che per la prima volta rinunziavo ad Augusta! E mi parve una liberazione perché era dessa che voleva togliermi Carla.
Essa si tolse di nuovo alla mia stretta e disse seccamente:
- Sarebbe circa la stessa via che abbiamo fatta noi ieri!
Saltai ancora:
- Ed egli sa, sa tutto? Sa che anche ieri fosti mia?
- Sí - essa disse con orgoglio.
- Egli sa tutto, tutto.
Mi sentivo perduto e nella mia rabbia, simile al cane che, quando non può piú raggiungere il boccone desiderato, addenta le vesti di chi glielo contende, dissi:
- Questo tuo sposo ha uno stomaco eccellente.
Oggi digerisce me e domani potrà digerire tutto ciò che vorrai.
Non sentivo l'esatto suono delle mie parole.
Sapevo di gridare dal dolore.
Essa ebbe invece un'espressione d'indignazione di cui non avrei creduto capace il suo occhio bruno e mite di gazzella:
- A me lo dici? E perché non hai il coraggio di dirlo a lui?
Mi volse le spalle e con passo celere s'avviò verso l'uscita.
Io già avevo rimorso delle parole dette, offuscato però dalla grande sorpresa che oramai mi fosse interdetto di trattare Carla con meno dolcezza.
Quella mi teneva inchiodato al posto.
La piccola figurina azzurra e bianca, con un passo breve e celere, raggiungeva già l'uscita, quando mi decisi di correrle dietro.
Non sapevo quello che le avrei detto, ma era impossibile che ci si separasse cosí.
La fermai al portone di casa sua e le dissi solo sinceramente il grande dolore di quel momento:
- Ci separeremo proprio cosí, dopo tanto amore?
Essa procedette oltre senza rispondermi ed io la seguii anche sulle scale.
Poi mi guardò con quel suo occhio nemico:
- Se lei vuol vedere il mio sposo, venga con me.
Non lo sente? È lui che suona il piano.
Sentii appena allora le note sincopate del «Saluto» dello Schubert ridotto dal Liszt.
Quantunque dalla mia infanzia io non abbia maneggiata né una sciabola né un bastone, io non sono un uomo pauroso.
Il grande desiderio che m'aveva commosso fino ad allora, era improvvisamente sparito.
Del maschio non restava in me che la combattività.
Avevo domandato imperiosamente una cosa che non mi competeva.
Per diminuire il mio errore adesso bisognava battersi, perché altrimenti il ricordo di quella donna che minacciava di farmi punire dal suo sposo, sarebbe stato atroce.
- Ebbene! - le dissi.
- Se lo permetti vengo con te.
Mi batteva il cuore non per paura, ma per il timore di non comportarmi bene.
Continuai a salire accanto a lei.
Ma improvvisamente essa si fermò, s'appoggiò al muro e si mise a piangere senza parole.
Lassú continuavano ad echeggiare le note del «Saluto» su quel pianoforte che io avevo pagato.
Il pianto di Carla rese quel suono molto commovente.
- Io farò quello che vuoi! Vuoi che me ne vada? - domandai.
- Sí, - disse essa appena capace di articolare quella breve parola.
- Addio! - le dissi.
- Giacché lo vuoi, addio per sempre!
Scesi lentamente le scale, fischiettando anch'io il «Saluto» di Schubert.
Non so se sia stata un'illusione, ma a me parve ch'essa mi chiamasse:
- Zeno!
In quel momento essa avrebbe potuto chiamarmi anche con quello strano nome di Dario ch'essa sentiva quale un vezzeggiativo e non mi sarei fermato.
Avevo un grande desiderio di andarmene e ritornavo anche una volta, puro, ad Augusta.
Anche il cane cui a forza di pedate si impedisce l'approccio alla femmina, corre via purissimo, per il momento.
Quando il giorno dopo fui ridotto nuovamente allo stato in cui m'ero trovato al momento d'avviarmi al Giardino Pubblico, mi parve semplicemente di essere stato un vigliacco: essa m'aveva chiamato sebbene non col nome dell'amore, ed io non avevo risposto! Fu il primo giorno di dolore cui seguirono molti altri di desolazione amara.
Non comprendendo piú perché mi fossi allontanato cosí, mi attribuivo la colpa di aver avuto paura di quell'uomo o paura dello scandalo.
Avrei ora nuovamente accettata qualunque compromissione, come quando avevo proposto a Carla quella lunga passeggiata traverso alla città.
Avevo perduto un momento favorevole e sapevo benissimo che certe donne ne hanno per una volta sola.
A me sarebbe bastata quella sola volta.
Decisi subito di scrivere a Carla.
Non m'era possibile di lasciar trascorrere neppure un solo giorno di piú senza fare un tentativo per riavvicinarmi a lei.
Scrissi e riscrissi quella lettera per mettere in quelle poche parole tutto l'accorgimento di cui ero capace.
La riscrissi tante volte anche perché lo scriverla era un grande conforto per me; era lo sfogo di cui abbisognavo.
Le domandavo perdono per l'ira che le avevo dimostrata, asserendo che il grande mio amore abbisognava di tempo per calmarsi.
Aggiungevo: «Ogni giorno che passa m'apporta un altro briciolo di calma» e scrissi questa frase tante volte sempre digrignando i denti.
Poi le dicevo che non sapevo perdonarmi le parole che le avevo dirette e sentivo il bisogno di domandarle scusa.
Io non potevo, purtroppo, offrirle quello che il Lali le offriva e di cui ella era tanto degna.
Io mi figuravo che la lettera avrebbe avuto un grande effetto.
Giacché il Lali sapeva tutto, Carla gliel'avrebbe fatta vedere e per il Lali avrebbe potuto esser vantaggioso di avere un amico della mia qualità.
Sognai persino che ci si sarebbe potuti avviare a una dolce vita a tre, perché il mio amore era tale che per il momento io avrei vista raddolcita la mia sorte se mi fosse stato permesso di fare anche solo la corte a Carla.
Il terzo giorno ricevetti da lei un breve biglietto.
Non vi venivo invocato affatto né come Zeno né come Dario.
Mi diceva soltanto: «Grazie! Sia anche lei felice con la consorte Sua, tanto degna di ogni bene!».
Parlava di Ada, naturalmente.
Il momento favorevole non aveva continuato e dalle donne non continua mai se non lo si ferma prendendole per le treccie.
Il mio desiderio si condensò in una bile furiosa.
Non contro Augusta! L'animo mio era tanto pieno di Carla che ne avevo rimorso e mi costringevo con Augusta ad un sorriso ebete, stereotipato, che a lei pareva autentico.
Ma dovevo fare qualche cosa.
Non potevo mica aspettare e soffrire cosí ogni giorno! Non volevo piú scriverle.
La carta scritta per le donne ha troppo poca importanza.
Bisognava trovare di meglio.
Senza un proposito esatto, m'avviai di corsa al Giardino Pubblico.
Poi, molto piú lentamente, alla casa di Carla e, giunto a quel pianerottolo, bussai alla porta della cucina.
Se ve n'era la possibilità, avrei evitato di vedere il Lali, ma non mi sarebbe dispiaciuto d'imbattermi in lui.
Sarebbe stata la crisi di cui sentivo di aver bisogno.
La vecchia signora, come al solito, era al focolare su cui ardevano due grandi fuochi.
Fu stupita al vedermi, ma poi rise da quella buona innocente ch'essa era.
Mi disse:
- Mi fa piacere di vederla! Era tanto abituata lei di vederci ogni giorno, che si capisce non le riesca di evitarci del tutto.
Mi fu facile di farla ciarlare.
Mi raccontò che gli amori di Carla con Vittorio erano grandi.
Quel giorno lui e la madre venivano a desinare da loro.
Aggiunse ridendo: - Presto egli finirà con l'indurla ad accompagnarlo persino alle tante lezioni di canto cui egli è obbligato ogni giorno.
Non sanno restar divisi neppure per brevi istanti.
Sorrideva di quella felicità, maternamente.
Mi raccontò che di lí a poche settimane si sarebbero sposati.
Avevo un cattivo sapore in bocca, e quasi mi sarei avviato alla porta per andarmene.
Poi mi trattenni sperando che la ciarla della vecchia avrebbe potuto suggerirmi qualche buona idea o darmi qualche speranza.
L'ultimo errore, ch'io avevo commesso con Carla, era stato proprio di correre via prima di avere studiato tutte le possibilità che potevano essermi offerte.
Per un istante credetti anche di avere la mia idea.
Domandai alla vecchia se proprio avesse deciso di fare da serva alla figlia fino alla propria morte.
Le dissi ch'io sapevo che Carla non era molto dolce con lei.
Essa continuò a lavorare assiduamente accanto al focolare, ma stava a sentirmi.
Fu di un candore ch'io non meritavo.
Si lagnò di Carla che perdeva la pazienza per cose da niente.
Si scusava:
- Certamente io divento ogni giorno piú vecchia e dimentico tutto.
Non ne ho colpa!
Ma sperava che adesso le cose sarebbero andate meglio.
I malumori di Carla sarebbero diminuiti, ora ch'era felice.
Eppoi Vittorio, da bel principio, s'era messo a dimostrarle un grande rispetto.
Infine, sempre intenta a foggiare certe forme con un intruglio di pasta e di frutta, aggiunse:
- È mio dovere di restare con mia figlia.
Non si può fare altrimenti.
Con una certa ansia tentai di convincerla.
Le dissi che poteva benissimo liberarsi da tanta schiavitú.
Non c'ero io? Avrei continuato a passarle il mensile che fino ad allora avevo concesso a Carla.
Io volevo oramai mantenere qualcuno! Volevo tenere con me la vecchia che mi pareva parte della figlia.
La vecchia mi manifestò la sua riconoscenza.
Ammirava la mia bontà, ma si mise a ridere all'idea che le si potesse proporre di lasciare la figlia.
Era una cosa che non si poteva pensare.
Ecco una dura parola che andò a battere contro la mia fronte che si curvò! Ritornavo a quella grande solitudine dove non c'era Carla e neppure visibile una via che conducesse a lei.
Ricordo che feci un ultimo sforzo per illudermi che quella via potesse rimanere almeno segnata.
Dissi alla vecchia, prima di andarmene, che poteva avvenire che di lí a qualche tempo essa fosse di altro umore.
La pregavo allora di voler ricordarsi di me.
Uscendo da quella casa ero pieno di sdegno e di rancore, proprio come se fossi stato maltrattato quando m'accingevo ad una buona azione.
Quella vecchia m'aveva proprio offeso con quel suo scoppio di riso.
Lo sentivo risonare ancora nelle orecchie e significava non mica solo l'irrisione alla mia ultima proposta.
Non volli andare da Augusta in quello stato.
Prevedevo il mio destino.
Se fossi andato da lei, avrei finito col maltrattarla ed essa si sarebbe vendicata con quel suo grande pallore che mi faceva tanto male.
Preferii di camminare le vie con un passo ritmico che avrebbe potuto avviare ad un poco d'ordine il mio animo.
E infatti l'ordine venne! Cessai di lagnarmi del mio destino e vidi me stesso come se una grande luce m'avesse proiettato intero sul selciato che guardavo.
Io non domandavo Carla, io volevo il suo abbraccio e preferibilmente il suo ultimo abbraccio.
Una cosa ridicola! Mi ficcai i denti nelle labbra per gettare il dolore, cioè un poco di serietà, sulla mia ridicola immagine.
Sapevo tutto di me stesso ed era imperdonabile che soffrissi tanto perché mi veniva offerta una opportunità unica di svezzamento.
Carla non c'era piú proprio come tante volte l'avevo desiderato.
Con tale chiarezza nell'animo, quando poco dopo, in una via eccentrica della città, cui ero pervenuto senz'alcun proposito, una donna imbellettata mi fece un cenno, io corsi senz'esitazione a lei.
Arrivai ben tardi a colazione, ma fui tanto dolce con Augusta ch'essa fu subito lieta.
Non fui però capace di baciare la bimba mia e per varie ore non seppi neppure mangiare.
Mi sentivo ben sudicio! Non finsi alcuna malattia come avevo fatto altre volte per celare e attenuare il delitto e il rimorso.
Non mi pareva di poter trovare conforto in un proposito per l'avvenire, e per la prima volta non ne feci affatto.
Occorsero molte ore per ritornare al ritmo solito che mi traeva dal fosco presente al luminoso avvenire.
Augusta s'accorse che c'era qualche cosa di nuovo in me.
Ne rise:
- Con te non ci si può mai annoiare.
Sei ogni giorno un uomo nuovo.
Sí! Quella donna del sobborgo non somigliava a nessun'altra e io l'avevo in me.
Passai anche il pomeriggio e la sera con Augusta.
Essa era occupatissima ed io le stavo accanto inerte.
Mi pareva di essere trasportato cosí, inerte, da una corrente, una corrente di acqua limpida: la vita onesta della mia casa.
M'abbandonavo a quella corrente che mi trasportava ma non mi nettava.
Tutt'altro! Rilevava la mia sozzura.
Naturalmente nella lunga notte che seguí arrivai al proposito.
Il primo fu il piú ferreo.
Mi sarei procurata un'arma per abbattermi subito quando mi fossi sorpreso avviato a quella parte della città.
Mi fece bene quel proposito e mi mitigò.
Non gemetti mai nel mio letto ed anzi simulai il respiro regolare del dormente.
Cosí ritornai all'antica idea di purificarmi con una confessione a mia moglie, proprio come quand'ero stato in procinto di tradirla con Carla.
Ma era oramai una confessione ben difficile e non per la gravità del misfatto, ma per la complicazione da cui era risultato.
Di fronte a un giudice quale era mia moglie, avrei pur dovuto accampare le circostanze attenuanti e queste sarebbero risultate solo se avessi potuto dire della violenza impensata con cui era stata spezzata la mia relazione con Carla.
Ma allora sarebbe occorso di confessare anche quel tradimento oramai antico.
Era piú puro di questo, ma (chissà?) per una moglie piú offensivo.
A forza di studiarmi arrivai a dei propositi sempre piú ragionevoli.
Pensai di evitare il ripetersi di un trascorso simile affrettandomi ad organizzare un'altra relazione quale quella che avevo perduta e di cui si vedeva avevo bisogno.
Ma anche la donna nuova mi spaventava.
Mille pericoli avrebbero insidiato me e la mia famigliuola.
A questo mondo un'altra Carla non c'era, e con lacrime amarissime la rimpiansi, lei, la dolce, la buona, che aveva persino tentato di amare la donna ch'io amavo e che non vi era riuscita solo perché io le avevo messa dinanzi un'altra donna e proprio quella che non amavo affatto!
7.
Un'associazione
Fu Guido che mi volle con lui nella sua nuova casa commerciale.
Io morivo dalla voglia di farne parte, ma son sicuro di non avergli mai lasciato indovinare tale mio desiderio.
Si capisce che, nella mia inerzia, la proposta di quell'attività in compagnia di un amico, mi fosse simpatica.
Ma c'era dell'altro ancora.
Io non avevo ancora abbandonata la speranza di poter divenire un buon negoziante e mi pareva piú facile di progredire insegnando a Guido, che facendomi insegnare dall'Olivi.
Tanti a questo mondo apprendono soltanto ascoltando se stessi o almeno non sanno apprendere ascoltando gli altri.
Per desiderare quell'associazione avevo anche altre ragioni.
Io volevo essere utile a Guido! Prima di tutto gli volevo bene e benché egli volesse sembrare forte e sicuro, a me pareva un inerme abbisognante di una protezione che io volentieri volevo accordargli.
Poi anche nella mia coscienza e non solo agli occhi di Augusta, mi pareva che piú m'attaccavo a Guido e piú chiara risultasse la mia assoluta indifferenza per Ada.
Insomma io non aspettavo che una parola di Guido per mettermi a sua disposizione, e questa parola non venne prima, solo perché egli non mi credeva tanto inclinato al commercio visto che non avevo voluto saperne di quello che mi veniva offerto in casa mia.
Un giorno mi disse:
- Io ho fatta tutta la Scuola Superiore di Commercio, ma pur mi dà un po' di pensiero di dover regolare sanamente tutti quei particolari che garantiscono il sano funzionamento di una casa commerciale.
Sta bene che il commerciante non ha bisogno di saper di nulla, perché se ha bisogno di una bilancia chiama il bilanciaio, se ha bisogno di legge invoca l'avvocato e per la propria contabilità si rivolge ad un contabile.
Ma è ben duro dover consegnare da bel principio la propria contabilità ad un estraneo!
Fu la sua prima allusione chiara al suo proposito di tenermi con lui.
Veramente io non avevo fatta altra pratica di contabilità che in quei pochi mesi in cui avevo tenuto il libro mastro per l'Olivi, ma ero certo d'essere il solo contabile che non fosse stato un estraneo per Guido.
Si parlò chiaramente per la prina volta dell'eventualità di una nostra associazione quand'egli andò a scegliere i mobili per il suo ufficio.
Ordinò senz'altro due scrivanie per la stanza della direzione.
Gli domandai arrossendo:
- Perché due?
Rispose:
- L'altra è per te.
Sentii per lui una tale riconoscenza che quasi l'avrei abbracciato.
Quando fummo usciti dalla bottega, Guido, un po' imbarazzato, mi spiegò che ancora non era al caso di offrirmi una posizione in casa sua.
Lasciava a mia disposizione quel posto nella sua stanza, solo per indurmi a venir a tenergli compagnia ogni qualvolta mi fosse piaciuto.
Non voleva obbligarmi a nulla ed anche lui restava libero.
Se il suo commercio fosse andato bene m'avrebbe concesso un posto nella direzione della sua casa.
Parlando del suo commercio, la bella faccia bruna di Guido si faceva molto seria.
Pareva ch'egli avesse già pensate tutte le operazioni a cui voleva dedicarsi.
Guardava lontano, al disopra della mia testa, ed io mi fidai tanto della serietà delle sue meditazioni, che mi volsi anch'io a guardare quello ch'egli vedeva, cioè quelle operazioni che dovevano portargli la fortuna.
Egli non voleva camminare né la via percorsa con tanto successo da nostro suocero né quella della modestia e della sicurezza battuta dall'Olivi.
Tutti costoro, per lui, erano dei commercianti all'antica.
Bisognava seguire tutt'altra via, ed egli volentieri si associava a me perché mi riteneva non ancora rovinato dai vecchi.
Tutto ciò mi parve vero.
Mi veniva regalato il mio primo successo commerciale ed arrossii dal piacere una seconda volta.
Fu cosí e per la gratitudine della stima ch'egli m'aveva dimostrato, ch'io lavorai con lui e per lui, ora piú ora meno intensamente, per ben due anni, senz'altro compenso che la gloria di quel posto nella stanza direttoriale.
Fino ad allora fu quello certamente il piú lungo periodo ch'io avessi dedicato ad una stessa occupazione.
Non posso vantarmene solo perché tale mia attività non diede alcun frutto né a me né a Guido ed in commercio - tutti lo sanno - non si può giudicare che dal risultato.
Io conservai la fiducia d'esser avviato ad un grande commercio per circa tre mesi, il tempo occorrente a fondare quella ditta.
Seppi che a me sarebbe toccato non solo di regolare dei particolari come la corrispondenza e la contabilità, ma anche di sorvegliare gli affari.
Guido conservò tuttavia un grande ascendente su di me, tanto che avrebbe potuto anche rovinarmi e solo la mia buona fortuna glielo impedí.
Bastava un suo cenno perché accorressi a lui.
Ciò desta la mia stupefazione ancora adesso che ne scrivo, dopo che ho avuto il tempo di pensarci per tanta parte della mia vita.
E scrivo ancora di questi due anni perché il mio attaccamento a lui mi sembra una chiara manifestazione della mia malattia.
Che ragione c'era di attaccarsi a lui per apprendere il grande commercio e subito dopo restare attaccato a lui per insegnargli quello piccolo? Che ragione c'era di sentirsi bene in quella posizione solo perché mi sembrava significasse una grande indifferenza per Ada la mia grande amicizia per Guido? Chi esigeva da me tutto questo? Non bastava a provare la nostra indifferenza reciproca l'esistenza di tutti quei marmocchi cui davamo assiduamente la vita? Io non volevo male a Guido, ma non sarebbe stato certamente l'amico che avrei liberamente prescelto.
Ne vidi sempre tanto chiaramente i difetti che il suo pensiero spesso mi irritava, quando non mi commoveva qualche suo atto di debolezza.
Per tanto tempo gli portai il sacrificio della mia libertà e mi lasciai trascinare da lui nelle posizioni piú odiose solo per assisterlo! Una vera e propria manifestazione di malattia o di grande bontà, due qualità che stanno in rapporto molto intimo fra di loro.
Ciò rimane vero se anche col tempo fra noi si sviluppò un grande affetto come succede sempre fra gente dabbene che si vede ogni giorno.
E fu un grande affetto il mio! Allorché egli scomparve, per lungo tempo sentii com'egli mi mancava ed anzi l'intera mia vita mi sembrò vuota poiché tanta parte ne era stata invasa da lui e dai suoi affari.
Mi viene da ridere al ricordare che subito, nel nostro primo affare, l'acquisto dei mobili, sbagliammo in certo qual modo un termine.
Ci eravamo accollati i mobili e non ci decidevamo ancora a stabilire l'ufficio.
Per la scelta dell'ufficio, fra me a Guido c'era una divergenza di opinione che la ritardò.
Da mio suocero e dall'Olivi io avevo sempre visto che per rendere possibile la sorveglianza del magazzino, l'ufficio vi era contiguo.
Guido protestava con una smorfia di disgusto:
- Quegli uffici triestini che puzzano di baccalà o di pellami! - Egli assicurava che avrebbe saputo organizzare la sorveglianza anche da lontano, ma intanto esitava.
Un bel giorno il venditore dei mobili gl'intimò di ritirarli perché altrimenti li avrebbe gettati sulla strada e allora lui corse a stabilire un ufficio, l'ultimo che gli era stato offerto, privo di un magazzino nelle vicinanze, ma proprio al centro della città.
È perciò che il magazzino non lo ebbimo mai piú.
L'ufficio si componeva di due vaste stanze bene illuminate e di uno stanzino privo di finestre.
Sulla porta di questo stanzino inabitabile fu appiccicato un bollettino con l'iscrizione in lettere lapidarie: Contabilità; poi, delle altre due porte l'una ebbe il bollettino: Cassa e l'altra fu addobbata dalla designazione tanto inglese di Privato.
Anche Guido aveva studiato il commercio in Inghilterra e ne aveva riportate delle nozioni utili.
La Cassa fu, come di dovere, fornita di una magnifica cassa di ferro e del cancello tradizionale.
La nostra stanza Privata divenne una camera di lusso splendidamente tappezzata in un colore bruno vellutato e fornita delle due scrivanie, di un sofà e di varie comodissime poltrone.
Poi venne l'acquisto dei libri e dei varii utensili.
Qui la mia parte di direttore fu indiscussa.
Io ordinavo e le cose arrivavano.
Invero avrei preferito di non essere seguito tanto prontamente, ma era mio dovere di dire tutte le cose che occorrevano in un ufficio.
Allora credetti di scoprire la grande differenza che c'era fra me e Guido.
Quanto sapevo io, mi serviva per parlare e a lui per agire.
Quand'egli arrivava a sapere quello che sapevo io e non piú, lui comperava.
È vero che talvolta in commercio fu ben deciso a non far nulla, cioè a non comperare né vendere, ma anche questa mi parve una risoluzione di persona che crede di saper molto.
Io sarei stato piú dubbioso anche nell'inerzia.
In quegli acquisti fui molto prudente.
Corsi dall'Olivi a prendere le misure per i copialettere e per i libri di contabilità.
Poi il giovine Olivi m'aiutò ad aprire i libri e mi spiegò anche una volta la contabilità a partita doppia, tutta roba non difficile, ma che si dimentica tanto facilmente.
Quando si sarebbe arrivati al bilancio, egli m'avrebbe spiegato anche quello.
Non sapevamo ancora quello che avremmo fatto in quell'ufficio (adesso so che neppure Guido allora lo sapeva) e si discuteva di tutta la nostra organizzazione.
Ricordo che per giorni si parlò dove avremmo messi gli altri impiegati se di essi avessimo avuto bisogno.
Guido suggeriva di metterne quanti potessero capirvi nella Cassa.
Ma il piccolo Luciano, l'unico nostro impiegato per il momento, dichiarava che là dove c'era la cassa, non potessero esserci altre persone fuori di quelle addette alla cassa stessa.
Era ben dura di dover accettare delle lezioni dal nostro galoppino! Io ebbi un'ispirazione:
- A me sembra di ricordare che in Inghilterra si paghi tutto con assegni.
Era una cosa che m'era stata detta a Trieste.
- Bravo! - disse Guido.
- Anch'io lo ricordo ora.
Curioso che l'avevo dimenticato!
Si mise a spiegare a Luciano in lungo e in largo come non si usasse piú di maneggiare tanto denaro.
Gli assegni giravano dall'uno all'altro in tutti gl'importi che si voleva.
Fu una bella vittoria la nostra, e Luciano tacque.
Costui ebbe un grande vantaggio da quanto apprese da Guido.
Il nostro galoppino è oggidí un commerciante di Trieste assai rispettato.
Egli mi saluta ancora con una certa umiltà attenuata da un sorriso.
Guido spendeva sempre una parte della giornata ad insegnare dapprima a Luciano, poi a me e quindi all'impiegata.
Ricordo ch'egli aveva accarezzato per lungo tempo l'idea di fare il commercio in commissione per non arrischiare il proprio denaro.
Spiegò l'essenza di tale commercio a me e, visto che evidentemente io capivo troppo presto, si mise a spiegarlo a Luciano che per molto tempo stette a sentirlo coi segni della piú viva attenzione, i grandi occhi lucenti nella faccia ancora imberbe.
Non si può dire che Guido abbia perduto il suo tempo, perché Luciano è il solo fra di noi che sia riuscito in quel genere di commercio.
Eppoi si dice che la scienza è quella che vince!
Intanto da Buenos Aires arrivarono i pesos.
Fu un affare serio! A me era parsa dapprima una cosa facile, ma invece il mercato di Trieste non era preparato a quella moneta esotica.
Ebbimo di nuovo bisogno del giovine Olivi che c'insegnò il modo di realizzare quegli assegni.
Poi, perché a un dato punto fummo lasciati soli, sembrando all'Olivi di averci condotti a buon porto, Guido si trovò per varii giorni con le tasche gonfie di corone, finché non trovammo la via ad una Banca che ci sbrigò dell'incomodo fardello consegnandoci un libretto assegni di cui presto apprendemmo a far uso.
Guido sentí il bisogno di dire all'Olivi che gli facilitava il cosidetto impianto:
- Le assicuro che non farò mai la concorrenza alla ditta del mio amico!
Ma il giovinotto che del commercio aveva un altro concetto, rispose:
- Magari ci fosse un maggior numero di contraenti nei nostri articoli.
Si starebbe meglio!
Guido restò a bocca aperta, comprese troppo bene come gli succedeva sempre e si attaccò a quella teoria che propinò a chi la volle.
Ad onta della sua Scuola Superiore, Guido aveva un concetto poco preciso del dare e dell'avere.
Stette a guardare con sorpresa come io costituii il Conto Capitale ed anche come registrai le spese.
Poi fu tanto dotto di contabilità che quando gli si proponeva un affare, lo analizzava prima di tutto dal punto di vista contabile.
Gli pareva addirittura che la conoscenza della contabilità conferisse al mondo un nuovo aspetto.
Egli vedeva nascere debitori e creditori dappertutto anche quando due si picchiavano o si baciavano.
Si può dire ch'egli entrò in commercio armato della massima prudenza.
Rifiutò una quantità di affari ed anzi per sei mesi li rifiutò tutti con l'aria tranquilla di chi sa meglio:
- No! - diceva, e il monosillabo pareva il risultato di un calcolo preciso anche quando si trattava di un articolo ch'egli non aveva mai visto.
Ma tutta quella riflessione era stata sprecata a vedere come l'affare eppoi il suo eventuale beneficio o la sua perdita avrebbe dovuto passare traverso ad una contabilità.
Era l'ultima cosa ch'egli avesse appreso e s'era sovrapposta a tutte le sue nozioni.
Mi duole di dover dire tanto male del mio povero amico, ma devo essere veritiero anche per intendere meglio me stesso.
Ricordo quanta intelligenza egli impiegò per ingombrare il nostro piccolo ufficio di fantasticherie che c'impedivano ogni sana operosità.
A un dato punto, per iniziare il lavoro in commissione, lanciammo per posta un migliaio di circolari.
Guido fece questa riflessione:
- Quanti francobolli risparmiati se prima di spedire queste circolari sapessimo quali di esse raggiungeranno le persone che le considereranno!
La frase sola non avrebbe impedito nulla, ma egli se ne compiacque troppo e cominciò a gettare per aria le circolari chiuse per spedire solo quelle che cadevano dalla parte dell'indirizzo.
L'esperimento ricordava qualche cosa di simile ch'io avevo fatto in passato, ma tuttavia a me sembra di non essere mai arrivato a tale punto.
Naturalmente io non raccolsi né spedii le circolari da lui eliminate, perché non potevo essere certo che non ci fosse stata realmente una seria ispirazione che lo avesse diretto in quell'eliminazione e dovessi perciò non sprecare i francobolli che toccava di pagare a lui.
La mia buona sorte m'impedí di venir rovinato da Guido, ma la stessa buona sorte m'impedí pure di prendere una parte troppo attiva nei suoi affari.
Lo dico ad alta voce perché altri a Trieste pensa che non sia stato cosí: durante il tempo che passai con lui, non intervenni mai con un'ispirazione qualunque, del genere di quelle della frutta secca.
Mai lo spinsi ad un affare e mai gliene impedii alcuno.
Ero l'ammonitore! Lo spingevo all'attività, all'oculatezza.
Ma non avrei osato di gettare sul tavolo da giuoco i suoi denari.
Accanto a lui io mi feci molto inerte.
Cercai di metterlo sulla retta via e forse non ci riuscii per troppa inerzia.
Del resto, quando due si trovano insieme, non spetta loro di decidere chi dei due deve essere Don Quijote e chi Sancio Panza.
Egli faceva l'affare ed io da buon Sancio lo seguivo lento lento nei miei libri dopo di averlo esaminato e criticato come dovevo.
Il commercio in commissione fiascheggiò completamente, ma senz'arrecarci alcun danno.
Il solo che c'inviò delle merci fu un cartolaio di Vienna, e una parte di quegli oggetti di cancelleria furono venduti da Luciano che pian pianino arrivò a sapere quanta commissione ci spettasse e se la fece concedere quasi tutta da Guido.
Guido finí con l'accondiscendere perché erano piccolezze, eppoi perché il primo affare liquidato cosí doveva portare fortuna.
Questo primo affare ci lasciò lo strascico nel camerino dei ripostigli di una quantità di oggetti di cancelleria che dovemmo pagare e tenere.
Ne avevamo per il consumo di molti anni di una casa commerciale ben piú attiva della nostra.
Per un paio di mesi quel piccolo ufficio luminoso, nel centro della città, fu per noi un ritrovo gradevole.
Vi si lavorava ben poco (io credo vi si abbiano conchiusi in tutto due affari in imballaggi usati vuoti per i quali nello stesso giorno s'incontrarono da noi la domanda e l'offerta e da cui ricavammo un piccolo utile) e vi si chiacchierava molto, da buoni ragazzi, anche con quell'innocente di Luciano, il quale, quando si parlava d'affari, s'agitava come altri della sua età quando sente dire di donne.
Allora m'era facile di divertirmi da innocente con gl'innocenti perché non avevo ancora perduta Carla.
E di quell'epoca ricordo con piacere la giornata intera.
La sera, a casa, avevo molte cose da raccontare ad Augusta e potevo dirle tutte quelle che si riferivano all'ufficio, senz'alcun'eccezione e senza dover aggiungervi qualche cosa per falsarle.
Non mi preoccupava affatto quando Augusta impensierita esclamava:
- Ma quando comincerete a guadagnare dei denari?
Denari? A quelli non ci avevamo ancora neppur pensato.
Noi sapevamo che prima bisognava fermarsi a guardare, studiare le merci, il paese e anche il nostro Hinterland.
Non s'improvvisava mica cosí una casa di commercio! E anche Augusta s'acquietava alle mie spiegazioni.
Poi nel nostro ufficio fu ammesso un ospite molto rumoroso.
Un cane da caccia di pochi mesi, agitato e invadente.
Guido lo amava molto e aveva organizzato per lui un approvvigionamento regolare di latte e di carne.
Quando non avevo da fare né da pensare, lo vedevo anch'io con piacere saltellare per l'ufficio in quei quattro o cinque atteggiamenti che noi sappiamo interpretare dal cane e che ce lo rendono tanto caro.
Ma non mi pareva fosse al suo posto con noi, cosí rumoroso e sudicio! Per me la presenza di quel cane nel nostro ufficio, fu la prima prova che Guido forní di non essere degno di dirigere una casa commerciale.
Ciò provava un'assenza assoluta di serietà.
Tentai di spiegargli che il cane non poteva promovere i nostri affari, ma non ebbi il coraggio di insistere ed egli con una risposta qualunque mi fece tacere.
Perciò mi parve di dover dedicarmi io all'educazione di quel mio collega e gli assestai con grande voluttà qualche calcio quando Guido non c'era.
Il cane guaiva e dapprima ritornava a me credendo io l'avessi urtato per errore.
Ma un secondo calcio gli spiegava meglio il primo ed allora egli si rincantucciava e finché Guido non arrivava nell'ufficio non v'era pace.
Mi pentii poi di aver imperversato su di un innocente, ma troppo tardi.
Colmai il cane di gentilezze, ma esso non si fidò piú di me ed in presenza di Guido diede chiaro segno della sua antipatia.
- Strano! - disse Guido.
- Fortuna che so chi tu sia, perché altrimenti diffiderei di te.
I cani di solito non sbagliano con le loro antipatie.
Per far dileguare i sospetti di Guido, quasi quasi gli avrei raccontato in quale modo io avevo saputo conquistarmi l'antipatia del cane.
Ebbi presto una scaramuccia con Guido su una questione che veramente non avrebbe dovuto importarmi tanto.
Occupatosi con tanta passione di contabilità, egli si mise in capo di mettere le sue spese di famiglia nel conto delle spese generali.
Dopo di essermi consultato con l'Olivi, io mi vi opposi e difesi gl'interessi del vecchio Cada.
Non era infatti possibile di mettere in quel conto tutto ciò che spendeva Guido, Ada eppoi anche quello che costarono i due gemelli quando nacquero.
Erano delle spese che incombevano personalmente a Guido e non alla ditta.
Poi, in compenso, suggerii di scrivere a Buenos Aires per accordarsi per un salario per Guido.
Il padre si rifiutò di concederlo osservando che Guido percepiva già il settantacinque per cento dei benefici mentre a lui non toccava che il residuo.
A me parve una risposta giusta mentre Guido si mise a scrivere delle lunghe lettere al padre per discutere la questione da un punto di vista superiore, come egli diceva.
Buenos Aires era molto lontana e cosí la corrispondenza durò finché durò la nostra casa.
Ma io vinsi il mio punto! Il conto spese generali rimase puro e non fu inquinato dalle spese particolari di Guido e il capitale fu compromesso intero dal crollo della casa, ma proprio intero senza deduzioni.
La quinta persona ammessa nel nostro ufficio (calcolando anche Argo) fu Carmen.
Io assistetti alla sua assunzione all'impiego.
Ero venuto all'ufficio dopo di essere stato da Carla e mi sentivo molto sereno, di quella serenità delle otto di mattina del principe di Taillerand.
Nell'oscuro corridoio vidi una signorina, e Luciano mi disse ch'essa voleva parlare con Guido in persona.
Io avevo qualche cosa da fare e la pregai di attendere là fuori.
Guido entrò poco dopo nella nostra stanza evidentemente senz'aver vista la signorina e Luciano venne a porgergli il biglietto di presentazione di cui la signorina era fornita.
Guido lo lesse eppoi:
- No! - disse seccamente levandosi la giubba perché faceva caldo.
Ma subito dopo ebbe un'esitazione:
- Bisognerà che le parli per riguardo a chi la raccomanda.
La fece entrare ed io la guardai soltanto quando vidi che Guido s'era gettato con un balzo sulla propria giubba per indossarla e s'era rivolto alla fanciulla con la bella faccia bruna arrossata e gli occhi scintillanti.
Ora io sono sicuro di aver viste delle fanciulle altrettanto belle di Carmen, ma non di una bellezza tanto aggressiva cioè tanto evidente alla prima occhiata.
Di solito le donne prima si creano per il proprio desiderio mentre questa non aveva il bisogno di tale prima fase.
Guardandola sorrisi e anche risi.
Mi pareva simile ad un industriale che corresse per il mondo gridando l'eccellenza dei suoi prodotti.
Si presentava per avere un impiego, ma io avrei avuto voglia d'intervenire nelle trattative per domandarle: - Quale impiego? Per un'alcova?
Io vidi che la sua faccia non era tinta, ma i colori ne erano tanto precisi, tanto azzurro il candore e tanto simile a quello delle frutta mature il rossore, che l'artificio vi era simulato alla perfezione.
I suoi grandi occhi bruni rifrangevano una tale quantità di luce che ogni loro movimento aveva una grande importanza.
Guido l'aveva fatta sedere ed essa modestamente guardava la punta del proprio ombrellino o piú probabilmente il proprio stivaletto verniciato.
Quand'egli le parlò, essa levò rapidamente gli occhi e glieli rivolse sulla faccia cosí luminosi, che il mio povero principale ne fu proprio abbattuto.
Era vestita modestamente, ma ciò non le giovava perché ogni modestia sul suo corpo s'annullava.
Solo gli stivaletti erano di lusso e ricordavano un po' la carta bianchissima che Velasquez metteva sotto ai piedi dei suoi modelli.
Anche Velasquez, per staccare Carmen dall'ambiente, l'avrebbe poggiata sul nero di lacca.
Nella mia serenità io stetti a sentire curiosamente, Guido le domandò se conoscesse la stenografia.
Essa confessò di non conoscerla affatto, ma aggiunse che aveva una grande pratica di scrivere sotto dettatura.
Curioso! Quella figura alta, slanciata e tanto armonica, produceva una voce roca.
Non seppi celare la mia sorpresa:
- È raffreddata? - le domandai.
- No! - mi rispose - Perché me lo domanda? - e fu tanto sorpresa che l'occhiata in cui m'avvolse fu anche piú intensa.
Non sapeva di avere una voce tanto stonata ed io dovetti supporre che anche il suo piccolo orecchio non fosse tanto perfetto come appariva.
Guido le domandò se conoscesse l'inglese, il francese o il tedesco.
Egli le lasciava la scelta visto che noi ancora non sapevamo di quale lingua avremmo avuto bisogno.
Carmen rispose che sapeva un po' di tedesco, ma pochissimo.
Guido non prendeva mai alcuna decisione senza ragionare:
- Noi non abbiamo bisogno del tedesco perché lo so molto bene io.
La signorina aspettava la parola decisiva che a me pareva fosse già stata detta e, per affrettarla, raccontò ch'essa nel nuovo impiego cercava anche la possibilità d'impratichirsi e che perciò si sarebbe contentata di un salario ben modesto.
Uno dei primi effetti della bellezza femminile su di un uomo è quello di levargli l'avarizia.
Guido si strinse nelle spalle per significare che di cose tanto insignificanti non si occupava, le stabilí il salario ch'essa riconoscente accettò e le raccomandò con grande serietà di studiare la stenografia.
Questa raccomandazione egli la fece solo per riguardo a me col quale s'era compromesso dichiarando che il primo impiegato ch'egli avrebbe assunto sarebbe stato uno stenografo perfetto.
Quella sera stessa raccontai del mio nuovo collega a mia moglie.
Essa ne fu oltremodo spiacente.
Senza ch'io gliel'avessi detto, essa pensò subito che Guido avesse assunta al suo servizio quella fanciulla per farsene un'amante.
Io discussi con lei e, pur ammettendo che Guido si comportava un poco da innamorato, asserii ch'egli avrebbe potuto riaversi da quel colpo di fulmine senza che vi fossero delle conseguenze.
La fanciulla, in complesso, pareva dabbene.
Pochi giorni dopo - non so se per caso - ebbimo in ufficio la visita di Ada.
Guido non c'era ancora ed essa si fermò con me per un istante per domandarmi a che ora sarebbe venuto.
Poi, con passo esitante, si recò nella stanza vicina ove in quel momento non c'erano che Carmen e Luciano.
Carmen stava esercitandosi alla macchina da scrivere, tutt'assorta a rintracciarvi le singole lettere.
Alzò i begli occhi per guardare Ada che la fissava.
Come erano differenti le due donne! Si somigliavano un poco, ma Carmen pareva un'Ada caricata.
Io pensai che veramente l'una che pur era vestita piú riccamente, fosse fatta per divenire una moglie o una madre mentre all'altra, ad onta che in quell'istante portasse un modesto grembiule per non insudiciare il suo vestito alla macchina, toccava la parte di amante.
Non so se a questo mondo vi sieno dei dotti che saprebbero dire perché il bellissimo occhio di Ada adunasse meno luce di quello di Carmen e fosse perciò un vero organo per guardare le cose e le persone e non per sbalordirle.
Cosí Carmen ne sopportò benissimo l'occhiata sdegnosa, ma anche curiosa; v'era dentro fors'anche un poco d'invidia, o ve la misi io?
Questa fu l'ultima volta in cui io vidi Ada ancora bella, proprio quale s'era rifiutata a me.
Poi venne la sua disastrosa gravidanza e i due gemelli ebbero bisogno dell'intervento del chirurgo per venire all'aria.
Subito dopo fu colpita da quella malattia che le tolse ogni bellezza.
Perciò io ricordo tanto bene quella visita.
Ma la ricordo anche perché in quel momento tutta la mia simpatia andò a lei dalla bellezza mite e modesta abbattuta da quella tanto differente dell'altra.
Io non amavo certo Carmen e non ne sapevo altro che i magnifici occhi, gli splendidi colori, poi la voce roca e infine il modo - di cui essa era innocente - come era stata ammessa lí dentro.
Volli invece proprio bene ad Ada in quel momento, ed è una cosa ben strana di voler bene ad una donna che si desiderò ardentemente, che non si ebbe e di cui ora non importa niente.
In complesso si arriva cosí alle stesse condizioni in cui ci si troverebbe qualora essa avesse aderito ai nostri desiderii, ed è sorprendente di poter constatare ancora una volta come certe cose per cui viviamo hanno una ben piccola importanza.
Volli abbreviarle il dolore e la precedetti all'altra stanza.
Guido, che subito dopo entrò, si fece molto rosso alla vista della moglie.
Ada gli disse una ragione plausibilissima per cui era venuta, ma subito dopo e in atto di lasciarci, gli domandò:
- Avete assunto in ufficio una nuova impiegata?
- Si! - disse Guido e, per celare la sua confusione, non trovò di meglio che d'interrompersi per domandare se qualcuno fosse venuto a cercarlo.
Poi, avuta la mia risposta negativa, ebbe ancora una smorfia di dispiacere come se avesse sperata una visita importante, mentre io sapevo che non aspettavamo proprio nessuno e appena allora disse ad Ada con un aspetto d'indifferenza che finalmente gli riuscí di assumere:
- Avevamo bisogno di uno stenografo!
Io mi divertii moltissimo all'udire ch'egli sbagliava anche il sesso della persona di cui aveva bisogno.
La venuta di Carmen apportò una grande vita nel nostro ufficio.
Non parlo della vivacità che veniva dai suoi occhi, dalla gentile sua figura e dai colori della sua faccia; parlo proprio di affari.
Guido ebbe una spinta al lavoro dalla presenza di quella fanciulla.
Prima di tutto volle dimostrare a me e a tutti gli altri che la nuova impiegata era necessaria, ed ogni giorno inventava dei nuovi lavori cui partecipava anche lui.
Poi, per lungo tempo, la sua attività fu un mezzo per corteggiare piú efficacemente la fanciulla.
Raggiunse un'efficacia inaudita.
Doveva insegnarle la forma della lettera ch'egli dettava e correggerle l'ortografia di molte moltissime parole.
Lo fece sempre dolcemente.
Qualunque compenso da parte della fanciulla non sarebbe stato eccessivo.
Pochi degli affari inventati da lui in amore gli diedero un frutto.
Una volta lavorò lungamente intorno ad un affare in un articolo che risultò essere proibito.
Ci trovammo ad un certo punto di fronte ad un uomo dalla faccia contratta dal dolore sui cui calli noi, senza saperlo, eravamo montati.
Voleva sapere quest'uomo che cosa c'entrassimo noi in quell'articolo e supponeva fossimo stati mandatarii di potenti concorrenti esteri.
La prima volta era sconvolto e temeva il peggio.
Quando indovinò la nostra ingenuità, ci rise in faccia e ci assicurò che non saremmo riusciti a nulla.
Finí ch'ebbe ragione, ma prima che ci acconciassimo alla condanna durò non poco tempo e da Carmen furono scritte non poche lettere.
Trovammo che l'articolo era irraggiungibile perché circondato da trincee.
Io non dissi nulla di tale affare ad Augusta, ma essa ne parlò a me perché Guido ne aveva parlato ad Ada per dimostrarle quanto da fare avesse il nostro stenografo.
Ma l'affare che non fu fatto, rimase molto importante per Guido.
Ne parlò ogni giorno.
Era convinto che in nessun'altra città del mondo sarebbe avvenuta una cosa simile.
Il nostro ambiente commerciale era miserabile ed ogni commerciante intraprendente vi veniva strangolato.
Cosí toccava anche a lui
Nella folle, disordinata sequela di affari che in quell'epoca passò per le nostre mani, ve ne fu uno che addirittura ce le bruciò.
Non lo cercammo noi; fu l'affare che ci assaltò.
Vi fummo cacciati dentro da un dalmata, certo Tacich, il cui padre aveva lavorato all'Argentina col padre di Guido.
Venne dapprima a trovarci solo per avere da noi delle informazioni commerciali che noi seppimo procurargli.
Il Tacich era un bellissimo giovine, anzi troppo bello.
Alto, forte, aveva una faccia olivastra in cui si fondevano in un'intonazione deliziosa l'azzurro fosco degli occhi, le lunghe sopracciglia e i brevi folti mustacchi bruni dai riflessi aurei.
Insomma v'era in lui un tale intonato studio di colore che a me parve l'uomo nato per accompagnarsi a Carmen.
Anche a lui parve cosí e venne a trovarci ogni giorno.
La conversazione nel nostro ufficio durava ogni giorno per delle ore, ma non fu mai noiosa.
I due uomini lottavano per conquistare la donna e, come tutti gli animali in amore, sfoggiavano le loro migliori qualità.
Guido era un po' trattenuto dal fatto che il dalmata veniva a trovarlo anche a casa sua e conosceva perciò Ada, ma niente poteva piú danneggiarlo agli occhi di Carmen; io, che conoscevo tanto bene quegli occhi, lo seppi subito, mentre il Tacich lo apprese molto piú tardi e, per avere piú frequente il pretesto di vederla, comperò da noi anziché dal fabbricante, varii vagoni di sapone che pagò per qualche percento piú cari.
Poi, sempre per amore, ci ficcò in quell'affare disastroso.
Suo padre aveva osservato che, costantemente, in certe stagioni, il solfato di rame saliva e in altre calava di prezzo.
Decise perciò di comperarne per speculazione nel momento piú favorevole, in Inghilterra, una sessantina di tonnellate.
Noi parlammo a lungo di quell'affare ed anzi lo preparammo mettendoci in relazione con una casa inglese.
Poi il padre telegrafò al figlio che il buon momento gli sembrava giunto e disse anche il prezzo al quale sarebbe stato disposto di concludere l'affare.
Il Tacich, innamorato com'era, corse da noi e ci consegnò l'affare avendone in premio una bella, grande, carezzevole occhiata da Carmen.
Il povero dalmata incassò riconoscente l'occhiata non sapendo ch'era una manifestazione d'amore per Guido.
Mi ricordo la tranquillità e la sicurezza con cui Guido s'accinse all'affare che infatti si presentava facilissimo perché in Inghilterra si poteva fissare la merce per consegna al nostro porto donde veniva ceduta, senz'esserne rimossa, al nostro compratore.
Egli fissò esattamente l'importo che voleva guadagnare e col mio aiuto stabilí quale limite dovesse stabilire al nostro amico inglese per l'acquisto.
Con l'aiuto del vocabolario combinammo insieme il dispaccio in inglese.
Una volta speditolo, Guido si fregò le mani e si mise a calcolare quante corone gli sarebbero piovute in cassa in premio di quella lieve e breve fatica.
Per tenersi favorevoli gli dei, trovò giusto di promettere una piccola provvigione a me e quindi, con qualche malizia, anche a Carmen che all'affare aveva collaborato con i suoi occhi.
Ambedue volemmo rifiutare, ma egli ci supplicò di fingere almeno di accettare.
Temeva altrimenti il nostro malocchio ed io lo compiacqui subito per rassicurarlo.
Sapevo con certezza matematica che da me non potevano venirgli che i migliori auguri, ma capivo ch'egli potesse dubitarne.
Quaggiú quando non ci vogliamo male ci amiamo tutti, ma però i nostri vivi desideri accompagnano solo gli affari cui partecipiamo.
L'affare fu vagliato in tutti i sensi ed anzi ricordo che Guido calcolò persino per quanti mesi, col beneficio che ne avrebbe tratto, avrebbe potuto mantenere la sua famiglia e l'ufficio, cioè le sue due famiglie, come egli diceva talvolta o i suoi due uffici come diceva tale altra quando si seccava molto in casa.
Fu vagliato troppo, quell'affare, e non riuscí forse per questo.
Da Londra capitò un breve dispaccio: Notato eppoi l'indicazione del prezzo di quel giorno del solfato, piú elevato di molto di quello concessoci dal nostro compratore.
Addio affare.
Il Tacich ne fu informato e poco dopo abbandonò Trieste.
In quell'epoca io cessai per circa un mese di frequentare l'ufficio e perciò, per le mie mani, non passò una lettera che giunse alla ditta, dall'aspetto inoffensivo, ma che doveva avere gravi conseguenze per Guido.
Con essa, quella ditta inglese ci confermava il suo dispaccio e finiva con l'informarci che notava il nostro ordine valido sino a revoca.
Guido non ci pensò affatto di dare tale revoca ed io, quando ritornai in ufficio, non ricordai piú quell'affare.
Cosí varii mesi appresso, una sera, Guido venne a cercarmi a casa con un dispaccio ch'egli non intendeva e che credeva fosse stato indirizzato a noi per errore ad onta che portasse chiaro il nostro indirizzo telegrafico che io avevo fatto regolarmente notare non appena fummo installati nel nostro ufficio.
Il dispaccio conteneva solo tre parole: 60 tons settled, ed io lo intesi subito, ciò che non era difficile perché quello del solfato di rame era il solo affare grosso che avessimo trattato.
Glielo dissi: si capiva da quel dispaccio che il prezzo, che noi avevamo fissato per l'esecuzione del nostro ordine, era stato raggiunto e che perciò eravamo felici proprietari di sessanta tonnellate di solfato di rame.
Guido protestò:
- Come si può pensare ch'io accetti tanto in ritardo l'esecuzione del mio ordine?
Pensai subito io che nel nostro ufficio dovesse esserci la lettera di conferma del primo dispaccio, mentre Guido non ricordava di averla ricevuta.
Lui, inquieto, propose di correre subito all'ufficio per vedere se ci fosse, ciò che mi fu molto gradito perché mi seccava quella discussione dinanzi ad Augusta la quale ignorava che io per un mese non m'ero fatto vedere in ufficio.
Corremmo all'ufficio.
Guido era tanto dispiacente di vedersi costretto a quel primo grande affare che, per esimersene, sarebbe corso fino a Londra.
Aprimmo l'ufficio; poi, a tastoni nell'oscurità, trovammo la via alla nostra stanza e raggiungemmo il gas, per accenderlo.
Allora la lettera fu subito trovata ed era fatta come io l'avevo supposta; c'informava cioè che il nostro ordine valido sino a revoca era stato eseguito.
Guido guardò la lettera con la fronte contratta non so se dal dispiacere o dallo sforzo di voler annientare col suo sguardo quanto si annunciava esistente con tanta semplicità di parola.
- E pensare - osservò - che sarebbe bastato di scrivere due parole per risparmiarsi un danno simile.
Non era certo un rimprovero diretto a me perché io ero stato assente dall'ufficio e, per quanto avessi saputo trovare subito la lettera sapendo ove doveva trovarsi, prima di allora non l'avevo mai vista.
Ma per nettarmi piú radicalmente da ogni rimprovero, lo rivolsi deciso a lui:
- Durante la mia assenza avresti pur dovuto leggere accuratamente tutte le lettere!
La fronte di Guido si spianò.
Alzò le spalle e mormorò:
- Può ancora finire coll'essere una fortuna quest'affare.
Poco dopo mi lasciò ed io ritornai a casa mia.
Ma il Tacich ebbe ragione: in certe stagioni il solfato di rame andava giú, giú, ogni giorno piú giú e noi avevamo nell'esecuzione del nostro ordine e nella immediata impossibilità di cedere la merce a quel prezzo ad altri, l'opportunità di studiare tutto il fenomeno.
La nostra perdita aumentò.
Il primo giorno Guido mi domandò consiglio.
Avrebbe potuto vendere con una perdita piccola in confronto di quella che dovette sopportare poi.
Io non volli dare dei consigli, ma non trascurai di ricordargli la convinzione del Tacich secondo la quale il ribasso avrebbe dovuto continuare per oltre cinque mesi.
Guido rise:
- Adesso non mi mancherebbe altro che farmi dirigere nei miei affari da un provinciale!
Ricordo che tentai pure di correggerlo, dicendogli che quel provinciale da molti anni passava il suo tempo nella piccola cittadina dalmata a guardare il solfato di rame.
Io non posso avere alcun rimorso per la perdita che Guido subí in quell'affare.
Se mi avesse ascoltato gli sarebbe stata risparmiata.
Piú tardi discutemmo l'affare del solfato di rame con un agente, un uomo piccolo, grassoccio, vivo e accorto, che ci biasimò di aver fatto quell'acquisto, ma che non sembrava di dividere l'opinione del Tacich.
Secondo lui il solfato di rame, per quanto facesse un mercato a sé, pur risentiva la fluttuazione del prezzo del metallo.
Guido da quell'intervista acquistò una certa sicurezza.
Pregò l'agente di tenerlo informato di ogni movimento nel prezzo; avrebbe aspettato volendo vendere non soltanto senza perdita, ma con un piccolo utile.
L'agente rise discretamente eppoi nel corso del discorso disse una parola ch'io notai perché mi parve molto vera:
- Curioso come a questo mondo vi sia poca gente che si rassegni a perdite piccole; sono le grandi che inducono immediatamente alla grande rassegnazione.
Guido non ne fece caso.
Io ammirai però anche lui, perché all'agente non raccontò per quale via noi fossimo arrivati a quell'acquisto.
Glielo dissi ed egli ne menò vanto.
Avrebbe temuto, mi disse, di screditare noi e anche la nostra merce raccontando la storia di quell'acquisto.
Poi, per parecchio tempo, non parlammo piú del solfato, finché cioè non venne da Londra una lettera con la quale ci si invitava al pagamento e a dare istruzioni per la spedizione.
Ricevere, immagazzinare sessanta tonnellate! A Guido cominciò a girare la testa.
Facemmo i calcoli di quanto avremmo speso per conservare tale merce per varii mesi.
Una somma enorme! Io non dissi niente, ma il sensale che volontieri avrebbe vista la merce arrivare a Trieste perché allora prima o poi avrebbe avuto lui l'incarico di venderla, fece osservare a Guido che quella somma che a lui pareva enorme, non era gran cosa se espressa in «percenti» sul valore della merce.
Guido si mise a ridere perché l'osservazione gli pareva strana:
- Io non ho mica soli cento chili di solfato; ne ho sessanta tonnellate, purtroppo!
Egli avrebbe finito col lasciarsi convincere dal calcolo dell'agente, evidentemente giusto, visto che con un piccolo movimento in sú del prezzo, le spese sarebbero state coperte ad usura, se in quel momento non fosse stato arrestato da una sua cosidetta ispirazione.
Quando gli avveniva di avere un'idea commerciale proprio sua, egli ne era addirittura allucinato e non c'era posto nella sua mente per altre considerazioni.
Ecco la sua idea: la merce gli era stata venduta franco Trieste da gente che doveva pagarne il trasporto dall'Inghilterra.
Se egli ora avesse ceduta la merce ai suoi stessi venditori che avrebbero perciò risparmiate le spese per tale trasporto, egli avrebbe potuto fruire di un prezzo ben piú vantaggioso di quello che gli veniva offerto a Trieste.
La cosa non era tanto vera, ma, per fargli piacere, nessuno la discusse.
Una volta liquidata la faccenda, egli ebbe un sorriso un po' amarognolo sulla sua faccia che allora parve proprio di pensatore pessimista e disse:
- Non ne parliamo piú.
La lezione fu alquanto cara; bisogna ora saperne approfittare.
Invece se ne parlò ancora.
Egli non ebbe mai piú quella sua bella sicurezza nel rifiutare degli affari e, quando alla fine d'anno gli feci vedere quanti denari avevamo perduti, egli mormorò:
- Quel maledetto solfato di rame fu la mia disgrazia! Sentivo sempre il bisogno di rimettermi di quella perdita!
La mia assenza dall'ufficio era stato provocato dall'abbandono di Carla.
Non avevo piú potuto assistere agli amori di Carmen e Guido.
Essi si guardavano, si sorridevano, in mia presenza.
Me ne andai sdegnosamente con una risoluzione che presi di sera al momento di chiudere l'ufficio e senza dirne nulla a nessuno.
M'aspettavo che Guido m'avrebbe chiesta la ragione di tale abbandono e mi preparavo allora di dargli il fatto suo.
Io potevo essere molto severo con lui visto ch'egli non sapeva assolutamente nulla delle mie gite al Giardino Pubblico.
Era una specie di gelosia la mia, perché Carmen m'appariva quale la Carla di Guido, una Carla piú mite e sottomessa.
Anche con la seconda donna egli era stato piú fortunato di me, come con la prima.
Ma forse - e ciò mi forniva la ragione ad un nuovo rimprovero per lui - egli doveva anche tale fortuna a quelle sue qualità ch'io gl'invidiavo e che continuavo a considerare quali inferiori: parallelamente alla sua sicurezza sul violino, correva anche la sua disinvoltura nella vita.
Io oramai sapevo con certezza di aver sacrificata Carla ad Augusta.
Quando riandavo col pensiero a quei due anni di felicità che Carla m'aveva concessi, m'era difficile d'intendere come essa - essendo fatta nel modo che ora sapevo - avesse potuto sopportarmi per tanto tempo.
Non l'avevo io offesa ogni giorno per amore ad Augusta? Di Guido invece sapevo con certezza ch'egli avrebbe saputo godersi Carmen senza neppur ricordarsi di Ada.
Nel suo animo disinvolto due donne non erano di troppo.
Confrontandomi con lui, a me pareva di essere addirittura innocente.
Io avevo sposata Augusta senz'amore e tuttavia non sapevo tradirla senza soffrirne.
Forse anche lui aveva sposata Ada senz'amarla, ma - per quanto ora di Ada non m'importasse affatto - ricordavo l'amore ch'essa mi aveva ispirato e mi pareva che poiché io l'avevo amata tanto, al suo posto sarei stato anche piú delicato di quanto non lo fossi ora al mio.
Non fu Guido che venne a cercarmi.
Fui io che da solo ritornai a quell'ufficio a cercare il sollievo ad una grande noia.
Egli si comportò in conformità ai patti del nostro contratto secondo i quali io non avevo alcun obbligo ad un'attività regolare nei suoi affari e quando s'imbatteva in me a casa o altrove, mi dimostrava la solita grande amicizia di cui gli ero sempre grato e non sembrava ricordare ch'io avessi lasciato vuoto il posto a quel tavolo ch'egli aveva comperato per me.
Fra noi due non c'era che un solo imbarazzo: il mio.
Quando ritornai al mio posto m'accolse come se dall'ufficio io fossi stato assente per un giorno solo, m'espresse con calore il suo piacere di aver riconquistata la mia compagnia e, sentito il mio proposito di riprendere il mio lavoro, esclamò:
- Ho fatto dunque bene a non permettere a nessuno di toccare i tuoi libri!
Infatti trovai il mastro ed anche il giornale al punto ove li avevo lasciati.
Luciano mi disse:
- Speriamo che ora che lei è qui, ci moveremo di nuovo.
Penso che il signor Guido sia scoraggiato per un paio di affari che tentò e che non gli riuscirono.
Non gli dica nulla che io le parlo cosí, ma guardi se può incoraggiarlo.
M'accorsi infatti che in quell'ufficio si lavorava ben poco e finché la perdita subita col solfato di rame non ci vivificò, vi si menò una vita veramente idillica.
Io ne conclusi subito che Guido non sentisse piú tanto urgente il bisogno di lavorare per far muovere Carmen sotto la sua direzione e, altrettanto presto, che il periodo della corte da loro fosse passato e che oramai essa fosse divenuta la sua amante.
L'accoglienza di Carmen mi portò una sorpresa perché essa subito sentí il bisogno di ricordarmi una cosa che io avevo completamente dimenticata.
Pare che prima di abbandonare quell'ufficio, in quei giorni in cui ero corso dietro a tante donne perché non m'era stato piú possibile di raggiungere la mia, io avessi aggredita anche Carmen.
Essa mi parlò con grande serietà e con qualche imbarazzo: aveva piacere di rivedermi perché pensava io volessi bene a Guido e che i miei consigli potrebbero essergli utili, e voleva intrattenere con me - se io vi consentivo - una bella, una fraterna amicizia.
Mi disse proprio qualche cosa di simile porgendomi con gesto largo la sua destra.
Sulla sua faccia tanto bella che sempre pareva dolce, vi fu un atteggiamento molto severo per rilevare la pura fraternità della relazione che mi veniva offerta.
Allora ricordai e arrossii.
Forse se avessi ricordato prima, non sarei ritornato a quell'ufficio mai piú.
Era stata una cosa tanto breve e ficcata in mezzo a tante altre azioni dello stesso valore, che se ora non fosse stata ricordata, si avrebbe potuto credere non fosse esistita mai.
Pochi giorni dopo l'abbandono di Carla, io m'ero messo a esaminare i libri facendomi aiutare da Carmen e pian pianino, per veder meglio nella stessa pagina, avevo passato il mio braccio intorno alla sua vita che poi avevo stretta sempre piú.
Con un balzo Carmen s'era sottratta a me ed io allora avevo abbandonato l'ufficio.
Io avrei potuto difendermi con un sorriso inducendola a sorridere con me perché le donne sono tanto propense a sorridere di delitti siffatti! Avrei potuto dirle:
- Ho tentato una cosa che non m'è riuscita e me ne duole, ma non vi tengo rancore e voglio esservi amico finché non vi piacerà altrimenti.
O avrei potuto rispondere anche da persona seria, scusandomi con lei e anche con Guido:
- Scusatemi e non giudicatemi prima di sapere in quali condizioni io mi sia trovato allora.
Invece mi mancò la parola.
La mia gola - credo - era chiusa dal rancore solidificatovisi e non potevo parlare.
Tutte queste donne che mi respingevano risolutamente davano addirittura una tinta tragica alla mia vita.
Non avevo mai avuto un periodo tanto disgraziato.
Invece di una risposta non mi sarei trovato pronto che a digrignare i denti, cosa poca comoda dovendo celarla.
Forse mi mancò la parola anche pel dolore di veder cosí recisamente esclusa una speranza che tuttavia accarezzavo.
Non posso fare a meno di confessarlo: meglio che con Carmen non avrei potuto rimpiazzare l'amante ch'io avevo perduta, quella fanciulla tanto poco compromettente che non m'aveva chiesto altro che il permesso di vivermi accanto finché non domandò quello di non vedermi piú.
Un'amante in due è l'amante meno compromettente.
Certamente allora non avevo chiarite tanto bene le mie idee, ma le sentivo e adesso le so.
Divenendo l'amante di Carmen, io avrei fatto il bene di Ada e non avrei danneggiato di troppo Augusta.
Ambedue sarebbero state tradite molto meno che se Guido ed io avessimo avuta una donna intera per ciascuno.
La risposta a Carmen io la diedi varii giorni appresso, ma ancor oggidí ne arrossisco.
L'orgasmo in cui m'aveva gettato l'abbandono di Carla doveva sussistere tuttavia per farmi arrivare ad un punto simile.
Ne ho rimorso come di nessun'altra azione della mia vita.
Le parole bestiali che ci lasciamo scappare rimordono piú fortemente delle azioni piú nefande cui la nostra passione c'induca.
Naturalmente designo come parole solo quelle che non sono azioni, perché so benissimo che le parole di Jago, per esempio, sono delle vere e proprie azioni.
Ma le azioni, comprese le parole di Jago, si commettono per averne un piacere o un beneficio e allora tutto l'organismo, anche quella parte che poi dovrebbe erigersi a giudice, vi partecipa e diventa dunque un giudice molto benevolo.
Ma la stupida lingua agisce a propria e a soddisfazione di qualche piccola parte dell'organismo che senza di essa si sente vinta e procede alla simulazione di una lotta quando la lotta è finita e perduta.
Vuole ferire o vuole accarezzare.
Si muove sempre in mezzo a dei traslati mastodontici.
E quando son roventi, le parole scottano chi le ha dette.
Io avevo osservato ch'essa non aveva piú i colori che l'avevano fatta ammettere tanto prontamente nel nostro ufficio.
Mi figurai fossero andati perduti per una sofferenza che non ammisi avesse potuto essere fisica e l'attribuii all'amore per Guido.
Del resto noi uomini siamo molto inclinati a compiangere le donne che si abbandonarono agli altri.
Non vediamo mai quale vantaggio se ne possano aspettare.
Possiamo magari amare l'uomo di cui si tratta - come avveniva nel caso mio - ma non sappiamo neppur allora dimenticare come di solito vadano a finire quaggiú le avventure d'amore.
Sentii una sincera compassione per Carmen come non l'avevo sentita mai per Augusta o per Carla.
Le dissi: - E giacché avete avuta la gentilezza d'invitarmi ad esservi amico, mi permettereste di farvi degli ammonimenti?
Essa non me lo permise, perché, come tutte le donne in quei frangenti, anch'essa credette che ogni ammonimento sia un'aggressione.
Arrossí e balbettò: - Non capisco! Perché dice cosí? - E subito dopo, per farmi tacere: - Se avessi bisogno di consigli ricorrerei certamente a lei, signor Cosini.
Perciò non mi fu concesso di predicarle la morale e fu un danno per me.
Predicandole la morale certamente sarei arrivato ad un grado superiore di sincerità, magari tentando di prenderla di nuovo fra le mie braccia.
Non m'arrovellerei piú di aver voluto assumere quell'aspetto bugiardo di Mentore.
Per varii giorni di ogni settimana, Guido non si faceva neppur vedere in ufficio perché s'era appassionato alla caccia e alla pesca.
Io, invece, dopo il mio ritorno, per qualche tempo vi fui assiduo, occupatissimo nel mettere a giorno i libri.
Ero spesso solo con Carmen e Luciano che mi consideravano quale il loro capo ufficio.
Non mi pareva che Carmen soffrisse per l'assenza di Guido e mi figurai ch'essa l'amasse tanto da gioire al sapere che si divertiva.
Doveva anche essere avvisata dei giorni in cui egli sarebbe stato assente, perché non tradiva alcuna attesa ansiosa.
Sapeva da Augusta che Ada invece non era fatta cosí, perché si lagnava amaramente delle frequenti assenze del marito.
Del resto non era questa la sua unica lagnanza.
Come tutte le donne non amate, essa si lagnava con lo stesso calore delle offese grandi e di quelle piccole.
Non soltanto Guido la tradiva, ma quando era in casa suonava sempre il violino.
Quel violino, che m'aveva fatto tanto soffrire, era una specie di lancia di Achille per la varietà delle sue prestazioni.
Appresi ch'era passato anche per il nostro ufficio ove aveva promossa la corte a Carmen con delle bellissime variazioni sul «Barbiere».
Poi era ripartito perché in ufficio non occorreva piú ed era ritornato a casa ove risparmiava a Guido la noia di dover conversare con la moglie.
Fra me e Carmen non ci fu mai piú nulla.
Ben presto io ebbi per lei un sentimento d'indifferenza assoluta come se essa avesse cambiato di sesso, qualche cosa di simile a quello che provavo per Ada.
Una viva compassione per ambedue e nient'altro.
Proprio cosí!
Guido mi colmava di gentilezze.
Io credo che in quel mese in cui l'avevo lasciato solo, avesse imparato ad apprezzare la mia conpagnia.
Una donnina come Carmen può essere gradevole di tempo in tempo, ma non si può mica sopportarla per giornate intere.
Egli m'invitò a caccia e a pesca.
Aborro la caccia e decisamente mi rifiutai di accompagnarvelo.
Invece, una sera, spintovi dalla noia, finii con l'andare con lui a pesca.
Al pesce manca ogni mezzo di comunicazione con noi e non può destare la nostra compassione.
Se boccheggia anche quand'è sano e salvo in acqua! Persino la morte non ne altera l'aspetto.
Il suo dolore, se esiste, è celato perfettamente sotto le sue squame.
Quando un giorno m'invitò ad una pesca notturna, mi riservai di vedere se Augusta m'avrebbe permesso di uscire quella sera e di restar fuori tanto tardi.
Gli dissi che avrei ricordato che la sua barchetta si sarebbe staccata dal molo Sartorio alle nove di sera e che, potendo, mi vi sarei trovato.
Pensai perciò che anche lui dovette sapere subito che per quella sera non m'avrebbe riveduto e che come avevo fatto tante altre volte, non mi sarei recato all'appuntamento.
Invece quella sera fui cacciato di casa dalle strida della mia piccola Antonia.
Piú la madre l'accarezzava e piú la piccina strillava.
Allora tentai un mio sistema che consisteva nel gridar delle insolenze nel piccolo orecchio di quella scimmietta urlante.
N'ebbi il solo risultato di far cambiare il ritmo alle sue strida, perché si mise a gridare dallo spavento.
Poi avrei voluto tentare un altro sistema un poco piú energico, ma Augusta ricordò in tempo l'invito di Guido e m'accompagnò alla porta promettendomi di coricarsi sola se io non fossi rincasato che tardi.
Anzi, pur di mandarmi via, si sarebbe anche adattata di prendere senza di me il caffè la mattina appresso, se fossi rimasto fuori fino allora.
C'è un piccolo dissidio tra me e Augusta - l'unico - sul modo di trattare i bambini fastidiosi: a me pare che il dolore del bambino sia meno importante del nostro e che valga la pena d'infliggerglielo pur di risparmiare un grande disturbo all'adulto; a lei invece sembra che noi, che abbiamo fatti i bambini, dobbiamo anche subirli.
Avevo tutto il tempo per arrivare all'appuntamento e attraversai lentamente la città guardando le donne e nello stesso tempo inventando un ordigno speciale che avrebbe impedito ogni dissidio fra me ed Augusta.
Ma per il mio ordigno l'umanità non era abbastanza evoluta! Esso era destinato al futuro lontano e non poteva piú giovare a me se non dimostrandomi per quale piccola ragione si rendevano possibili le mie dispute con Augusta: la mancanza di un piccolo ordigno! Esso sarebbe stato semplice, un tramvai casalingo, una sediola fornita di ruote e rotaie sulla quale la mia bimba avrebbe passata la sua giornata: poi un bottone elettrico toccando il quale la sediola con la bimba urlante si sarebbe messa a correre via fino a raggiungere il punto piú lontano della casa donde la sua voce affievolita dalla lontananza ci sarebbe sembrata perfino gradevole.
Ed io ed Augusta saremmo rimasti insieme tranquilli ed affettuosi.
Era una notte ricca di stelle e priva di luna, una di quelle notti in cui si vede molto lontano e perciò addolcisce e quieta.
Guardai le stelle che avrebbero potuto ancora portare il segno dell'occhiata d'addio di mio padre moribondo.
Sarebbe passato il periodo orrendo in cui i miei bimbi sporcavano e urlavano.
Poi sarebbero stati simili a me; io li avrei amati secondo il mio dovere e senza sforzo.
Nella bella, vasta notte mi rasserenai del tutto e senz'aver bisogno di fare dei propositi.
Alla punta del molo Sartorio le luci provenienti dalla città erano tagliate dall'antica casetta da cui sporge la punta stessa quale una breve fondamenta.
L'oscurità era perfetta e l'acqua alta e fosca e quieta mi pareva pigramente gonfia.
Non guardai piú né il cielo né il mare.
A pochi passi da me c'era una donna che destò la mia curiosità per uno stivaletto verniciato che per un istante brillò nell'oscurità.
Nel breve spazio e nel buio, a me parve che quella donna alta e forse elegante, si trovasse chiusa in una stanza con me.
Le avventure piú gradevoli possono capitare quando meno ci si pensa, e vedendo che quella donna tutt'ad un tratto deliberatamente s'avvicinava, ebbi per un istante un sentimento piacevolissimo, che sparve subito quando sentii la voce roca di Carmen.
Voleva fingere di aver piacere d'apprendere ch'ero anch'io della partita.
Ma nell'oscurità e con quella specie di voce non si poteva fingere.
Le dissi rudemente:
- Guido m'ha invitato.
Ma se volete, io trovo altro da fare e vi lascio soli!
Ella protestò dichiarando che anzi era felice di vedermi per la terza volta in quel giorno.
Mi raccontò che in quella piccola barchetta si sarebbe trovato riunito l'ufficio intero perché c'era anche Luciano.
Guai per i nostri affari se fosse andata a picco! M'aveva detto che c'era anche Luciano, certo per darmi la prova dell'innocenza del ritrovo.
Poi chiacchierò ancora volubilmente, dapprima dicendomi ch'era la prima volta che andava con Guido a pesca eppoi confessando ch'era la seconda.
S'era lasciato sfuggire che non le dispiaceva di star seduta «a pagliolo» in una barchetta e a me era sembrato strano ch'essa conoscesse quel termine.
Cosí dovette confessarmi di averlo appreso la prima volta ch'era stata a pesca con Guido.
- Quel giorno - aggiunse per rivelare la completa innocenza di quella prima gita - andammo alla pesca degli sgombri e non delle orate.
Di mattina.
Peccato che non abbia avuto il tempo di farla chiacchierare di piú, perché avrei potuto sapere tutto quello che m'importava, ma dall'oscurità della Sacchetta uscí e s'approssimò a noi rapidamente la barchetta di Guido.
Io ero sempre in dubbio: dal momento che c'era Carmen, non avrei dovuto allontanarmi? Forse Guido non aveva neppur avuto l'intenzione d'invitarci ambedue perché io ricordavo di aver quasi rifiutato il suo invito.
Intanto la barchetta approdò e, giovanilmente sicura anche nell'oscurità, Carmen vi scese trascurando di appoggiarsi alla mano che Luciano le aveva offerta.
Poiché esitavo, Guido urlò:
- Non farci perder tempo!
Con un balzo fui anch'io nella barchetta.
Il balzo mio era quasi involontario: un prodotto dell'urlo di Guido.
Guardavo con grande desiderio la terra, ma bastò un istante di esitazione per rendermi impossibile lo sbarco.
Finii col sedermi a prua della non grande barchetta.
Quando m'abituai all'oscurità, vidi che a poppa, di faccia a me, sedeva Guido e ai suoi piedi, a pagliolo, Carmen.
Luciano, che vogava, ci divideva.
Io non mi sentivo né molto sicuro né molto comodo nella piccola barca, ma presto mi vi abituai e guardai le stelle che di nuovo mi mitigarono.
Era vero che in presenza di Luciano - un servo devoto delle famiglie delle nostre mogli - Guido non si sarebbe rischiato di tradire Ada e non c'era perciò niente di male che io fossi con loro.
Desideravo vivamente di poter godere di quel cielo, quel mare e la vastissima quiete.
Se avessi dovuto sentirne rimorso e perciò soffrire, avrei fatto meglio di restare a casa mia a farmi torturare dalla piccola Antonia.
L'aria fresca notturna mi gonfiò i polmoni e compresi ch'io potevo divertirmi in compagnia di Guido e Carmen, cui in fondo volevo bene.
Passammo dinanzi al faro e arrivammo al mare aperto.
Qualche miglio piú in là brillavano le luci d'innumerevoli velieri: là si tendevano ben altre insidie al pesce.
Dal Bagno Militare, - una mole poderosa nereggiante sui suoi pali, - cominciammo a moverci su e giú lungo la riviera di Sant'Andrea.
Era il posto prediletto dei pescatori.
Accanto a noi, silenziosamente, molte altre barche facevano la stessa nostra manovra.
Guido preparò le tre lenze e inescò gli ami configgendovi dei gamberelli per la coda.
Consegnò una lenza ad ognuno di noi dicendo che la mia, a prua, - la sola munita di piombino - sarebbe stata preferita dal pesce.
Scorsi nell'oscurità il mio gamberello dalla coda trafitta e mi parve che movesse lentamente la parte superiore del corpo, quella parte che non era diventata una guaina.
Per questo movimento mi parve piuttosto meditabondo che spasimante dal dolore.
Forse ciò che produce il dolore nei grandi organismi, nei piccolissimi può ridursi fino a divenire un'esperienza nuova, un solletico al pensiero.
Lo ficcai nell'acqua calandovelo, come mi fu detto da Guido, per dieci braccia.
Dopo di me Carmen e Guido calarono le loro lenze.
Guido aveva ora a poppa anche un remo col quale spingeva la barca con l'arte che occorreva perché le lenze non s'aggrovigliassero.
Pare che Luciano non fosse ancora al caso di dirigere in tale modo la barchetta.
Del resto Luciano aveva ora l'incarico della piccola rete con la quale avrebbe levato dall'acqua il pesce portato dall'amo fino alla superficie.
Per lungo tempo egli non ebbe nulla da fare.
Guido ciarlava molto.
Chissà che non sia stato attaccato a Carmen dalla sua passione per l'insegnamento piuttosto che dall'amore.
Io avrei voluto non starlo a sentire per continuare a pensare al piccolo animaletto che tenevo esposto alla voracità dei pesci, sospeso nell'acqua e che coi cenni della testolina - se li continuava anche in acqua - avrebbe adescato meglio il pesce.
Ma Guido mi chiamò ripetute volte e dovetti star a sentire la sua teoria sulla pesca.
Il pesce avrebbe toccato varie volte l'esca e noi l'avremmo sentito, ma dovevamo guardarci dal tirare la lenza finché non si fosse tesa.
Allora dovevamo essere pronti per dare lo strappo che avrebbe infilzato sicuramente l'amo nella bocca del pesce.
Guido, come al solito, fu lungo nelle sue spiegazioni.
Voleva spiegarci chiaramente quello che avremmo sentito nella mano quando il pesce avrebbe annusato l'amo.
E continuava le sue spiegazioni quando io e Carmen conoscevamo già per esperienza la quasi sonora ripercussione sulla mano di ogni contatto che l'amo subiva.
Piú volte dovemmo raccogliere la lenza per rinnovare l'esca.
Il piccolo animaluccio pensieroso finiva invendicato nelle fauci di qualche pesce accorto che sapeva evitare l'amo.
A bordo c'era della birra e dei panini.
Guido condiva tutto ciò con la sua chiacchiera inesauribile.
Parlava ora delle enormi ricchezze che giacevano nel mare.
Non si trattava, come Luciano credeva, né del pesce né delle ricchezze immersevi dall'uomo.
Nell'acqua del mare c'era disciolto dell'oro.
Improvvisamente ricordò ch'io avevo studiato chimica e mi disse:
- Anche tu devi sapere qualche cosa di quest'oro.
Io non ne ricordavo molto, ma annuii arrischiando un'osservazione della cui verità non potevo essere sicuro.
Dichiarai:
- L'oro del mare è il piú costoso di tutti.
Per avere uno di quei napoleoni che giacciono qui disciolti, bisognerebbe spenderne cinque.
Luciano che ansiosamente s'era rivolto a me per sentirmi confermare le ricchezze su cui nuotavamo, mi volse disilluso la schiena.
A lui di quell'oro non importava piú.
Guido invece mi diede ragione credendo di ricordare che il prezzo di quell'oro era esattamente di cinque volte tanto, proprio come avevo detto io.
Mi glorificava addirittura confermando la mia asserzione, che io sapevo del tutto cervellotica.
Si vedeva che mi sentiva poco pericoloso e che in lui non c'era ombra di gelosia per quella donna coricata ai suoi piedi.
Pensai per un istante di metterlo in imbarazzo dichiarando che ricordavo ora meglio e che per trarre dal mare uno di quei napoleoni ne sarebbero bastati tre o che ne sarebbero abbisognati addirittura dieci.
Ma in quell'istante fui chiamato dalla mia lenza che improvvisamente s'era tesa per uno strappo poderoso.
Strappai anch'io e gridai.
Con un balzo Guido mi fu vicino e mi prese di mano la lenza.
Gliel'abbandonai volentieri.
Egli si mise a tirarla su, prima a piccoli tratti, poi, essendo diminuita la resistenza, a grandissimi.
E nell'acqua fosca si vide brillare l'argenteo corpo del grosso animale.
Correva oramai rapidamente e senza resistenza dietro al suo dolore.
Perciò compresi anche il dolore dell'animale muto, perché era gridato da quella fretta di correre alla morte.
Presto l'ebbi boccheggiante ai miei piedi.
Luciano l'aveva tratto dall'acqua con la rete e, strappandonelo senza riguardo, gli aveva levato di bocca l'amo.
Palpò il grosso pesce:
- Un'orata di tre chilogrammi!
Ammirando, disse il prezzo che se ne sarebbe domandato in pescheria.
Poi Guido osservò che l'acqua era ferma a quell'ora e che sarebbe stato difficile di pigliare dell'altro pesce.
Raccontò che i pescatori ritenevano che quando l'acqua non cresceva né calava, i pesci non mangiavano e perciò non potevano essere presi.
Fece della filosofia sul pericolo che risultava ad un animale dal suo appetito.
Poi, mettendosi a ridere, senz'accorgersi che si comprometteva, disse:
- Tu sei l'unico che sappia pescare questa sera.
La mia preda si dibatteva tuttavia nella barca, quando Carmen diede uno strido.
Guido domandò senza muoversi e con una gran voglia di ridere nella voce:
- Un'altra orata?
Carmen confusa rispose:
- Mi pareva! Ma ha già abbandonato l'amo!
Io sono sicuro che, trascinato dal suo desiderio, egli le aveva dato un pizzicotto.
Io oramai mi sentivo a disagio in quella barca.
Non accompagnavo piú col desiderio l'opera del mio amo, anzi agitavo la lenza in modo che i poveri animali non potessero abboccare.
Dichiarai che avevo sonno e pregai Guido di sbarcarmi a Sant'Andrea.
Poi mi preoccupai di togliergli il sospetto ch'io me ne andassi perché infastidito da quanto doveva avermi rivelato lo strido di Carmen, e gli raccontai della scena che aveva fatta la mia piccina quella sera e il mio desiderio di accertarmi presto che non stesse male.
Compiacente come sempre, Guido accostò la barca alla riva.
M'offerse l'orata ch'io avevo pescata, ma io rifiutai.
Proposi di ridarle la libertà gettandola in mare, ciò che fece dare un urlo di protesta a Luciano, mentre Guido bonariamente disse:
- Se sapessi di poter ridarle la vita e la salute lo farei.
Ma a quest'ora la povera bestia non può servire che in piatto!
Li seguii con gli occhi e potei accertarmi che non approfittarono dello spazio lasciato libero da me.
Stavano bene serrati insieme e la barchetta andò via un po' sollevata a prua dal troppo peso a poppa.
Mi parve una punizione divina all'apprendere che la mia bambina era stata colta dalla febbre.
Non l'avevo resa malata io, simulando con Guido una preoccupazione che non sentivo per la sua salute? Augusta non s'era ancora coricata, ma poco prima c'era stato il dottor Paoli che l'aveva rassicurata dicendo di essere sicuro che una febbre improvvisa tanto violenta non poteva annunziare una malattia grave.
Restammo lungamente a guardare Antonia che giaceva abbandonata sul piccolo giaciglio, la faccina dalla pelle asciutta arrossata intensamente sotto i bruni ricci scomposti.
Non gridava, ma si lamentava di tempo in tempo con un lamento breve che veniva interrotto da un torpore imperioso.
Dio mio! Come il male me la portava vicina! Avrei data una parte della mia vita per liberarle il respiro.
Come togliermi il rimorso di aver pensato di non saper amarla, eppoi di aver passato tutto quel tempo in cui soffriva, lontano da lei e in quella compagnia?
- Somiglia ad Ada! - disse Augusta con un singulto.
Era vero! Ce ne accorgemmo allora per la prima volta e quella somiglianza divenne sempre piú evidente a mano a mano che Antonia crebbe, tanto che io talvolta mi sento tremare il cuore al pensiero che le potrebbe toccare il destino della poverina a cui assomiglia.
Ci coricammo dopo di aver posto il letto della bambina accanto a quello di Augusta.
Ma io non potevo dormire: avevo un peso al cuore come quelle sere in cui i miei trascorsi della giornata si specchiavano in immagini notturne di dolore e di rimorso.
La malattia della bambina mi pesava come un'opera mia.
Mi ribellai! Io ero puro e potevo parlare, potevo dire tutto.
E dissi tutto.
Raccontai ad Augusta dell'incontro con Carmen, della posizione ch'essa occupava nella barca, eppoi del suo strido che io dubitai fosse stato provocato da una carezza brutale di Guido senza però poter esserne sicuro.
Ma Augusta ne era sicura.
Perché altrimenti, subito dopo, la voce di Guido sarebbe stata alterata dall'ilarità? Cercai di attenuare la sua convinzione, ma poi dovetti ancora raccontare.
Feci una confessione anche per quanto concerneva me, descrivendo la noia che m'aveva cacciato di casa e il mio rimorso di non amare meglio Antonia.
Mi sentii subito meglio e m'addormentai profondamente.
La mattina appresso, Antonia stava meglio; era quasi priva di febbre.
Giaceva calma e libera di affanno, ma era pallida e affranta come se si fosse consunta in uno sforzo sproporzionato al suo piccolo organismo; evidentemente essa era già uscita vittoriosa dalla breve battaglia.
Nella calma che ne derivò anche a me, ricordai, dolendomene, di aver compromesso orribilmente Guido e volli da Augusta la promessa ch'essa non avrebbe comunicato a nessuno i miei sospetti.
Ella protestò che non si trattava di sospetti, ma di evidenza certa ciò che io negai senza riuscire a convincerla.
Poi essa mi promise tutto quello che volli ed io me ne andai tranquillamente in ufficio.
Guido non c'era ancora e Carmen mi raccontò ch'erano stati ben fortunati dopo la mia partenza.
Avevano prese altre due orate, piú piccole della mia, ma di un peso considerevole.
Io non volli crederlo e pensai che essa volesse convincermi che alla mia partenza avessero abbandonata l'occupazione a cui avevano atteso finché c'ero stato io.
L'acqua non s'era fermata? Fino a che ora erano stati in mare?
Carmen per convincermi mi fece confermare anche da Luciano la pesca delle due orate ed io da quella volta pensai che Luciano per ingraziarsi Guido sia stato capace di qualunque azione.
Sempre durante la calma idillica che precorse l'affare del solfato di rame, avvenne in quell'ufficio una cosa abbastanza strana che non so dimenticare, tanto perché mette in evidenza la smisurata presunzione di Guido, quanto perché pone me in una luce nella quale m'è difficile di ravvisarmi.
Un giorno eravamo tutt'e quattro in ufficio e il solo che fra di noi parlasse di affari era, come sempre, Luciano.
Qualche cosa nelle sue parole suonò all'orecchio di Guido quale una rampogna che, in presenza di Carmen, gli era difficile di sopportare.
Ma altrettanto difficile era difendersene, perché Luciano aveva le prove che un affare ch'egli aveva consigliato mesi prima e che da Guido era stato rifiutato, aveva finito col rendere una quantità di denaro a chi se ne era occupato.
Guido finí col dichiarare di disprezzare il commercio e asserire che se la fortuna non l'avesse assistito in questo, egli avrebbe trovato il mezzo di guadagnare del denaro con altre attività molto piú intelligenti.
Col violino, per esempio.
Tutti furono d'accordo con lui ed anch'io, ma con la riserva:
- A patto di studiare molto.
La mia riserva gli dispiacque e disse subito che se si trattava di studiare, egli allora avrebbe potuto fare molte altre cose, per esempio, della letteratura.
Anche qui gli altri furono d'accordo, ed io stesso, ma con qualche esitazione.
Non ricordavo bene le fisonomie dei nostri grandi letterati e le evocavo per trovarne una che somigliasse a Guido.
Egli allora urlò:
- Volete delle buone favole? Io ve ne improvviso come Esopo!
Tutti risero, meno lui.
Si fece dare la macchina da scrivere e, correntemente, come se avesse scritto sotto dettatura, con gesti piú ampi di quanto esigesse un lavoro utile alla macchina, stese la prima favola.
Porgeva già il foglietto a Luciano, ma si ricredette, lo riprese e lo rimise a posto nella macchina, scrisse una seconda favola, ma questa gli costò piú fatica della prima tanto che dimenticò di continuare a simulare con gesti l'ispirazione e dovette correggere il suo scritto piú volte.
Perciò io ritengo che la prima delle due favole non sia stata sua e che invece la seconda sia veramente uscita dal suo cervello di cui mi sembra degna.
La prima favola diceva di un uccelletto al quale avvenne d'accorgersi che lo sportellino della sua gabbia era rimasto aperto.
Dapprima pensò di approfittarne per volar via, ma poi si ricredette temendo che se, durante la sua assenza, lo sportellino fosse stato rinchiuso egli avrebbe perduta la sua libertà.
La seconda trattava di un elefante ed era veramente elefantesca.
Soffrendo di debolezza alle gambe, il grosso animale andava a consultare un uomo, celebre medico, il quale al vedere quegli arti poderosi gridava: - Non vidi giammai delle gambe tanto forti.
Luciano non si lasciò imporre da quelle favole anche perché non le capiva.
Rideva abbondantemente, ma si vedeva che gli sembrava comico che una cosa simile gli fosse presentata come commerciabile.
Rise poi anche per compiacenza quando gli fu spiegato che l'uccellino temeva di essere privato della libertà di ritornare in gabbia e l'uomo ammirava le gambe per quanto deboli dell'elefante.
Ma poi chiese:
- Quanto si ricava da due favole cosí?
Guido fece da uomo superiore:
- Il piacere d'averle fatte eppoi, volendo farne di piú, anche molti denari.
Carmen invece era agitata dall'emozione.
Domandò il permesso di poter copiare quelle due favole e ringraziò riconoscente quando Guido le offerse in dono il foglietto ch'egli aveva scritto dopo di averlo anche firmato a penna.
Che cosa c'entravo io? Non avevo da battermi per l'ammirazione di Carmen della quale, come ho detto, non m'importava nulla, ma ricordando il mio modo di fare, devo credere che anche una donna che non sia rilevata dal nostro desiderio possa spingerci alla lotta.
Infatti non si battevano gli eroi medievali anche per donne che non avevano mai viste? A me quel giorno avvenne che i dolori lancinanti del mio povero organismo improvvisamente si facessero acuti e mi parve di non poterli attenuare altrimenti che battendomi con Guido facendo subito delle favole anch'io.
Mi feci consegnare la macchina ed io veramente improvvisai.
Vero è che la prima delle favole che feci, stava da molti giorni nel mio animo.
Ne improvvisai il titolo: «Inno alla vita».
Poi, dopo breve riflessione, scrissi di sotto: «Dialogo».
Mi pareva piú facile di far parlare le bestie che descriverle.
Cosí nacque la mia favola dal dialogo brevissimo:
Il gamberello meditabondo: - La vita è bella ma bisogna badare al posto dove ci si siede.
L'orata, correndo dal dentista: - La vita è bella ma bisognerebbe eliminare quegli animalucci traditori che celano nella carne saporita il metallo acuminato.
Ora bisognava fare la seconda favola ma mi mancavano le bestie.
Guardai il cane che giaceva nel suo cantuccio ed anch'esso guardò me.
Da quegli occhi timidi trassi un ricordo: pochi giorni prima Guido era ritornato da caccia pieno di pulci ed era andato a nettarsi nel nostro ripostiglio.
Ebbi allora subito la favola e la scrissi correntemente: «C'era una volta un principe morso da molte pulci.
S'appellò agli dei che affliggessero una sola pulce, grossa e famelica, ma una sola, e destinassero le altre agli altri uomini.
Ma nessuna delle pulci accettò di restare sola con quella bestia d'uomo, ed egli dovette tenersele tutte».
In quel momento le mie favole mi parvero splendide.
Le cose ch'escono dal nostro cervello hanno un aspetto sovranamente amabile specie quando si esaminano non appena nate.
Per dire la verità il mio dialogo mi piace anche adesso, che ho fatta tanta pratica nel comporre.
L'inno alla vita fatto dal morituro è una cosa molto simpatica per coloro che lo guardano morire ed è anche vero che molti moribondi spendono l'ultimo fiato per dire quella che a loro sembra la causa per cui muoiono, innalzando cosí un inno alla vita degli altri che sapranno evitare quell'accidente.
In quanto alla seconda favola non voglio parlarne e fu commentata argutamente da Guido stesso che gridò ridendo:
- Non è una favola, ma un modo di darmi della bestia.
Risi con lui e i dolori che m'avevano spinto a scrivere s'attenuarono subito.
Luciano rise quando gli spiegai quello che avevo voluto dire e trovò che nessuno avrebbe pagato qualche cosa né per le mie né per le favole di Guido.
Ma a Carmen le mie favole non piacquero.
Mi diede un'occhiataccia indagatrice ch'era veramente nuova per quegli occhi e che io intesi come se fosse stata una parola detta:
- Tu non ami Guido!
Ne fui addirittura sconvolto perché in quel momento essa certamente non sbagliava.
Pensai che avevo torto di comportarmi come se non amassi Guido, io che poi lavoravo disinteressatamente per lui.
Dovevo far attenzione al mio modo di comportarmi.
Dissi mitemente a Guido:
- Riconosco volentieri che le tue favole sono migliori delle mie.
Bisogna però ricordare che sono le prime favole che ho fatte in vita mia.
Egli non s'arrese:
- Credi forse ch'io ne abbia fatte delle altre?
Lo sguardo di Carmen s'era già raddolcito e, per ottenerlo piú dolce ancora, io dissi a Guido:
- Tu hai certamente un talento speciale per le favole.
Ma il complimento fece ridere tutti e due e subito dopo anche me, ma tutti bonariamente perché si vedeva che avevo parlato senz'alcuna intenzione maligna.
L'affare del solfato di rame diede una maggiore serietà al nostro ufficio.
Non c'era piú tempo per le favole.
Quasi tutti gli affari che ci venivano proposti erano ormai da noi accettati.
Alcuni diedero qualche utile, ma piccolo; altri delle perdite, ma grandi.
Una strana avarizia era il principale difetto di Guido che fuori degli affari era tanto generoso.
Quando un affare si dimostrava buono, egli lo liquidava frettolosamente, avido d'incassare il piccolo utile che gliene derivava.
Quando invece si trovava involto in un affare sfavorevole, non si decideva mai ad uscirne pur di ritardare il momento in cui doveva toccare la propria tasca.
Per questo io credo che le sue perdite sieno state sempre rilevanti e i suoi utili piccoli.
Le qualità di un commerciante non sono altro che le risultanti di tutto il suo organismo, dalla punta dei capelli fino alle unghie dei piedi.
A Guido si sarebbe adattata una parola che hanno i Greci: «astuto imbecille».
Veramente astuto, ma anche veramente uno scimunito.
Era pieno di accortezze che non servivano ad altro che ad ungere il piano inclinato sul quale scivolava sempre piú in giú.
Assieme al solfato di rame gli capitarono tra capo e collo i due gemelli.
La sua prima impressione fu di sorpresa tutt'altro che piacevole, ma subito dopo di avermi annunziato l'avvenimento, gli riuscí di dire una facezia che mi fece ridere molto, per cui, compiacendosi del successo, non seppe conservare il cipiglio.
Associando i due bambini alle sessanta tonnellate di solfato, disse:
- Sono condannato a lavorare all'ingrosso, io!
Per confortarlo gli ricordai che Augusta era di nuovo nel settimo mese e che ben presto in fatto di bambini avrei raggiunto il suo tonnellaggio.
Rispose sempre argutamente:
- A me, da buon contabile, non sembra la stessa cosa.
Dopo qualche giorno, per qualche tempo, fu preso da un grande affetto per i due marmocchi.
Augusta che passava una parte della sua giornata dalla sorella, mi raccontò ch'egli dedicava loro ogni giorno qualche ora.
Li carezzava, e ninnava e Ada gliene era tanto riconoscente che fra i due coniugi sembrava rifiorire un nuovo affetto.
In quei giorni egli versò un importo abbastanza vistoso ad una società d'Assicurazioni per far trovare ai figli a vent'anni una piccola sostanza.
Lo ricordo per aver io registrato quell'importo a suo debito.
Fui invitato anch'io a vedere i due gemelli; anzi da Augusta m'era stato detto che avrei potuto salutare anche Ada, che invece non poté ricevermi dovendo stare a letto ad onta che fossero passati già dieci giorni dal parto.
I due bambini giacevano in due culle in un gabinetto attiguo alla stanza da letto dei genitori.
Ada, dal suo letto, mi gridò:
- Sono belli, Zeno?
Restai sorpreso dal suono di quella voce.
Mi parve piú dolce: era un vero grido perché vi si sentiva uno sforzo, eppure rimaneva tanto dolce.
Senza dubbio la dolcezza in quella voce veniva dalla maternità, ma io ne fui commosso perché ve la scoprivo proprio quand'era rivolta a me.
Quella dolcezza mi fece sentire come se Ada non m'avesse chiamato col solo mio nome, ma premettendovi anche qualche qualificativo affettuoso come «caro» o «fratello mio»! Ne sentii una viva riconoscenza e divenni buono ed affettuoso.
Risposi festosamente:
- Belli, cari, somiglianti, due meraviglie.
- Mi parevano invece due morticini scoloriti.
Vagivano ambedue e non andavano d'accordo.
Presto Guido ritornò alla vita di prima.
Dopo l'affare del solfato veniva piú assiduo in ufficio, ma ogni settimana, al sabato, partiva per la caccia e non ritornava che al lunedí mattina tardi e giusto in tempo per dare un'occhiata all'ufficio prima di colazione.
Alla pesca andava di sera e passava spesso la notte in mare.
Augusta mi raccontava dei dispiaceri di Ada, la quale soffriva bensí di una frenetica gelosia, ma anche di trovarsi sola per tanta parte della giornata.
Augusta tentava di calmarla ricordandole che a caccia e a pesca non c'erano donne.
Però - non si sapeva da chi - Ada era stata informata che Carmen talvolta aveva accompagnato Guido a pesca.
Guido, poi, l'aveva confessato aggiungendo che non c'era niente di male in una gentilezza ch'egli usava ad un'impiegata che gli era tanto utile.
Eppoi non c'era stato sempre presente Luciano? Egli finí col promettere che non l'avrebbe invitata piú, visto che ad Ada ciò dispiaceva.
Dichiarava di non voler rinunciare né alla sua caccia che gli costava tanti denari né alla pesca.
Diceva di lavorare molto (e infatti in quell'epoca nel nostro ufficio c'era molto da fare) e gli pareva che un po' di svago gli spettasse.
Ada non era di tale parere e le sembrava che il miglior svago egli l'avrebbe avuto in famiglia, e trovava in ciò l'assenso incondizionato di Augusta, mentre a me quello sembrava uno svago troppo sonoro.
Augusta allora esclamava:
- E tu non sei forse a casa ogni giorno, ad ore debite?
Era vero ed io dovevo confessare che fra me e Guido c'era una grande differenza, ma non sapevo vantarmene.
Dicevo ad Augusta accarezzandola:
- Il merito è tuo perché hai usato dei metodi molto drastici di educazione.
D'altronde per il povero Guido le cose andavano peggiorandosi ogni giorno di piú: dapprima c'erano stati bensí due bambini, ma una balia sola perché si sperava che Ada avrebbe potuto nutrire uno dei bambini.
Invece essa non lo poté e dovettero far venire un'altra balia.
Quando Guido voleva farmi ridere, camminava su e giú per l'ufficio battendosi il tempo con le parole: - Una moglie...
due bambini...
due balie!
C'era una cosa che Ada specialmente odiava: Il violino di Guido.
Essa sopportava i vagiti dei bambini, ma soffriva orrendamente per il suono del violino.
Aveva detto ad Augusta:
- Mi sentirei di abbaiare come un cane contro quei suoni!
Strano! Augusta invece era beata quando passando dinanzi al mio studiolo sentiva uscirne i miei suoni aritmici!
- Eppure anche il matrimonio di Ada è stato un matrimonio d'amore, - dicevo io stupito.
- Non è il violino la miglior parte di Guido?
Tali chiacchiere furono del tutto dimenticate quando io rividi per la prima volta Ada.
Fui proprio io che per il primo m'accorsi della sua malattia.
Uno dei primi giorni del Novembre - una giornata fredda, priva di sole, umida, - abbandonai eccezionalmente l'ufficio alle tre del pomeriggio e corsi a casa pensando di riposare e sognare per qualche ora nel mio studiolo caldo.
Per recarmivi dovevo passare il lungo corridoio, e dinanzi alla stanza di lavoro di Augusta mi fermai perché sentii la voce di Ada.
Era dolce o malsicura (ciò che si equivale, io credo) come quel giorno in cui era stata indirizzata a me.
Entrai in quella stanza spintovi dalla strana curiosità di vedere come la serena, la calma Ada, potesse vestirsi di quella voce che ricordava un po' quella di qualche nostra attrice quando vuol far piangere senza saper piangere essa stessa.
Infatti era una voce falsa o io la sentivo cosí, solo perché senza neppur aver visto chi la emetteva, la percepivo per la seconda volta dopo tanti giorni sempre ugualmente commossa e commovente.
Pensai parlassero di Guido, perché quale altro argomento avrebbe potuto commuovere a quel modo Ada?
Invece le due donne, prendendo una tazza di caffè insieme, parlavano di cose domestiche: biancheria, servitú eccetera.
Ma mi bastò di aver vista Ada per intendere che quella voce non era falsa.
Commovente era anche la sua faccia ch'io per primo scoprivo tanto alterata, e quella voce, se non si accordava con un sentimento, rispecchiava esattamente tutto un organismo, ed era perciò vera e sincera.
Questo io sentii subito.
Io non sono un medico e perciò non pensai ad una malattia, ma cercai di spiegarmi l'alterazione nell'aspetto di Ada come un effetto della convalescenza dopo il parto.
Ma come si poteva spiegare che Guido non si fosse accorto di tanto mutamento avvenuto nella sua donna? Intanto io, che sapevo a mente quell'occhio, quell'occhio ch'io tanto avevo temuto perché subito m'ero accorto che freddamente esaminava cose e persone per ammetterle o respingerle, potei constatare subito ch'era mutato, ingrandito, come se per vedere meglio avesse forzata l'orbita.
Stonava quell'occhio grande nella faccina immiserita e scolorita.
Mi stese con grande affetto la mano:
- Già lo so, - mi disse - tu approfitti di ogni istante per venir a riveder tua moglie e la tua bambina.
Aveva la mano madida di sudore ed io so che ciò denota debolezza.
Tanto piú mi figurai che, rimettendosi, avrebbe riacquistati gli antichi colori e le linee sicure delle guancie e dell'incassatura dell'occhio.
Interpretai le parole che m'aveva indirizzate quale un rimprovero rivolto a Guido, e bonariamente risposi che Guido, quale proprietario della ditta, aveva maggiori responsabilità delle mie che lo legavano all'ufficio.
Mi guardò indagatrice per assicurarsi ch'io parlavo sul serio.
- Ma pure - disse - mi sembra che potrebbe trovare un po' di tempo per sua moglie e i suoi figli, - e la sua voce era piena di lacrime.
Si rimise con un sorriso che domandava indulgenza e soggiunse:
- Oltre agli affari ci sono anche la caccia e la pesca! Quelle, quelle portano via tanto tempo.
Con una volubilità che mi stupí raccontò dei cibi prelibati che si mangiavano alla loro tavola in seguito alla caccia e alla pesca di Guido.
- Tuttavia vi rinunzierei volentieri! - soggiunse poi con un sospiro e una lagrima.
Non si diceva però infelice, anzi! Raccontava che ormai non sapeva neppur figurarsi che non le fossero nati i due bambini ch'essa adorava! Con un po' di malizia aggiungeva sorridendo che li amava di piú ora che ciascuno aveva la sua balia.
Essa non dormiva molto, ma almeno, quando arrivava a prender sonno, nessuno la disturbava.
E quando le chiesi se davvero dormisse tanto poco, si rifece seria e commossa per dirmi ch'era il suo maggior disturbo.
Poi, lieta, aggiunse:
- Ma va già meglio!
Poco dopo ci lasciò per due ragioni: prima di sera doveva andar a salutare la madre eppoi non sapeva sopportare la temperatura delle nostre stanze munite di grandi stufe.
Io, che ritenevo quella temperatura appena gradevole, pensai fosse un segno di forza quello di sentirla eccessivamente calda:
- Non pare che tu sia tanto debole, - dissi sorridendo, - vedrai come sentirai diversamente alla mia età.
Essa si compiacque molto di sentirsi designare come troppo giovine.
Io ed Augusta l'accompagnammo fino al pianerottolo.
Pareva sentisse un grande bisogno della nostra amicizia perché per fare quei pochi passi camminò in mezzo a noi e si prese prima al braccio di Augusta eppoi al mio che io subito irrigidii per paura di cedere ad un'antica abitudine di premere ogni braccio femminile che s'offrisse al mio contatto.
Sul pianerottolo parlò ancora molto e, avendo ricordato il padre suo, ebbe gli occhi di nuovo umidi, per la terza volta in un quarto d'ora.
Quando se ne fu andata, io dissi ad Agusta che quella non era una donna ma una fontana.
Benché avessi vista la malattia di Ada, non vi diedi alcun'importanza.
Aveva l'occhio ingrandito; aveva la faccina magra; la sua voce s'era trasformata ed anche il carattere in quell'affettuosità che non era sua, ma io attribuivo tutto ciò alla doppia maternità e alla debolezza.
Insomma io mi dimostrai un magnifico osservatore perché vidi tutto, ma un grande ignorante perché non dissi la vera parola: malattia!
Il giorno appresso l'ostetrico, che curava Ada, domandò l'assistenza del dottor Paoli il quale subito pronunziò la parola ch'io non avevo saputo dire: Morbus Basedowii.
Guido me lo raccontò descrivendomi con grande dottrina la malattia e compiangendo Ada che soffriva molto.
Senz'alcuna malizia io penso che la sua compassione e la sua scienza non fossero grandi.
Assumeva un aspetto accorato quando parlava della moglie, ma quando dettava delle lettere a Carmen manifestava tutta la gioia di vivere e insegnare; credeva poi che colui che aveva dato il suo nome alla malattia fosse il Basedow ch'era stato l'amico di Goethe, mentre quando io studiai quella malattia in un'enciclopedia, m'accorsi subito che si trattava di un altro.
Grande, importante malattia quella di Basedow! Per me fu importantissimo di averla conosciuta.
La studiai in varie monografie e credetti di scoprire appena allora il segreto essenziale del nostro organismo.
Io credo che da molti come da me vi sieno dei periodi di tempo in cui certe idee occupino e ingombrino tutto il cervello chiudendolo a tutte le altre.
Ma se anche alla collettività succede la stessa cosa! Vive di Darwin dopo di essere vissuta di Robespierre e di Napoleone eppoi di Liebig o magari di Leopardi quando su tutto il cosmo non troneggi Bismark!
Ma di Basedow vissi sol io! Mi parve ch'egli avesse portate alla luce le radici della vita la quale è fatta cosí: tutti gli organismi si distribuiscono su una linea, ad un capo della quale sta la malattia di Basedow che implica il generosissimo, folle consumo della forza vitale ad un ritmo precipitoso, il battito di un cuore sfrenato, e all'altro stanno gli organismi immiseriti per avarizia organica, destinati a perire di una malattia che sembrerebbe di esaurimento ed è invece di poltronaggine.
Il giusto medio fra le due malattie si trova al centro e viene designato impropriamente come la salute che non è che una sosta.
E fra il centro ed un'estremità - quella di Basedow - stanno tutti coloro ch'esasperano e consumano la vita in grandi desiderii.
ambizioni, godimenti e anche lavoro, dall'altra quelli che non gettano sul piatto della vita che delle briciole e risparmiano preparando quegli abietti longevi che appariscono quale un peso per la società.
Pare che questo peso sia anch'esso necessario.
La società procede perché i Basedowiani la sospingono, e non precipita perché gli altri la trattengono.
Io sono convinto che volendo costruire una società, si poteva farlo piú semplicemente, ma è fatta cosí, col gozzo ad uno dei suoi capi e l'edema all'altro, e non c'è rimedio.
In mezzo stanno coloro che hanno incipiente o gozzo o edema e su tutta la linea, in tutta l'umanità, la salute assoluta manca.
Anche ad Ada il gozzo mancava a quanto mi diceva Augusta, ma aveva tutti gli altri sintomi della malattia.
Povera Ada! M'era apparsa come la figurazione della salute e dell'equilibrio, tanto che per lungo tempo avevo pensato avesse scelto il marito con lo stesso animo freddo col quale suo padre sceglieva la sua merce, ed ora era stata afferrata da una malattia che la trascinava a tutt'altro regime: le perversioni psichiche! Ma io ammalai con lei di una malattia lieve, ma lunga.
Per troppo tempo pensai a Basedow.
Già credo che in qualunque punto dell'universo ci si stabilisca si finisce coll'inquinarsi.
Bisogna moversi.
La vita ha dei veleni, ma poi anche degli altri veleni che servono di contravveleni.
Solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri.
La mia malattia fu un pensiero dominante, un sogno, e anche uno spavento.
Deve aver avuto origine da un ragionamento: con la designazione di perversione si vuole intendere una deviazione dalla salute, quella specie di salute che ci accompagnò per un tratto della vita.
Ora sapevo che cosa fosse stata la salute da Ada.
Non poteva la sua perversione portarla ad amare me, che da sana aveva respinto?
Io non so come questo terrore (o questa speranza) sia nato nel mio cervello!
Forse perché la voce dolce e spezzata di Ada mi parve di amore quando s'indirizzò a me? La povera Ada s'era fatta ben brutta ed io non sapevo piú desiderarla.
Ma andavo rivedendo i nostri rapporti passati e mi pareva che se essa fosse stata còlta da un improvviso amore per me, mi sarei trovato nelle brutte condizioni che ricordavano un poco quelle di Guido verso l'amico inglese dalle sessanta tonnellate di solfato di rame.
Proprio lo stesso caso! Pochi anni prima io le avevo dichiarato il mio amore e non avevo fatto alcun atto di revoca fuori di quello di sposarne la sorella.
In tale contratto essa non era protetta dalla legge ma dalla cavalleria.
A me pareva di essere tanto fortemente impegnato con lei, che se essa si fosse presentata da me molti ma molti anni piú tardi, perfezionata magari nella malattia di Basedow da un bel gozzo, io avrei dovuto far onore alla mia firma.
Ricordo però che tale prospettiva rese il mio pensiero piú affettuoso per Ada.
Fino ad allora, quando m'avevano informato dei dolori di Ada causati da Guido, io non ne avevo certamente goduto, ma pure avevo rivolto il pensiero con una certa soddisfazione alla mia casa nella quale Ada aveva rifiutato di entrare ed ove non si soffriva affatto.
Ora le cose avevano cambiato: quell'Ada che m'aveva respinto con disdegno non c'era piú, a meno che i miei testi di medicina non sbagliassero.
La malattia di Ada era grave.
Il dottor Paoli, pochi giorni dopo, consigliò di allontanarla dalla famiglia e di mandarla in una casa di salute a Bologna.
Seppi ciò da Guido, ma Augusta poi mi raccontò che alla povera Ada anche in quel momento non furono risparmiati dei grandi dispiaceri.
Guido aveva avuto la sfacciataggine di proporre di metter Carmen alla direzione della famiglia durante l'assenza di sua moglie.
Ada non ebbe il coraggio di dire apertamente quello che pensava di una simile proposta, ma dichiarò che non si sarebbe mossa di casa se non le fosse stato permesso di affidarne la direzione alla zia Maria, e Guido si adattò senz'altro.
Egli però continuò ad accarezzare l'idea di poter aver Carmen a sua disposizione al posto lasciato libero da Ada.
Un giorno disse a Carmen che se essa non fosse stata tanto occupata in ufficio, egli le avrebbe volentieri affidata la direzione della sua casa.
Luciano ed io ci guardammo, e certamente scoprimmo ognuno nella faccia dell'altro un'espressione maliziosa.
Carmen arrossí e mormorò che non avrebbe potuto accettare.
- Già - disse Guido con ira - per quegli sciocchi riguardi al mondo non si può fare quello che gioverebbe tanto!
Però tacque anche lui presto ed era sorprendente abbreviasse una predica tanto interessante.
Tutta la famiglia accompagnò Ada alla stazione.
Augusta m'aveva pregato di portare dei fiori per la sorella.
Arrivai un po' in ritardo con un bel mazzo di orchidee che porsi ad Augusta.
Ada ci sorvegliava e quando Augusta le offerse i fiori ci disse:
- Vi ringrazio di cuore!
Voleva significare di aver ricevuto i fiori anche da me, ma io sentii ciò come una manifestazione di affetto fraterno, dolce e anche un po' fredda.
Basedow certo non ci entrava.
Pareva una sposina, la povera Ada con quegli occhi ingranditi smisuratamente dalla felicità.
La sua malattia sapeva simulare tutte le emozioni.
Guido partiva con lei per accompagnarla e ritornare dopo pochi giorni.
Aspettammo sulla banchina la partenza del treno.
Ada rimase affacciata alla finestra della sua vettura e continuò ad agitare il fazzoletto finché poté vederci.
Poi accompagnammo la signora Malfenti lacrimante a casa.
Al momento di dividerci mia suocera dopo di aver baciata Augusta, baciò anche me.
- Scusa! - desse ridendo fra le lacrime - l'ho fatto senza proposito, ma se lo permetti ti dò anche un altro bacio.
Anche la piccola Anna, ormai dodicenne, volle baciarmi.
Alberta, ch'era in procinto di abbandonare il teatro nazionale per fidanzarsi, e che di solito era un po' sostenuta con me, quel giorno mi porse calorosamente la mano.
Tutte mi volevano bene perché mia moglie era fiorente, e facevano cosí delle manifestazioni di antipatia per Guido, la cui moglie era malata.
Ma proprio allora corsi il rischio di divenire un marito meno buono.
Diedi un grande dolore a mia moglie, senza mia colpa, per un sogno cui innocentemente la feci addirittura partecipare.
Ecco il sogno: eravamo in tre, Augusta, Ada ed io che ci eravamo affacciati ad una finestra e precisamente alla piú piccola che ci fosse stata nelle nostre tre abitazioni, cioè la mia, quella di mia suocera e quella di Ada.
Eravamo cioè alla finestra della cucina della casa di mia suocera che veramente si apre sopra un piccolo cortile mentre nel sogno dava proprio sul Corso.
Al piccolo davanzale c'era tanto poco spazio che Ada, che stava in mezzo a noi tenendosi alle nostre braccia, aderiva proprio a me.
Io la guardai e vidi che il suo occhio era ridivenuto freddo e preciso e le linee della sua faccia purissime fino alla nuca ch'io vedevo coperta dei suoi riccioli lievi, quei riccioli ch'io avevo visti tanto spesso quando Ada mi volgeva le spalle.
Ad onta di tanta freddezza (tale mi pareva la sua salute) essa rimaneva aderente a me come avevo creduto lo fosse quella sera del mio fidanzamento intorno al tavolino parlante.
Io, giocondamente, dissi ad Augusta (certo facendo uno sforzo per occuparmi anche di lei): «Vedi com'è risanata? Ma dov'è Basedow?».
«Non vedi?», domandò Augusta ch'era la sola fra di noi che arrivasse a guardare sulla via.
Con uno sforzo ci sporgemmo anche noi e scorgemmo una grande folla che s'avanzava minacciosa urlando.
«Ma dov'è Basedow?» domandai ancora una volta.
Poi lo vidi.
Era lui che s'avanzava inseguito da quella folla: un vecchio pezzente coperto di un grande mantello stracciato, ma di broccato rigido, la grande testa coperta di una chioma bianca disordinata, svolazzante all'aria, gli occhi sporgenti dall'orbita che guardavano ansiosi con uno sguardo ch'io avevo notato in bestie inseguite, di paura e di minaccia.
E la folla urlava: «Ammazzate l'untore!».
Poi ci fu un intervallo di notte vuota.
Indi, subito, Ada ed io ci trovavamo soli sulla piú erta scala che ci fosse nelle nostre tre case, quella che conduce alla soffitta della mia villa.
Ada era posta per alcuni scalini piú in alto, ma rivolta a me ch'ero in atto di salire, mentre lei sembrava volesse scendere.
Io le abbracciavo le gambe e lei si piegava verso di me non so se per debolezza o per essermi piú vicina.
Per un istante mi parve sfigurata dalla sua malattia, ma poi, guardandola con affanno, riuscivo a rivederla come m'era apparsa alla finestra, bella e sana.
Mi diceva con la sua voce soda: «Precedimi, ti seguo subito!» Io, pronto, mi volgevo per precederla correndo, ma non abbastanza presto per non scorgere che la porta della mia soffitta veniva aperta pian pianino e ne sporgeva la testa chiomata e bianca di Basedow con quella sua faccia fra timorosa e minacciosa.
Ne vidi anche le gambe malsicure e il povero misero corpo che il mantello non arrivava a celare.
Arrivai a correre via, ma non so se per precedere Ada o per fuggirla.
Ora pare che trafelato io mi sia destato nella notte, e nell'assopimento abbia raccontato tutto o parte del sogno ad Augusta per riprendere poi il sonno piú tranquillo e piú profondo.
Credo che nella mezza coscienza io abbia seguito ciecamente l'antico desiderio di confessare i miei trascorsi.
Alla mattina, sulla faccia di Augusta, c'era il cereo pallore delle grandi occasioni.
Io ricordavo perfettamente il sogno, ma non esattamente quello che gliene avessi riferito.
Con un aspetto di rassegnazione dolorosa essa mi disse:
- Ti senti infelice perché essa è malata ed è partita e perciò sogni di lei.
Io mi difesi ridendo ed irridendo.
Non Ada era importante per me, ma Basedow, e le raccontai dei miei studi e anche delle applicazioni che avevo fatte.
Ma non so se riuscii di convincerla.
Quando si viene colti nel sogno è difficile di difendersi.
È tutt'altra cosa che arrivare alla moglie freschi freschi dall'averla tradita in piena coscienza.
Del resto, per tali gelosie di Augusta, io non avevo nulla da perdere perché essa amava tanto Ada che da quel lato la sua gelosia non gettava alcun'ombra e, in quanto a me, essa mi trattava con un riguardo anche piú affettuoso e m'era anche piú grata di ogni mia piú lieve manifestazione di affetto.
Pochi giorni dopo, Guido ritornò da Bologna con le migliori notizie.
Il direttore della casa di salute garantiva una guarigione definitiva a patto che Ada trovasse poi in casa una grande quiete.
Guido riferí con semplicità e bastevole incoscienza la prognosi del sanitario non avvedendosi che in famiglia Malfenti quel verdetto veniva a confermare molti sospetti sul suo conto.
Ed io dissi ad Augusta:
- Ecco che sono minacciato di altri baci di tua madre.
Pare che Guido non si trovasse molto bene nella casa diretta da zia Maria.
Talvolta camminava su e giú per l'ufficio mormorando:
- Due bambini...
tre balie...
nessuna moglie.
Anche dall'ufficio rimaneva piú spesso assente perché sfogava il suo malumore imperversando sulle bestie a caccia e a pesca.
Ma quando verso la fine dell'anno, ebbimo da Bologna la notizia che Ada veniva considerata guarita e che s'accingeva a rimpatriare, non mi parve che egli ne fosse troppo felice.
S'era abituato a zia Maria oppure la vedeva tanto poco che gli era facile e gradevole di sopportarla? Con me naturalmente non manifestò il suo malumore se non esprimendo il dubbio che forse Ada s'affrettava troppo a lasciare la casa di salute prima di essersi assicurata contro una ricaduta.
Infatti quand'essa, dopo breve tempo e ancora nel corso di quello stesso inverno, dovette ritornare a Bologna, egli mi disse trionfante:
- L'avevo detto io?
Non credo però che in quel trionfo ci fosse stata altra gioia che quella da lui tanto viva di aver saputo prevedere qualche cosa.
Egli non augurava del male ad Ada, ma l'avrebbe tenuta volentieri per lungo tempo a Bologna.
Quando Ada ritornò, Augusta era relegata a letto per la nascita del mio piccolo Alfio e in quell'occasione fu veramente commovente.
Volle io andassi alla stazione con dei fiori e dicessi ad Ada ch'essa voleva vederla quello stesso giorno.
E se Ada non avesse potuto venire da lei addirittura dalla stazione, mi pregava ritornassi subito a casa, per saperle descrivere Ada e dirle se la sua bellezza, di cui in famiglia erano tanto orgogliosi, le fosse stata restituita intera.
Alla stazione eravamo io, Guido e la sola Alberta, perché la signora Malfenti passava una gran parte delle sue giornate presso Augusta.
Sulla banchina, Guido cercava di convincerci della sua grande gioia per l'arrivo di Ada, ma Alberta lo ascoltava fingendo una grande distrazione allo scopo - come poi mi disse - di non dover rispondergli.
In quanto a me la simulazione con Guido mi costava oramai poca fatica.
M'ero abituato a fingere di non accorgermi delle sue preferenze per Carmen e non avevo mai osato alludere ai suoi torti verso la moglie.
Non m'era perciò difficile di avere un atteggiamento d'attenzione come se ammirassi la sua gioia per il ritorno della sua amata moglie.
Quando il treno in punto a mezzodí entrò in stazione, egli ci precedette per raggiungere la moglie che ne scendeva.
La prese fra le braccia e la baciò affettuosamente.
Io, che gli vedevo il dorso piegato per arrivare a baciare la moglie piú piccola di lui, pensai: «Un bravo attore!».
Poi prese Ada per mano e la condusse a noi:
- Eccola riconquistata al nostro affetto!
Allora si rivelò quale era, cioè falso e simulatore, perché se egli avesse guardata meglio in faccia la povera donna, si sarebbe accorto che invece che al nostro affetto essa veniva consegnata alla nostra indifferenza.
La faccia di Ada era male costruita perché aveva riconquistate delle guancie ma fuori di posto come se la carne, quando ritornò, avesse dimenticato dove apparteneva e si fosse poggiata troppo in basso.
Avevano perciò l'aspetto di gonfiezze anziché di guancie.
E l'occhio era ritornato nell'orbita, ma nessuno aveva saputo riparare i danni ch'esso aveva prodotto uscendone.
Aveva spostate o distrutte delle linee precise e importanti.
Quando ci congedammo fuori della stazione, al sole invernale abbacinante vidi che tutto il colorito di quella faccia non era piú quello che io avevo tanto amato.
Era impallidito e sulle parti carnose si arrossava per chiazzette rosse.
Pareva che la salute non appartenesse piú a quella faccia e si fosse riusciti di fingervela.
Raccontai subito ad Augusta che Ada era bellissima proprio come era stata da fanciulla ed essa ne fu beata.
Poi, dopo di averla vista, a mia sorpresa essa confermò piú volte come se fossero state evidenti verità le mie pietose bugie.
Essa diceva:
- È bella com'era da fanciulla e come lo sarà mia figlia!
Si vede che l'occhio di una sorella non è molto acuto.
Per lungo tempo non rividi Ada.
Essa aveva troppi figliuoli e cosí pure noi.
Tuttavia Ada e Augusta facevano in modo di trovarsi insieme varie volte alla settimana, ma sempre in ore in cui io ero fuori di casa.
Si approssimava l'epoca del bilancio ed io avevo molto da fare.
Fu anzi quella l'epoca della mia vita in cui lavorai di piú.
Qualche giorno restai a tavolino persino per dieci ore.
Guido m'aveva offerto di farmi assistere da un contabile, ma io non ne volli sapere.
Avevo assunto un incarico e dovevo corrispondervi.
Intendevo compensare Guido di quella mia funesta assenza di un mese, e mi piaceva anche dimostrare a Carmen la mia diligenza, che non poteva essere ispirata da altro che dal mio affetto per Guido.
Ma come procedetti nel regolare i conti, incominciai a scoprire la grossa perdita in cui eravamo incorsi in quel primo anno di esercizio.
Impensierito ne dissi a quattr'occhi qualche cosa a Guido, ma lui, che s'apprestava a partire per la caccia, non volle starmi a sentire:
- Vedrai che non è tanto grave come ti sembra eppoi l'anno non è ancora finito.
Infatti mancavano ancora otto giorni interi a capo d'anno.
Allora mi confidai ad Augusta.
Dapprima essa vide in quella faccenda solo il danno che ne avrebbe potuto derivare a me.
Le donne sono sempre fatte cosí, ma Augusta era straordinaria persino fra le donne quando qui si doleva del proprio danno.
Non avrei finito anch'io - essa domandava - con l'essere ritenuto un po' responsabile delle perdite subite da Guido? Voleva si consultasse subito un avvocato.
Bisognava intanto staccarsi da Guido e cessare dal frequentare quell'ufficio.
Non mi fu facile di convincerla ch'io non potevo essere tenuto responsabile di niente non essendo io altra cosa che un impiegato di Guido.
Essa sosteneva che chi non ha un emolumento fisso non possa essere considerato quale un impiegato, ma qualche cosa di simile ad un padrone.
Quando fu ben convinta, naturalmente restò della sua opinione perché allora scoprí che non avrei perduto niente se avessi cessato di frequentare quell'ufficio dove sicuramente avrei finito col diffamarmi commercialmente.
Diamine: la mia fama commerciale! Fui anch'io d'accordo ch'era importante di salvarla e, per quanto essa avesse avuto torto negli argomenti, si conchiuse che dovevo fare com'ella voleva.
Consentí ch'io terminassi il bilancio poiché l'avevo iniziato, ma poi avrei dovuto trovare il modo di ritornare al mio studiolo nel quale non si guadagnavano dei denari, ma nemmeno se ne perdevano.
Feci però allora una curiosa esperienza su me stesso.
Io non fui capace di abbandonare quella mia attività per quanto lo avessi deciso.
Ne fui stupito! Per intendere bene le cose, occorre lavorare di immagini.
Ricordai allora che una volta in Inghilterra la condanna ai lavori forzati veniva applicata appendendo il condannato al disopra di una ruota azionata a forza d'acqua, obbligando cosí la vittima a muovere in un certo ritmo le gambe che altrimenti gli sarebbero state sfracellate.
Quando si lavora si ha sempre il senso di una costrizione di quel genere.
È vero che quando non si lavora la posizione è la stessa e credo giusto di asserire che io e l'Olivi fummo sempre ugualmente appesi; soltanto che io lo fui in modo da non dover movere le gambe.
La nostra posizione dava bensí un risultato differente, ma ora so con certezza ch'esso non legittimava né un biasimo né una lode.
Insomma dipende dal caso se si viene attaccati ad una ruota mobile o ad una immobile.
Staccarsene è sempre difficile.
Per varii giorni, dopo chiuso il bilancio, continuai ad andare all'ufficio pur avendo deciso di non andarci affatto.
Uscivo di casa incerto; incerto prendevo una direzione ch'era quasi sempre quella dell'ufficio e, come procedevo, tale direzione si precisava finché non mi trovavo seduto sulla solita sedia in faccia a Guido.
Per fortuna a un dato momento fui pregato di non lasciare il mio posto ed io subito vi accondiscesi visto che nel frattempo m'ero accorto d'esservi inchiodato.
Per il quindici di Gennaio il mio bilancio era chiuso.
Un vero disastro! Chiudevamo con la perdita di metà del capitale.
Guido non avrebbe voluto farlo vedere al giovine Olivi temendone qualche indiscrezione, ma io insistetti nella speranza che costui, con la sua grande pratica, vi avesse trovato qualche errore tale da mutare tutta la posizione.
Poteva esserci qualche importo spostato dal dare, ove apparteneva, all'avere, e con una rettifica si sarebbe arrivati ad una differenza importante.
Sorridendo, l'Olivi promise a Guido la massima discrezione e lavorò poi con me per una giornata intera.
Disgraziatamente non trovò alcun errore.
Devo dire che io da quella revisione fatta in due, appresi molto e che oramai saprei affrontare e chiudere dei bilanci anche piú importanti di quello.
- E che cosa farete ora? - domandò l'occhialuto giovinotto prima di andarsene.
Io sapevo già quello ch'egli avrebbe suggerito.
Mio padre, che spesso mi aveva parlato di commercio nella mia infanzia, me l'aveva già insegnato.
Secondo le leggi vigenti, data la perdita di metà del capitale, noi si avrebbe dovuto liquidare la ditta e magari ristabilirla subito su nuove basi.
Lasciai ch'egli mi ripetesse il consiglio.
Aggiunse:
- Si tratta di una formalità.
- Poi, sorridendo:
- Può costare caro il non attenervisi!
Alla sera anche Guido si mise a rivedere il bilancio cui non sapeva adattarsi ancora.
Lo fece senz'alcun metodo, verificando questo o quell'importo a casaccio.
Volli interrompere quel lavoro inutile e gli comunicai il consiglio dell'Olivi di liquidare subito, ma pro forma, la gestione.
Fino ad allora Guido aveva avuto la faccia contratta dallo sforzo di trovare in quei conti l'errore liberatore: un cipiglio complicato dalla contrazione di chi ha in bocca un sapore disgustoso.
Alla mia comunicazione alzò la faccia che si spianò in uno sforzo d'attenzione.
Non comprese subito, ma quando capí si mise subito a ridere di cuore.
Io interpretai l'espressione della sua faccia cosí: aspra, acida finché si trovava di fronte a quelle cifre che non si potevano alterare; lieta e risoluta quando il doloroso problema fu spinto in disparte da una proposta che gli dava agio di riavere il sentimento di padrone e arbitro.
Non comprendeva.
Gli pareva il consiglio di un nemico.
Gli spiegai che il consiglio dell'Olivi aveva il suo valore specialmente per il pericolo, che incombeva in modo evidente sulla ditta, di perdere degli altri denari e fallire.
Un'eventuale bancarotta sarebbe stata colposa se dopo questo bilancio, oramai consegnato nei nostri libri, non si fossero prese le misure consigliate dall'Olivi.
E aggiunsi:
- La pena comminata dalle nostre leggi per il fallimento colposo è il carcere!
La faccia di Guido si coperse di tanto rosso che temetti egli fosse minacciato da una congestione cerebrale.
Urlò:
- In questo caso l'Olivi non ha bisogno di darmi dei consigli! Se mai ciò dovesse avverarsi saprei risolvere da solo!
La sua decisione m'impose ed ebbi il sentimento di trovarmi di fronte a persona perfettamente conscia della propria responsabilità.
Abbassai il tono della mia voce.
Mi buttai poi tutto dalla sua parte e, dimenticando di aver già presentato il consiglio dell'Olivi come degno di esser preso in considerazione, gli dissi:
- È quello che obiettai anch'io all'Olivi.
La responsabilità è tua e noi non ci entriamo quando tu decidi qualche cosa circa il destino della ditta che appartiene a te ed a tuo padre.
Veramente io questo l'avevo detto a mia moglie e non all'Olivi, ma insomma era vero che a qualcuno l'avevo detto.
Ora, dopo aver sentita la virile dichiarazione di Guido, sarei stato anche capace di dirlo all'Olivi, perché la decisione e il coraggio m'hanno sempre conquistato.
Se amavo già tanto anche la sola disinvoltura che può risultare da quelle qualità, ma anche da altre inferiori di molto.
Poiché volevo riferire tutte le sue parole ad Augusta per tranquillarla, insistetti:
- Tu sai che di me, e probabilmente a ragione, si dice che io non abbia alcun talento per il commercio.
Io posso eseguire quello che tu mi ordini, ma non posso mica assumermi una responsabilità per quello che fai tu.
Egli assentí vivamente.
Si sentiva tanto bene nella parte che io gli attribuivo, da dimenticare il suo dolore per il cattivo bilancio.
Dichiarò:
- Io sono il solo responsabile.
Tutto porta il mio nome ed io non ammetterei neppure che altri accanto a me volesse addossarsi delle responsabilità.
Ciò andava benissimo per essere riferito ad Augusta, ma molto di piú di quanto io avevo domandato.
E bisognava vedere l'aspetto ch'egli assumeva facendo quella dichiarazione: invece di un mezzo fallito sembrava un apostolo! S'era adagiato comodamente sul suo bilancio passivo e da lí diventava il mio padrone e signore.
Questa volta come tante altre nel corso della nostra vita in comune, il mio slancio d'affetto per lui fu soffocato dalle sue espressioni rivelanti la spropositata stima ch'egli faceva di se stesso.
Egli stonava.
Sí: bisogna dire proprio cosí; quel grande musicista stonava!
Gli domandai bruscamente:
- Vuoi che domani faccia una copia del bilancio per tuo padre?
Per un momento ero stato in procinto di fargli una dichiarazione ben piú rude dicendogli che subito dopo chiuso il bilancio io mi sarei astenuto dal frequentare il suo ufficio.
Non lo feci non sapendo come avrei impiegate le tante ore libere che mi sarebbero rimaste.
Ma la mia domanda sostituiva quasi perfettamente la dichiarazione che m'ero rimangiata.
Intanto gli avevo ricordato ch'egli in quell'ufficio non era il solo padrone.
Si dimostrò sorpreso delle mie parole perché gli parevano non conformi a quanto fino ad allora, col mio evidente consenso, s'era parlato e, col tono di prima, mi disse:
- Ti dirò io come si dovrà fare quella copia.
Protestai gridando.
In tutta la mia vita non gridai tanto come con Guido perché talvolta mi sembrava sordo.
Gli dichiarai che esisteva in legge anche una responsabilità del contabile ed io non ero disposto di gabellare per copie esatte dei raggruppamenti cervellotici di cifre.
Egli impallidí e riconobbe che avevo ragione, ma soggiunse ch'egli era padrone d'ordinare che non si dessero affatto degli estratti dai suoi libri.
In ciò riconobbi volentieri che aveva ragione e allora, rinfrancatosi, dichiarò che a suo padre avrebbe scritto lui.
Parve anzi che volesse immediatamente mettersi a scrivere, ma poi cambiò d'idea e mi propose di andar a pigliare una boccata d'aria.
Volli compiacerlo.
Supponevo che non avesse ancora digerito bene il bilancio e volesse moversi per cacciarlo giú.
La passeggiata mi ricordò quella della notte dopo il mio fidanzamento.
Mancava la luna perché in alto c'era molta nebbia, ma giú era la stessa cosa, perché si camminava sicuri traverso un'aria limpida.
Anche Guido ricordò quella sera memoranda:
- È la prima volta che camminiamo di nuovo insieme di notte.
Ricordi? Tu allora mi spiegasti che anche nella luna ci si baciava come quaggiú.
Adesso invece nella luna continuano il bacio eterno; ne sono sicuro ad onta che questa sera non si veda.
Quaggiú, invece...
Voleva ricominciare a dir male di Ada? Della povera malata? Lo interruppi, ma mitemente, quasi associandomi a lui (non l'avevo forse accompagnato per aituarlo a dimenticare?):
- Già! Quaggiú non si può sempre baciare! Lassú poi non c'è che l'immagine del bacio.
Il bacio è soprattutto movimento.
Tentavo di allontanarmi da tutte le sue questioni, cioè bilancio e Ada, tant'è vero che a tempo seppi eliminare una frase ch'ero stato in procinto di dire che cioè lassú il bacio non generava dei gemelli.
Ma lui, per liberarsi dal bilancio, non trovava di meglio che lagnarsi delle altre sue disgrazie.
Come avevo presentito, disse male di Ada.
Cominciò col rimpiangere che quel suo primo anno di matrimonio fosse stato per lui tanto disastroso.
Non parlava dei due gemelli ch'erano tanto cari e belli, ma della malattia di Ada.
Egli pensava che la malattia la rendesse irascibile, gelosa e nello stesso tempo poco affettuosa.
Terminò coll'esclamare sconsolato:
- La vita è ingiusta e dura!
A me sembrava assolutamente che mi fosse vietato di dire una sola parola che implicasse un mio giudizio fra lui e Ada.
Ma mi pareva di dover pur dire qualche cosa.
Egli aveva finito col parlare della vita e le aveva appioppati due predicati che non peccavano di soverchia originalità.
Io scopersi il meglio proprio perché m'ero messo a fare la critica di quello ch'egli aveva detto.
Tante volte si dicono delle cose seguendo il suono delle parole come s'associarono casualmente.
Poi, appena, si va a vedere se quello che si disse valeva il fiato che vi si è consumato e qualche volta si scopre che la casuale associazione partorí un'idea.
Dissi:
- La vita non è né brutta né bella, ma è originale!
Quando ci pensai mi parve d'aver detta una cosa importante.
Designata cosí, la vita mi parve tanto nuova che stetti a guardarla come se l'avessi veduta per la prima volta coi suoi corpi gassosi, fluidi e solidi.
Se l'avessi raccontata a qualcuno che non vi fosse stato abituato e fosse perciò privo del nostro senso comune, sarebbe rimasto senza fiato dinanzi all'enorme costruzione priva di scopo.
M'avrebbe domandato: «Ma come l'avete sopportata?» E, informatosi di ogni singolo dettaglio, da quei corpi celesti appesi lassú perché si vedano ma non si tocchino, fino al mistero che circonda la morte, avrebbe certamente esclamato: «Molto originale!»
- Originale la vita! - disse Guido ridendo.
- Dove l'hai letto?
Non m'importò di assicurargli che non l'avevo letto in nessun posto perché altrimenti le mie parole avrebbero avuta meno importanza per lui.
Ma, piú che ci pensavo, piú originale trovavo la vita.
E non occorreva mica venire dal di fuori per vederla messa insieme in un modo tanto bizzarro.
Bastava ricordare tutto quello che noi uomini dalla vita si è aspettato, per vederla tanto strana da arrivare alla conclusione che forse l'uomo vi è stato messo dentro per errore e che non vi appartiene.
Senza esserci accordati sulla direzione della nostra passeggiata, avevamo finito come l'altra volta sull'erta di via Belvedere.
Trovato il muricciuolo su cui s'era steso quella notte, Guido vi salí e vi si coricò proprio come l'altra volta.
Egli canticchiava, forse sempre oppresso dai suoi pensieri, e meditava certamente sulle inesorabili cifre della sua contabilità.
Io invece ricordai che in quel luogo l'avevo voluto uccidere, e confrontando i miei sentimenti di allora con quelli di adesso, ammiravo una volta di piú l'incomparabile originalità della vita.
Ma improvvisamente ricordai che poco prima e per una bizza di persona ambiziosa, avevo imperversato contro il povero Guido e ciò in una delle peggiori giornate della sua vita.
Mi dedicai ad un'indagine: assistevo senza grande dolore alla tortura che veniva inflitta a Guido dal bilancio messo insieme da me con tanta cura e me ne venne un dubbio curioso e subito dopo un curiosissimo ricordo.
Il dubbio: ero io buono o cattivo? Il ricordo, provocato improvvisamente dal dubbio che non era nuovo: mi vedevo bambino e vestito (ne sono certo) tuttavia in gonne corte, quando alzavo la mia faccia per domandare a mia madre sorridente: «Sono buono o cattivo, io?».
Allora il dubbio doveva essere stato ispirato al bimbo dai tanti che l'avevano detto buono e dai tanti altri che, scherzando, l'avevano qualificato cattivo.
Non era affatto da meravigliarsi che il bimbo fosse stato imbarazzato da quel dilemma.
Oh incomparabile originalità della vita! Era meraviglioso che il dubbio ch'essa aveva già inflitto al bimbo in forma tanto puerile, non fosse stato sciolto dall'adulto quando aveva già varcata la metà della sua vita.
Nella notte fosca, proprio su quel posto ove io una volta avevo già voluto uccidere, quel dubbio mi angosciò, profondamente.
Certamente il bimbo quando aveva sentito vagare quel dubbio nella testa da poco libera dalla cuffia, non ne aveva sofferto tanto perché ai bambini si racconta che dalla cattiveria si guarisce.
Per liberarmi da tanta angoscia volli credere di nuovo cosí, e vi riuscii.
Se non vi fossi riuscito avrei dovuto piangere per me, per Guido e per la tristissima nostra vita.
Il proposito rinnovò l'illusione! Il proposito di mettermi accanto a Guido e di collaborare con lui allo sviluppo del suo commercio da cui dipendeva la sua e la vita dei suoi e ciò senz'alcun utile per me.
Intravvidi la possibilità di correre, brigare e studiare per lui e ammisi la possibilità di divenire, per aiutarlo, un grande, un intraprendente, un geniale negoziante.
Proprio cosí pensai in quella fosca sera di questa vita originalissima!
Guido intanto cessò di pensare al bilancio.
Abbandonò il suo posto e parve rasserenato.
Come se avesse tratta una conclusione da un ragionamento di cui io non sapevo niente, mi disse che al padre non avrebbe detto nulla perché altrimenti il povero vecchio avrebbe intrapreso quell'enorme viaggio dal suo sole estivo alla nostra nebbia invernale.
Mi disse poi che la perdita a prima vista sembrava ingente, ma che non lo era poi tanto se non doveva sopportarla tutta da solo.
Avrebbe pregata Ada di addossarsene la metà e in compenso le avrebbe concesso una parte degli utili dell'anno seguente.
L'altra metà della perdita l'avrebbe sopportata lui.
Io non dissi nulla.
Pensai anche che mi fosse proibito di dare dei consigli, perché altrimenti avrei finito col fare quello che assolutamente non volevo, erigendomi a giudice fra i due coniugi.
Del resto in quel momento ero tanto pieno di buoni propositi che mi pareva che Ada avrebbe fatto un buon affare partecipando ad un'impresa diretta da noi.
Accompagnai Guido fino alla porta di casa sua e gli strinsi lungamente la mano per rinnovare silenziosamente il proposito di volergli bene.
Poi mi studiai di dirgli qualche cosa di gentile e finii col trovare questa frase:
- Che i tuoi gemelli abbiano una buona notte e ti lascino dormire perché certamente hai bisogno di riposo.
Andando via mi morsi le labbra al rimpianto di non aver trovato di meglio.
Ma se sapevo che i gemelli oramai che avevano ciascuno la loro balia dormivano a mezzo chilometro da lui e non avrebbero potuto turbargli il sonno! Ad ogni modo egli aveva capita l'intenzione dell'augurio perché l'aveva accettato riconoscente.
Giunto a casa, trovai che Augusta s'era ritirata nella stanza da letto coi bambini.
Alfio era attaccato al suo petto mentre Antonia dormiva nel suo lettino volgendoci la nuca ricciuta.
Dovetti spiegare la ragione del mio ritardo e perciò le raccontai anche il mezzo escogitato da Guido per liberarsi delle sue passività.
Ad Augusta la proposta di Guido parve indegna:
- Al posto di Ada io rifiuterei, - esclamò con violenza per quanto a bassa voce per non spaventare il piccino.
Diretto dai miei propositi di bontà, discussi:
- Perciò, se io capitassi nelle stesse difficoltà di Guido tu non m'aiuteresti?
Essa rise:
- La cosa è ben differente! Fra noi due si vedrebbe quello che sarebbe piú vantaggioso per loro! - e accennò al bambino che teneva in braccio e ad Antonia.
Poi, dopo un momento di riflessione, continuò: - E se noi ora consigliassimo ad Ada di concedere il suo denaro per continuare quell'affare di cui tu fra breve non farai piú parte, non saremmo poi impegnati ad indennizzarla se dovesse poi perderlo?
Era un'idea da ignorante, ma nel mio nuovo altruismo esclamai:
- E perché no?
- Ma non vedi che ne abbiamo due dei bambini cui dobbiamo pensare?
Se li vedevo! La domanda era una figura rettorica veramente vuota di senso.
- E non ne hanno anche loro due dei bambini? - domandai vittoriosamente.
Essa si mise a ridere clamorosamente facendo spaventare Alfio che lasciò di poppare per piangere subito.
Essa s'occupò di lui, ma sempre ridendo, ed io accettai il suo riso come se me lo fossi conquistato col mio spirito mentre, in verità, nel momento in cui avevo fatta quella domanda, m'ero sentito movere nel petto un grande amore per i genitori di tutti i bambini e per i bambini di tutti i genitori.
Avendone poi riso, di quell'affetto non restò piú niente.
Ma anche il cruccio di non sapermi essenzialmente buono si mitigò.
Mi pareva di aver sciolto il problema angoscioso.
Non si era né buoni né cattivi come non si era tante altre cose ancora.
La bontà era la luce che a sprazzi e ad istanti illuminava l'oscuro animo umano.
Occorreva la fiaccola bruciante per dare la luce (nell'animo mio c'era stata e prima o poi sarebbe sicuramente anche ritornata) e l'essere pensante a quella luce poteva scegliere la direzione per moversi poi nell'oscurità.
Si poteva perciò manifestarsi buoni, tanto buoni, sempre buoni, e questo era l'importante.
Quando la luce sarebbe ritornata non avrebbe sorpreso e non avrebbe abbacinato.
Ci avrei soffiato su per spegnerla prima, visto ch'io non ne avevo bisogno.
Perché io avrei saputo conservare il proposito, cioè la direzione.
Il proposito di bontà è placido e pratico ed io ora ero calmo e freddo.
Curioso! L'eccesso di bontà m'aveva fatto eccedere nella stima di me stesso e del mio potere.
Che cosa potevo io fare per Guido? Era vero ch'io nel suo ufficio sovrastavo di tanto agli altri quanto nel mio ufficio l'Olivi padre stava al disopra di me.
Ma ciò non provava molto.
E per essere ben pratico: che cosa avrei io consigliato a Guido il giorno appresso? Forse una mia ispirazione? Ma se neppure al tavolo di giuoco si seguivano le ispirazioni quando si giuocava coi denari altrui! Per far vivere una casa commerciale bisogna crearle un lavoro di ogni giorno e questo si può raggiungere lavorando ogni ora attorno ad una organizzazione.
Non ero io che potevo fare una cosa simile, né mi pareva giusto di sottopormi a forza di bontà alla condanna della noia a vita.
Sentivo tuttavia l'impressione fattami dal mio slancio di bontà come un impegno che avessi preso con Guido, e non potevo addormentarmi.
Sospirai piú volte profondamente e una volta persino gemetti, certamente nel momento in cui mi pareva di essere obbligato di legarmi all'ufficio di Guido come l'Olivi era legato al mio.
Nel dormiveglia Augusta mormorò:
- Che hai? Hai trovato di nuovo da dire con l'Olivi?
Ecco l'idea che cercavo! Io avrei consigliato Guido di prendere con sé quale direttore il giovine Olivi! Quel giovinotto tanto serio e tanto laborioso e ch'io vedevo tanto malvolentieri nei miei affari perché pareva s'apprestasse di succedere a suo padre nella loro direzione per tenermene definitivamente fuori, apparteneva evidentemente e a vantaggio di tutti, nell'ufficio di Guido.
Facendogli una posizione in casa sua, Guido si sarebbe salvato e il giovine Olivi sarebbe stato piú utile in quell'ufficio che non nel mio.
L'idea mi esaltò e destai Augusta per comunicargliela.
Anch'essa ne fu tanto entusiasmata da destarsi del tutto.
Le pareva che cosí io avrei piú facilmente potuto levarmi dagli affari compromettenti di Guido.
Mi addormentai con la coscienza tranquilla: avevo trovato il modo di salvare Guido senza condannare me; anzi tutt'altro.
Non c'è niente di piú disgustoso che di vedersi respinto un consiglio ch'è stato sinceramente studiato con uno sforzo che costò persino delle ore di sonno.
Da me c'era poi stato un altro sforzo: quello di spogliarmi dell'illusione di poter giovare io stesso agli affari di Guido.
Uno sforzo immane.
Ero dapprima arrivato ad una vera bontà, poi ad un'assoluta oggettività e mi si mandava a quel paese!
Guido rifiutò il mio consiglio addirittura con disdegno.
Non credeva capace il giovine Olivi eppoi gli spiaceva il suo aspetto di giovine vecchio e piú ancora gli spiacevano quei suoi occhiali tanto lucenti sulla sua scialba faccia.
Gli argomenti erano veramente atti a farmi credere che di fondato non ce ne fosse che uno: il desiderio di farmi dispetto.
Finí col dirmi che avrebbe accettato come capo del suo ufficio non il giovine ma il vecchio Olivi.
Ma io non credevo di potergli procurare la collaborazione di questi, eppoi io non mi credevo pronto per assumere da un momento all'altro la direzione dei miei affari.
Ebbi il torto di discutere e gli dissi che il vecchio Olivi valeva poco.
Gli raccontai quanto denaro mi avesse costato la sua caparbietà di non aver voluto comperare a tempo quella tale frutta secca.
- Ebbene! - esclamò Guido.
- Se il vecchio non vale piú di cosí, che valore potrà avere il giovine che non è altro che un suo scolaro?
Ecco finalmente un buon argomento, e tanto piú dispiacevole per me in quanto lo avevo fornito io con la mia chiacchiera imprudente.
Pochi giorni appresso, Augusta mi raccontò che Guido aveva proposto ad Ada di sopportare col suo denaro metà della perdita del bilancio.
Ada vi si rifiutava dicendo ad Augusta:
- Mi tradisce e vuole anche il mio denaro!
Augusta non aveva avuto il coraggio di consigliarle di darglielo, ma assicurava che aveva fatto del suo meglio per far ricredere Ada dal suo giudizio sulla fedeltà del marito.
Costei aveva risposto in modo da far ritenere ch'essa a quel proposito la sapesse piú lunga di quanto noi si credesse.
E Augusta con me ragionava cosí: - Per il marito bisogna saper portare qualunque sacrificio, ma valeva tale assioma anche per Guido?
Nei giorni seguenti il contegno di Guido si fece veramente straordinario.
Veniva in ufficio di tempo in tempo e non vi restava mai per piú di mezz'ora.
Correva via come chi ha dimenticato il fazzoletto a casa.
Seppi poi che andava a portare nuovi argomenti ad Ada che gli parevano decisivi per indurla a fare il voler suo.
Aveva veramente l'aspetto di persona che ha pianto troppo o troppo gridato o che s'è addirittura battuto, e neppure in nostra presenza arrivava a domare l'emozione che gli contraeva la gola e gli faceva venire le lacrime agli occhi.
Gli domandai che cosa avesse.
Mi rispose con un sorriso triste, ma amichevole per dimostrarmi che non l'aveva con me.
Poi si raccolse onde poter parlarmi senz'agitarsi di troppo.
Infine disse poche parole: Ada lo faceva soffrire con la sua gelosia.
Egli dunque mi raccontava che discutevano le loro storie intime mentre io pur sapevo che c'era anche quella storia del «conto utili e danni» fra di loro.
Ma pareva che questo non avesse importanza.
Me lo diceva lui e lo diceva anche Ada ad Augusta non parlandole d'altro che della sua gelosia.
Anche la violenza di quelle discussioni, che lasciava traccie tanto profonde sulla faccia di Guido, faceva credere dicessero il vero.
Invece poi risultò che fra' due coniugi non si parlò che della questione del denaro.
Ada per superbia e per quanto si facesse dirigere dai suoi dolori passionali, non li aveva mai menzionati, e Guido, forse per la coscienza della sua colpa e per quanto sentisse che in Ada imperversasse l'ira della donna, continuò a discutere gli affari come se il resto non esistesse.
Egli s'affannò sempre piú a correre dietro a quei denari, mentre lei, che non era affatto toccata da quistioni d'affari, protestava contro la proposta di Guido con un solo argomento: i denari dovevano restare ai bambini.
E quand'egli trovava altri argomenti, la sua pace, il vantaggio che sarebbe derivato ai bambini stessi dal suo lavoro, la sicurezza di trovarsi in regola con le prescrizioni di legge, essa lo saldava con un duro «No».
Ciò esasperava Guido e - come dai bambini - anche il suo desiderio.
Ma ambedue - quando ne parlavano ad altri - credevano di essere esatti asserendo di soffrire per amori e gelosie.
Fu una specie di malinteso che m'impedí d'intervenire a tempo per far cessare l'incresciosa quistione del denaro.
Io potevo provare a Guido ch'essa effettivamente mancava d'importanza.
Quale contabile sono un po' tardo e non capisco le cose che quando le ho distribuite nei libri, nero sul bianco, ma mi pare che presto io abbia capito che il versamento che Guido esigeva da Ada non avrebbe mutate di molto le cose.
A che serviva infatti di farsi fare un versamento di denari? La perdita cosí non appariva mica minore, a meno che Ada non avesse accettato di far getto del denaro in quella contabilità ciò che Guido non domandava.
La legge non si sarebbe mica lasciata ingannare al trovare che, dopo di aver perduto tanto, si voleva rischiare un po' di piú attirando nell'azienda dei nuovi capitalisti.
Una mattina Guido non si fece veder in ufficio ciò che ci sorprese perché sapevamo che la sera prima non era partito per la caccia.
A colazione appresi da Augusta commossa e agitata che Guido la sera prima aveva attentato alla propria vita.
Oramai era fuori di pericolo.
Devo confessare che la notizia, che ad Augusta sembrava tragica, a me fece rabbia.
Egli era ricorso a quel mezzo drastico per spezzare la resistenza della moglie! Appresi anche subito che l'aveva fatto con tutte le prudenze, perché prima di prendere la morfina se ne era fatta vedere la boccetta stappata in mano.
Cosí al primo torpore in cui cadde, Ada chiamò il medico ed egli fu subito fuori di pericolo.
Ada aveva passata una notte orrenda perché il dottore credette di dover fare delle riserve sull'esito dell'avvelenamento, eppoi la sua agitazione fu prolungata da Guido che, quando rinvenne, forse non ancora in piena coscienza, la colmò di rimproveri dicendola la sua nemica, la sua persecutrice, colei che gl'impediva il sano lavoro cui egli voleva accingersi.
Ada gli accordò subito il prestito ch'egli domandava, ma poi, finalmente, nell'intenzione di difendersi, parlò chiaro e gli fece tutti i rimproveri ch'essa tanto tempo aveva trattenuti.
Cosí arrivarono a intendersi perché a lui riuscí - cosí Augusta credeva - di dissipare in Ada ogni sospetto sulla sua fedeltà.
Fu energico e quando lei gli parlò di Carmen, egli gridò:
- Ne sei gelosa? Ebbene, se lo vuoi la mando via oggi stesso.
Ada non aveva risposto e credette cosí di avere accettata quella proposta e ch'egli vi si fosse impegnato.
Mi meravigliai che Guido avesse saputo comportarsi cosí nel dormiveglia e giunsi fino a credere ch'egli non avesse ingoiata neppure la piccola dose di morfina ch'egli diceva.
A me pareva che uno degli effetti degli annebbiamenti del cervello per sonno, fosse di sciogliere l'animo piú indurito, inducendolo alle piú ingenue confessioni.
Non ero io recente di una tale avventura? Ciò aumentò il mio sdegno e il mio disprezzo per Guido.
Augusta piangeva raccontando in quale stato avesse trovata Ada.
No! Ada non era piú bella con quegli occhi che sembravano spalancati dal terrore.
Fra me e mia moglie ci fu una lunga discussione se io avessi dovuto far subito una visita a Guido e Ada oppure se non fosse stato meglio di fingere di non saper di nulla e aspettare di rivederlo in ufficio.
A me quella visita sembrava una seccatura insopportabile.
Vedendolo, come avrei fatto di non dirgli l'animo mio? Dicevo:
- È un'azione indegna per un uomo! Io non ho alcuna voglia di ammazzarmi, ma non v'è dubbio che se decidessi di farlo vi riuscirei subito!
Sentivo proprio cosí e volevo dirlo ad Augusta.
Ma mi sembrava di far troppo onore a Guido paragonandolo a me:
- Non occorre mica essere un chimico per saper distruggere questo nostro organismo ch'è anche troppo sensibile.
Non c'è quasi ogni settimana, nella nostra città, la sartina che ingoia la soluzione di fosforo preparata in segreto nella sua povera stanzetta, e da quel veleno rudimentale, ad onta di ogni intervento, viene portata alla morte con la faccina ancora contratta dal dolore fisico e da quello morale che subí la sua animuccia innocente?
Augusta non ammetteva che l'anima della sartina suicida fosse tanto innocente, ma, fatta una lieve protesta, ritornò al suo tentativo d'indurmi a quella visita.
Mi raccontò che non dovevo temere di trovarmi in imbarazzo.
Essa aveva parlato anche con Guido il quale aveva trattato con lei con tanta serenità come se egli avesse commessa l'azione piú comune.
Uscii di casa senza dare la soddisfazione ad Augusta di mostrarmi convinto delle sue ragioni.
Dopo lieve esitazione mi avviai senz'altro a compiacere mia moglie.
Per quanto breve fosse il percorso, il ritmo del mio passo m'addusse ad una mitigazione del mio giudizio sul conto di Guido.
Ricordai la direzione segnatami dalla luce che pochi giorni prima aveva illuminato il mio animo.
Guido era un fanciullo, un fanciullo cui avevo promessa la mia indulgenza.
Se non gli riusciva di ammazzarsi prima, anche lui prima o poi sarebbe arrivato alla maturità.
La fantesca mi fece entrare in uno stanzino che doveva essere lo studio di Ada.
La giornata era fosca e il piccolo ambiente, con la sola finestra coperta da una fitta tenda, era buio.
Sulla parete v'erano i ritratti dei genitori di Ada e di Guido.
Vi restai poco perché la fantesca ritornò a chiamarmi e mi condusse da Guido e Ada nella loro stanza da letto.
Questa era vasta e luminosa anche quel giorno, per le sue due ampie finestre e per la tappezzeria e i mobili chiari.
Guido giaceva nel suo letto con la testa fasciata e Ada era seduta accanto a lui.
Guido mi ricevette senz'alcun imbarazzo, anzi con la piú viva riconoscenza.
Sembrava assonnato, ma per salutarmi eppoi darmi le sue disposizioni, seppe scotersi e apparire desto del tutto.
Indi s'abbandonò sul guanciale e chiuse gli occhi.
Ricordava che doveva simulare il grande effetto della morfina? Ad ogni modo faceva pietà e non ira ed io mi sentii molto buono.
Non guardai subito Ada: avevo paura della fisonomia di Basedow.
Quando la guardai, ebbi una gradevole sorpresa perché mi aspettavo di peggio.
I suoi occhi erano veramente ingranditi a dismisura, ma le gonfiezze che sulla sua faccia avevano sostituito le guancie, erano sparite e a me essa parve piú bella.
Vestiva un'ampia veste rossa, chiusa fino al mento, nella quale il suo povero corpicciuolo si perdeva.
C'era in lei qualcosa di molto casto e, per quegli occhi, qualche cosa di molto severo.
Non seppi chiarire del tutto i miei sentimenti, ma davvero pensai mi stesse accanto una donna che assomigliava a quell'Ada che io avevo amata.
A un certo momento Guido spalancò gli occhi, trasse di sotto al guanciale un assegno su cui subito vidi la firma di Ada, me lo consegnò, mi pregò di farlo incassare e di accreditarne l'importo in un conto che dovevo aprire al nome di Ada.
- Al nome di Ada Malfenti o Ada Speier? - domandò scherzosamente ad Ada.
Essa si strinse nelle spalle e disse:
- Lo saprete voi due come sia meglio.
- Ti dirò poi come devi fare le altre registrazioni, - aggiunse Guido con una brevità che mi offese.
Ero sul punto di interrompergli la sonnolenza cui s'era subito abbandonato, dichiarandogli che se voleva delle registrazioni se le facesse da sé.
Intanto fu portata una grande tazza di caffè nero che Ada gli porse.
Egli trasse le braccia di sotto le coperte e con ambe le mani si portò la tazza alla bocca.
Ora, col naso nella tazza, pareva proprio un bambino.
Quando mi congedai, egli m'assicurò che il giorno seguente sarebbe venuto in ufficio.
Io avevo già salutata Ada e perciò fui non poco sorpreso quand'essa mi raggiunse alla porta d'uscita.
Ansava:
- Te ne prego, Zeno! Vieni qui per un istante.
Ho bisogno di dirti una cosa.
La seguii nel salottino ove ero stato poco prima e da cui adesso si sentiva il pianto di uno dei gemelli.
Restammo in piedi guardandoci in faccia.
Essa ansava ancora e per questo, solo per questo, io per un momento pensai che m'avesse fatto entrare in quella stanzuccia buia per domandarmi l'amore che le avevo offerto.
Nell'oscurità i suoi grandi occhi erano terribili.
Pieno d'angoscia mi domandavo quello che avrei dovuto fare.
Non sarebbe stato mio dovere di prenderla fra le mie braccia e risparmiarle cosí di dover domandarmi qualche cosa? In un istante quale avvicendarsi di propositi! È una delle grandi difficoltà della vita d'indovinare ciò che una donna vuole.
Ascoltarne le parole non serve, perché tutto un discorso può essere annullato da uno sguardo e neppure questo sa dirigerci quando ci si trova con lei, per suo volere, in una comoda buia stanzuccia.
Non sapendo indovinare lei, io tentavo d'intendere me stesso.
Quale era il mio desiderio? Volevo baciare quegli occhi e quel corpo scheletrico? Non sapevo dare una risposta decisa perché poco prima l'avevo vista nella severa castità di quella soffice vestaglia, desiderabile come la fanciulla ch'io avevo amata.
Alla sua ansia s'era intanto associato anche il pianto e cosí s'allungò il tempo in cui io non sapevo quello ch'ella volesse e che io desiderassi.
Finalmente, con voce spezzata, essa mi disse ancora una volta il suo amore per Guido, cosí ch'io non ebbi piú con lei né doveri né diritti.
Balbettò:
- Augusta m'ha detto che tu vorresti lasciare Guido e non occuparti piú dei fatti suoi.
Devo pregarti di continuare ad assisterlo.
Io non credo ch'egli sia in grado di fare da sé.
Mi domandava di continuare a fare quello che già facevo.
Era poco, ben poco ed io tentai di concedere di piú:
- Giacché lo vuoi, continuerò ad assistere Guido; farò anzi del mio meglio per assisterlo piú efficacemente di quanto non abbia fatto finora.
Ecco di nuovo l'esagerazione! Me ne avvidi nello stesso momento in cui v'incappavo, ma non seppi rinunziarvi.
Io volevo dire ad Ada (o forse mentirle) che ella mi premeva.
Essa non voleva il mio amore, ma il mio appoggio ed io le parlavo in modo che potesse credere ch'io ero pronto a concederle ambedue.
Ada m'afferrò subito la mano.
Ebbi un brivido.
Offre molto una donna porgendo la mano! Ho sempre sentito questo.
Quando mi fu concessa una mano mi parve di afferrare tutta una donna.
Sentii la sua statura e nell'evidente confronto fra la mia e la sua, mi parve di fare atto somigliante all'abbraccio.
Certo fu un contatto intimo.
Ella soggiunse:
- Io devo ritornare subito a Bologna in casa di salute e mi sarà di grande tranquillità di saperti con lui.
- Resterò con lui! - risposi con aspetto rassegnato.
Ada dovette credere che quel mio aspetto di rassegnazione significasse il sacrificio ch'io consentivo di farle.
Invece io stavo rassegnandomi a ritornare ad una vita molto ma molto comune, visto ch'essa non ci pensava di seguirmi in quella d'eccezione ch'io avevo sognata.
Feci uno sforzo per discendere del tutto a terra, e scopersi immediatamente nella mia mente un problema di contabilità non semplice.
Dovevo accreditare dell'importo dell'assegno che tenevo in tasca il conto di Ada.
Questo era chiaro e invece non chiaro affatto come tale registrazione avrebbe potuto toccare il conto Utili e Danni.
Non ne dissi nulla per il dubbio che forse Ada non sapesse che c'era a questo mondo un libro mastro contenente dei conti di sí varia natura.
Ma non volli uscire da quella stanza senz'aver detto altro.
Fu cosí che invece di parlare di contabilità, dissi una frase che in quel momento gettai lí negligentemente solo per dire qualche cosa, ma che poi sentii di grande importanza per me per Ada e per Guido, ma prima di tutto per me stesso che compromisi una volta di piú.
Tanto importante fu quella frase che per lunghi anni ricordai come, con movimento trascurato, avessi mosse le labbra per dirla in quello stanzino buio in presenza dei quattro ritratti dei genitori di Ada e Guido sposatisi anch'essi fra di loro sulla parete.
Dissi:
- Hai finito con lo sposare un uomo ancora piú bizzarro di me, Ada!
Come la parola sa varcare il tempo! Essa stessa avvenimento che si riallaccia agli avvenimenti! Diveniva avvenimento, tragico avvenimento, perché diretta ad Ada.
Nel mio pensiero non avrei mai saputo evocare con tanta vivacità l'ora in cui Ada aveva scelto fra me e Guido su quella via soleggiata ove, dopo giorni di attesa, avevo saputo incontrarla per camminarle accanto e affaticarmi di conquistare il suo riso che scioccamente accoglievo come una promessa! E ricordai anche che allora io ero già reso inferiore per l'imbarazzo dei muscoli delle mie gambe mentre Guido si moveva ancora piú disinvolto di Ada stessa e non era segnato da alcuna inferiorità se come tale non si avesse dovuto considerare quello strano bastone ch'egli si adattava di portare.
Essa disse a bassa voce:
- È vero!
Poi, sorridendo affettuosamente:
- Ma sono lieta per Augusta che tu sia stato tanto migliore di quanto ti credevo.
- Poi, con un sospiro: - Tanto, che mi attenua un poco il dolore che Guido non sia quello che io m'aspettavo.
Io tacevo sempre, ancora dubbioso.
Mi pareva che m'avesse detto che io fossi divenuto quello ch'essa si era aspettata dovesse divenire Guido.
Era dunque amore? Ed essa disse ancora:
- Sei il migliore uomo della nostra famiglia, la nostra fiducia, la nostra speranza.
- Mi riafferrò la mano e io la serrai forse troppo.
Essa me la sottrasse però tanto presto, che fu dissipato ogni dubbio.
E in quella buia stanzuccia io seppi di nuovo come dovevo comportarmi.
Forse per attenuare il suo atto mi mandò un'altra carezza: - È perché ti so cosí che mi dolgo tanto di averti fatto soffrire.
Hai veramente sofferto tanto?
Io ficcai subito l'occhio nell'oscurità del mio passato per ritrovare quel dolore e mormorai:
- Sí!
A poco a poco ricordai il violino di Guido eppoi come m'avrebbero gettato fuori di quel salotto se non mi fossi aggrappato ad Augusta, e poi ancora il salotto in casa Malfenti, ove intorno al tavolino Luigi XIV si faceva all'amore mentre dall'altro tavolino si guardava.
Improvvisamente ricordai anche Carla perché anche con lei c'era stata Ada.
Allora sentii viva la voce di Carla che mi diceva ch'io appartenevo a mia moglie, cioè ad Ada.
Ripetei, mentre le lacrime mi salivano agli occhi:
- Molto! Sí! Molto!
Ada singhiozzava addirittura: - Mi dispiace tanto, tanto!
Si fece forza e disse:
- Ma adesso tu ami Augusta!
Un singhiozzo l'interruppe per un istante ed io trasalii non sapendo se essa si fosse fermata per sentire se io avrei affermato o negato quell'amore.
Per mia fortuna non mi diede il tempo di parlare perché continuò:
- Adesso c'è fra noi due e dev'esserci un vero affetto fraterno.
Io ho bisogno di te.
Per quel ragazzo di là, io ormai dovrò essere una madre, dovrò proteggerlo.
Vuoi aiutarmi nel mio difficile compito?
Nella sua grande emozione ella quasi s'appoggiava a me, come nel sogno.
Ma io m'attenni alle sue parole.
Mi domandava un affetto fraterno; l'impegno di amore che pensavo mi legasse a lei si trasformava cosí in un altro suo diritto, epperò le promisi subito di aiutare Guido, di aiutare lei, di fare quello che avrebbe voluto.
Se fossi stato piú sereno avrei dovuto parlare della mia insufficienza al compito ch'essa m'assegnava, ma avrei distrutta tutta l'indimenticabile emozione di quel momento.
Del resto ero tanto commosso che non potevo sentire la mia insufficenza.
In quel momento pensavo che non esistessero affatto per nessuno delle insufficienze.
Anche quella di Guido poteva essere soffiata via con alcune parole che gli dessero il necessario entusiasmo.
Ada m'accompagnò sul pianerottolo e restò lí, appoggiata alla ringhiera, a vedermi scendere.
Cosí aveva fatto sempre Carla, ma era strano lo facesse Ada che amava Guido, ed io gliene fui tanto grato che, prima di passare alla seconda branca della scala, alzai anche una volta il capo per vederla e salutarla.
Cosí si faceva in amore ma, si vedeva, anche quando si trattava di amore fraterno.
Cosí me ne andai via lieto.
Essa m'aveva accompagnato fino su quel pianerottolo, e non oltre.
Non v'erano piú dubbii.
Restavamo cosí: io l'avevo amata ed ora amavo Augusta, ma il mio antico amore le dava il diritto alla mia devozione.
Essa poi continuava ad amare quel fanciullo, ma riservava a me un grande affetto fraterno e non solo perché avevo sposata sua sorella, ma per indennizzarmi dei dolori che m'aveva procurati e che costituivano un legame segreto fra di noi.
Tutto ciò era ben dolce, di un sapore raro in questa vita.
Tanta dolcezza non avrebbe potuto darmi una vera salute? Infatti io camminai quel giorno senza imbarazzo e senza dolori, mi sentii magnanimo e forte e nel cuore un sentimento di sicurezza che m'era nuovo.
Dimenticai di aver tradito mia moglie ed anche nel modo piú sconcio oppure mi proposi di non farlo piú ciò che si equivale, e mi sentii veramente quale Ada mi voleva, l'uomo migliore della famiglia.
Allorché tanto eroismo s'affievolí, io avrei voluto ravvivarlo, ma intanto Ada era partita per Bologna ed ogni mio sforzo per trarre un nuovo stimolo da quanto essa m'aveva già detto restava vano.
Sí! Avrei fatto quel poco che potevo per Guido, ma un proposito simile non aumentava né l'aria nei miei polmoni né il sangue nelle mie vene.
Per Ada mi rimase nel cuore una grande nuova dolcezza rinnovata ogni qualvolta essa nelle sue lettere ad Augusta mi ricordava con qualche parola affettuosa.
Le ricambiavo di cuore il suo affetto e accompagnavo la sua cura coi voti migliori.
Magari le fosse riuscito di riconquistare tutta la sua salute e tutta la sua bellezza!
Il giorno seguente, Guido venne in ufficio e si mise subito a studiare le registrazioni ch'egli voleva fare.
Propose:
- Storniamo ora il Conto Utili e Danni a metà con quello di Ada.
Era proprio questo ch'egli voleva e che non serviva a nulla.
Se io fossi stato l'esecutore indifferente della sua volontà come lo ero stato fino a pochi giorni prima, con tutta semplicità avrei eseguite quelle registrazioni e non ci avrei pensato piú.
Invece sentii il dovere di dirgli tutto; mi pareva di stimolarlo al lavoro facendogli sapere che non era tanto facile di cancellare la perdita in cui si era incorsi.
Gli spiegai che a quanto ne sapevo io, Ada aveva dato quel denaro perché fosse posto a suo credito nel suo conto e ciò non avveniva piú se noi lo saldavamo ficcandoci dentro, dall'altra parte, metà della perdita del bilancio.
Poi, che la parte della perdita ch'egli voleva trasportare nel conto proprio, vi apparteneva e vi avrebbe anzi appartenuta tutta, ma ciò non era il suo annullamento e invece la constatazione della stessa.
Ci avevo pensato tanto che m'era facile di spiegargli tutto, e conclusi:
- Ammettendo che si capitasse - cosí non voglia Iddio! - nelle circostanze previste dall'Olivi, la perdita sarebbe tuttavia risultata evidente dai nostri libri, non appena fossero stati visti da un perito pratico.
Egli mi guardava attonito.
Sapeva abbastanza di contabilità per intendermi e invece non ci arrivava perché il desiderio gl'impediva di adattarsi all'evidenza.
Poi aggiunsi, per fargli veder chiaramente tutto:
- Vedi che non c'era nessuno scopo che Ada facesse tale versamento?
Quando finalmente comprese, impallidí fortemente e si mise a rosicchiarsi nervosamente le unghie.
Restò trasognato, ma volle vincersi e con quel suo comico fare di comandante, dispose che tuttavia quelle registrazioni fossero fatte, aggiungendo:
- Per esonerarti di ogni responsabilità sono disposto di scrivere io nei libri e magari di firmare!
Compresi! Voleva continuare a sognare in luogo ove non c'è posto a sogni: la partita doppia!
Ricordai quanto avevo promesso a me stesso là sull'erta di via Belvedere, eppoi ad Ada, nel salottino buio di casa sua e parlai generosamente:
- Farò subito le registrazioni che desideri: non sento il bisogno di essere difeso dalla tua firma.
Sono qui per aiutarti, non per ostacolarti!
Egli mi strinse affettuosamente la mano:
- La vita è difficile - disse - ed è un grande conforto per me di avere accanto un amico quale sei tu.
Ci guardammo commossi negli occhi.
I suoi lucevano.
Per sottrarmi alla commozione che minacciava anche me, dissi ridendo:
- La vita non è difficile, ma molto originale.
Ed anche lui rise di cuore.
Poi egli mi restò accanto per vedere come avrei saldato quel Conto Utili e Danni.
Fu fatto in pochi minuti.
Quel conto morí, ma trascinò nel nulla anche il conto di Ada a cui però notammo il credito in un libercolo, per il caso in cui ogni altra testimonianza in seguito a qualche cataclisma fosse sparita e per avere l'evidenza che dovevamo pagarle gl'interessi.
L'altra metà del Conto Utili e Danni andò ad aumentare il Dare già considerevole del conto di Guido.
Per loro natura i contabili sono un genere di animali molto disposti all'ironia.
Facendo quelle registrazioni io pensavo: «Un conto - quello intitolato agli utili e danni - era morto ammazzato, l'altro - quello di Ada - era morto di morte naturale perché non ci riusciva di tenerlo in vita e invece non sapevamo ammazzare quello di Guido, ch'essendo di un debitore dubbioso, tenuto cosí, era una vera tomba aperta nella nostra azienda».
Di contabilità si continuò a parlare per lungo tempo, in quell'ufficio.
Guido s'arrabattava per trovare un altro modo che avesse potuto proteggerlo meglio da eventuali insidie (cosí egli le chiamava) della legge.
Io credo che egli abbia anche consultato qualche contabile perché un giorno venne in ufficio a propormi di distruggere i libri vecchi dopo averne fatti di nuovi sui quali avremmo registrata una vendita falsa ad un nome qualunque che avrebbe poi figurato di averla pagata con l'importo prestato da Ada.
Era doloroso dover disilluderlo perché era corso all'ufficio animato da una tanta speranza! Proponeva una falsificazione che proprio mi ripugnava.
Finora non avevamo fatto altro che spostare delle realtà minacciando di danneggiare chi implicitamente vi aveva dato il suo consenso.
Ora, invece, egli voleva inventare dei movimenti di merci.
Vedevo anch'io che cosí e solo cosí, si poteva cancellare ogni traccia della perdita subita ma a quale prezzo! Bisognava anche inventare il nome del compratore o prendere il consenso di chi volevamo far figurare come tale.
Non avevo niente in contrario di veder distruggere i libri che pur avevo scritti con tanta cura, ma era seccante farne di nuovi.
Feci delle obbiezioni che finirono col convincere Guido.
Una fattura non si simula facilmente.
Bisognerebbe saper falsificare anche i documenti comprovanti l'esistenza e la proprietà della merce.
Egli rinunziò al suo piano, ma il giorno seguente capitò in ufficio con un altro piano che anch'esso implicava la distruzione dei libri vecchi.
Stanco di veder intralciato ogni altro lavoro da discussioni simili, protestai:
- Vedendo che ci pensi tanto, si crederebbe tu voglia proprio prepararti al fallimento! Altrimenti quale importanza può aver una diminuzione tanto esigua del tuo capitale? Finora nessuno ha il diritto di guardare nei tuoi libri.
Bisogna ora lavorare, lavorare e non occuparsi di sciocchezze.
Mi confessò che quel pensiero era la sua ossessione.
E come avrebbe potuto essere altrimenti? Con un po' di sfortuna poteva incappare dritto dritto in quella sanzione penale e finire in carcere!
Dai miei studi giuridici io sapevo che l'Olivi aveva esposto con grande esattezza quali fossero i doveri di un commerciante che ha fatto un simile bilancio, ma per liberare Guido e anche me da tale ossessione, lo consigliai di consultare qualche avvocato amico.
Mi rispose di averlo già fatto ossia di non essere stato da un avvocato espressamente a quello scopo perché non voleva confidare nemmeno ad un avvocato quel suo segreto, ma di aver fatto ciarlare un avvocato suo amico col quale s'era trovato a caccia.
Sapeva perciò che l'Olivi non aveva né sbagliato né esagerato...
purtroppo!
Vedendone l'inanità, cessò dal fare delle scoperte per falsare la sua contabilità, ma non perciò riacquistò la calma.
Ogni qualvolta veniva in ufficio si rabbuiava guardando i suoi libroni.
Mi confessò, un giorno, che entrando nella nostra stanza gli era parso di trovarsi nell'anticamera della galera e avrebbe voluto correr via.
Un giorno mi domandò:
- Augusta sa tutto del nostro bilancio?
Arrossii perché nella domanda mi parve sentire un rimprovero.
Ma evidentemente se Ada sapeva del bilancio poteva saperne anche Augusta.
Non pensai subito cosí, ma mi parve invece di meritare il rimprovero che egli intendeva di muovermi.
Perciò mormorai:
- L'avrà saputo da Ada o forse da Alberta cui Ada l'avrà detto!
Rivedevo tutti i rigagnoli che potevano condurre ad Augusta e non mi pareva con ciò di negare che essa avesse avuto tutto dalla prima fonte, cioè da me, ma di asserire che sarebbe stato inutile per me di tacere.
Peccato! Se avessi invece confessato subito ch'io con Augusta non avevo segreti, mi sarei sentito tanto piú leale e onesto! Un lieve fatto cosí, cioè la dissimulazione di un atto che sarebbe stato meglio di confessare e proclamare innocente, basta ad imbarazzare la piú sincera amicizia.
Registro qui, quantunque non abbia avuto alcun'importanza né per Guido né per la mia storia, il fatto che alcuni giorni appresso, quel chiacchierone di sensale col quale avevamo avuto da fare per il solfato di rame, mi fermò per istrada e, guardandomi dal basso in alto, come ve lo obbligava la sua bassa statura ch'egli sapeva esagerare abbassandosi sulle gambe, mi disse ironicamente:
- Si dice che abbiate fatti degli altri buoni affari come quello del solfato!
Poi, vedendomi allibire, mi strinse la mano e soggiunse:
- Per conto mio io vi auguro i migliori affari.
Spero non ne dubiterete!
E mi lasciò.
Io suppongo che i fatti nostri gli sieno stati riferiti dalla figliuola sua che frequentava al Liceo la stessa classe della piccola Anna.
Non riferii a Guido la piccola indiscrezione.
Il mio compito precipuo era di difenderlo da inutili angustie.
Fui stupito che Guido non prendesse alcuna disposizione per Carmen, perché sapevo che aveva formalmente promesso alla moglie di congedarla.
Io credevo che Ada sarebbe ritornata a casa dopo qualche mese come la prima volta.
Ma essa, senza passare per Trieste, si recò invece a soggiornare in una villetta sul Lago Maggiore ove poco dopo Guido le portò i bambini.
Ritornato da quel viaggio e non so se egli avesse ricordata la sua promessa da sé oppure che Ada gliel'avesse richiamata alla mente - mi domandò se non sarebbe stato possibile di impiegare Carmen nel mio ufficio, cioè in quello dell'Olivi.
Io sapevo già che in quell'ufficio tutti i posti erano occupati, ma visto che Guido me ne pregava calorosamente, acconsentii di andar a parlarne col mio amministratore.
Per un caso fortunato, un impiegato dell'Olivi se ne andava proprio in quei giorni, ma aveva una paga inferiore di quella che era stata concessa a Carmen negli ultimi mesi con grande liberalità da Guido il quale, secondo me, faceva cosí pagare le sue donne dal Conto Spese Generali.
Il vecchio Olivi s'informò da me sulla capacità di Carmen e per quanto io gli dessi le migliori informazioni, offerse di prenderla intanto alle stesse condizioni dell'impiegato congedato.
Riferii ciò a Guido il quale afflitto e imbarazzato si grattò la testa.
- Come si fa ad offrirle un salario inferiore di quello che percepisce? Non si potrebbe indurre l'Olivi di arrivare a concederle intanto quello che ha già?
Io sapevo che non si poteva eppoi l'Olivi non usava considerarsi sposato con i suoi impiegati come facevamo noi.
Quando si fosse accorto che Carmen avesse meritata una corona di meno della paga concessale, gliel'avrebbe levata senza misericordia.
E si finí col restare cosí: l'Olivi non ebbe e non chiese neppure mai una risposta decisiva e Carmen continuò a far roteare i suoi begli occhi nel nostro ufficio.
Fra me e Ada c'era un segreto e restava importante proprio perché rimaneva un segreto.
Essa scriveva assiduamente ad Augusta, ma mai le raccontò di aver avute delle spiegazioni con me e neppure di avermi raccomandato Guido.
Neppure io ne parlai.
Un giorno Augusta mi fece vedere una lettera di Ada che mi riguardava.
Essa domandava prima notizie di me e finiva con l'appellarsi alla mia bontà perché le dicessi qualche cosa sull'andamento degli affari di Guido.
Mi turbai quando sentii ch'essa si dirigeva a me e mi rasserenai quando vidi che come al solito si dirigeva a me per informarsi di Guido.
Di nuovo non avevo da osare niente.
D'accordo con Augusta e senza parlarne a Guido, scrissi io a Ada.
Mi misi al tavolo col proposito di scriverle veramente una lettera di affari e le comunicai ch'ero tanto contento del modo come ora Guido dirigeva gli affari, cioè con assiduità e accortezza.
Ciò era vero o almeno ero contento di lui quel giorno, poiché gli era riuscito di guadagnare del denaro vendendo della merce che teneva depositata in città da varii mesi.
Era pur vero che egli sembrava piú assiduo, ma andava tuttavia ogni settimana a caccia e a pesca.
Io esageravo volontieri nella mia lode perché cosí mi pareva di giovare alla guarigione di Ada.
Rilessi la lettera e non mi bastò.
Ci mancava qualche cosa.
Ada s'era rivolta a me ed era certo che voleva anche mie notizie.
Perciò mancavo di cortesia non dandogliene.
E a poco a poco - lo ricordo come se mi avvenisse ora - mi sentii imbarazzato a quel tavolo come se mi fossi trovato di nuovo faccia a faccia con Ada, in quello stanzino buio.
Dovevo stringere molto la manina offertami?
Scrissi ma poi dovetti rifare la lettera perché m'ero lasciato sfuggire parole addirittura compromettenti: anelavo di rivederla e speravo riconquistasse tutta la sua salute e tutta la sua bellezza.
Questo poi significava prendere per la vita la donna che m'aveva offerta solo la mano.
Il mio dovere era di stringere solo quella manina, stringerla dolcemente e lungamente per significare che intendevo tutto, tutto quello che non doveva essere detto giammai.
Non dirò tutto il frasario che passai in rivista per trovarci qualche cosa che potesse sostituire quella stretta di mano lunga e dolce e significativa, ma soltanto quelle frasi che poi scrissi.
Parlai lungamente della vecchiaia incombente su di me.
Non potevo stare un momento tranquillo senz'invecchiare.
Ad ogni giro del mio sangue qualche cosa s'aggiungeva alle mie ossa e alle mie vene che significava vecchiaia.
Ogni mattina, quando mi destavo, il mondo appariva piú grigio ed io non me ne accorgevo perché tutto restava intonato; non v'era in quel giorno neppure una pennellata del colore del giorno prima, altrimenti l'avrei scorta ed il rimpianto m'avrebbe fatto disperare.
Mi ricordo benissimo di aver spedita la lettera con piena soddisfazione.
Non m'ero affatto compromesso con quelle parole, ma mi pareva anche certo che se il pensiero di Ada fosse stato uguale al mio, essa avrebbe compresa quella stretta di mano amorosa.
Ci voleva poco acume per indovinare che quella lunga disquisizione sulla vecchiaia non significava altro che il mio timore che trovandomi in corsa traverso il tempo, non potessi piú essere raggiunto dall'amore.
Pareva gridassi all'amore: «Vieni, vieni!» Invece non sono sicuro di aver voluto quell'amore e, se v'è un dubbio, risulta solo dal fatto che so di aver scritto circa cosí.
Per Augusta feci una copia di quella lettera lasciandone fuori la disquisizione sulla vecchiaia.
Essa non l'avrebbe intesa, ma la prudenza non nuoce.
Avrei potuto arrossire sentendo com'essa mi guardava mentre io stringevo la mano della sorella! Sí! Io sapevo ancora arrossire.
E arrossii anche quando ricevetti un biglietto di ringraziamento di Ada in cui essa non menzionava affatto le mie chiacchiere sulla mia vecchiaia.
Mi parve ch'essa si compromettesse molto di piú con me di quanto io mai mi fossi compromesso con lei.
Non sottraeva la sua manina alla mia pressione.
La lasciava giacere inerte nella mia e, per la donna, l'inerzia è un modo di consentire.
Pochi giorni dopo di aver scritta quella lettera, scopersi che Guido s'era messo a giocare in Borsa.
Lo appresi per un'indiscrezione del sensale Nilini.
Io conoscevo costui da lunghi anni perché eravamo stati condiscepoli al liceo ch'egli aveva dovuto abbandonare per entrare subito nell'ufficio di un suo zio.
Ci eravamo poi rivisti qualche volta, e ricordo che la differenza del nostro destino aveva costituito nei nostri rapporti una mia superiorità.
Mi salutava allora per primo e talvolta cercava di avvicinarmi.
Ciò mi sembrava naturale, e invece m'apparve meno spiegabile quando in un'epoca che non so precisare egli si fece con me molto altezzoso.
Non mi salutava piú e a pena a pena rispondeva al saluto mio.
Me ne preoccupai un poco perché la mia cute è molto sensibile ed è facilmente scalfita.
Ma che farci? Forse m'aveva scoperto nell'ufficio di Guido ove gli pareva occupassi un posto di subalterno e mi spregiava perciò, o, con la stessa probabilità, si poteva supporre ch'essendo morto un suo zio e lasciatolo indipendente sensale di Borsa, fosse montato in superbia.
Nei piccoli ambienti ci sono frequentemente di simili relazioni.
Senza che ci sia stato un atto nemico, ci si guarda un bel giorno con avversione e disprezzo.
Fui sorpreso perciò di vederlo entrare nell'ufficio, ove mi trovavo solo, e domandare di Guido.
S'era levato il cappello e m'aveva porta la mano.
Poi s'era subito abbandonato con grande libertà su una delle nostre grandi poltrone.
Io lo guardai con interessamento.
Non lo avevo visto da anni tanto da vicino ed ora, con l'avversione che mi manifestava, si era conquistata la mia piú intensa attenzione.
Egli aveva allora circa quarant'anni ed era ben brutto per una calvizie quasi generale interrotta da un'oasi di capelli neri e fitti alla nuca e un'altra alle tempie, la faccia gialla e troppo ricca di pelle ad onta del grosso naso.
Era piccolo e magro e si ergeva come poteva, tanto che quando parlavo con lui mi sentivo un lieve dolore simpatico al collo, la sola simpatia che provassi per lui.
Quel giorno mi parve che si trattenesse dal ridere e che la sua faccia fosse contratta da un'ironia o da un disprezzo che non poteva ferire me, visto ch'egli m'aveva salutato con tanta gentilezza.
Invece poi scopersi che quell'ironia gli era stata stampata in faccia da madre natura bizzarra.
Le sue piccole mascelle non combaciavano esattamente e fra di esse, da una parte della bocca, era rimasto un buco nel quale abitava stereotipata la sua ironia.
Forse per conformarsi alla maschera da cui non sapeva liberarsi che allorquando sbadigliava, egli amava deridere il prossimo.
Non era affatto uno sciocco e lanciava delle frecciate velenose, ma di preferenza agli assenti.
Ciarlava molto ed era immaginoso specie per affari di Borsa.
Parlava della Borsa come se si fosse trattato di una sola persona ch'egli descriveva trepidante per una minaccia o addormentata nell'inerzia e con una faccia che sapeva ridere e anche piangere.
Egli la vedeva salire la scala dei corsi ballando o scenderne a rischio di precipitare, eppoi l'ammirava come accarezzava un valore, come ne strangolava un altro, oppure anche come insegnava alla gente la moderazione e l'attività.
Perché solo chi aveva del senno poteva trattare con lei.
V'erano tanti di quei denari sparsi per terra in Borsa, ma chinarsi a raccoglierli non era facile.
Lo lasciai attendere dopo di avergli offerta una sigaretta e mi diedi da fare con certa corrispondenza.
Dopo un po' di tempo egli si stancò e disse che non poteva restare di piú.
Del resto era venuto solo per raccontare a Guido che certe azioni dallo strano nome di Rio Tinto e di cui egli a Guido aveva consigliato l'acquisto il giorno prima - sí, proprio ventiquattr'ore prima - erano quel giorno balzate in alto di circa il dieci per cento.
Si mise a ridere di cuore.
- Intanto che noi parliamo qui, ossia che io attendo, il dopo-Borsa avrà fatto il resto.
Se il signor Speier ora volesse comperare quelle azioni chissà a quale prezzo dovrebbe pagarle.
Come ho indovinato io dove mirava la Borsa.
Si vantò del suo colpo d'occhio dovuto alla sua lunga intimità con la Borsa.
S'interruppe per domandarmi:
- Chi credi istruisca meglio: l'Università o la Borsa?
La sua mandibola calò ancora un poco e il buco dell'ironia s'ingrandí.
- Evidentemente la Borsa! - dissi io con convinzione.
Ciò mi valse da lui una stretta di mano affettuosa quando mi lasciò.
Dunque Guido giocava in Borsa! Se fossi stato piú attento avrei potuto indovinarlo prima, perché quando io gli avevo presentato un conto esatto degli importi non insignificanti che avevamo guadagnati con gli ultimi nostri affari, egli lo aveva guardato sorridendo, ma con qualche disprezzo.
Trovava che avevamo dovuto lavorare troppo per guadagnare quel denaro.
E si noti che con qualche decina di quegli affari si avrebbe potuto coprire la perdita in cui eravamo incorsi l'anno precedente! Che cosa dovevo far ora, io che pochi giorni prima avevo scritte le sue lodi?
Poco dopo Guido venne in ufficio ed io fedelmente gli riferii le parole del Nilini.
Stette a sentire con tanta ansietà che neppure si accorse che io avevo cosí appreso ch'egli giocava, e corse via.
Alla sera ne parlai con Augusta, che ritenne si dovesse lasciare in pace Ada e invece avvisare la signora Malfenti dei pericoli cui s'esponeva Guido.
Mi domandò di fare anch'io del mio meglio per impedirgli spropositi.
Preparai lungamente le parole che dovevo dirgli.
Finalmente attuavo i miei propositi di bontà attiva e mantenevo la promessa che avevo fatta ad Ada.
Sapevo come dovevo afferrare Guido per indurlo ad obbedirmi.
Ognuno commette una leggerezza, - gli avrei spiegato, - giocando in Borsa, ma piú di tutti un commerciante che abbia un simile bilancio dietro di sé.
Il giorno seguente cominciai benissimo:
- Tu dunque ora giochi alla Borsa? Vuoi finire in carcere? - gli domandai severamente.
Ero preparato ad una scena e tenevo anche in serbo la dichiarazione che giacché egli procedeva in modo da compromettere la ditta, io avrei abbandonato senz'altro l'ufficio.
Guido seppe disarmarmi subito.
Avevo tenuto sinora il segreto, ma ora, con un abbandono da buon ragazzo, mi disse ogni particolare di quei suoi affari.
Lavorava in valori minerarii di non so che paese, che gli avevano già dato un utile che quasi sarebbe bastato a coprire la perdita del nostro bilancio.
Oramai era cessato ogni rischio e poteva raccontarmi tutto.
Quando avesse avuta la sfortuna di perdere quello che aveva guadagnato, avrebbe semplicemente cessato di giocare.
Se invece la fortuna avesse continuato ad assisterlo, si sarebbe affrettato di mettere in regola le mie registrazioni di cui sentiva sempre la minaccia.
Vidi che non era il caso di arrabbiarsi e che si doveva invece congratularsi con lui.
In quanto alle questioni di contabilità, gli dissi che poteva oramai essere tranquillo, perché ove c'era disponibile del contante era facilissimo di regolare la contabilità piú fastidiosa.
Quando nei nostri libri fosse stato reintegrato come di diritto il conto di Ada e almeno diminuito quello ch'io dicevo l'abisso della nostra azienda, cioè il conto di Guido, la nostra contabilità non avrebbe fatta una grinza.
Poi gli proposi di fare tale regolazione subito e mettere in conto della ditta le operazioni di Borsa.
Per fortuna egli non accettò perché altrimenti io sarei divenuto il contabile del giocatore e mi sarei addossata una maggiore responsabilità.
Cosí invece le cose procedettero come se io non avessi esistito.
Egli rifiutò la mia proposta con delle ragioni che mi parvero buone.
Era di malaugurio di pagare cosí subito i suoi debiti ed è una superstizione divulgatissima a tutti i tavoli da giuoco che il denaro altrui porti fortuna.
Io non ci credo, ma quando giuoco non trascuro neppur io alcuna prudenza.
Per un certo tempo mi feci dei rimproveri di aver accolte le comunicazioni di Guido senz'alcuna protesta.
Ma quando vidi comportarsi allo stesso modo la signora Malfenti che mi raccontò come suo marito aveva saputo guadagnare dei bei denari alla borsa, eppoi anche Ada, dalla quale sentii considerare il giuoco come un qualsiasi genere di commercio, compresi che assolutamente a questo riguardo non si avrebbe potuto movermi alcun rimprovero.
Per arrestare Guido su quella china non sarebbe bastata la mia protesta che non avrebbe avuta alcun'efficacia se non fosse stata appoggiata da tutti i membri della famiglia.
Fu cosí che Guido continuò a giocare, e tutta la sua famiglia con lui.
Ero anch'io della comitiva, tant'è vero ch'entrai in una relazione d'amicizia alquanto curiosa col Nilini.
È sicuro ch'io non potevo soffrirlo perché lo sentivo ignorante e presuntuoso, ma pare che per riguardo a Guido, che da lui aspettava i buoni consigli, sapessi celare tanto bene i miei sentimenti ch'egli finí col credere di avere in me un amico devoto.
Non nego che forse la mia gentilezza con lui fosse anche dovuta al desiderio di evitare quel malessere che m'aveva dato la sua inimicizia, tanto forte causa quell'ironia che rideva sulla sua brutta faccia.
Ma non gli usai mai altre gentilezze fuori di quella di porgergli la mano e il saluto quando veniva e se ne andava.
Egli invece fu gentilissimo ed io non seppi non accettare le sue cortesie con gratitudine, ciò ch'è veramente la massima gentilezza che si possa usare a questo mondo.
Mi procurava delle sigarette di contrabbando e me le faceva pagare quello che gli costavano, cioè molto poco.
Se mi fosse stato piú simpatico avrebbe potuto indurmi a giocare col suo mezzo; non lo feci mai, solo per non vederlo piú di spesso.
Lo vedevo anzi troppo! Passava delle ore nel nostro ufficio ad onta che - com'era facile di accorgersene - non fosse innamorato di Carmen.
Veniva a tener compagnia proprio a me.
Pare si fosse prefisso d'istruirmi nella politica in cui egli era profondo causa la Borsa.
Mi presentava le grandi potenze come un giorno si stringevano la mano e si pigliavano a schiaffi il giorno seguente.
Non so se abbia indovinato il futuro perché io per antipatia non lo stetti mai a sentire.
Conservavo un sorriso ebete, stereotipato.
Il nostro malinteso sarà certo dipeso da un'interpretazione errata del mio sorriso che gli sarà parso d'ammirazione.
Io non ne ho colpa.
So solo le cose che ripeteva ogni giorno.
Potei accorgermi ch'egli era un italiano di color dubbio perché gli pareva che per Trieste fosse meglio di restare austriaca.
Adorava la Germania e specialmente i treni ferroviari tedeschi che arrivavano con tanta precisione.
Era socialista a modo suo e avrebbe voluto fosse proibito che una singola persona possedesse piú di centomila corone.
Non risi un giorno in cui, conversando con Guido, egli ammise di possedere proprio centomila corone e non un centesimo in piú.
Non risi, e non gli domandai neppure se guadagnando dell'altro denaro avrebbe modificata la sua teoria.
La nostra era una relazione veramente strana.
Io non sapevo ridere né con lui né di lui.
Quando aveva snocciolata qualche sua sentenza, si ergeva di tanto sulla sua poltrona che i suoi occhi guardavano il soffitto mentre a me restava rivolto il buco che io dicevo mandibolare.
E vedeva con quel buco! Volli talvolta approfittare di quella sua posizione per pensare ad altro, ma egli richiamava la mia attenzione domandandomi subito:
- Mi stai a sentire?
Dopo di quella sua simpatica effusione, Guido per lungo tempo non mi parlò dei suoi affari.
Qualche cosa me ne diceva dapprima il Nilini, ma anche lui si fece poi piú riservato.
Da Ada stessa seppi che Guido continuava a guadagnare.
Quand'essa ritornò, la trovai di nuovo imbruttita parecchio.
Era piuttosto imbolsita che ingrassata.
Le sue guancie, ricresciute, erano anche questa volta fuori di posto e le facevano una faccia quasi quadrata.
Gli occhi avevano continuato a sformare la loro incassatura.
La mia sorpresa fu grande, perché da Guido ed altri ch'erano stati a trovarla, avevo sentito dire che ogni giorno che passava le apportava nuova forza e salute.
Ma la salute della donna è in primo luogo la sua bellezza.
Con Ada ebbi altre sorprese.
Mi salutò affettuosamente, ma non altrimenti di quanto avesse salutata Augusta.
Non c'era fra di noi piú alcun segreto e certamente essa non ricordava piú di aver pianto al ricordo di avermi fatto soffrire tanto.
Tanto meglio! Essa dimenticava infine i suoi diritti su di me! Ero il suo buon cognato e mi amava solo perché ritrovava immutati i miei affettuosi rapporti con mia moglie, che formavano sempre l'ammirazione di casa Malfenti.
Un giorno feci una scoperta che mi sorprese assai.
Ada si credeva ancora bella! Lontano, sul lago, le avevano fatta la corte ed era evidente ch'essa gioiva dei suoi successi.
Probabilmente li esagerava perché mi pareva fosse un eccesso il pretendere di aver dovuto lasciare quella villeggiatura per sottrarsi alle persecuzioni di un innamorato.
Ammetto che qualche cosa di vero ci possa essere stato, perché probabilmente ella poteva apparire meno brutta a chi prima non l'aveva conosciuta.
Ma già, non tanto, con quegli occhi e quel colorito e quella forma di faccia! A noi essa appariva piú brutta perché, ricordando com'era stata, scorgevamo piú evidenti le devastazioni compiute dalla malattia.
Invitammo una sera Guido e lei a casa nostra.
Fu un ritrovo gradevole, veramente di famiglia.
Pareva la continuazione di quel nostro fidanzamento a quattro.
Ma la chioma di Ada non era illuminata da alcuna luce.
Al momento di dividerci, io, per aiutarla a indossare il mantello, restai per un istante solo con lei.
Ebbi subito un senso un po' differente delle nostre relazioni.
Eravamo lasciati soli e forse potevamo dirci quello che in presenza degli altri non volevamo.
Mentre l'aiutavo, riflettei e finii col trovare quello che dovevo dirle:
- Tu sai ch'egli ora giuoca! - le dissi con voce seria.
Mi viene talvolta il dubbio ch'io con tali parole avessi voluto rievocare l'ultimo nostro ritrovo che non ammettevo fosse talmente dimenticato.
- Sí - essa disse sorridendo, - e fa molto bene.
È divenuto bravo abbastanza, a quanto mi dicono.
Risi con lei, forte.
Mi sentivo sollevato da ogni responsabilità.
Andandosene essa mormorò:
- Quella Carmen è sempre nel vostro ufficio?
Non arrivai a rispondere perché corse via.
Fra di noi non c'era piú il nostro passato.
C'era però la sua gelosia.
Quella era viva come nell'ultimo nostro incontro.
Adesso, ripensandoci, trovo che avrei dovuto accorgermi molto tempo prima di esserne espressamente avvisato, che Guido aveva cominciato a perdere in Borsa.
Sparve dalla sua faccia l'aria di trionfo che l'aveva illuminata e manifestò di nuovo quella grande ansietà per quel bilancio chiuso a quel modo.
- Perché te ne preoccupi - gli domandai io nella mia innocenza - quando hai già in tasca quello che occorre per rendere del tutto reali queste registrazioni? Avendo tanti denari non si va in carcere.
- Allora, come lo seppi poi, egli in tasca non aveva piú nulla.
Credetti tanto fermamente ch'egli avesse legata a sé la fortuna che non tenni conto di tanti indizii che avrebbero potuto convincermi altrimenti.
Una sera, di Agosto, egli mi trascinò di nuovo a pesca con lui.
Alla luce abbagliante di una luna quasi piena c'era poca probabilità di pigliare qualche cosa all'amo.
Ma egli insistette dicendo che in mare avremmo trovato qualche sollievo al caldo.
Infatti non vi trovammo altro.
Dopo un solo tentativo, non inescammo neppure piú gli ami e lasciammo pendere le lenze dalla barchetta che Luciano spinse al largo.
I raggi della luna raggiungevano certo il fondo del mare affinando la vista agli animali grossi e rendendoli accorti dell'insidia ed anche agli animalucci piccoli capaci di rosicchiarci l'esca, ma non d'arrivare con la piccola bocca all'amo.
Le nostre esche non erano altro che un dono alla minutaglia.
Guido si coricò a poppa ed io a prua.
Egli mormorò poco dopo:
- Che tristezza tutta questa luce!
Probabilmente diceva cosí perché la luce gl'impediva di dormire ed io assentii per fargli piacere ed anche per non turbare con una sciocca discussione la quiete solenne in cui lentamente ci movevamo.
Ma Luciano protestò dicendo che a lui quella luce piaceva moltissimo.
Visto che Guido non rispondeva, volli farlo tacere dicendogli che la luce era certamente una cosa triste perché si vedevano le cose di questo mondo.
Eppoi impediva la pesca.
Luciano rise e tacque.
Stemmo zitti molto tempo.
Io sbadigliai piú volte in faccia alla luna.
Rimpiangevo di essermi lasciato indurre di montare in quella barchetta.
Guido improvvisamente mi domandò:
- Tu che sei chimico, sapresti dirmi se sia piú efficace il veronal puro o il veronal al sodio? Io veramente non sapevo neppure che ci fosse un veronal al sodio.
Non si può mica pretendere che un chimico sappia il mondo a mente.
Io di chimica so tanto da poter trovare subito nei miei libri qualsiasi informazione e inoltre da poter discutere - come si vide in quel caso - anche delle cose che ignoro.
Al sodio? Ma se era saputo da tutti che le combinazioni al sodio erano quelle che piú facilmente si assimilavano.
Anzi a proposito del sodio ricordai - e riprodussi piú o meno esattamente - un inno a quell'elemento elevato da un mio professore all'unica sua prelezione cui avessi assistito.
Il sodio era un veicolo sul quale gli elementi montavano per moversi piú rapidi.
E il professore aveva ricordato come il cloruro di sodio passava da organismo ad organismo e come andava adunandosi per la sola gravità nel buco piú profondo della terra, il mare.
Io non so se riproducessi esattamente il pensiero del mio professore, ma in quel momento, dinanzi a quell'enorme distesa di cloruro di sodio, parlai del sodio con un rispetto infinito.
Dopo un'esitazione, Guido domandò ancora:
- Sicché chi volesse morire dovrebbe prendere il veronal al sodio?
- Sí, - risposi.
Poi ricordando che ci sono dei casi in cui si può voler simulare un suicidio e non accorgendomi subito che ricordavo a Guido un episodio spiacevole della sua vita, aggiunsi:
- E chi non vuole morire deve prendere del veronal puro.
Gli studii di Guido sul veronal avrebbero potuto darmi da pensare.
Invece io non compresi nulla, preoccupato com'ero dal sodio.
Nei giorni seguenti fui in grado di portare a Guido nuove prove delle qualità che io avevo attribuite al sodio: anche per accelerare gli amalgami che non sono altro che degli abbracci intensi fra due corpi, abbracci che sostituiscono la combinazione o l'assimilazione, si aggiungeva al mercurio del sodio.
Il sodio era il mezzano fra l'oro e il mercurio.
Ma a Guido il veronal non importava piú, ed io ora penso che in quel momento le sue viste alla Borsa si fossero migliorate.
Nel corso di una settimana, Ada venne in ufficio ben tre volte.
Soltanto dopo la seconda, sorse in me l'idea ch'essa mi volesse parlare.
La prima s'imbatté nel Nilini che s'era messo una volta di piú ad educarmi.
Essa attese per un'ora intera che se ne andasse, ma ebbe il torto di ciarlare con lui ed egli credette perciò di dover restare.
Dopo fatte le presentazioni, io respirai, sollevato che il buco mandibolare del Nilini non fosse rivolto a me.
Non presi parte alla loro conversazione.
Il Nilini fu persino spiritoso e sorprese Ada raccontando che si facevano altrettante maldicenze al Tergesteo come nel salotto di una signora.
Soltanto, secondo lui, alla Borsa, come sempre, si era meglio informati che altrove.
Ad Ada sembrò ch'egli calunniasse le donne.
Disse di non saper neppure ciò che fosse la maldicenza.
A questo punto intervenni io per confermare che, nei lunghi anni in cui la conoscevo, non avevo mai sentita venir dalla sua bocca una parola che avesse neppur ricordato la maldicenza.
Sorrisi dicendo ciò perché mi parve di moverle un rimprovero.
Essa non era maldicente perché dei fatti altrui non s'occupava.
Dapprima, in piena salute, aveva pensato ai fatti proprii e, quando la malattia l'invase, non restò in lei che un piccolo posticino libero, occupato dalla sua gelosia.
Era una vera egoista, ma essa accolse la mia testimonianza con gratitudine.
Il Nilini finse di non prestar fede né a lei né a me.
Disse di conoscermi da molti anni e di credermi di una grande ingenuità.
Ciò mi divertí e divertí anche Ada.
Fui molto seccato invece quand'egli - per la prima volta dinanzi a terzi - proclamò ch'ero uno dei migliori suoi amici e che perciò mi conosceva a fondo.
Non osai protestare, ma da quella dichiarazione sfacciata mi sentii offeso nel mio pudore, come una fanciulla cui in pubblico fosse stato rimproverato di aver fornicato.
Io ero tanto ingenuo, diceva il Nilini, che Ada, con la solita furberia delle donne, avrebbe potuto fare della maldicenza in mia presenza senza ch'io me ne accorgessi.
A me parve che Ada continuasse a divertirsi a quei complimenti di carattere dubbio mentre poi seppi ch'essa lo lasciava parlare sperando si esaurisse e se ne andasse.
Ma ebbe un bell'attendere.
Quando Ada ritornò per la seconda volta, mi trovò con Guido.
Allora lessi sulla sua faccia un'espressione d'impazienza e indovinai ch'essa voleva proprio me.
Finché non ritornò, io mi baloccai coi miei soliti sogni.
In fondo essa da me non domandava amore, ma troppo frequentemente voleva trovarsi da sola a solo con me.
Per gli uomini era difficile d'intendere quello che le donne volevano anche perché esse stesse talvolta lo ignoravano.
Non mi derivò invece alcun nuovo sentimento dalle sue parole.
Essa, non appena poté parlarmi, ebbe la voce strozzata dall'emozione, ma non già perché avesse rivolta la parola a me.
Voleva sapere per quale ragione Carmen non fosse stata mandata via.
Io le raccontai tutto quanto ne sapevo, compreso quel nostro tentativo di procurarle un posto presso l'Olivi.
Essa fu subito piú calma perché quello che le dicevo corrispondeva esattamente a quanto gliene era stato detto da Guido.
Poi seppi che gli accessi di gelosia si seguivano da lei a periodi.
Venivano senza causa apparente e andavano via per una parola che la convincesse.
Mi fece ancora due domande: se era proprio tanto difficile di trovare un posto per un'impiegata e se la famiglia di Carmen si trovasse in tali condizioni da dipendere dal guadagno della fanciulla.
Le spiegai che infatti a Trieste era difficile allora di trovare del lavoro per le donne, negli uffici.
In quanto alla sua seconda domanda, non potevo risponderle perché della famiglia di Carmen io non conoscevo nessuno.
- Guido invece conosce tutti in quella casa, - mormorò Ada con ira e le lacrime le irorarono di nuovo le guancie.
Poi mi strinse la mano per congedarsi e mi ringraziò.
Sorridendo traverso le lacrime, disse che sapeva di poter contare su di me.
Il sorriso mi piacque perché certamente non era rivolto al cognato, ma a chi era legato a lei da vincoli segreti.
Tentai di dar prova che meritavo quel sorriso e mormorai:
- Quello ch'io temo per Guido non è Carmen, ma il suo giuoco alla Borsa!
Essa si strinse nelle spalle:
- Quello non ha importanza.
Ne parlai anche con mamma.
Papà giuocava anche lui alla Borsa e vi guadagnò tanti di quei denari!
Io rimasi sconcertato dalla risposta e insistetti:
- Quel Nilini non mi piace.
Non è mica vero ch'io sia suo amico!
Essa mi guardò sorpresa:
- A me pare un gentiluomo.
Anche Guido gli vuole molto bene.
Io credo, poi, che Guido sia ora molto attento ai suoi affari.
Ero ben deciso di non dirle male di Guido e tacqui.
Quando mi trovai solo non pensai a Guido, ma a me stesso.
Era forse bene che Ada finalmente m'apparisse quale una mia sorella e null'altro.
Essa non prometteva e non minacciava amore.
Per varii giorni corsi la città inquieto e squilibrato.
Non arrivavo a intendermi.
Perché mi sentivo come se Carla m'avesse lasciato in quell'istante? Non m'era avvenuto niente di nuovo.
Sinceramente credo ch'io abbia avuto sempre bisogno dell'avventura o di qualche complicazione che le somigli.
I miei rapporti con Ada non erano ormai piú complicati affatto.
Il Nilini dal suo seggiolone un giorno predicò piú del solito: dall'orizzonte s'avanzava un nembo, nient'altro che il rincaro del denaro.
La Borsa era tutt'ad un tratto satura e non poteva assorbire piú nulla!
- Gettiamoci del sodio! - proposi io.
L'interruzione non gli piacque affatto, ma per non dover arrabbiarsi, la trascurò: tutt'ad un tratto il denaro a questo mondo era divenuto scarso e perciò caro.
Egli era sorpreso che ciò avvenisse ora mentre egli l'aveva preveduto per un mese piú tardi.
- Avranno mandato tutto il denaro alla luna! - dissi io.
- Sono cose serie di cui non bisogna ridere, - affermò il Nilini guardando sempre il soffitto.
- Adesso si vedrà chi avrà l'anima del vero lottatore e chi invece al primo colpo soggiacerà.
Come non intesi perché il denaro a questo mondo potesse divenire piú scarso, cosí non indovinai che il Nilini ponesse Guido fra i lottatori di cui si doveva provare il valore.
Ero tanto abituato a difendermi dalle sue prediche con la disattenzione, che anche questa, che pur sentii, passò via senza neppur scalfirmi.
Ma pochi giorni appresso il Nilini intonò tutt'altra musica.
Era avvenuto un fatto nuovo.
Egli aveva scoperto che Guido aveva fatti degli affari con un altro agente di cambio.
Il Nilini cominciò col protestare in un tono concitato che egli non aveva mai mancato in nulla verso Guido, neppure nella dovuta discrezione.
Di questo egli voleva la mia testimonianza.
Non aveva tenuto celati gli affari di Guido persino a me ch'egli continuava a ritenere quale il suo miglior amico? Ma ormai egli era svincolato da qualunque riserbo e poteva gridarmi nelle orecchie che Guido era in perdita fino alla punta dei capelli.
Per gli affari ch'erano stati fatti col suo mezzo, egli assicurava che alla piú lieve miglioria si sarebbe potuto resistere e aspettare tempi migliori.
Era però enorme che alla prima avversità Guido gli avesse fatto torto.
Altro che Ada! La gelosia del Nilini era indomabile.
Io volevo avere da lui delle notizie ed egli invece si esasperava sempre piú e continuava a parlare del torto che gli era stato fatto.
Perciò, contro ogni suo proposito, egli continuò a rimanere discreto.
Nel pomeriggio trovai Guido in ufficio.
Era sdraiato sul nostro sofà in un curioso stato intermedio fra la disperazione e il sonno.
Gli domandai:
- Tu sei ora in perdita fino agli occhi?
Non mi rispose subito.
Levò il braccio col quale si copriva il volto sfatto e disse:
- Hai mai visto un uomo piú disgraziato di me?
Riabbassò il braccio e cambiò di posizione mettendosi supino.
Rinchiuse gli occhi e parve avesse già dimenticata la mia presenza.
Io non seppi offrirgli alcun conforto.
Davvero mi offendeva ch'egli credesse di essere l'uomo piú disgraziato del mondo.
Non era un'esagerazione la sua; era una vera e propria menzogna.
L'avrei soccorso se avessi potuto, ma mi era impossibile di confortarlo.
Secondo me neanche chi è piú innocente e piú disgraziato di Guido merita compassione, perché altrimenti nella nostra vita non ci sarebbe posto che per quel sentimento, ciò che sarebbe un grande tedio.
La legge naturale non dà il diritto alla felicità, ma anzi prescrive la miseria e il dolore.
Quando viene esposto il commestibile, vi accorrono da tutte le parti i parassiti e, se mancano, s'affrettano di nascere.
Presto la preda basta appena, e subito dopo non basta piú perché la natura non fa calcoli, ma esperienze.
Quando non basta piú, ecco che i consumatori devono diminuire a forza di morte preceduta dal dolore e cosí l'equilibrio, per un istante, viene ristabilito.
Perché lagnarsi? Eppure tutti si lagnano.
Quelli che non hanno avuto niente della preda muoiono gridando all'ingiustizia e quelli che ne hanno avuto parte trovano che avrebbero avuto diritto ad una parte maggiore.
Perché non muoiono e non vivono tacendo? È invece simpatica la gioia di chi ha saputo conquistarsi una parte esuberante del commestibile e si manifesti pure al sole in mezzo agli applausi.
L'unico grido ammissibile è quello del trionfatore.
Guido, poi! Egli mancava di tutte le qualità per conquistare od anche solo per tenere la ricchezza.
Veniva dal tavolo di giuoco e piangeva per aver perduto.
Non si comportava dunque neppure da gentiluomo e a me faceva nausea.
Perciò e solo perciò, nel momento in cui Guido avrebbe avuto tanto bisogno del mio affetto, non lo trovò.
Neppure i miei ripetuti propositi poterono accompagnarmi fin là.
Intanto la respirazione di Guido andava facendosi sempre piú regolare e rumorosa.
S'addormentava! Com'era poco virile nella sventura! Gli avevano portato via il commestibile e chiudeva gli occhi forse per sognare di possederlo tuttavia, invece di aprirli ben bene per vedere di strapparne una piccola parte.
Mi venne la curiosità di sapere se Ada fosse stata informata della disgrazia che gli era toccata.
Glielo domandai ad alta voce.
Egli trasalí ed ebbe bisogno di una pausa per assuefarsi alla sua disgrazia che improvvisamente rivide intera.
- No! - mormorò.
Poi rinchiuse gli occhi.
Certamente tutti coloro che sono stati duramente percossi inclinano al sonno.
Il sonno ridà le forze.
Stetti ancora a guardarlo esitante.
Ma come si poteva aiutarlo se dormiva? Non era questo il momento per dormire.
Lo afferrai rudemente per una spalla e lo scossi:
- Guido!
Aveva proprio dormito.
Mi guardò incerto con l'occhio ancora velato dal sonno eppoi mi domandò:
- Che vuoi? - Subito dopo, adirato, ripeté la sua domanda: - Che vuoi dunque?
Io volevo aiutarlo, altrimenti non avrei neppure avuto il diritto di destarlo.
M'arrabbiai anch'io e gridai che questo non era il momento di dormire perché bisognava affrettarsi di vedere come si avrebbe potuto correre ai ripari.
C'era da calcolare e discutere con tutti i membri della nostra famiglia e quelli della sua di Buenos Aires.
Guido si mise a sedere.
Era ancora un po' sconvolto di essere stato destato a quel modo.
Mi disse amaramente:
- Avresti fatto meglio di lasciarmi dormire.
Chi vuoi che ora m'aiuti? Non ricordi a quale punto dovetti giungere l'altra volta per avere quel poco di cui abbisognavo per salvarmi? Adesso si tratta di somme considerevoli! A chi vuoi mi rivolga?
Senza nessun affetto e anzi con l'ira di dover dare e privare me e i miei, esclamai:
- E non ci sono anch'io qui? - Poi l'avarizia mi suggerí di attenuare da bel principio il mio sacrificio:
- Non c'è Ada? Non c'è nostra suocera? Non possiamo unirci per salvarti?
Egli si levò e mi si appressò con l'evidente intenzione di abbracciarmi.
Ma era proprio questo ch'io non volevo.
Avendogli offerto il mio aiuto, avevo ora il diritto di rampognarlo, e ne feci l'uso piú largo.
Gli rimproverai la sua attuale debolezza eppoi anche la sua presunzione durata fino a quel momento e che l'aveva tratto alla rovina.
Aveva agito di propria testa non consultandosi con nessuno.
Tante volte io avevo tentato di avere sue comunicazioni per trattenerlo e salvarlo ed egli me le aveva rifiutate serbando la sua fiducia per il solo Nilini.
Qui Guido sorrise, proprio sorrise, il disgraziato! Mi disse che da quindici giorni egli non lavorava piú col Nilini essendosi fitto in capo che il grugno di costui gli portasse sventura.
Egli era caratterizzato da quel sonno e da quel sorriso: rovinava tutti attorno a sé e sorrideva.
M'atteggiai a giudice severo perché per salvare Guido bisognava prima educarlo.
Volli sapere quanto egli avesse perduto e m'arrabbiai quando mi disse di non saperlo esattamente.
M'arrabbiai ancora quand'egli mi disse una cifra relativamente piccola che poi risultò rappresentare l'importo che bisognava pagare alla liquidazione del quindici del mese da cui distavamo di soli due giorni.
Ma Guido asseriva che fino alla fine del mese c'era del tempo e che le cose potevano mutarsi.
La scarsezza del denaro sul mercato non sarebbe durata eternamente.
Gridai:
- Se a questo mondo manca il denaro, vuoi riceverne dalla luna? - Aggiunsi che non bisognava giocare neppure per un giorno di piú.
Non si doveva rischiare di veder aumentare la perdita già enorme.
Dissi anche che la perdita sarebbe stata divisa in quattro parti che avremmo sopportate io, lui (cioè suo padre), la signora Malfenti e Ada, che bisognava ritornare al nostro commercio privo di rischi e che non volevo mai piú vedere nel nostro ufficio né il Nilini né alcun altro sensale di cambio.
Egli, mite, mite, mi pregò di non gridare tanto, perché avremmo potuto essere sentiti dai vicini.
Feci un grande sforzo per calmarmi e vi riuscii anche a patto di poter dirgli a bassavoce delle altre insolenze.
La sua perdita era addirittura l'effetto di un crimine.
Bisognava essere un bestione per mettersi in frangenti simili.
Proprio mi pareva ch'era necessario egli subisse intera la lezione.
Qui Guido mitemente protestò.
Chi non aveva giocato in Borsa? Nostro suocero, ch'era stato un commerciante tanto solido, non era stato un giorno solo della sua vita privo di qualche impegno.
Eppoi - Guido lo sapeva - avevo giocato anch'io.
Protestai che fra gioco e gioco c'era una differenza.
Egli aveva rischiato alla Borsa tutto il suo patrimonio, io le rendite di un mese.
Mi fece un triste effetto che Guido tentasse puerilmente di liberarsi della sua responsabilità.
Egli asserí che il Nilini lo aveva indotto a giocare piú di quanto egli avesse voluto, facendogli credere di avviarlo ad una grande fortuna.
Io risi e lo derisi.
Il Nilini non era da biasimarsi perché faceva gli affari suoi.
E - del resto - dopo di aver lasciato il Nilini, non si era egli precipitato ad aumentare la propria posta col mezzo di un altro sensale? Avrebbe potuto vantarsi della nuova relazione se con essa si fosse messo a giocare al ribasso ad insaputa del Nilini.
Per riparare non poteva certo bastare di cambiare di rappresentante e continuare sulla stessa via perseguitato dallo stesso malocchio.
Egli volle indurmi finalmente a lasciarlo in pace, e, con un singhiozzo nella gola, riconobbe di aver sbagliato.
Cessai dal rampognarlo.
Ora mi faceva veramente compassione e l'avrei anche abbracciato se egli avesse voluto.
Gli dissi che mi sarei occupato subito di provvedere il denaro che io dovevo fornire e che avrei potuto anche occuparmi di parlare con nostra suocera.
Egli, invece, si sarebbe incaricato di Ada.
La mia compassione aumentò quand'egli mi confidò che volentieri avrebbe parlato con nostra suocera in vece mia, ma che lo tormentava di dover parlare con Ada.
- Tu sai come son fatte le donne! Gli affari non li capiscono o soltanto quando finiscono bene! - Egli non avrebbe parlato affatto e avrebbe pregata la signora Malfenti d'informarla lei di tutto.
Questa decisione l'alleggerí grandemente e uscimmo insieme.
Lo vedevo camminare accanto a me con la testa bassa e mi sentivo pentito di averlo trattato con tanta rudezza.
Ma come fare altrimenti se lo amavo? Doveva pur ravvedersi, se non voleva andare incontro alla sua rovina! Come dovevano essere fatte le sue relazioni con la moglie se temeva tanto di parlare con lei!
Ma intanto egli scoperse un modo per indispettirmi di nuovo.
Camminando aveva trovato di perfezionare il piano che gli era tanto piaciuto.
Non soltanto egli non avrebbe avuto da parlare con la moglie, ma avrebbe fatto in modo di non vederla per quella sera, perché sarebbe subito partito per la caccia.
Dopo quel proposito, fu libero da ogni nube.
Pareva fosse bastata la prospettiva di poter recarsi all'aria aperta, lontano da ogni pensiero, per avere l'aspetto di trovarvisi diggià e di goderne pienamente.
Io ne fui indignato! Con lo stesso aspetto, certo, avrebbe potuto ritornare in Borsa per riprendervi il giuoco nel quale rischiava la fortuna della famiglia e anche la mia.
Mi disse:
- Voglio concedermi quest'ultimo divertimento e t'invito di venire con me a patto che tu prenda l'impegno di non rammentare con una sola parola gli avvenimenti di oggi.
Fin qui aveva parlato sorridendo.
Dinanzi alla mia faccia seria, si fece piú serio anche lui.
Aggiunse:
- Vedi anche tu che ho bisogno di un riposo dopo un colpo simile.
Poi mi sarà piú facile di riprendere il mio posto nella lotta.
La sua voce s'era velata di un'emozione della cui sincerità non seppi dubitare.
Perciò seppi rattenere il mio dispetto o manifestarlo solo col rifiuto del suo invito, dicendogli che io dovevo restare in città per provvedere al denaro necessario.
Era già un rimprovero il mio! Io, innocente, restavo al mio posto, mentre lui, il colpevole, poteva andare a spassarsela.
Eravamo giunti dinanzi alla porta di casa della signora Malfenti.
Egli non aveva piú ritrovato l'aspetto di gioia per il divertimento di alcune ore che l'aspettava e, finché rimase con me, conservò stereotipata sulla faccia l'espressione del dolore cui io l'avevo richiamato.
Ma prima di lasciarmi, trovò uno sfogo in una manifestazione d'indipendenza e - come a me parve - di rancore.
Mi disse ch'era veramente stupito di scoprire in me un tale amico.
Esitava di accettare il sacrificio che gli volevo portare e intendeva (proprio intendeva) ch'io sapessi ch'egli non mi riteneva impegnato in alcun modo e ch'ero perciò libero di dare o non dare.
Son sicuro di aver arrossito.
Per levarmi dall'imbarazzo gli dissi:
- Perché vuoi ch'io desideri di ritirarmi quando pochi minuti or sono senza che tu m'abbia chiesto nulla, mi son profferto di aiutarti?
Egli mi guardò un po' incerto eppoi disse:
- Giacché lo vuoi, accetto senz'altro e ti ringrazio.
Ma faremo un contratto di società nuovo del tutto, perché ognuno abbia quello che gli compete.
Anzi se ci sarà lavoro e vorrai continuare ad attendervi, dovrai avere il tuo salario.
Metteremo la nuova società su tutt'altra base.
Cosí non avremo piú da temere altri danni dall'aver occultata la perdita del nostro primo anno d'esercizio.
Risposi:
- Questa perdita non ha piú alcuna importanza e non devi pensarci piú.
Cerca ora di mettere dalla parte tua nostra suocera.
Questo e null'altro per adesso importa.
Cosí ci lasciammo.
Io credo di aver sorriso dell'ingenuità con cui Guido manifestava i suoi piú intimi sentimenti.
Egli m'aveva tenuto quel lungo discorso solo per poter accettare il mio dono senz'aver da manifestarmi della gratitudine.
Ma io non pretendevo nulla.
Mi bastava di sapere che tale riconoscenza egli proprio me la doveva.
Del resto, staccatomi da lui, anch'io sentii un sollievo come se fossi andato appena allora all'aria libera.
Sentivo veramente la libertà che m'era tolta per i propositi di educarlo e rimetterlo sulla buona strada.
In fondo il pedagogo è incatenato peggio dell'alunno.
Ero ben deciso di procurargli quel denaro.
Naturalmente non so dire se lo facessi per affetto a lui o ad Ada, o forse per liberarmi da quella piccola parte di responsabilità che poteva toccarmi per aver lavorato nel suo ufficio.
Insomma avevo deciso di sacrificare una parte del mio patrimonio e ancora oggidí guardo a quel giorno della mia vita con una grande soddisfazione.
Quel denaro salvava Guido e a me garantiva una grande tranquillità di coscienza.
Camminai fino a sera nella piú grande tranquillità e cosí perdetti il tempo utile per andar a rintracciare alla Borsa l'Olivi cui dovevo rivolgermi per procurarmi una somma cosí forte.
Poi pensai che la cosa non fosse tanto urgente.
Io avevo parecchio denaro a mia disposizione e quello bastava intanto per partecipare alla regolazione che si doveva fare il quindici del mese.
Per la fine del mese avrei provveduto piú tardi.
Per quella sera non pensai piú a Guido.
Piú tardi, e cioè quando i bambini furono coricati, m'accinsi varie volte a dire ad Augusta del disastro finanziario di Guido e del danno che doveva riverberarne a me, ma poi non volli seccarmi con discussioni e pensai sarebbe meglio mi riservassi di convincere Augusta nel momento in cui la regolazione di quegli affari sarebbe stata decisa da tutti.
Eppoi mentre Guido stava divertendosi sarebbe stato curioso che io mi fossi seccato.
Dormii benissimo e, alla mattina, con la tasca non molto carica di denaro (ci avevo l'antica busta abbandonatami da Carla e che fino ad allora religiosamente avevo conservato per lei stessa o per qualche sua erede e qualche po' di altro denaro che avevo potuto prelevare da una Banca) mi recai in ufficio.
Passai la mattina a leggere giornali, fra Carmen che cuciva e Luciano che s'addestrava in moltipliche e addizioni.
Quando ritornai a casa all'ora della colazione, trovai Augusta perplessa e abbattuta.
La sua faccia era coperta da quel grande pallore che non si produceva che per dolori che le provenivano da me.
Mitemente mi disse:
- Ho saputo che hai deciso di sacrificare una parte del tuo patrimonio per salvare Guido! Io so che non avevo il diritto di esserne informata...
Era tanto dubbiosa del suo diritto che esitò.
Poi riprese a rimproverarmi il mio silenzio:
- Ma è vero ch'io non sono come Ada, perché mai mi sono opposta alla tua volontà.
Ci volle del tempo per apprendere quello ch'era avvenuto.
Augusta era capitata da Ada quando stava discutendo la quistione di Guido con la madre.
Vedendola, Ada s'era abbandonata ad un gran pianto e le aveva detto della mia generosità ch'essa assolutamente non voleva accettare.
Aveva anzi pregata Augusta d'invitarmi a desistere dalla mia profferta.
M'accorsi subito che Augusta soffriva della sua antica malattia, la gelosia per la sorella, ma non vi diedi peso.
Mi sorprendeva l'attitudine assunta da Ada:
- Ti parve risentita? - domandai facendo tanto d'occhi per la sorpresa.
- No! No! Non offesa! - gridò la sincera Augusta.
- Mi baciò e abbracciò...
forse perché abbracci te.
Pareva un modo di esprimersi assai comico.
Essa mi guardava, studiandomi, diffidente.
Protestai.
- Credi che Ada sia innamorata di me? cosa ti salta in testa?
Ma non riuscii a calmar Augusta la cui gelosia mi seccava orribilmente.
Sta bene che Guido a quell'ora non era piú a divertirsi e passava certamente un brutto quarto d'ora fra sua suocera e sua moglie ma ero seccatissimo anch'io e mi pareva di dover soffrir troppo essendo del tutto innocente.
Tentai di calmare Augusta facendole delle carezze.
Essa allontanò la sua faccia dalla mia per vedermi meglio e mi fece dolcemente un mite rimprovero che mi commosse molto:
- Io so che ami anche me, - mi disse.
Evidentemente lo stato d'animo di Ada non aveva importanza per lei, ma il mio ed ebbi un'ispirazione per provarle la mia innocenza:
- Ada è dunque innamorata di me? - feci ridendo.
Poi staccatomi da Augusta per farmi veder meglio, gonfiai un po' le guancie e spalancai in modo innaturale gli occhi cosí da somigliare ad Ada malata.
Augusta mi guardò stupita, ma presto indovinò la mia intenzione.
Fu colta da uno scoppio d'ilarità di cui subito si vergognò.
- No! - mi disse, - ti prego di non deriderla.
- Poi confessò, sempre ridendo, ch'ero riuscito di imitare proprio quelle protuberanze che davano alla faccia di Ada un aspetto tanto sorprendente.
Ed io lo sapevo perché imitandola m'era parso di abbracciare Ada.
E quando fui solo, piú volte ripetei quello sforzo con desiderio e disgusto.
Nel pomeriggio andai all'ufficio nella speranza di trovarvi Guido.
Ve l'attesi per qualche tempo eppoi decisi di recarmi a casa sua.
Dovevo pur sapere se era necessario di domandare del denaro all'Olivi.
Dovevo compiere il mio dovere per quanto mi seccasse di rivedere Ada alterata una volta di piú dalla riconoscenza.
Chissà quali sorprese mi potevano ancora provenire da quella donna!
Sulle scale della casa di Guido m'imbattei nella signora Malfenti che pesantemente le saliva.
Mi raccontò per lungo e per largo quanto fino ad allora era stato deciso nell'affare di Guido.
La sera prima s'erano divisi circa d'accordo nella convinzione che bisognava salvare quell'uomo che aveva una disdetta disastrosa.
Soltanto alla mattina Ada aveva appreso ch'io dovevo collaborare a coprire la perdita di Guido e s'era recisamente rifiutata di accettare.
La signora Malfenti la scusava:
- Che vuoi farci? Essa non vuole caricarsi del rimorso di aver impoverita la sua sorella prediletta.
Sul pianerottolo, la signora si fermò per respirare e anche per parlare, e mi disse ridendo che la cosa sarebbe finita senza danno per nessuno.
Prima di colazione, lei, Ada e Guido s'erano recati per averne consiglio da un avvocato, vecchio amico di famiglia e ora anche tutore della piccola Anna.
L'avvocato aveva detto che non occorreva pagare perché per legge non vi si era obbligati.
Guido s'era vivamente opposto parlando di onore e di dovere, ma senza dubbio, una volta che tutti, compresa Ada, decidevano di non pagare, anche lui avrebbe dovuto rassegnarvisi.
- Ma la sua ditta alla Borsa sarà dichiarata bancarotta? - dissi io perplesso.
- Probabilmente! - disse la signora Malfenti con un sospiro prima d'imprendere la salita dell'ultima scala.
Guido dopo colazione usava di riposare e perciò fummo ricevuti dalla sola Ada in quel salottino ch'io conoscevo tanto bene.
Al vedermi essa fu per un istante confusa, per un solo istante, ch'io però afferrai e ritenni, chiaro, evidente, come se la sua confusione mi fosse stata detta.
Poi si fece forza e mi stese la mano con un movimento deciso, virile, che doveva cancellare l'esitazione femminea che l'aveva precorso.
Mi disse:
- Augusta ti avrà detto come io ti sia riconoscente.
Non saprei ora dirti quello che sento perché sono confusa.
Sono anche malata.
Sí, molto malata! Avrei di nuovo bisogno della casa di salute di Bologna!
Un singhiozzo l'interruppe:
- Ti domando ora un favore.
Ti prego di dire a Guido che neppure tu sei al caso di dargli quel denaro.
Cosí ci sarà piú facile d'indurlo a fare quello che deve.
Prima aveva avuto un singhiozzo ricordando la propria malattia; singhiozzò poi di nuovo prima di continuare a parlare del marito:
- È un ragazzo, e bisogna trattarlo come tale.
Se egli sa che tu consenti di dargli quel denaro, s'ostinerà ancora maggiormente nella sua idea di sacrificare anche il resto inutilmente.
Inutilmente, perché oramai sappiamo con assoluta certezza che il fallimento in Borsa è permesso.
L'ha detto l'avvocato.
Mi comunicava il parere di un'alta autorità senza domandarmi il mio.
Come vecchio frequentatore di Borsa, il mio parere, anche accanto a quello dell'avvocato, avrebbe potuto avere il suo peso, ma non ricordai neppure il mio parere seppure ne avevo uno.
Ricordai invece che venivo messo in una posizione difficile.
Io non potevo ritirarmi dall'impegno che avevo preso con Guido: era in compenso di quell'impegno, che m'ero creduto autorizzato di gridargli nelle orecchie tante insolenze, intascando cosí una specie d'interessi sul capitale che ora non potevo piú rifiutargli.
- Ada! - dissi esitante.
- Io non credo di potermi disdire cosí da un giorno all'altro.
Non sarebbe meglio che tu convincessi Guido di fare le cose come le desideri tu?
La signora Malfenti con la grande simpatia che sempre mi dimostrava, disse che intendeva benissimo la mia speciale posizione e che del resto, quando Guido si sarebbe visto messo a disposizione soltanto un quarto dell'importo di cui abbisognava, avrebbe pur dovuto adattarsi al loro volere.
Ma Ada non aveva esaurite le sue lacrime.
Piangendo con la faccia celata nel fazzoletto, disse:
- Hai fatto male, molto male di fare quell'offerta veramente straordinaria! Ora si vede quanto male hai fatto!
Mi pareva esitante fra una grande gratitudine e un grande rancore.
Poi soggiunse che non voleva si parlasse mai piú di quella mia offerta e mi pregava di non provvedere quel denaro, perché essa m'avrebbe impedito di darlo o avrebbe impedito a Guido di accettarlo.
Ero tanto imbarazzato che finii col dire una bugia.
Le dissi cioè che quel denaro io l'avevo già procurato e accennai alla mia tasca di petto dove giaceva quella busta dal peso tanto lieve.
Ada mi guardò questa volta con un'espressione di vera ammirazione di cui forse mi sarei compiaciuto se non avessi saputo di non meritarla.
Ad ogni modo fu proprio questa mia bugia per la quale non so dare altra spiegazione che una mia strana tendenza a rappresentarmi dinanzi ad Ada maggiore di quanto non sia, che m'impedí di attendere Guido e mi cacciò da quella casa.
Avrebbe potuto anche avvenire che a un dato punto, contrariamente a quanto appariva, mi fosse stato chiesto di consegnare il denaro che dicevo di avere con me, e allora che figura ci avrei fatta? Dissi che avevo degli affari urgenti in ufficio e corsi via.
Ada m'accompagnò alla porta e m'assicurò ch'essa avrebbe indotto Guido di venire lui da me per ringraziarmi della mia bontà e per rifiutarla.
Fece tale dichiarazione con tale risolutezza che io trasalii.
A me parve che quel fermo proposito andasse a colpire in parte anche me.
No! In quel momento essa non mi amava.
Il mio atto di bontà era troppo grande.
Schiacciava la gente su cui s'abbatteva e non c'era da meravigliarsi che i beneficati protestassero.
Andando all'ufficio cercai di liberarmi del malessere che m'aveva dato il contegno di Ada, ricordando che io portavo quel sacrificio a Guido e a nessun altro.
Che c'entrava Ada? Mi ripromisi di farlo sapere ad Ada stessa alla prima occasione.
Andai all'ufficio proprio per non avere il rimorso di aver mentito una volta di piú.
Nulla mi vi attendeva.
Cadeva dalla mattina una pioggerella minuta e continua che aveva rinfrescata considerevolmente l'aria di quella primavera esitante.
In due passi sarei stato a casa, mentre per andare all'ufficio dovevo percorrere una strada ben piú lunga ciò ch'era abbastanza fastidioso.
Ma mi pareva di dover corrispondere ad un impegno.
Poco dopo vi fui raggiunto da Guido.
Allontanò dall'ufficio Luciano per restare solo con me.
Aveva quel suo aspetto sconvolto che l'aiutava nelle sue lotte con la moglie e che io conoscevo tanto bene.
Doveva aver pianto e gridato.
Mi domandò che cosa mi paresse dei progetti di sua moglie e di nostra suocera ch'egli sapeva m'erano già stati comunicati.
Gli parvi esitante.
Non volevo dire la mia opinione che non poteva accordarsi con quella delle due donne e sapevo che se avessi adottata la loro, avrei provocate delle nuove scene da parte di Guido.
Poi mi sarebbe dispiaciuto troppo di far apparire esitante il mio aiuto e infine eravamo d'accordo con Ada che la decisione doveva venire da Guido e non da me.
Gli dissi che bisognava calcolare, vedere, sentire anche altre persone.
Io non ero un tale uomo d'affari da poter dare un consiglio in argomento tanto importante.
E, per guadagnare del tempo, gli domandai se voleva che consultassi l'Olivi.
Bastò questo per farlo gridare:
- Quell'imbecille! - urlò.
- Te ne prego lascialo da parte!
Non ero affatto disposto di accalorarmi alla difesa dell'Olivi, ma non bastò la mia calma per rasserenare Guido.
Eravamo nell'identica situazione del giorno prima, ma ora era lui che gridava e toccava a me di tacere.
È quistione di disposizione.
Io ero pieno di un imbarazzo che mi legava le membra.
Ma egli assolutamente volle io dicessi il mio parere.
Per un'ispirazione che credo divina parlai molto bene, tanto bene che se le mie parole avessero avuto un effetto qualunque, la catastrofe che poi seguí sarebbe stata evitata.
Gli dissi che io intanto avrei scisse le due quistioni, quella della liquidazione del quindici da quella di fine mese.
In complesso al quindici non si aveva da pagare un importo troppo rilevante e bisognava intanto indurre le donne a sottostare a quella perdita relativamente lieve.
Poi avremmo avuto il tempo necessario per provvedere saggiamente all'altra liquidazione.
Guido m'interruppe per domandarmi:
- Ada m'ha detto che tu hai già pronto il denaro in tasca.
L'hai qui?
Arrossii.
Ma trovai subito pronta un'altra bugia che mi salvò:
- Visto che a casa tua non accettarono quel denaro, lo depositai poco fa alla Banca.
Ma possiamo riaverlo quando vorremo, anche subito domattina.
Allora egli mi rimproverò di aver cambiato di parere.
Se proprio io il giorno prima avevo dichiarato di non voler aspettare l'altra liquidazione per mettere in regola tutto! E qui egli ebbe uno scoppio d'ira violenta che finí col gettarlo privo di forze sul sofà! Egli avrebbe gettato fuori d'ufficio il Nilini e quegli altri agenti che lo avevano trascinato al giuoco.
Oh! Giuocando egli aveva bensí intravvista la possibilità della rovina, ma mai piú la soggezione a donne che non capivano niente di niente.
Andai a stringergli la mano e se lo avesse permesso lo avrei abbracciato.
Non volevo nient'altro che vederlo arrivare a quella decisione.
Niente piú giuoco, ma il lavoro di ogni giorno!
Questo sarebbe stato il nostro avvenire e la sua indipendenza.
Ora si trattava di passare quel breve duro periodo, ma poi tutto sarebbe stato facile e semplice.
Abbattuto, ma piú calmo, egli poco dopo mi lasciò.
Anche lui nella sua debolezza era tutto pervaso da una forte decisione,
- Ritorno da Ada!- mormorò ed ebbe un sorriso amaro, ma sicuro.
L'accompagnai fino alla porta e l'avrei accompagnato fino a casa sua se egli non avesse avuta alla porta la vettura che l'attendeva.
La Nemesi perseguitava Guido.
Mezz'ora dopo ch'egli m'aveva lasciato, io pensai che sarebbe stato prudente da parte mia di recarmi a casa sua ad assisterlo.
Non che io avessi sospettato che su lui potesse incombere un pericolo, ma ormai io ero tutto dalla parte sua e avrei potuto contribuire a convincere Ada e la signora Malfenti ad aiutarlo.
Il fallimento in Borsa non era una cosa che mi piaceva ed in complesso la perdita ripartita fra noi quattro non era insignificante, ma non rappresentava per nessuno di noi la rovina.
Poi ricordai che il mio maggior dovere era oramai non di assistere Guido, ma di fargli trovare pronto il giorno appresso l'importo che gli avevo promesso.
Andai subito in cerca dell'Olivi e mi preparai ad una nuova lotta.
Avevo escogitato un sistema di rifondere alla mia firma il grosso importo in varii anni, versando però di lí ad alcuni mesi tutto quello che ancora restava dell'eredità di mia madre.
Speravo che l'Olivi non avrebbe fatte delle difficoltà, perché io fino ad allora non gli avevo mai domandato piú di quanto mi fosse spettato per utili ed interessi e potevo anche promettere di non inquietarlo mai piú con domande simili.
Era evidente che pur potevo sperare di ricuperare da Guido almeno parte di quell'importo.
Quella sera non seppi trovare l'Olivi.
Era appena uscito dall'ufficio quand'io entrai.
Supponevano si fosse recato alla Borsa.
Non lo trovai neppure colà e allora mi recai a casa sua ove appresi che si trovava ad una seduta di un'associazione economica nella quale occupava un posto onorifico.
Avrei potuto raggiungerlo colà, ma oramai s'era fatto notte, e cadeva ininterrotta una pioggia abbondante che convertiva le vie in tanti ruscelli.
Fu un diluvio che durò per tutta la notte e di cui per lunghi anni non si perdette il ricordo.
La pioggia cadeva tranquilla, tranquilla, addirittura perpendicolarmente, sempre nella stessa abbondanza.
Dalle alture che circondano la città scese il fango che, associato alle scorie della nostra vita cittadina, andò ad ostruire i nostri scarsi canali.
Quando mi decisi a rincasare dopo di aver atteso inutilmente in un rifugio che la pioggia cessasse e quand'ebbi chiara la visione che il tempo s'era assestato nella pioggia e ch'era vano di sperare un mutamento, si camminava nell'acqua anche movendosi sulla parte piú alta del selciato.
Corsi a casa bestemmiando e fracido fino alle ossa.
Bestemmiavo anche perché avevo perduto tanto buon tempo per rintracciare l'Olivi.
Può essere che il mio tempo non sia poi tanto prezioso, ma è sicuro ch'io soffro orrendamente quando posso constatare di aver lavorato invano.
E correndo pensavo: «Lasciamo tutto per domani quando sarà chiaro e bello e asciutto.
Domani andrò dall'Olivi e domani mi recherò da Guido.
Magari mi leverò di buon'ora, ma sarà chiaro e asciutto».
Ero tanto convinto della giustezza della mia decisione che dissi ad Augusta che da tutti si era stabilito di rimandare ogni decisione alla dimane.
Mi cambiai, mi rasciugai e con le comode e calde pantofole sui piedi torturati, dapprima cenai eppoi mi coricai per dormire profondamente fino alla mattina mentre ai vetri delle mie finestre batteva la pioggia grossa come funi.
Cosí seppi solo tardi gli avvenimenti della notte.
Dapprima apprendemmo che la pioggia aveva finito col provocare in varie parti della città delle inondazioni, poi che Guido era morto.
Molto piú tardi seppi come poté accadere una cosa simile.
Alle undici di sera circa, quando la signora Malfenti si fu allontanata, Guido avvertí la moglie ch'egli aveva ingoiata una quantità enorme di veronal.
Volle convincere la moglie che era condannato.
L'abbracciò, la baciò, le domandò perdono di averla fatta soffrire.
Poi, ancora prima che la sua parola si convertisse in un balbettio, l'assicurò ch'essa era stata il solo amore della sua vita.
Essa non credette per allora né a quest'assicurazione né ch'egli avesse ingoiato tanto veleno da poter morirne.
Non credette neppure ch'egli avesse perduti i sensi, ma si figurò che fingesse per strapparle di nuovo dei denari.
Poi, trascorsa quasi un'ora, vedendo ch'egli dormiva sempre piú profondamente, ebbe un certo terrore e scrisse un biglietto ad un medico che abitava non lontano dalla sua abitazione.
Su quel biglietto scisse che suo marito abbisognava di pronto aiuto avendo ingoiato una grande quantità di veronal.
Fino ad allora non c'era stata in quella casa alcun'emozione che avesse potuto avvisare la fantesca, una vecchia donna ch'era in casa da poco tempo, della gravità della sua missione.
La pioggia fece il resto.
La fantesca si trovò con l'acqua a mezza gamba e smarrí il biglietto.
Se ne accorse solo quando si trovò alla presenza del dottore.
Seppe però dirgli che c'era urgenza e lo indusse a seguirla.
Il dottor Mali era un uomo di circa cinquant'anni, tutt'altro che una genialità, ma un medico pratico che aveva fatto sempre il suo dovere come meglio aveva potuto.
Non aveva una grande clientela propria, ma invece aveva molto da fare per conto di una società dai numerosissimi membri, che lo retribuiva poco lautamente.
Era rincasato poco prima ed era arrivato finalmente a riscaldarsi e rasciugarsi accanto al fuoco.
Si può immaginare con quale animo abbandonasse ora il suo caldo cantuccio.
Quando io mi misi ad indagare meglio le cause della morte del mio povero amico, mi preoccupai anche di fare la conoscenza del dottor Mali.
Da lui non seppi altro che questo: quando giunse all'aperto e si sentí bagnare dalla pioggia traverso l'ombrello, si pentí d'aver studiato medicina invece di agricoltura, ricordando che il contadino, quando piove, resta a casa.
Giunto al letto di Guido, trovò Ada del tutto calmata.
Ora che aveva accanto il dottore, ricordava meglio come Guido l'avesse giocata mesi prima simulando un suicidio.
Non toccava piú a lei di assumersi una responsabilità, ma al dottore il quale doveva essere informato di tutto, anche delle ragioni che dovevano far credere in una simulazione di suicidio.
E queste ragioni il dottore le ebbe tutte come prestava nello stesso tempo l'orecchio alle onde che spazzavano la via.
Non essendo stato avvisato che lo si aveva chiamato per curare un caso di avvelenamento, egli mancava di ogni ordigno necessario alla cura.
Lo deplorò balbettando qualche parola che Ada non intese.
Il peggio era che, per poter imprendere un lavacro dello stomaco, egli non avrebbe potuto mandar a prendere le cose necessarie, ma avrebbe dovuto andar a prenderle lui stesso traversando per due volte la via.
Toccò il polso di Guido e lo trovò magnifico.
Domandò ad Ada se forse Guido avesse sempre avuto un sonno molto profondo.
Ada rispose di sí, ma non a quel punto.
Il dottore esaminò gli occhi di Guido: reagivano prontamente alla luce! Se ne andò raccomandando di dargli di tempo in tempo dei cucchiaini di caffè nero fortissimo.
Seppi anche che, giunto sulla via, mormorò con rabbia:
- Non dovrebbe essere permesso di simulare un suicidio con questo tempo!
Io, quando lo conobbi, non osai di fargli un rimprovero per la sua negligenza, ma egli l'indovinò e si difese: mi disse che rimase stupito all'apprendere alla mattina che Guido era morto, tanto che sospettò fosse rinvenuto e avesse preso dell'altro veronal.
Poi soggiunse che i profani d'arte medica non potevano immaginare come nel corso della sua pratica il dottore venisse abituato a difendere la sua vita contro i clienti che vi attentavano non pensando che alla loro.
Dopo poco piú di un'ora, Ada si stancò di cacciare a Guido il cucchiaino fra' denti e vedendo ch'egli ne sorbiva sempre meno e che il resto andava a bagnare il guanciale, si spaventò di nuovo e pregò la fantesca di recarsi dal dottor Paoli.
Questa volta la fantesca tenne da conto il bigliettino.
Ma ci mise piú di un'ora per raggiungere l'abitazione del medico.
È naturale che quando piove tanto si senta il bisogno di tempo in tempo di fermarsi sotto qualche portico.
Una pioggia simile non solo bagna, ma sferza.
Il dottor Paoli non era in casa.
Era stato chiamato poco prima da un cliente e se ne era andato dicendo che sperava di ritornare presto.
Ma poi pare avesse preferito di attendere presso il cliente che la pioggia cessasse.
La sua donna di servizio, una buonissima persona in età, fece sedere la fantesca di Ada accanto al fuoco e si preoccupò di rifocillarla.
Il dottore non aveva lasciato l'indirizzo del suo cliente e cosí le due donne passarono insieme varie ore accanto al fuoco.
Il dottore ritornò, solo quando la pioggia fu cessata.
Quando poi arrivò da Ada con tutti gli ordigni che già aveva esperiti su Guido, albeggiava.
A quel letto ebbe un solo compito: celare ad Ada che Guido era già morto e far venire la signora Malfenti prima che Ada se ne accorgesse, per assisterla nel primo dolore.
Per questo la notizia ci pervenne molto tardi e imprecisa.
Levatomi dal letto ebbi per l'ultima volta uno slancio d'ira contro il povero Guido: complicava ogni sventura con le sue commedie! Uscii di casa senza Augusta che non poteva abbandonare il bimbo cosí su due piedi.
Fuori, fui trattenuto da un dubbio! Non avrei potuto attendere che le Banche si aprissero e l'Olivi fosse nel suo ufficio per comparire dinanzi a Guido fornito del denaro che avevo promesso? Tanto poco credevo alla notizia della gravità delle condizioni di Guido che pur m'era stata annunziata!
La verità la ebbi dal dottor Paoli in cui m'imbattei sulle scale.
Ne ebbi uno sconvolgimento che quasi mi fece precipitare.
Guido, dacché vivevo con lui, era divenuto per me un personaggio di grande importanza.
Finché era vivo lo vedevo in una data luce ch'era la luce di parte delle mie giornate.
Morendo, quella luce si modificava in modo come se improvvisamente fosse passata traverso un prisma.
Era proprio questo che m'abbacinava.
Egli aveva sbagliato, ma io subito vidi ch'essendo morto, dei suoi errori non restava niente.
Secondo me era un imbecille quel buffone che in un cimitero coperto di epigrafi laudatorie domandò dove si seppellissero in quel paese i peccatori.
I morti non sono mai stati peccatori.
Guido era ormai un puro! La morte l'aveva purificato.
Il dottore era commosso per aver assistito al dolore di Ada.
Mi disse qualche cosa dell'orrenda notte ch'essa aveva passata.
Oramai si era riusciti a farle credere che la quantità di veleno ingerita da Guido era stata tale che nessun soccorso avrebbe potuto giovare.
Guai se avesse saputo altrimenti!
- Invece - aggiunse il dottore con sconforto - se io fossi arrivato qualche ora prima l'avrei salvato.
Ho trovate le boccette vuote del veleno.
Le esaminai.
Una dose forte ma poco piú forte dell'altra volta.
Mi fece vedere alcune boccette sulle quali lessi stampato: Veronal.
Dunque non veronal al sodio.
Come nessun altro io potevo ora essere certo che Guido non aveva voluto morire.
Non lo dissi però mai a nessuno.
Il Paoli mi lasciò dopo di avermi detto che per il momento non cercassi di vedere Ada.
Egli le aveva propinati dei forti calmanti e non dubitava che presto avrebbero avuto il loro effetto.
Sul corridoio sentii venire da quella stanzuccia, ove ero stato ricevuto due volte da Ada, il suo pianto mite.
Erano parole singole che non intendevo, ma pregne di affanno.
La parola lui era ripetuta piú volte ed io immaginai quello ch'essa diceva.
Stava ricostruendo la sua relazione col povero morto.
Non doveva somigliare affatto a quella ch'essa aveva avuta col vivo.
Per me era evidente ch'essa col marito vivo aveva sbagliato.
Egli moriva per un delitto commesso da tutti insieme perché egli aveva giocato alla Borsa col consenso di tutti loro.
Quando s'era trattato di pagare allora l'avevano lasciato solo.
E lui s'era affrettato di pagare.
Unico dei congiunti io, che veramente non ci entravo, avevo sentito il dovere di soccorrerlo.
Nella stanza da letto matrimoniale il povero Guido giaceva abbandonato, coperto dal lenzuolo.
La rigidezza già avanzata, esprimeva qui non una forza ma la grande stupefazione di essere morto senz'averlo voluto.
Sulla sua faccia bruna e bella era impronto un rimprovero.
Certamente non diretto a me.
Andai da Augusta a sollecitarla di venire ad assistere la sorella.
Io ero molto commosso ed Augusta pianse abbracciandomi:
- Tu sei stato un fratello per lui, - mormorò.
- Solo adesso io sono d'accordo con te di sacrificare una parte del nostro patrimonio per purificare la sua memoria.
Mi preoccupai di rendere ogni onore al mio povero amico.
Intanto affissi alla porta dell'ufficio un bollettino che ne annunciava la chiusura per la morte del proprietario.
Composi io stesso l'avviso mortuario.
Ma soltanto il giorno seguente, d'accordo con Ada, furono prese le disposizioni per il funerale.
Seppi allora che Ada aveva deciso di seguire il feretro al cimitero.
Voleva concedergli tutte le prove d'affetto che poteva.
Poverina! Io sapevo quale dolore fosse quello del rimorso su una tomba.
Ne avevo tanto sofferto anch'io alla morte di mio padre.
Passai il pomeriggio chiuso nell'ufficio in compagnia del Nilini.
Si arrivò cosí a fare un piccolo bilancio della situazione di Guido.
Spaventevole! Non solo era distrutto il capitale della ditta, ma Guido restava debitore di altrettanto, se avesse dovuto rispondere di tutto.
Io avrei avuto bisogno di lavorare, proprio lavorare a vantaggio del mio povero defunto amico, ma non sapevo far altro che sognare.
La prima mia idea sarebbe stata di sacrificare tutta la mia vita in quell'ufficio e di lavorare a vantaggio di Ada e dei suoi figliuoli.
Ma ero poi sicuro di saper far bene?
Il Nilini, come al solito, chiacchierava mentre io guardavo tanto, tanto lontano.
Anche lui sentiva il bisogno di mutare radicalmente le sue relazioni con Guido.
Ora comprendeva tutto! Il povero Guido, quando gli aveva fatto di torto, era stato già colto dalla malattia che doveva condurlo al suicidio.
Perciò tutto era dimenticato oramai.
E predicò dicendosi proprio fatto cosí.
Non poteva serbare rancore a nessuno.
Egli aveva sempre voluto bene a Guido e gliene voleva tuttavia.
Finí che i sogni del Nilini s'associarono ai miei e vi si sovrapposero.
Non era nel lento commercio che si avrebbe potuto trovare il riparo ad una catastrofe simile, ma alla Borsa stessa.
E il Nilini mi raccontò di persona a lui amica che all'ultimo momento aveva saputo salvarsi raddoppiando la posta.
Parlammo insieme per molte ore, ma la proposta del Nilini di proseguire nel gioco iniziato da Guido, arrivò in ultimo, poco prima del mezzodí e fu subito accettata da me.
L'accettai con una gioia tale come se cosí fossi riuscito di far rivivere il mio amico.
Finí che io comperai a nome del povero Guido una quantità di altre azioni dal nome bizzarro: Rio Tinto, South French e cosí via.
Cosí s'iniziarono per me le cinquanta ore di massimo lavoro cui abbia atteso in tutta la mia vita.
Dapprima e fino a sera restai a misurare a grandi passi su e giú l'ufficio in attesa di sentire se i miei ordini fossero stati eseguiti.
Io temevo che alla Borsa si fosse risaputo del suicidio di Guido e che il suo nome non venisse piú ritenuto buono per impegni ulteriori.
Invece per varii giorni non si attribuí quella morte a suicidio.
Poi, quando il Nilini finalmente poté avvisarmi che tutti i miei ordini erano stati eseguiti, incominciò per me una vera agitazione, aumentata dal fatto che al momento di ricevere gli stabiliti, fui informato che su tutti io perdevo già qualche frazione abbastanza importante.
Ricordo quell'agitazione come un vero e proprio lavoro.
Ho la curiosa sensazione nel mio ricordo che ininterrottamente, per cinquanta ore, io fossi rimasto assiso al tavolo da giuoco succhiellando le carte.
Io non conosco nessuno che per tante ore abbia saputo resistere ad una fatica simile.
Ogni movimento di prezzo fu da me registrato, sorvegliato, eppoi (perché non dirlo?) ora spinto innanzi ed ora trattenuto, come a me, ossia al mio povero amico, conveniva.
Persino le mie notti furono insonni.
Temendo che qualcuno della famiglia avesse potuto intervenire ad impedirmi l'opera di salvataggio cui m'ero accinto, non parlai a nessuno della liquidazione di metà del mese quando giunse.
Pagai tutto io, perché nessun altro si ricordò di quegli impegni, visto che tutti erano intorno al cadavere che attendeva la tumulazione.
Del resto, in quella liquidazione era da pagare meno di quanto fosse stato stabilito a suo tempo, perché la fortuna m'aveva subito assecondato.
Era tale il mio dolore per la morte di Guido, che mi pareva di attenuarlo compromettendomi in tutti i modi tanto con la mia firma che con l'esposizione del mio danaro.
Fin qui m'accompagnava il sogno di bontà che avevo fatto lungo tempo prima accanto a lui.
Soffersi tanto di quell'agitazione, che non giuocai mai piú in Borsa per conto mio.
Ma a forza di «succhiellare» (questa era la mia occupazione precipua) finii col non intervenire al funerale di Guido.
La cosa avvenne cosí.
Proprio quel giorno i valori in cui eravamo impegnati fecero un balzo in alto.
Il Nilini ed io passammo il nostro tempo a fare il calcolo di quanto avessimo ricuperato della perdita.
Il patrimonio del vecchio Speier figurava ora solamente dimezzato! Un magnifico risultato che mi riempiva di orgoglio.
Avveniva proprio quello che il Nilini aveva preveduto in tono molto dubitativo bensí ma che ora, naturalmente, quando ripeteva le parole dette, spariva ed egli si presentava quale un sicuro profeta.
Secondo me egli aveva previsto questo e anche il contrario.
Non avrebbe fallato mai, ma non glielo dissi perché a me conveniva ch'egli restasse nell'affare con la sua ambizione.
Anche il suo desiderio poteva influire sui prezzi.
Partimmo dall'ufficio alle tre e corremmo perché allora ricordammo che il funerale doveva aver luogo alle due e tre quarti.
All'altezza dei volti di Chiozza, vidi in lontananza il convoglio e mi parve persino di riconoscere la carrozza di un amico mandata al funerale per Ada.
Saltai col Nilini in una vettura di piazza, dando ordine al cocchiere di seguire il funerale.
E in quella vettura il Nilini ed io continuammo a succhiellare.
Eravamo tanto lontani dal pensiero al povero defunto che ci lagnavamo dell'andatura lenta della vettura.
Chissà quello che intanto avveniva alla Borsa non sorvegliata da noi? Il Nilini, a un dato momento, mi guardò proprio con gli occhi e mi domandò perché non facessi alla Borsa qualche cosa per conto mio.
- Per il momento - dissi io, e non so perché arrossissi, - io non lavoro che per conto del mio povero amico.
Quindi, dopo una lieve esitazione, aggiunsi:
- Poi penserò a me stesso.
- Volevo lasciargli la speranza di poter indurmi al giuoco sempre nello sforzo di conservarmelo interamente amico.
Ma fra me e me formulai proprio le parole che non osavo dirgli: «Non mi metterò mai in mano tua!».
Egli si mise a predicare.
- Chissà se si può cogliere un'altra simile occasione! - Dimenticava d'avermi insegnato che alla Borsa v'era l'occasione ad ogni ora.
Quando si arrivò al posto dove di solito le vetture si fermano, il Nilini sporse la testa dalla finestra e diede un grido di sorpresa.
La vettura continuava a procedere dietro al funerale che s'avviava al cimitero greco.
- Il signor Guido era greco? - domandò sorpreso.
Infatti il funerale passava oltre al cimitero cattolico e s'avviava a qualche altro cimitero, giudaico, greco, protestante o serbo.
- Può essere che sia stato protestante! - dissi io dapprima, ma subito mi ricordai d'aver assistito al suo matrimonio nella chiesa cattolica.
- Dev'essere un errore! - esclamai pensando dapprima che volessero seppellirlo fuori di posto.
Il Nilini improvvisamente scoppiò a ridere di un riso irrefrenabile che lo gettò privo di forze in fondo alla vettura con la sua boccaccia spalancata nella piccola faccia.
- Ci siamo sbagliati! - esclamò.
Quando arrivò a drenare lo scoppio della sua ilarità, mi colmò di rimproveri.
Io avrei dovuto vedere dove si andava perché io avrei dovuto sapere l'ora e le persone ecc.
Era il funerale di un altro!
Irritato, io non avevo riso con lui ed ora m'era difficile di sopportare i suoi rimproveri.
Perché non aveva guardato meglio anche lui? Frenai il mio malumore solo perché mi premeva piú la Borsa, che il funerale.
Scendemmo dalla vettura per orizzontarci meglio e ci avviammo verso l'entrata del cimitero cattolico.
La vettura ci seguí.
M'accorsi che i superstiti dell'altro defunto ci guardavano sorpresi non sapendo spiegarsi perché dopo di aver onorato fino a quell'estremo limite quel poverino lo abbandonassimo sul piú bello.
Il Nilini spazientito mi precedeva.
Domandò al portiere dopo una breve esitazione:
- Il funerale del signor Guido Speier è già arrivato?
Il portiere non sembrò sorpreso della domanda che a me parve comica.
Rispose che non lo sapeva.
Sapeva solo dire che nel recinto erano entrati nell'ultima mezz'ora due funerali.
Perplessi ci consultammo.
Evidentemente non si poteva sapere se il funerale si trovasse già dentro o fuori.
Allora decisi per mio conto.
A me non era permesso d'intervenire alla funzione forse già cominciata e turbarla.
Dunque non sarei entrato in cimitero.
Ma d'altronde non potevo rischiare d'imbattermi nel funerale, ritornando.
Rinunziavo perciò ad assistere all'interramento e sarei ritornato in città facendo un lungo giro oltre Servola.
Lasciai la vettura al Nilini che non voleva rinunziare di far atto di presenza per riguardo ad Ada ch'egli conosceva.
Con passo rapido, per sfuggire a qualunque incontro, salii la strada di campagna che conduceva al villaggio.
Oramai non mi dispiaceva affatto di essermi sbagliato di funerale e di non aver reso gli ultimi onori al povero Guido.
Non potevo indugiarmi in quelle pratiche religiose.
Altro dovere m'incombeva: dovevo salvare l'onore del mio amico e difenderne il patrimonio a vantaggio della vedova e dei figli.
Quando avrei informata Ada ch'ero riuscito di ricuperare tre quarti della perdita (e riandavo con la mente su tutto il conto fatto tante volte: Guido aveva perduto il doppio del patrimonio del padre e, dopo il mio intervento, la perdita si riduceva a metà di quel patrimonio.
Era perciò esatto.
Io avevo ricuperata proprio tre quarti della perdita), essa certamente m'avrebbe perdonato di non essere intervenuto al suo funerale.
Quel giorno il tempo s'era rimesso al bello.
Brillava un magnifico sole primaverile e, sulla campagna ancora bagnata, l'aria era nitida e sana.
I miei polmoni, nel movimento che non m'ero concesso da varii giorni, si dilatavano.
Ero tutto salute e forza.
La salute non risalta che da un paragone.
Mi paragonavo al povero Guido e salivo, salivo in alto con la mia vittoria nella stessa lotta nella quale egli era soggiaciuto.
Tutto era salute e forza intorno a me.
Anche la campagna dall'erba giovine.
L'estesa e abbondante bagnatura, la catastrofe dell'altro giorno, dava ora soli benefici effetti ed il sole luminoso era il tepore desiderato dalla terra ancora ghiacciata.
Era certo che quanto piú ci si sarebbe allontanati dalla catastrofe, tanto piú discaro sarebbe stato quel cielo azzurro se non avesse saputo oscurarsi a tempo.
Ma questa era la previsione dell'esperienza ed io non la ricordai; m'afferra solo ora che scrivo.
In quel momento c'era nel mio animo solo un inno alla salute mia e di tutta la natura; salute perenne.
Il mio passo si fece piú rapido.
Mi beavo di sentirlo tanto leggero.
Scendendo dalla collina di Servola s'affrettò fin qui quasi alla corsa.
Giunto al passeggio di Sant'Andrea, sul piano, si rallentò di nuovo, ma avevo sempre il senso di una grande facilità.
L'aria mi portava.
Avevo perfettamente dimenticato che venivo dal funerale del mio piú intimo amico.
Avevo il passo e il respiro del vittorioso.
Però la mia gioia per la vittoria era un omaggio al mio povero amico nel cui interesse era sceso in lizza.
Andai all'ufficio a vedere i corsi di chiusa.
Erano un po' piú deboli, ma non fu questo che mi tolse la fiducia.
Sarei tornato a «succhiellare» e non dubitavo che sarei arrivato allo scopo.
Dovetti finalmente recarmi alla casa di Ada.
Venne ad aprirmi Augusta.
Mi domandò subito:
- Come hai fatto a mancare al funerale, tu, l'unico uomo nella nostra famiglia?
Deposi l'ombrello e il cappello, e un po' perplesso le dissi che avrei voluto parlare subito anche con Ada per non dover ripetermi.
Intanto potevo assicurarla che avevo avute le mie buone ragioni per mancare dal funerale.
Non ne ero piú tanto sicuro e improvvisamente il mio fianco s'era fatto dolente forse per la stanchezza.
Doveva essere quell'osservazione di Augusta, che mi faceva dubitare della possibilità di far scusare la mia assenza che doveva aver causato uno scandalo; vedevo dinanzi a me tutti i partecipi alla mesta funzione che si distraevano dal loro dolore per domandarsi dove io potessi essere.
Ada non venne.
Poi seppi che non era stata neppure avvisata ch'io l'attendessi.
Fui ricevuto dalla signora Malfenti che incominciò a parlarmi con un cipiglio severo quale non le avevo mai visto.
Cominciai a scusarmi, ma ero ben lontano dalla sicurezza con cui ero volato dal cimitero in città.
Balbettavo.
Le raccontai anche qualche cosa di meno vero in appendice della verità, ch'era la mia coraggiosa iniziativa alla Borsa a favore di Guido, e cioè che poco prima dell'ora del funerale avevo dovuto spedire un dispaccio a Parigi per dare un ordine e che non m'ero sentito di allontanarmi dall'ufficio prima di aver ricevuta la risposta.
Era vero che il Nilini ed io avevamo dovuto telegrafare a Parigi, ma due giorni prima, e due giorni prima avevamo ricevuta anche la risposta.
Insomma comprendevo che la verità non bastava a scusarmi fors'anche perché non potevo dirla tutta e raccontare dell'operazione tanto importante cui io da giorni attendevo cioè a regolare col mio desiderio i cambii mondiali.
Ma la signora Malfenti mi scusò quando sentí la cifra cui ora ammontava la perdita di Guido.
Mi ringraziò con le lacrime agli occhi.
Ero di nuovo non l'unico uomo della famiglia, ma il migliore.
Mi domandò di venire di sera con Augusta a salutare Ada cui essa nel frattempo avrebbe raccontato tutto.
Per il momento Ada non era al caso di ricevere nessuno.
Ed io, volentieri, me ne andai con mia moglie.
Neppure essa, prima di lasciare quella casa, sentí il bisogno di congedarsi da Ada, che passava da pianti disperati ad abbattimenti che le impedivano persino di accorgersi della presenza di chi le parlava.
Ebbi una speranza:
- Allora non è Ada che si è accorta della mia assenza?
Augusta mi confessò che avrebbe voluto tacerne, tanto le era sembrata eccessiva la manifestazione di risentimento di Ada per tale mia mancanza.
Ada esigette delle spiegazioni da lei e quando Augusta dovette dirle di non saperne nulla non avendomi ancora visto, essa s'abbandonò di nuovo alla sua disperazione urlando che Guido aveva dovuto finire cosí essendo stato odiato da tutta la famiglia.
A me parve che Augusta avrebbe dovuto difendermi e ricordare ad Ada come io solo ero stato pronto di soccorrere Guido nel modo che si doveva.
Se fossi stato ascoltato, Guido non avrebbe avuto alcun motivo di tentare o simulare un suicidio.
Augusta invece aveva taciuto.
Era stata tanto commossa dalla disperazione di Ada che avrebbe temuto di oltraggiarla mettendosi a discutere.
Del resto essa era fiduciosa che ora le spiegazioni della signora Malfenti avrebbero convinto Ada dell'ingiustizia ch'essa mi usava.
Devo dire che avevo anch'io tale fiducia ed anzi confessare che da quel momento gustai la certezza di assistere alla sorpresa di Ada e alle sue manifestazioni di gratitudine.
Già da lei, causa Basedow, tutto era eccessivo.
Ritornai all'ufficio ove appresi che c'era alla Borsa di nuovo un lieve accenno all'ascesa, lievissimo, ma già tale che si poteva sperare di ritrovare il giorno dopo, all'apertura, i corsi della mattina.
Dopo cena dovetti andar da Ada da solo perché Augusta fu impedita di accompagnarmi per una indisposizione della bambina.
Fui ricevuto dalla signora Malfenti che mi disse che doveva attendere a qualche lavoro in cucina e che perciò avrebbe dovuto lasciarmi solo con Ada.
Poi mi confessò che Ada l'aveva pregata di lasciarla sola con me perché voleva dirmi qualche cosa che non doveva esser sentito da altri.
Prima di lasciarmi in quel salottino ove già due volte m'ero trovato con Ada, la signora Malfenti mi disse sorridendo:
- Sai, non è ancora disposta a perdonarti la tua assenza dal funerale di Guido, ma...
quasi!
In quel camerino mi batteva sempre il cuore.
Questa volta non per il timore di vedermi amato da chi non amavo.
Da pochi istanti e solo per le parole della signora Malfenti, avevo riconosciuto di aver commessa una grave mancanza verso la memoria del povero Guido.
La stessa Ada, ora che sapeva che a scusare tale mancanza le offrivo un patrimonio, non sapeva perdonarmi subito.
M'ero seduto e guardavo i ritratti dei genitori di Guido.
Il vecchio Cada aveva un'aria di soddisfazione che mi pareva dovuta al mio operato, mentre la madre di Guido, una donna magra vestita di un vestito dalle maniche abbondanti e un cappellino che le stava in equilibrio su una montagna di capelli, aveva l'aria molto severa.
Ma già! Ognuno dinanzi alla macchina fotografica assume un altro aspetto ed io guardai altrove sdegnato con me stesso d'indagare quelle faccie.
La madre non poteva certo aver previsto ch'io non avrei assistito all'interramento del figlio!
Ma il modo come Ada mi parlò fu una dolorosa sorpresa.
Essa doveva aver studiato a lungo quello ch'essa voleva dirmi e non tenne addirittura conto delle mie spiegazioni, delle mie proteste e delle mie rettifiche ch'essa non poteva aver previste e cui perciò non era preparata.
Corse la sua via come un cavallo spaventato, fino in fondo.
Entrò vestita semplicemente di una vestaglia nera, la capigliatura nel grande disordine di capelli sconvolti e fors'anche strappati da una mano che s'accanisce a trovar da far qualche cosa, quando non può altrimenti lenire.
Giunse fino al tavolino a cui ero seduto e vi si appoggiò con le mani per vedermi meglio.
La sua faccina era di nuovo dimagrata e liberata da quella strana salute che le cresceva fuori di posto.
Non era bella come quando Guido l'aveva conquistata, ma nessuno guardandola avrebbe ricordata la malattia.
Non c'era! C'era invece un dolore tanto grande che la rilevava tutta.
Io lo compresi tanto bene quell'enorme dolore, che non seppi parlare.
Finché la guardai pensai: «quali parole potrei dirle che potrebbero equivalere a prenderla fraternamente fra le mie braccia per confortarla e indurla a piangere e sfogarsi?».
Poi, quando mi sentii aggredito, volli reagire, ma troppo debolmente ed essa non mi sentí.
Essa disse, disse, disse ed io non so ripetere tutte le sue parole.
Se non sbaglio cominciò col ringraziarmi seriamente, ma senza calore di aver fatto tanto per lei e per i bambini.
Poi subito rimproverò:
- Cosí hai fatto in modo ch'egli è morto proprio per una cosa che non ne valeva la pena!
Poi abbassò la voce come se avesse voluto tener segreto quello che mi diceva e nella sua voce vi fu maggior calore, un calore che risultava dal suo affetto per Guido e (o mi parve?) anche per me:
- Ed io ti scuso per non esser venuto al suo funerale.
Tu non potevi farlo ed io ti scuso.
Anche lui ti scuserebbe se fosse ancora vivo.
Che ci avresti fatto tu al suo funerale? Tu che non lo amavi! Buono come sei, avresti potuto piangere per me, per le mie lagrime, ma non per lui che tu...
odiavi! Povero Zeno! Fratello mio!
Era enorme che mi si potesse dire una cosa simile alterando in tale modo la verità.
Io protestai, ma essa non mi sentí.
Credo di aver urlato o almeno ne sentii lo sforzo nella strozza:
- Ma è un errore, una menzogna, una calunnia.
Come fai a credere una cosa simile?
Essa continuò sempre a bassa voce:
- Ma neppure io seppi amarlo.
Non lo tradii neppure col pensiero, ma sentivo in modo che non ebbi la forza di proteggerlo.
Guardavo ai tuoi rapporti con tua moglie e li invidiavo.
Mi parevano migliori di quelli ch'egli mi offriva.
Ti sono grata di non essere intervenuto al funerale perché altrimenti non avrei neppur oggi compreso nulla.
Cosí invece vedo e intendo tutto.
Anche che io non l'amai: altrimenti come avrei potuto odiare persino il suo violino, l'espressione piú completa del suo grande animo?
Fu allora che io poggiai la mia testa sul braccio e nascosi la mia faccia.
Le accuse ch'essa mi rivolgeva erano tanto ingiuste che non si potevano discutere ed anche la loro irragionevolezza era tanto mitigata dal suo tono affettuoso che la mia reazione non poteva essere aspra come avrebbe dovuto per riuscire vittoriosa.
D'altronde già Augusta m'aveva dato l'esempio di un silenzio riguardoso per non oltraggiare ed esasperare tanto dolore.
Quando però i miei occhi si chiusero, nell'oscurità vidi che le sue parole avevano creato un mondo nuovo come tutte le parole non vere.
Mi parve d'intendere anch'io di aver sempre odiato Guido e di essergli stato accanto, assiduo, in attesa di poter colpirlo.
Essa poi aveva messo Guido insieme al suo violino.
Se non avessi saputo ch'essa brancolava nel suo dolore e nel suo rimorso, avrei potuto credere che quel violino fosse stato sfoderato come parte di Guido per convincere dell'accusa di odio l'animo mio.
Poi nell'oscurità rividi il cadavere di Guido e nella sua faccia sempre stampato lo stupore di essere là, privato dalla vita.
Spaventato rizzai la testa.
Era preferibile affrontare l'accusa di Ada che io sapevo ingiusta che guardare nell'oscurità.
Ma essa parlava sempre di me e di Guido:
- E tu, povero Zeno, senza saperlo, continuavi a vivergli accanto odiandolo.
Gli facevi del bene per mio amore.
Non si poteva! Doveva finire cosí! Anch'io credetti una volta di poter approfittare dell'amore ch'io sapevo tu mi serbavi per aumentare d'intorno a lui la protezione che poteva essergli utile.
Non poteva essere protetto che da chi lo amava e, fra noi, nessuno l'amò.
- Che cosa avrei potuto fare di piú per lui? - domandai io piangendo a calde lacrime per far sentire a lei e a me stesso la mia innocenza.
Le lacrime sostituiscono talvolta un grido.
Io non volevo gridare ed ero persino dubbioso se dovessi parlare.
Ma dovevo soverchiare le sue asserzioni e piansi.
- Salvarlo, caro fratello! Io o tu, noi si avrebbe dovuto salvarlo.
Io invece gli stetti accanto e non seppi farlo per mancanza di vero affetto e tu restasti lontano, assente, sempre assente finché egli non fu sepolto.
Poi apparisti sicuro armato di tutto il tuo affetto.
Ma, prima, di lui non ti curasti.
Eppure fu con te fino alla sera.
E tu avresti potuto immaginare, se di lui ti fossi preoccupato, che qualche cosa di grave stava per succedere.
Le lacrime m'impedivano di parlare, ma borbottai qualche cosa che doveva stabilire il fatto che la notte innanzi egli l'aveva passata a divertirsi in palude a caccia, per cui nessuno a questo mondo avrebbe potuto prevedere quale uso egli avrebbe fatto della notte seguente.
- Egli abbisognava della caccia, egli ne abbisognava! - mi rampognò essa ad alta voce.
Eppoi, come se lo sforzo di quel grido fosse stato soverchio, essa tutt'ad un tratto crollò e s'abbatté priva di sensi sul pavimento.
Mi ricordo che per un istante esitai di chiamare la signora Malfenti.
Mi pareva che quello svenimento rivelasse qualche cosa di quanto aveva detto.
Accorsero la signora Malfenti e Alberta.
La signora Malfenti sostenendo Ada mi domandò:
- Ha parlato con te di quelle benedette operazioni di Borsa? - Poi: - È il secondo svenimento quest'oggi!
Mi pregò di allontanarmi per un istante ed io andai sul corridoio ove attesi per sapere se dovevo rientrare o andarmene.
Mi preparavo ad ulteriori spiegazioni con Ada.
Essa dimenticava che se si fosse proceduto come io l'avevo proposto, la disgrazia sicuramente sarebbe stata evitata.
Bastava dirle questo per convincerla del torto ch'essa mi faceva.
Poco dopo, la signora Malfenti mi raggiunse e mi disse che Ada era rinvenuta e che voleva salutarmi.
Riposava sul divano su cui fino a poco prima ero stato seduto io.
Vedendomi, si mise a piangere e furono le prime lagrime ch'io le vidi spargere.
Mi porse la manina madida di sudore:
- Addio, caro Zeno! Te ne prego, ricorda! Ricorda sempre! Non dimenticarlo!
Intervenne la signora Malfenti a domandare quello che avessi da ricordare ed io le dissi che Ada desiderava che subito fosse liquidata tutta la posizione di Guido alla Borsa.
Arrossii della mia bugia e temetti anche una smentita da parte di Ada.
Invece di smentirmi essa si mise ad urlare:
- Sí! Sí! Tutto dev'essere liquidato! Di quell'orribile Borsa non voglio piú sentirne parlare!
Era di nuovo piú pallida e la signora Malfenti, per quietarla, l'assicurò che subito sarebbe stato fatto com'essa desiderava.
Poi la signora Malfenti m'accompagnò alla porta e mi pregò di non precipitare le cose: facessi il meglio che credessi nell'interesse di Guido.
Ma io risposi che non mi fidavo piú.
Il rischio era enorme e non potevo piú osare di trattare a quel modo gl'interessi altrui.
Non credevo piú nel giuoco di Borsa o almeno mi mancava la fiducia che il mio «succhiellare» potesse regolarne l'andamento.
Dovevo liquidare perciò subito, ben contento che fosse andata cosí.
Non ripetei ad Augusta le parole di Ada.
Perché avrei dovuto affliggerla? Ma quelle parole, anche perché non le riferii ad alcuno, restarono a martellarmi l'orecchio, e m'accompagnarono per lunghi anni.
Risuonano tuttavia nell'anima mia.
Tante volte ancora oggidí le analizzo.
Io non posso dire di aver amato Guido, ma ciò solo perché era stato uno strano uomo.
Ma gli stetti accanto fraternamente e lo assistetti come seppi.
Il rimprovero di Ada non lo merito.
Con lei non mi trovai mai piú da solo.
Essa non sentí il bisogno di dirmi altro né io osai esigere una spiegazione, forse per non rinnovarle il dolore.
In Borsa la cosa finí come avevo previsto e il padre di Guido, dopo che col primo dispaccio gli era stata avvisata la perdita di tutta la sua sostanza, ebbe certamente piacere a ritrovarne la metà intatta.
Opera mia di cui non seppi godere come m'ero atteso.
Ada mi trattò affettuosamente tutto il tempo fino alla sua partenza per Buenos Aires ove coi suoi bambini andò a raggiungere la famiglia del marito.
Amava di ritrovarsi con me ed Augusta.
Io talvolta volli figurarmi che tutto quel suo discorso fosse stato dovuto ad uno scoppio di dolore addirittura pazzesco e ch'essa neppure lo ricordasse.
Ma poi una volta che si riparlò in nostra presenza di Guido, essa ripeté e confermò in due parole tutto quello che quel giorno essa m'aveva detto:
- Non fu amato da nessuno, il poverino!
Al momento d'imbarcarsi con in braccio uno dei suoi bambini lievemente indisposto, essa mi baciò.
Poi, in un momento in cui nessuno ci stava accanto essa mi disse:
- Addio, Zeno, fratello mio.
Io ricorderò sempre che non seppi amarlo abbastanza.
Devi saperlo! Io abbandono volentieri il mio paese.
Mi pare di allontanarmi dai miei rimorsi!
La rimproverai di crucciarsi cosí.
Dichiarai ch'essa era stata una buona moglie e che io lo sapevo e avrei potuto testimoniarlo.
Non so se riuscii a convincerla.
Essa non parlò piú, vinta dai singhiozzi.
Poi, molto tempo dopo, sentii che congedandosi da me, essa aveva voluto con quelle parole rinnovare anche i rimproveri fatti a me.
Ma so ch'essa mi giudicò a torto.
Certo io non ho da rimproverarmi di non aver voluto bene a Guido.
La giornata era torbida e fosca.
Pareva che una sola nube distesa e niente minacciosa offuscasse il cielo.
Dal porto tentava di uscire a forza di remi un grande bragozzo le cui vele pendevano inerti dagli alberi.
Due soli uomini vogavano e, con colpi innumeri, arrivavano appena a muovere il grosso bastimento.
Al largo avrebbero trovata una brezza favorevole, forse.
Ada, dalla tolda del piroscafo, salutava agitando il suo fazzoletto.
Poi ci volse le spalle.
Certo guardava verso sant'Anna ove riposava Guido.
La sua figurina elegante diveniva piú perfetta quanto piú si allontanava.
Io ebbi gli occhi offuscati dalle lacrime.
Ecco ch'essa ci abbandonava e che mai piú avrei potuto provarle la mia innocenza.
8.
Psico-analisi
3 Maggio 1915
L'ho finita con la psico-analisi.
Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima.
Non ho ancora congedato il dottore, ma la mia risoluzione è irrevocabile.
Ieri intanto gli mandai a dire ch'ero impedito, e per qualche giorno lascio che m'aspetti.
Se fossi ben sicuro di saper ridere di lui senz'adirarmi, sarei anche capace di rivederlo.
Ma ho paura che finirei col mettergli le mani addosso.
In questa città, dopo lo scoppio della guerra, ci si annoia piú di prima e, per rimpiazzare la psico-analisi, io mi rimetto ai miei cari fogli.
Da un anno non avevo scritto una parola, in questo come in tutto il resto obbediente alle prescrizioni del dottore il quale asseriva che durante la cura dovevo raccogliermi solo accanto a lui perché un raccoglimento da lui non sorvegliato avrebbe rafforzati i freni che impedivano la mia sincerità, il mio abbandono.
Ma ora mi trovo squilibrato e malato piú che mai e, scrivendo, credo che mi netterò piú facilmente del male che la cura m'ha fatto.
Almeno sono sicuro che questo è il vero sistema per ridare importanza ad un passato che piú non duole e far andare via piú rapido il presente uggioso.
Tanto fiduciosamente m'ero abbandonato al dottore che quando egli mi disse ch'ero guarito, gli credetti con fede intera e invece non credetti ai miei dolori che tuttavia m'assalivano.
Dicevo loro: «Non siete mica voi!».
Ma adesso non v'è dubbio! Son proprio loro! Le ossa delle mie gambe si sono convertite in lische vibranti che ledono la carne e i muscoli.
Ma di ciò non m'importerebbe gran fatto e non è questa la ragione per cui lascio la cura.
Se le ore di raccoglimento presso il dottore avessero continuato ad essere interessanti apportatrici di sorprese e di emozioni, non le avrei abbandonate o, per abbandonarle, avrei atteso la fine della guerra che m'impedisce ogni altra attività.
Ma ora che sapevo tutto, cioè che non si trattava d'altro che di una sciocca illusione, un trucco buono per commuovere qualche vecchia donna isterica, come potevo sopportare la compagnia di quell'uomo ridicolo, con quel suo occhio che vuole essere scrutatore e quella sua presunzione che gli permette di aggruppare tutti i fenomeni di questo mondo intorno alla sua grande, nuova teoria? Impiegherò il tempo che mi resta libero scrivendo.
Scriverò intanto sinceramente la storia della mia cura.
Ogni sincerità fra me e il dottore era sparita ed ora respiro.
Non m'è piú imposto alcuno sforzo.
Non debbo costringermi ad una fede né ho da simulare di averla.
Proprio per celare meglio il mio vero pensiero, credevo di dover dimostrargli un ossequio supino e lui ne approfittava per inventarne ogni giorno di nuove.
La mia cura doveva essere finita perché la mia malattia era stata scoperta.
Non era altra che quella diagnosticata a suo tempo dal defunto Sofocle sul povero Edipo: avevo amata mia madre e avrei voluto ammazzare mio padre.
Né io m'arrabbiai! Incantato stetti a sentire.
Era una malattia che mi elevava alla piú alta nobiltà.
Cospicua quella malattia di cui gli antenati arrivavano all'epoca mitologica! E non m'arrabbio neppure adesso che sono qui solo con la penna in mano.
Ne rido di cuore.
La miglior prova ch'io non ho avuta quella malattia risulta dal fatto che non ne sono guarito.
Questa prova convincerebbe anche il dottore.
Se ne dia pace: le sue parole non poterono guastare il ricordo della mia giovinezza.
Io chiudo gli occhi e vedo subito puro, infantile, ingenuo, il mio amore per mia madre, il mio rispetto ed il grande mio affetto per mio padre.
Il dottore presta una fede troppo grande anche a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perché le riveda.
Dio mio! Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto.
Una confessione in iscritto è sempre menzognera.
Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! È proprio cosí che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi.
Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto.
Il dottore mi confessò che, in tutta la sua lunga pratica, giammai gli era avvenuto di assistere ad un'emozione tanto forte come la mia all'imbattermi nelle immagini ch'egli credeva di aver saputo procurarmi.
Perciò anche fu tanto pronto a dichiararmi guarito.
Ed io non simulai quell'emozione.
Fu anzi una delle piú profonde ch'io abbia avuta in tutta la mia vita.
Madida di sudore quando l'immagine creai, di lagrime quando l'ebbi.
Io avevo già adorata la speranza di poter rivivere un giorno d'innocenza e d'ingenuità.
Per mesi e mesi tale speranza mi resse e m'animò.
Non si trattava forse di ottenere col vivo ricordo in pieno inverno le rose del Maggio? Il dottore stesso assicurava che il ricordo sarebbe stato lucente e completo, tale che avrebbe rappresentato un giorno di piú della mia vita.
Le rose avrebbero avuto il loro pieno effluvio e magari anche le loro spine.
È cosí che a forza di correr dietro a quelle immagini, io le raggiunsi.
Ora so di averle inventate.
Ma inventare è una creazione, non già una menzogna.
Le mie erano delle invenzioni come quelle della febbre, che camminano per la stanza perché le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano.
Avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose vive.
A forza di desiderio, io proiettai le immagini, che non c'erano che nel mio cervello, nello spazio in cui guardavo, uno spazio di cui sentivo l'aria, la luce ed anche gli angoli contundenti che non mancarono in alcuno spazio per cui io sia passato.
Quando arrivai al torpore che doveva facilitare l'illusione e che mi pareva nient'altro che l'associazione di un grande sforzo con una grande inerzia, credetti che quelle immagini fossero delle vere riproduzioni di giorni lontani.
Avrei potuto sospettare subito che non erano tali perché, appena svanite, le ricordavo, ma senz'alcun'eccitazione o commozione.
Le ricordavo come si ricorda il fatto raccontato da chi non vi assistette.
Se fossero state vere riproduzioni avrei continuato a riderne e a piangerne come quando le avevo avute.
E il dottore registrava.
Diceva: «Abbiamo avuto questo, abbiamo avuto quello».
In verità, noi non avevamo piú che dei segni grafici, degli scheletri d'immagini.
Fui indotto a credere che si trattasse di una rievocazione della mia infanzia perché la prima delle immagini mi pose in un'epoca relativamente recente di cui avevo conservato anche prima un pallido ricordo ch'essa parve confermare.
C'è stato un anno nella mia vita in cui io andavo a scuola e mio fratello non ancora.
E pareva fosse appartenuta a quell'anno l'ora che rievocai.
Io mi vidi uscire dalla mia villa una mattina soleggiata di primavera, passare per il nostro giardino per scendere in città, giú, giú, tenuto per mano da una nostra vecchia fantesca, Catina.
Mio fratello nella scena che sognai non appariva, ma ne era l'eroe.
Io lo sentivo in casa libero e felice mentre io andavo a scuola.
Vi andavo coi singhiozzi nella gola, il passo riluttante e, nell'animo, un intenso rancore.
Io non vidi che una di quelle passeggiate alla scuola, ma il rancore nel mio animo mi diceva che ogni giorno io andavo a scuola ed ogni giorno mio fratello restava a casa.
All'infinito, mentre in verità credo che, dopo non lungo tempo, mio fratello piú giovine di me di un anno solo, sia andato a scuola anche lui.
Ma allora la verità del sogno mi parve indiscutibile: io ero condannato ad andare sempre a scuola mentre mio fratello aveva il permesso di restare a casa.
Camminando a canto a Catina calcolavo la durata della tortura: fino a mezzodí! Mentre lui è a casa! E ricordavo anche che nei giorni precedenti dovevo essere stato turbato a scuola da minaccie e rampogne e che io avevo pensato anche allora: a lui non possono toccare.
Era stata una visione di un'evidenza enorme.
Catina che io avevo conosciuta piccola, m'era parsa grande, certamente perché io ero tanto piccolo.
Vecchissima m'era sembrata anche allora, ma si sa che i giovanissimi vedono sempre vecchi gli anziani.
E sulla via che io dovevo percorrere per andare a scuola, scorsi anche i colonnini strani che arginavano in quel tempo i marciapiedi della nostra città.
Vero è che io nacqui abbastanza presto per vedere ancora da adulto quei colonnini nelle nostre vie centriche.
Ma nella via che io con Catina quel giorno percorsi, non ci furono piú non appena io uscii dall'infanzia.
La fede nell'autenticità di quelle immagini perdurò nel mio animo anche quando, presto, stimolata da quel sogno, la mia fredda memoria scoperse altri particolari di quell'epoca.
Il principale: anche mio fratello invidiava me perché io andavo a scuola.
Ero sicuro d'essermene avvisto, ma non subito ciò bastò ad infirmare la verità del sogno.
Piú tardi gli tolse ogni aspetto di verità: la gelosia in realtà c'era stata, ma nel sogno era stata spostata.
La seconda visione mi riportò anch'essa ad un'epoca recente, benché anteriore di molto a quella della prima: una stanza della mia villa, ma non so quale, perché piú vasta di qualunque altra che vi è realmente.
È strano che io mi vedevo chiuso in quella stanza e che subito ne seppi un particolare che dalla semplice visione non poteva essere risultato: la stanza era lontana dal posto ove allora soggiornavano mia madre e Catina.
Ed un secondo: io ancora non sono stato a scuola.
La stanza era tutta bianca ed anzi io non vidi giammai una stanza tanto bianca né tanto completamente illuminata dal sole.
Il sole di allora passava traverso le pareti? Esso era certamente già alto, ma io mi trovavo tuttavia nel mio letto con in mano una tazza da cui avevo sorbito tutto il caffelatte e nella quale continuavo a lavorare con un cucchiaino traendone lo zucchero.
Ad un certo punto il cucchiaio non arrivò piú a raccoglierne altro ed allora io tentai di arrivare al fondo della tazza con la mia lingua.
Ma non vi riuscii.
Perciò finii col tenere la tazza in una mano e il cucchiaio nell'altra e stetti a guardare mio fratello coricato nel letto accanto al mio come, tardivo, stava ancora sorbendo il caffè col naso nella tazza.
Quando levò finalmente la faccia, io la vidi tutta come si contrasse ai raggi del sole che la colpirono in pieno mentre la mia (Dio ne sa il perché) si trovava nell'ombra.
Il suo viso era pallido ed un poco imbruttito da un lieve prognatismo.
Mi disse:
- Mi presti il tuo cucchiaio?
Allora appena m'avvidi che Catina aveva dimenticato di portargli il cucchiaio.
Subito e senz'alcuna esitazione gli risposi:
- Sí! Se mi dài in compenso un poco del tuo zucchero.
Tenni in alto il cucchiaio per farne rilevare il valore.
Ma subito la voce di Catina risuonò nella stanza:
- Vergogna! Strozzino!
Lo spavento e la vergogna mi fecero ripiombare nel presente.
Avrei voluto discutere con Catina, ma lei, mio fratello ed io, come ero fatto allora, piccolo, innocente e strozzino, sparimmo ripiombando nell'abisso.
Rimpiansi di aver sentita tanto forte quella vergogna da aver distrutta l'immagine cui ero arrivato con tanta fatica.
Avrei fatto tanto bene di offrire invece mitemente e gratis il cucchiaino e non discutere quella mia mala azione ch'era probabilmente la prima che avessi commessa.
Forse Catina avrebbe invocato l'ausilio di mia madre per infliggermi una punizione ed io finalmente l'avrei rivista.
La vidi però pochi giorni appresso o credetti di rivederla.
Avrei potuto intendere subito ch'era un'illusione perché l'immagine di mia madre, come l'avevo evocata, somigliava troppo al suo ritratto che ho sul mio letto.
Ma devo confessare che nell'apparizione mia madre si mosse come una persona viva.
Molto, molto sole, tanto da abbacinare! Da quella ch'io credevo la mia giovinezza mi perveniva tanto di quel sole ch'era difficile dubitare non fosse dessa.
Il nostro tinello nelle ore pomeridiane.
Mio padre è ritornato a casa e siede su un sofà accanto a mamma che sta imprimendo con certo inchiostro indelebile delle iniziali su molta biancheria distribuita sul tavolo a cui essa siede.
Io mi trovo sotto il tavolo dove giuoco con delle pallottole.
M'avvicino sempre piú a mamma.
Probabilmente desidero ch'essa s'associ ai miei giuochi.
A un dato punto, per rizzarmi in piedi fra di loro, m'aggrappo alla biancheria che pende dal tavolo e allora avviene un disastro.
La boccetta d'inchiostro mi capita sulla testa, bagna la mia faccia e le mie vesti, la gonna di mamma e produce una lieve macchia anche sui calzoni di papà.
Mio padre alza una gamba per appiopparmi un calcio...
Ma io in tempo ero ritornato dal mio lontano viaggio e mi trovavo al sicuro qui, adulto, vecchio.
Devo dirlo! Per un istante soffersi della punizione minacciatami e subito dopo mi dolse di non aver potuto assistere all'atto di protezione che senza dubbio sarà partito da mamma.
Ma chi può arrestare quelle immagini quando si mettono a fuggire traverso quel tempo che giammai somigliò tanto allo spazio? Quest'era il mio concetto finché credetti nell'autenticità di quelle immagini! Ora, purtroppo (oh! quanto me ne dolgo!) non ci credo piú e so che non erano le immagini che correvano via, ma i miei occhi snebbiati che guardavano di nuovo nel vero spazio in cui non c'è posto per fantasmi.
Racconterò ancora delle immagini di un altro giorno alle quali il dottore attribuí tale importanza da dichiararmi guarito.
Nel mezzo sonno cui m'abbandonai ebbi un sogno dall'immobilità dell'incubo.
Sognai di me stesso ridivenuto bambino e soltanto per vedere quel bambino come sognava anche lui.
Giaceva muto in preda ad una letizia che pervadeva il suo minuto organismo.
Gli pareva di aver finalmente raggiunto il suo antico desiderio.
Eppure giaceva là solo e abbandonato! Ma vedeva e sentiva con quell'evidenza come si sa vedere e sentire nel sogno anche le cose lontane.
Il bambino, giacendo in una stanza della mia villa, vedeva (Dio sa in quale modo) che sul tetto della stessa ci fosse una gabbia murata su basi solidissime, priva di porte e di finestre, ma illuminata di quanta luce può far piacere e fornita di aria pura e profumata.
Ed il bambino sapeva che a quella gabbia egli solo avrebbe saputo giungere e senza neppur andare perché forse la gabbia sarebbe venuta a lui.
In quella gabbia non v'era che un solo mobile, una poltrona e su questa sedeva una donna formosa, costruita deliziosamente, vestita di nero, bionda, dagli occhi grandi e azzurri, le mani bianchissime e i piedi piccoli in scarpine laccate delle quali, di sotto alle gonne, sporgeva solo un lieve bagliore.
Devo dire che quella donna mi pareva una cosa sola col suo vestito nero e le sue scarpine di lacca.
Tutto era lei! Ed il bambino sognava di possedere quella donna, ma nel modo piú strano: era sicuro cioè di poter mangiarne dei pezzettini al vertice e alla base.
Adesso, pensandoci, sono stupito che il dottore che ha letto, a quanto ne dice, con tanta attenzione il mio manoscritto non abbia ricordato il sogno ch'io ebbi prima di andar a raggiungere Carla.
A me qualche tempo dopo, quando ci ripensai, parve che questo sogno non fosse altro che l'altro un po' variato, reso piú infantile.
Invece il dottore registrò accuratamente tutto eppoi mi domandò con aspetto un po' melenso:
- Vostra madre era bionda e formosa?
Fui stupito della domanda e risposi che anche mia nonna era stata tale.
Ma per lui ero guarito, ben guarito.
Spalancai la bocca per gioirne con lui e m'adattai a quanto doveva seguire, cioè non piú indagini, ricerche, meditazioni, ma una vera e assidua rieducazione.
Da allora quelle sedute furono una vera tortura ed io le continuai solo perché m'è sempre stato tanto difficile di fermarmi quando mi movo o di mettermi in movimento quando son fermo.
Qualche volta, quando egli me ne diceva di troppo grosse, arrischiavo qualche obbiezione.
Non era mica vero - com'egli lo credeva - che ogni mia parola, ogni mio pensiero fosse di delinquente.
Egli allora faceva tanto d'occhi.
Ero guarito e non volevo accorgermene! Era una vera cecità questa: avevo appreso che avevo desiderato di portar via la moglie - mia madre! - a mio padre e non mi sentivo guarito? Inaudita ostinazione la mia: però il dottore ammetteva che sarei guarito ancora meglio quando fosse finita la mia rieducazione in seguito alla quale mi sarei abituato a considerare quelle cose (il desiderio di uccidere il padre e di baciare la propria madre) come cose innocentissime per le quali non c'era da soffrire di rimorsi, perché avvenivano frequentemente nelle migliori famiglie.
In fondo che cosa ci perdevo? Egli un giorno mi disse ch'io oramai ero come un convalescente che ancora non s'era abituato a vivere privo di febbre.
Ebbene: avrei atteso di abituarmivi.
Egli sentiva che non ero ancora ben suo ed oltre alla rieducazione, di tempo in tempo, ritornava anche alla cura.
Tentava di nuovo i sogni, ma di autentici non ne ebbimo piú alcuno.
Seccato di tanta attesa, finii coll'inventarne uno.
Non l'avrei fatto se avessi potuto prevedere la difficoltà di una simile simulazione.
Non è mica facile di balbettare come se ci si trovasse immersi in un mezzo sogno, coprirsi di sudore o sbiancarsi, non tradirsi, eventualmente diventar vermigli dallo sforzo e non arrossire: parlai come se fossi ritornato alla donna della gabbia e l'avessi indotta a porgermi per un buco improvvisamente prodottosi nella parete dello stanzino un suo piede da succhiare e mangiare.
«Il sinistro, il sinistro!», mormorai mettendo nella visione un particolare curioso che potesse farla somigliare meglio ai sogni precedenti.
Dimostravo cosí anche di aver capito perfettamente la malattia che il dottore esigeva da me.
Edipo infantile era fatto proprio cosí: succhiava il piede sinistro della madre per lasciare il destro al padre.
Nel mio sforzo d'immaginare realmente (tutt'altro che una contraddizione, questa) ingannai anche me stesso col sentire il sapore di quel piede.
Quasi dovetti recere.
Non solo il dottore ma anch'io avrei desiderato di esser visitato ancora da quelle care immagini della mia gioventú, autentiche o meno, ma che io non avevo avuto bisogno di costruire.
Visto che accanto al dottore non venivano piú, tentai di evocarle lontano da lui.
Da solo ero esposto al pericolo di dimenticarle, ma già io non miravo mica ad una cura! Io volevo ancora rose del Maggio in Dicembre.
Le avevo già avute; perché non avrei potuto riaverle?
Anche nella solitudine m'annoiai abbastanza, ma poi, invece delle immagini venne qualche cosa che per qualche tempo le sostituí.
Semplicemente credetti di aver fatta un'importante scoperta scientifica.
Mi credetti chiamato a completare tutta la teoria dei colori fisiologici.
I miei predecessori, Goethe e Schopenhauer, non avevano mai immaginato dove si potesse arrivare maneggiando abilmente i colori complementari.
Bisogna sapere ch'io passavo il mio tempo gettato sul sofà di faccia alla finestra del mio studio donde vedevo un pezzo di mare e d'orizzonte.
Ora una sera dal tramonto colorito nel cielo frastagliato di nubi, m'indugiai lungamente ad ammirare su un lembo limpido, un colore magnifico, verde, puro e mite.
Nel cielo c'era anche molto color rosso ancora pallido, sbiaccato dai diretti, bianchi raggi del sole.
Abbacinato, dopo un certo intervallo di tempo, chiusi gli occhi e si vide che al verde era stata rivolta la mia attenzione, il mio affetto, perché sulla mia rètina si produsse il suo colore complementare, un rosso smagliante che non aveva nulla da fare col rosso luminoso, ma pallido nel cielo.
Guardai, accarezzai quel colore fabbricato da me.
La grande sorpresa la ebbi quando una volta aperti gli occhi, vidi quel rosso fiammeggiante invadere tutto il cielo e coprire anche il verde smeraldo che per lungo tempo non ritrovai piú.
Ma io, dunque, avevo scoperto il modo di tingere la natura! Naturalmente l'esperimento fu da me ripetuto piú volte.
Il bello si è che v'era anche del movimento in quella colorazione.
Quando riaprivo gli occhi, il cielo non accettava subito il colore dalla mia rètina.
V'era anzi un istante di esitazione nel quale arrivavo ancora a rivedere il verde smeraldo che aveva figliato quel rosso da cui sarebbe stato distrutto.
Questo sorgeva dal fondo, inaspettato e si dilatava come un incendio spaventoso.
Quando fui sicuro dell'esattezza della mia osservazione, la portai al dottore nella speranza di ravvivare con essa le nostre noiose sedute.
Il dottore mi saldò dicendomi che io avevo la rètina piú sensibile causa la nicotina.
Quasi mi sarei lasciato scappar detto che in allora anche le immagini, che noi avevamo attribuite a riproduzioni di avvenimenti della mia gioventú, potevano invece esser derivate dall'effetto dello stesso veleno.
Ma cosí gli avrei rivelato che non ero guarito ed egli avrebbe cercato d'indurmi a ricominciare la cura da capo.
Eppure quel bestione non sempre mi credette tanto avvelenato.
Ciò viene provato anche dalla rieducazione ch'egli tentò per guarirmi da quella ch'egli diceva la mia malattia del fumo.
Ecco le sue parole: il fumo non mi faceva male e quando mi fossi convinto ch'era innocuo sarebbe stato veramente tale.
Eppoi continuava: oramai che i rapporti con mio padre erano stati riportati alla luce del giorno e ripresentati al mio giudizio di adulto, potevo intendere che avevo assunto quel vizio per competere con mio padre e attribuito un effetto velenoso al tabacco per il mio intimo sentimento morale che volle punirmi della mia competizione con lui.
Quel giorno lasciai la casa del dottore fumando come un turco.
Si trattava di fare una prova ed io mi vi prestai volontieri.
Per tutto il giorno fumai ininterrottamente.
Seguí poi una notte del tutto insonne.
La mia bronchite cronica aveva rifiorito e di quella non c'era dubbio perché era facile scoprirne le conseguenze nella sputacchiera.
Il giorno appresso raccontai al dottore di aver fumato molto e che ora non me ne importava piú.
Il dottore mi guardò sorridendo e io indovinai che il petto gli si gonfiava dall'orgoglio.
Con calma riprese la mia rieducazione! Procedeva con la sicurezza di veder fiorire ogni zolla su cui poneva il piede.
Di quella rieducazione ricordo pochissimo.
Io la subii e quando uscivo da quella stanza mi scotevo come un cane ch'esce dall'acqua ed anch'io restavo umido, ma non bagnato.
Ricordo però con indignazione che il mio educatore asseriva che il dottor Coprosich avesse avuto ragione di dirigermi le parole che avevano provocato tanto mio risentimento.
Ma allora io avrei meritato anche lo schiaffo che mio padre volle darmi morendo? Non so se egli abbia detto anche questo.
So invece con certezza ch'egli asseriva ch'io avessi odiato anche il vecchio Malfenti che avevo messo al posto di mio padre.
Tanti a questo mondo credono di non saper vivere senza un dato affetto; io, invece, secondo lui, perdevo l'equilibrio se mi mancava un dato odio.
Ne sposai una o l'altra delle figliuole ed era indifferente quale perché si trattava di mettere il loro padre ad un posto dove il mio odio potesse raggiungerlo.
Eppoi sfregiai la casa che avevo fatta mia come meglio seppi.
Tradii mia moglie ed è evidente che se mi fosse riuscito avrei sedotta Ada ed anche Alberta.
Naturalmente io non penso di negare questo ed anzi mi fece da ridere quando dicendomelo il dottore assunse l'aspetto di Cristoforo Colombo allorché raggiunge l'America.
Credo però ch'egli sia il solo a questo mondo il quale sentendo che volevo andare a letto con due bellissime donne si domanda: vediamo perché costui vuole andare a letto con esse.
Mi fu anche piú difficile di sopportare quello c
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